Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Questioni politico religiose

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E a tutta questa dottrina si riduce la sentenza tanto sagacemente svolta da Platone medesimo nel Parmenide e altrove, e che forma il punto eminente della sua filosofia, dialettica ed ontologica ad un tempo, che l' uno lasciato solo (la pura unità I significato) non poteva esistere, anzi era uguale al nulla, e però il «to hen» e il «ta polla» erano indisgiungibili, e questo in seno di quello essenzialmente contenuto. E vedesi qui stesso l' origine della doppia materia platonica, l' una reale, l' altra ideale. Poichè da Aristotele si rileva che Platone ammetteva una materia chiamata da lui « il grande e il piccolo », che colla partecipazione dell' uno diveniva specie o numeri (1); e Simplicio dice che poneva un indefinito anche negli intelligibili (2). Or abbiam veduto che dall' uno indefinito la mente, secondo Platone, prima trova un' idea, poi due o tre, ed ei vuole che essa non si fermi a sapere soltanto che c' è in esso un numero indefinito d' idee (grande o piccolo), ma che ne rilevi il numero definito fino all' ultimo. Così la mente dall' uno ritrae un numero prima indefinito (grande o piccolo), e poi un numero definito, e questo, partecipando l' unità (senza la quale non sarebbe numero), è la specie (3). Il numero dunque, fino a tanto che è ancora indefinito e sommerso nell' uno primo, è l' indefinito intelligibile, ossia la materia ideale; quello poi che resta, trovate tutte le unità che costituiscono il numero determinato, è la realità pura, ossia la materia reale . Ci sono dunque per Platone tre indefiniti: l' uno indefinito , che è l' uno in quanto ha nel suo seno ogni altro indefinito, e risponde all' «apeiron en dynamei» di Proclo; il numero indefinito , o la materia ideale, che risponde all' «apeiron en poso»; e il quanto indefinito , o la materia reale, che risponde all' «apeiron en peliko». Colla quale distinzione ha una stretta analogia la dottrina di Archita intorno al quanto , che da Filolao (e probabilmente anche da Archita) s' attribuiva, come vedemmo, all' indefinito. Poichè questo pitagorico, di cui Platone comperò a caro prezzo i libri, per testimonianza di Simplicio distingueva il quanto in tre generi: 1 il quanto di tendenza, o di gravità; 2 il quanto di grandezza, o di quantità continua; 3 il quanto di numero, o di quantità discreta (1). Di che si vede ragione, come la scienza del quanto, la matematica (2), penetrasse dentro la metafisica di Platone seguace dei Pitagorici, e fosse cotanto da queste scuole reputata. Ci pare dunque indubitato doversi distinguere l' uno indefinito di Platone dalla materia ideale e dalla materia reale nel suo seno contenuta potenzialmente «en dynamei», e, dipartendoci in questo da Goffredo Stallbaum, crediamo che, quando l' Ateniese filosofo comincia nel Parmenide a rimuovere dall' uno ogni moltiplicità, non parli dell' uno primo indefinito rispetto alla mente nostra e a quel che contiene, ma parli dell' unità astratta (I significato), e voglia dimostrare che così sola e nuda involge contraddizione, di maniera che rimarrebbe nulla. Rimane dunque a cercare che cosa sia la materia ideale secondo Platone. Ora essendo quella in cui si trovano poi i numeri, cioè le specie distinte, ma in cui non ci sono attualmente; convien dire ch' essa sia l' idea senza determinazioni di sorte, e questa risponde appunto a quella che noi chiamiamo « idea dell' essere indeterminato », ossia « essere ideale ». Così Platone avrebbe distinto « l' essere ideale »dall' Uno primo, che l' ha nel suo seno, come ha pure nel suo seno l' indefinita realità, cioè da Dio. Colla dialettica poi, presa nel senso di Platone, si trovano nell' idea universale le specie, ciascuna delle quali è un numero. Ma l' Uno primo è quello dove risiede l' unità come in proprio fonte, cioè l' essenza; e da quest' Uno primo si comunica la forma d' unità alla stessa materia ideale, e alle determinazioni di essa, cioè alle specie, o numeri, che così vengono collegati o contenuti nell' unità, e sono primamente specie, poi forme o essenze delle cose. Nell' Uno primo dunque e massimo si trovano immersi i primi elementi di tutte le cose mondiali, che sono: 1 l' indefinito, il più , grande e piccolo; 2 l' uno. Questi sono i due che nomina Aristotele, da cui dice secondo Platone, non dissomigliantemente dai Pitagorici, farsi le specie e le cose. Già Filolao aveva chiamato il primo «ta polla» e «thateron», e il secondo «to hen» e «tauton», denominazioni così spesso usate da Platone; e aveva detto [...OMISSIS...] . I numeri non informati dall' unità, sono le determinazioni, i determinanti; l' unità, che le lega insieme, è l' essenza, l' ente, «to on», come risulta dal luogo citato d' Aristotele. L' unione dell' essenza colle determinazioni è l' ente definito che ne consegue, chiamato da Platone nel « Filebo » «xymmisgomenon». Ma oltre questo composto, che risponde alla triade, o numero perfetto dei Pitagorici, c' è il quarto principio, la causa dell' unione [...OMISSIS...] , la quale è l' Uno primo, come vedemmo. L' uno dunque per Platone era: 1 uno in sè (l' uno nel II significato, avente un subietto indeterminato, la diade); 2 era uno causa , o potenza d' emanare l' altro (l' uno nel V significato, come principio dei numeri e delle cose); 3 era uno in altro , quando diveniva forma o essenza dei numeri e delle cose, e in quest' ultimo stato l' uno si considerava come fine o finiente (l' uno nel III significato), o come il tutto di ciascun numero o di ciascuna cosa (l' uno nel IV significato, vedi p. 6 7 7). L' uno nel primo e nel secondo di questi significati non distinti dai primi Pitagorici era l' «arithmos artioperissos» (1), benchè quelli negassero all' uno la denominazione di numero il «to proton hen» dei più recenti (2). Ci riserbiamo a mostrare altrove come i Pitagorici traessero i loro due principii, il finiente e l' indefinito , da tradizioni orientali, che ascendono fino ai primi Camiti che introdussero in Babilonia l' adorazione dei due principii, il maschile e il femminile , fondamento del primo ciclo dell' idolatria, culto che non cessò più mai fino che l' idolatria non cessò per la luce cristiana «( Teos., Ontol. categ.; Teos. , vol. IV, n. 102) ». Qui mi basta osservare che la dottrina di quei due principii, e la dottrina dei numeri che vi si riferisce, apparteneva all' Ontologia universale, cioè alla teoria dell' essere senza distinzione delle sue forme o categorie, e però: 1 Non conoscendosi ancora le primitive forme dell' essere, e da queste prescindendosi necessariamente, quella dottrina astratta conveniva ugualmente all' essere nella sua forma ideale, all' essere nella sua forma reale, e all' essere nella sua forma morale. Quindi, applicandosi senza distinzione all' essere sotto l' una o l' altra forma, ne nasceva necessariamente una moltiplicità di sensi apparentemente diversi e contrarii, e non c' era un filo che conducesse alla conciliazione (il quale non poteva essere che la distinzione delle forme primitive): indi la confusione sempre crescente del sistema, e i dissidii dei filosofi, che non potevano intendersi nè tra loro, nè con sè stessi; 2 Rimanendo quei principii nelle astrazioni, erano puramente formali, ed applicabili ugualmente alla dottrina di Dio, dell' Uomo o del Mondo; e quindi non potevano far conoscere il proprio di Dio, e il proprio del Mondo: onde ne nasceva facilmente la confusione della natura dell' uno colla natura dell' altro. Poichè si voleva (il che è proprio necessariamente d' ogni sistema filosofico), che con quei soli principii tutto si spiegasse; onde alla forma delle cognizioni riducevasi violentemente la materia: il che apparisce fino dai Pitagorici primi, che prendevano i numeri per le stesse cose reali (1). Non potevano dunque esser queste le vere categorie , od ultime classi delle entità; poichè i due principii pitagorici ripetendosi in ciascuna delle tre forme dell' essere come vedemmo, supponevano una classificazione anteriore ad essi. Laerzio nomina Clinomaco Furio, appartenente alla scuola di Megara, come il primo che scrivesse dei predicati [...OMISSIS...] , ed Archita poi scrisse il primo delle categorie [...OMISSIS...] . Dexippo Erennio ateniese (3) e Simplicio ne parlano, e quest' ultimo aggiunge, che Archita tarentino, prima d' Aristotele, divise l' ente in dieci generi, nel suo libro « «peri tu pantos» (4) »; ma Temistio attribuisce quest' opera ad un altro Archita posteriore ad Aristotele (5). Avendo pensato Archita, che l' Universo non poteva constare nè di soli finienti, nè di soli indefiniti, ma di composti degli uni e degli altri, onde diceva, che al composto appartiene massimamente l' esser sostanza (1), sentenza che Aristotele ripete come sua propria (2), poteva ridurre in sommi generi gli enti composti, di cui risulta l' Universo, distinguendo in ciascuno di essi i due elementi. Dexippo Erennio (3) osserva che Aristotele, dando il secondo luogo tra le categorie alla quantità , s' allontanava da Archita che poneva in secondo luogo la qualità , il che approva Plotino. In generale i Pitagorici, di mano in mano che applicavano i loro due principii a diversi generi di cose esistenti e in esse le riscontravano, davano loro un altro nome; e così nacquero quelle categorie, o principii, di cui parla Aristotele (4). Questa classificazione aveva il vantaggio d' esser dedotta da un solo principio, di cui mancano le Aristoteliche: che è la censura, che giustamente gli fece il Kant (5). Ma da prima, stabilito che tutti gli enti mondiali abbiano in sè l' opposizione dei due principii, furono nominate alcune di queste coppie come venivano, e senza assegnarne il numero preciso: e questo fece Alcmeone di Crotona, che viveva ai tempi di Pitagora già vecchio (6). Ma i Pitagorici poi ridussero al numero dieci tali coppie, che così da Aristotele s' annoverano: [...OMISSIS...] . A me pare, che niente altro sieno queste dieci coppie di principii se non i due originarii di Pitagora, cioè, il finimento e l' indefinito , applicati a generi di cose i più comuni e facili a presentarsi. Perchè poi si ponessero dieci coppie piuttosto che altro numero, niuna ragione intrinseca si vede nella loro deduzione, ma sembra essersi scelto questo numero per l' opinione che il numero dieci contenesse in sè tutte le cose; onde, come osserva Aristotele stesso, quando la natura non si prestava a numeri prestabiliti dai Pitagorici, essi facevano violenza alla natura, per farla ubbidire al loro sistema numerico (1). La prima coppia adunque, il finimento e l' indefinito , era come il tema di tutta la serie, i due principii universali privi ancora d' ogni applicazione. La prima applicazione si faceva agli elementi dei numeri, come principii di tutte le cose, e se n' aveva il dispari e il pari; l' uno finiente, e l' altro indefinito subietto di divisione (2). Doveva pure l' indeterminato o indefinito presentarsi alla mente in due modi, cioè or nell' uno or nell' altro, senza da principio accorgersi che fossero due. Poichè da una parte un ente qualunque privo di determinazioni è indefinito; e dall' altra le determinazioni stesse, quando rimangono slegate prive d' un subietto, sono anch' esse un indeterminato o un indefinito. Quindi, tanto il concetto d' indeterminato o determinabile, quanto quello di determinante, diveniva duplice, poichè: 1 c' era il concetto di ente indeterminato, a cui corrispondevano le sue determinazioni come determinante; e 2 il concetto di determinazioni slegate prive dell' ente, che costituivano esse pure una pluralità indeterminata, a cui corrispondeva l' ente o l' essenza come determinante e riducente ad unità. Così l' ente e le determinazioni si determinavano reciprocamente. Non mi pare improbabile che, quando i Pitagorici pigliavano l' impari come determinante nella seconda coppia, e il pari come infinito determinabile, nel primo vedessero la determinazione dell' ente, e nel pari l' ente indeterminato, onde il pari pitagorico è chiamato da Aristotele « la diade come uno », perchè in questo pari vedevano l' ente privo di determinazioni. All' incontro, quando nella terza coppia ponevano l' uno come determinante e la pluralità come infinito determinabile, nell' uno concepissero l' ente in quanto determina e unisce la pluralità delle sue determinazioni. Avendo dunque concepito Platone il determinante e l' indefinito determinabile sotto questo secondo aspetto, egli pose l' essenza e l' ente, cioè l' uno come determinante, e la diade, la pluralità, il grande e piccolo, come indefinito determinabile. Dal che risulta, che Platone non avrebbe già scambiata, come dice Aristotele, la diade come uno dei Pitagorici nel « grande e piccolo »; ma si sarebbe appigliato alla terza coppia delle opposizioni pitagoriche anzichè alla seconda. La quarta coppia, « il destro e il sinistro », è un' applicazione de' concetti di finiente e d' indefinito alle relazioni di luogo, e risponde alla settima categoria d' Aristotele ( «keisthai»). Pigliavasi il destro come il lato più nobile o la situazione più perfetta delle cose, e il sinistro il contrario; e riputavasi mancante di determinazione il sinistro, perchè si considera sempre la determinazione come perfezionante; onde le determinazioni che rendevano imperfette le cose, non si consideravano come determinanti, ma come bisognose d' essere determinate. Onde la materia, a ragion d' esempio, sciolta e disordinata consideravasi come informe , benchè informe al tutto non potesse essere; ma andava priva di quella forma e determinazione che doveva avere (1). Nella quinta coppia, « il maschile e il femminile », si vedono applicati i concetti primitivi di determinante e indeterminato alla generazione e ad ogni produzione; e ben dimostrano l' origine antichissima del sistema, essendo i due principii, l' attivo e il passivo, rappresentati nel maschio e nella femmina, i più antichi Iddii dell' umana superstizione. Nella sesta coppia, « il quieto e il mosso », i concetti di finiente e d' indefinito s' applicano a uno de' fenomeni più importanti e universali, qual è quello del moto , preso in senso generalissimo che rappresenta ogni mutazione. Il moto , ossia la mutazione, fin che dura, è indeterminata, moltiplice, variabile: la quiete si prendeva come il termine del moto, quello che determinava il subietto che si move ad una condizione stabile e certa. Da questa coppia di principŒ traggono origine le tante discussioni de' primi filosofi per sapere « se tutto si movea », come pretendeva Eraclito ammettendo solo il principio dell' indeterminato , o « tutto stava », come sostenevano gli Eleati ammettendo il solo principio del determinato , ovvero « se tutto che ci avea nell' universo fosse moto e quiete », come insegnavano i Pitagorici co' loro due principŒ. Alla rettezza e stortezza delle linee si vedono applicati nella settima coppia i concetti di finiente e indefinito, considerandosi la stortura come una mancanza di perfezione, e una moltiplicità indeterminata, essendo una la retta, molte le curve. La curva dunque si considerava come bisognevole di ricevere il finimento della rettitudine. Nell' ottava coppia s' applicano gli stessi concetti alla luce e alla tenebra, presa quella e questa in senso latissimo, e però altresì come indicanti lo scibile e l' ignoranza. La tenebra presenta uno spazio dove niente è determinato o definito: la luce, facendo vedere lo spazio buio, gli dà le forme e lo determina. Questo ci chiama alla mente la specie «eidos, idea» di Platone, il viso di Cicerone. Le specie risultano per Platone dalla materia ideale che venendo determinata presenta alla mente un visibile, un apparente, una specie in somma: così gli enti speciali escono dall' oscurità primitiva dell' indefinito in cui giacciono. Non è che l' idea dell' essere, la materia ideale di Platone, sia tenebra rispetto a sè; ma nasconde ogni ente determinato nel suo seno: e però quest' ente, fino a che non riceve le determinazioni, è come sepolto in fitta notte. Viene la nona coppia, « il male e il bene », quello considerato come indefinito, cioè come una privazione delle determinazioni che dovrebbe avere. Mi sembra Aristotele aver tratto il suo principio della privazione da questo appunto, che i Pitagorici considerarono come privo di determinazioni tutto ciò che era difettoso, come vedemmo anche parlando della quarta e settima coppia. Finalmente nella decima coppia s' applicarono i due principŒ alle figure geometriche, e si considerò il parallelogramma come indefinito, perchè si può estendere da un verso più che dall' altro senza misura determinata, laddove il quadrato ha una proporzione stabile d' uguaglianza tra i suoi lati. Non si deve confondere la questione degli elementi degli enti con quella delle classi degli enti . L' espressione « elementi degli enti », ontologicamente presi, importa che per elemento s' intenda ciò che non è un ente da sè, ma è uno degl' ingredienti di cui qualche ente si costituisce (2). I primi Italici, come risulta dal capo precedente, s' applicarono piuttosto alla questione degli elementi, seguendo l' avviamento degli Ionici, che non a quella della classificazione degli enti. Ed era facile il confonder quella con questa, come le confuse Aristotele stesso, che nelle Categorie, cui chiama anche « generi dell' ente », divide l' ente in sostanza e accidente , i quali son due elementi di cui si compongono o tutti o certo molti degli enti finiti. Nasceva questa confusione dall' ambiguità della espressione « generi degli enti », che sembrava dover significare « delle classi generiche degli enti », e anche « delle qualità universali »che si predicano di molti enti. Ora la qualità universale non è l' ente, ma solo qualche cosa che all' ente appartiene (1). E però Aristotele stesso non ricusa assolutamente di chiamare elemento « « quello che è al sommo grado universale, poichè è uno e semplice in molti, o in tutti, o in moltissimi » ». [...OMISSIS...] . Il qual luogo è consentaneo al suo sistema, che in opposizione a Platone nega l' esistenza delle idee separate dalle cose, e però non possono essere che appartenenze (elementi) delle cose stesse. I quattro principŒ dunque de' Pitagorici e di Platone, che si considerano come classi o sommi generi degli enti, non sono propriamente tali: ma i due primi, la monade e la diade, sono elementi; la triade, cioè il definito, o, come lo chiama Platone, «to xymmisgomenon», è l' ente finito; il quarto principio poi, o la causa, è l' ente infinito. Onde, a propriamente parlare, due sono le supreme classi o categorie platoniche: quella dell' ente finito , che consta de' due accennati elementi; e quella dell' ente infinito che è uno perfettamente. Ma si possono nondimeno chiamare tutt' insieme i quattro cogitabili pitagorici. Di più abbiamo indicato come Platone concepisca quest' ente Uno, causa di ogni ente finito, che è chiamato anche semplicemente l' Uno. Quest' Uno, come abbiamo veduto, ha nel suo seno indivisibilmente uniti i due elementi dell' ente finito, cioè il finimento e l' indefinito (quest' è il grande e piccolo): il primo quand' è uscito è il quale , il secondo è il quanto . Il che rammenta l' ordine delle categorie d' Archita (se si dee credere a Dexippo, Simplicio, e Boezio), che poneva la qualità come la seconda, e la quantità come la terza: ordine, cui Aristotele disse rovesciato, che pose la quantità ( «poson») come la categoria prossima alla sostanza, e appresso ad essa la qualità ( «poion») (1). Ma Plotino preferisce l' ordine d' Archita e di Platone, che è consentaneo al pitagorico. L' inversione per altro che s' attribuisce ad Aristotele, se pur è vera (1), si potrebbe spiegare così, che, dipendendo la qualità dalle forme e dalle idee e la quantità dalla materia, nel sistema Aristotelico, in cui si negano le idee separate dalla materia, esse doveano collocarsi dopo di questa, di cui sono, quasi direbbesi, un atto accidentale, di cui la stessa materia è il subietto. L' Uno dunque causa prima, è l' uno nel secondo significato, a cui si dà un subietto massimo. In questo subietto massimo c' è il bene, che avendo natura diffusiva, fa sì che un tal uno emani i due elementi: 1 il finimento, 2 l' indefinito, e di essi componga gli enti mondiali (2). Il finimento, per Platone, è l' idea specifica , che unita all' indefinito diviene forma: questa forma rispetto alle menti è la specie che rende visibili, cioè intelligibili gli enti: l' indefinito è la materia, cioè quell' elemento che ricevendo la forma diviene un subietto reale, e insieme colla forma costituisce l' ente. Ma l' idea stessa procede dall' Uno supremo per gradi: poichè anch' essa primamente è indefinita e indeterminata, materia ideale (a cui risponde il nostro essere ideale ); e questa materia ideale è una pluralità indefinita e confusa, il numero indeterminato o piuttosto potenziale. Ha bisogno dunque questa materia ideale di essere determinata, ossia di ricevere anch' essa una forma. Ora questa forma è l' uno partecipato dall' Uno supremo. Ma quest' uno partecipato [...OMISSIS...] raccoglie in sè e unifica più o meno di quella pluralità indefinita e confusa che è nella materia ideale, e che anche si chiama « il grande e piccolo », e stringe piuttosto questa parte che quell' altra; onde dall' applicazione varia dell' uno a quella pluralità indefinita, che è nella materia ideale, s' hanno i numeri determinati e le specie , e queste specie così costituite sono anch' esse forme all' ultima materia, cioè alla materia reale. Ora questa materia reale , benchè non abbia più numeri nel suo seno, pure ha una quantità indefinita , e però anche ad essa spetta la denominazione di « grande e piccolo ». Le specie dunque o numeri come forme s' applicano e congiungono a un quanto maggiore o minore della materia reale, e così producono i varŒ enti reali, di cui l' universo si compone [...OMISSIS...] . Questa è una deduzione ontologica degli enti mondiali dalla prima causa, ma è proprio di Platone l' avervi aggiunto la dialettica (1), parte simile, parte dissimile da quella. Poichè anche quello, che in suo essere è già formato e definito, al primo affacciarsi della mente umana si presenta come un uno indefinito, e questo risponde all' indefinito come uno [...OMISSIS...] de' Pitagorici, da distinguersi dall' Uno primo e assoluto, causa di tutto. Circa l' uno indefinito dunque, che si presenta alla mente, la dialettica di Platone fece due cose: 1 Scompose l' uno dall' indefinito e mostrò che a) l' uno separato così da ogn' altra cosa, cioè la pura unità astratta , non potea concepirsi eistente, senza incorrere in quelle contraddizioni che svolge nella prima parte del Parmenide; b) l' indefinito così separato dall' uno rimanea pure per sè inintelligibile, e quindi anche impossibile. 2 Insegnò ad esercitare sovr' esso, cioè sopra l' uno dialettico, l' analisi, e ciò in due modi: a) trovando in esso tutto ciò che ci si potea distinguere; quindi in ogni genere, che è appunto un uno dialetticamente indefinito , tutte le specie, e nelle specie tutte le qualità distinguibili: queste qualità distinguibili informate dall' uno costituivano un numero solo, che era la stessa specie, e perciò diceva che la specie è un numero informato dall' unità; b) e trovando finalmente sotto le specie gl' individui reali, che divisi dalle specie rimanevano indefinibili, niun altro numero potendosi trovare in essi: e quindi ad essi cessava ogni analisi del pensiero, rimanendo così nel fondo della speculazione una materia (realità) oscura, non atta più ad essere intesa, venendo tutta la luce dalle sole specie (1). Dalle quali cose si raccolgono i diversi significati in cui è preso l' uno da Platone, cioè: 1 l' uno puramente mentale , com' unità formale, separata da ogni pluralità, prodotto soltanto dal pensiero astraente; 2 l' uno dialettico , l' uno indefinito (genere più o meno esteso), su cui s' esercita l' analisi dialettica; principio de' numeri o specie , e per mezzo di queste e della materia reale principio degli enti reali definiti; 3 l' uno partecipato dalle specie, costituente le essenze speciali , che sono poi partecipate dagli enti reali (individui); 4 l' uno primo e supremo , causa suprema, Dio. Ora Platone, che alla dialettica riduce tutta la professione del filosofo (2), parla degli enti alternativamente, ora in modo dialettico, ora in modo ontologico, e ciò perchè, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Il che però non vuol dire che il modo di essere delle cose sia uguale in tutto al modo di concepire della mente umana. E questa è una delle cause dell' oscurità di Platone e di Aristotele stesso, parlando questi filosofi ad esempio di quelli che li precedettero con principŒ così universali e formali, che convenissero ugualmente al concepire e all' essere delle cose; onde, quando applicano al primo lo stesso linguaggio, e poi l' applicano al secondo, esso cangia di significato, e diventa equivoco ed analogico: oltre altre difficoltà e ambiguità che nascono per via. Applicando dunque questa osservazione ai diversi significati ne' quali Platone adopera il vocabolo uno , «hen», consideriamo l' uno dialettico . L' uno dialettico, cioè quello su cui Platone insegna ad esercitarsi l' analisi dialettica, è duplice, com' è duplice la materia: talora prende a subietto dell' analisi l' uno che ha nel suo seno la materia ideale, talora l' uno che ha nel suo seno anche la materia reale e sensibile: indefinita l' una e l' altra: dal primo si traggono le specie o numeri, dal secondo, colla partecipazione di queste, gli enti reali. Quindi l' analisi dialettica finisce in due modi: 1 quando nell' uno dialettico ideale , dopo aver trovate tutte le differenze o specie elementari, finisce nelle ultime unità (specie piene), non restando più in queste ultime unità che la materia ideale vestita d' unità, cioè l' indefinito che rimane in fine indefinibile: 2 quando nell' uno dialettico reale , dopo aver trovate pure le differenze, generi, specie, fino a quella che noi chiamiamo specie piena e che non ammette altre specie inferiori, rimane questa partecipata dalla realità, cioè s' è pervenuto col pensiero agl' individui reali, nei quali non c' è più altro da distinguere, rimanendo così nel fondo alla speculazione la materia pure indefinibile. Comincia dunque la dialettica ad esercitarsi sull' indefinito e finisce pure nell' indefinito. L' indefinito, da cui comincia, è definibile, e quest' è quello che dà occasione al lavoro dialettico; l' indefinito, in cui termina il lavoro dialettico, è l' indefinibile, puramente materia. Ma la materia ideale è fonte di luce intellettiva, la materia reale di tenebre; e questo risponde all' ottava coppia delle categorie pitagoriche, luce, tenebra [...OMISSIS...] . La materia ideale ontologicamente ha in sè tutte le specie o numeri definiti, ma questi per l' uomo rimangono nascosti a principio, cioè quella presentasi all' uomo come indefinita. Quindi c' è bisogno che la mente umana trovi tali specie o numeri. Trovate queste specie , ciascuna delle quali raccoglie in sè un certo numero di qualità e differenze, la riflessione filosofica considera che, se il numero trovato non fosse tenuto insieme dall' unità , quel numero rimarrebbe indefinito, e come tale oscuro; non sarebbe ancora specie , che vuol dire visibile, intelligibile (1). Conchiude dunque che il numero partecipando dell' unità come sua forma diventa specie . La materia reale all' incontro, non avendo in sè alcun numero, ha bisogno di parteciparlo, il che da' Pitagorici dicevasi un' imitazione de' numeri ( «mimesis»), perchè la materia stessa a' numeri si conforma; da Platone poi fu detta partecipazione delle specie (2) ( «methexis»), onde le specie rimanevano distinte dalle cose , come il partecipabile dal partecipante . Non dunque il solo uno , non la sola materia era per Platone il subietto dialettico, chè que' due elementi così staccati rimanevano infecondi; ma sì l' uno , per la mente, indefinito , cioè avente nel suo seno una materia ancora indefinita. Da quest' uno si deducevano dialetticamente degli altri uni simili al primo; per esempio, se era un genere quello su cui s' esercitava la dialettica, si deducevano le specie. E dico uni simili al primo, in quanto che gli uni dedotti contenevano anch' essi i due elementi del primo, cioè si componevano: 1 di materia (essenza indefinita); 2 d' unità che costringeva quella e l' informava. Ma le ultime unità non potendo più produrre di sè altre unità, essendo così il numero esaurito, contenevano soltanto i detti due elementi, che in tutte le unità ricompariscono. Ora l' uno dialettico , cioè quello che il filosofo pigliava a esercitarvi sopra l' analisi, variava, poichè esso non indica un oggetto fisso, ma un genere d' uni dialettici: su qualunque di questi uni che il filosofo potesse prendere a considerare, ei dovea esercitare la dialettica allo stesso modo, colle stesse operazioni. Potea dunque il filosofo prendere un uno dialettico più o men copioso, e trovarci un numero più o men grande: fin qui la dialettica. Vediamo ora dove cominciava l' ontologia, e da quella c' era il passaggio a questa. Quando il filosofo, in vece di prendere un uno qualunque a caso per esercizio dialettico, sceglie, tra questi uni possibili ad analizzare, quello la cui analisi fa conoscere l' intima costituzione dell' essere o dell' ente come tale, allora dalla dialettica stessa egli è introdotto sul territorio dell' ontologia. E, rilevato una volta che la costituzione dell' ente deve essere necessaria, tale cioè che, supposto in essa un qualche cangiamento, l' ente rimarrebbe annullato; è facile altresì conoscere che, trovata una proprietà dell' ente, qualunque questa fosse, essa non si può rimaner sola, ma deve involgere la condizione di tutte l' altre, chè da tutte insieme risulta quella costituzione necessaria dell' ente. Ora la prima proprietà dell' ente e la più semplice e facile a concepirsi dalla mente, è che sia uno . Dalla meditazione dunque del puro uno si potea pervenire ragionando a trovare tutte l' altre proprietà elementari dell' ente, e questo è quello che fa Platone nel « Parmenide » e nel « Sofista » di proposito, e su cui torna spesso negli altri dialoghi. Nella seconda parte del « Parmenide » (1), Platone stabilisce l' ipotesi che l' uno sia; e, dato per vero che sia, arguisce dall' esserci l' uno , che è necessario che ci siano i molti come sua condizione, altramente non sarebbe, contro l' ipotesi assunta che sia. Questa è la prima e fondamentale Antinomìa del sistema di Platone, ed è la terza coppia delle dieci che Aristotele attribuisce ad alcuni Pitagorici, «hen kai plethos». Egli move dal principio, che se l' uno è, dee partecipare dell' essenza , cioè dell' essere: onde già si distinguono colla mente due elementi: 1 l' essere, l' essenza, la materia; 2 l' unità, l' uno. L' uno è il finimento, secondo Platone, l' essenza è l' indefinito: la prima coppia, «peras kai apeiron», delle dieci pitagoriche. Di che conchiude, che quell' uno, poichè ha l' essere, è un ente; e questo ente è un tutto avente due parti elementari, l' uno e l' essere, che diventano due suoi predicati , potendosi predicare di quell' ente tanto l' uno quanto l' essere. E questi sono i due predicati ( «kategoremata») fondamentali di Platone. Qui dunque abbiamo già tre cose distinte colla mente: il tutto, e le due parti «to hen kai to on». Ma, quando la mente considera queste due parti dell' ente uno o dell' uno ente ( «tu henos ontos»), può ella considerarle separatamente senza che, quando pensa l' uno come parte, nol pensi esistente come tale, e quando pensa l' ente pure come parte dell' ente uno, nol pensi uno? Impossibile. Dal che conchiude Platone che l' uno involge in sè una moltitudine infinita ( «apeiron plethos»), poichè, essendo per necessità uno ed ente, cioè avendo due elementi in sè, e ciascuno di questi dovendo anch' essi avere l' unità e l' esistenza come loro elementi, essendo queste condizioni senza le quali non si potrebbero concepire, risulta che col ripetere lo stesso discorso si potrebbero distinguere elementi all' infinito. Di più ne trae la prima Antinomia speciale: cioè nell' uno essente ci sono necessariamente in un modo implicito tutti i numeri pari e dispari, la seconda coppia pitagorica «peritton kai artion». Poichè, dice, se due sono gli elementi dell' uno ente , cioè l' uno e l' ente (e il medesimo convien dirsi di ciascun elemento considerato da sè), dunque c' è nell' uno il due. Ma poichè quegli elementi sono congiunti da un nesso indissolubile, il qual nesso è un terzo elemento, dunque c' è anche il tre. C' è dunque il pari e il dispari [...OMISSIS...] . Di più, nel due c' è due volte l' uno, e nel tre tre volte . Ci sono dunque dentro i concetti di due e di tre , e di due volte e di tre volte . Onde c' è il due replicato, perchè c' è il due , e il concetto della duplicazione dell' uno; e c' è il tre triplicato, perchè c' è il tre, e il concetto della triplicazione dell' uno. Di conseguente c' è anche il concetto di tre esistenti e di duplicazione, e di due esistenti e di triplicazione; e perciò c' è il concetto di tre due volte, e di due volte tre, e però i pari presi un numero pari, e i dispari presi un numero dispari, e i dispari presi un numero pari, e i pari presi un numero dispari: onde non resta escluso nessun numero, ma tutti si trovano nel seno dell' unità esistente (1). Abbiamo veduto e risulta da tutto questo discorso che ciò che Platone chiama « essenza », «usia», è quello che noi chiamiamo « essere ideale », considerata da Platone come la materia universale delle idee di cui l' uno è la forma. Ora da quello che segue s' intende perchè egli dava a questa materia delle idee la denominazione di « grande e piccolo ». Egli ha dimostrato, che l' uno non può esistere come uno puramente, perchè non esisterebbe se non avesse l' essere, cioè l' essenza, che è qualche cosa di diverso dal puro uno: del pari l' essenza non può esistere senz' esser una: di che viene che l' essenza è il principio della moltiplicazione dell' uno, occupando ella, dopo l' uno, il secondo posto, e così meritando il nome di diade. Questo ragionamento, col quale Platone speculando sul puro concetto di uno, e preso per ipotesi che sia, trova per sua condizione prima la diade, e poi la moltiplicazione indefinita per mezzo di questa, merita d' essere da noi attentamente considerato. Dopo aver dunque dimostrato che nell' uno essente si trova logicamente il concetto di tutti i numeri essenti anch' essi, prosegue così: [...OMISSIS...] . Dove si trova la vera spiegazione del perchè Platone chiamava la materia ideale « il grande e piccolo », e mi fa maraviglia che Aristotele non l' accenni, e che un passo sì chiaro sia sfuggito a molti eruditi, che hanno cercato la ragione di quella denominazione (1). Poichè l' essenza, come in appresso dimostra, non potendo stare senza l' uno, e nell' uno essente essendoci i molti, conviene che l' essenza sia tra questi molti, grandi e piccoli, distribuita, e che non possa stare di conseguenza senza il grande e il piccolo. Ed essendo ella stessa quella che mette nell' uno la pluralità, consegue che da lei si deva ripetere il grande e il piccolo, e che con questa denominazione si chiami. Essendo dunque l' essenza distribuita in parti, e non potendo essere ciascuna parte se non sia una, conchiude che « « lo stesso uno, distribuito dall' essenza, sia molti e un' indefinita moltitudine » (2) »; e non solo l' ente uno ( «to on hen»), « « ma lo stesso uno ( «auto to hen») sia molti » », poichè « « nè l' ente può mancare mai all' uno, nè « l' uno all' ente, ma questi due piuttosto in tutto s' adeguano »(3) ». Così si spiega, secondo Platone, l' origine dei numeri dall' uno mediante l' essenza seco indivisibilmente congiunta, cioè mediante l' essere, che pur è diverso dall' uno. Trovata nell' uno essente la moltiplicità, è trovato il concetto di parte , perchè tutti gli elementi, di cui consta l' uno, sono come parti di lui. Di conseguente anche il concetto di tutto , perchè l' uno è il tutto di queste parti. Ora il contenente ( «to periechon») è il termine, il finimento ( «peras») del contenuto (4): dunque l' uno come tutto, e però contenente, è il termine, il finimento del più, perchè lo comprende e lo unifica in sè; il che fa ben intendere in che modo Platone diceva, come ripete Aristotele senza spiegarlo, che l' uno è la forma delle specie e de' numeri. E che l' uno sia tutto e parte, contenente e contenuto è la seconda Antinomìa speciale. Di qui Platone deduce che l' uno essente è determinato e indeterminato ad un tempo sotto diversi aspetti (ed è la terza Antinomìa speciale): poichè è determinato in quanto che il complesso delle parti o elementi che contiene sono raccolti e compresi nell' uno tutto, ed è indeterminato in quanto che la moltitudine che contiene da sè presa è indeterminata. [...OMISSIS...] Dal che si conferma quello che dicevamo, cioè: 1 Che l' uno per Platone è per sè solo un concetto anteriore a quello degli elementi del Mondo; 2 Che esso è anche definiente ( «to perainon»), e perciò fine o termine ( «peras»), in quanto comprende in sè l' altre cose (1 elemento); 3 E` anche molti , e in quant' è molti contiene la moltitudine indefinita, e perciò è «apeiron plethei» (2 elemento); 4 Se questa moltitudine indefinita si considera da sè, facendo astrazione dall' uno che la contiene, essa rimane l' indefinita diade, il grande e il piccolo; 5 Quest' indefinita moltitudine è l' essere che si distribuisce secondo le parti grandi e piccole, più o meno numerose. E` da considerare che questi discorsi sono messi da Platone in bocca a Parmenide, e che uno degli scopi di tutto il dialogo è quello di dimostrare, contro i Megarici, che la dottrina eleatica, esposta che fosse con una logica esatta, riusciva la medesima con quella da lui professata, e che non si poteva intendere altramente, qualora si volesse mantenere la coerenza del raziocinio: altramente diventava assurda e non si potea più sostenere. Partendo dunque dal principio di Parmenide che l' ente sia [...OMISSIS...] , e che sia uno [...OMISSIS...] ; spiega sotto quali diversi aspetti Parmenide potesse ammettere che l' ente uno fosse ad un tempo determinato e indeterminato. Ora, continuandosi a tener dietro al carme « «peri physeos» » e dandogli un' interpretazione ragionevole, Platone non ricusa d' attribuire all' ente uno la figura, giacchè Parmenide nel suo carme lo vuole sferico, della quale sentenza si giova altrove Platone per dimostrare che deve contenere una pluralità (2), attirando anche con questo uncino la sentenza eleatica dell' uno, alla sua dell' Uno molti. Dopo aver dunque provato, che l' uno è un tutto determinato in questo senso, che la moltitudine che contiene, e che è lui stesso, è sempre contenuta dall' uno, nè sta mai da sè sola (se non per un' astrazione della mente), e però è compartita e distribuita in moltissime parti [...OMISSIS...] grandi e piccole, deduce che questo tutto determinato dee avere i suoi estremi, e principio, mezzo, e fine, e il mezzo essendo equidistante dagli estremi, dee essere partecipe di figura, sia poi retta o rotonda o mista (1), dove si può rammentare la decima coppia pitagorica [...OMISSIS...] , e nello stesso tempo la forma sferica data all' ente da Parmenide; Platone abbraccia tutte le figure rammentate dai suoi predecessori, e v' aggiunge non senza significato la mista , che è come mediatrice e vincolo delle due prime. Questa figura, data da Platone all' ente, da alcuni interpreti s' intende detto in senso metaforico a quel modo che i logici danno l' estensione alle idee (2), mossi specialmente dal considerare che Platone vuole che il filosofo rimova nello studio dei numeri e delle figure geometriche ogni materia corporea (3). Il che però non appaga pienamente, chè rimane lo spazio figurabile ammesso da Platone come medio tra le idee ed i corpi. Credo doversi piuttosto considerare, che qui Platone parla dell' uno ente vago e informativo (4); e lo considera sotto i varŒ suoi aspetti, ora in sè, ora come partecipabile delle cose reali. Dicendo dunque, non che l' ente sia figura, ma che sia « partecipe della figura », reputò doversi intendere che l' ente è tale che « può partecipare anche della figura ». E parmi indubitato che Platone tra la materia ideale e la materia corporea ammetteva una terza materia, cioè la matematica , e però un terzo indefinito, che era lo spazio, del quale ricevendo il finimento, venivano le figure geometriche , poichè facendo egli venir tutto da' due elementi, anche le figure geometriche, è conseguente che avessero il loro indefinito e il loro finimento: e anche in questi per la stessa ragione si trovava l' uno finiente, e il più definibile. Essendo dunque l' uno essente necessariamente un tutto con pluralità di parti nel suo seno, e con principio, mezzo e fine, qualora si supponga informativo d' una materia a ciò acconcia cioè spaziosa, era suscettibile di figura, cioè di esistere come figurato: e questo è il nesso che in Platone congiunge la Geometria alla Metafisica (1). Passa a dimostrare un' altra proprietà dell' uno essente, quella ch' egli è in sè, ed è in altro; ed è una quarta Antinomìa speciale. E lo dimostra partendo da due concetti, che convengono all' uno. Poichè l' uno si può prendere 1 come tutto, 2 come le parti unite [...OMISSIS...] . Ora l' uno, preso come il complesso delle parti, e contenuto nell' uno preso come tutto; perchè le parti sono nel tutto: dunque l' uno è in se stesso, l' uno è nell' uno [...OMISSIS...] . Il che s' intende non solo di tutte le parti, ma anche d' un gruppo d' esse, e di ciascuna, perchè ciascuna è un uno contenuto nell' uno tutto . Ma l' uno preso come tutto , non è nell' uno preso come parti unite, dunque l' uno non è nell' uno, dunque è in altro. Questa illazione, che non essendo l' uno tutto contenuto nell' uno parti, dunque deve essere in altro, dimostra che si considerava il dove come una proprietà essenziale dell' ente. Poichè domanda Platone: « « Se non fosse dovechessia, non sarebbe egli nulla? »(3) ». E si fa rispondere: « necessariamente ». Quindi l' origine della categoria aristotelica «to pu». Ristretta questa a significare un luogo nello spazio, non è ontologica se non potenzialmente; non essendo necessario che l' ente sia in un luogo, il che appartiene solo a quegli enti speciali che sono o agiscono di necessità nello spazio. Ma potenzialmente è ontologica in questo senso, che non ripugna all' uno informativo, ch' egli informi una materia estesa o avente coll' estensione una relazione necessaria (1). Ma è da considerarsi di più, che gli antichi, come al moto , così al dove davano un significato più esteso che quello che si restringe allo spazio o a' corpi; onde rimane a cercare che cosa sia quest' altro, in cui dice Platone che dee essere l' uno ente considerato nel suo concetto di tutto (2): e viene in mente di togliere la risposta da quello che dice Dante dell' Empireo: [...OMISSIS...] . E che così l' intenda Platone si ha manifesto dal Timeo, dove Dio è chiamato «o to pan xynistas» (4), come altrove è da lui chiamato mente «nus» (5), e ragione «logos» (6). Onde dice, l' universo reale esser fatto sull' esemplare di quello che nella sola ragione e nella sapienza si contiene, [...OMISSIS...] . E ancora dice, che il Mondo reale fu fatto da Dio come un solo vivente simile al Mondo intelligibile che è pure un solo animale intelligibile, il quale contiene tutti gli altri animali come parti « « secondo l' uno e secondo i generi » » [...OMISSIS...] ; il mondo intelligibile poi, essenza del reale, è contenuto nella mente divina. Onde non rimane a dubitare che il contenente del tutto reale sia il tutto intelligibile, che lo informa e che nella divina mente rimane. Dall' esser poi l' uno sotto il rispetto materiale, cioè delle parti, in se stesso, cioè nell' uno formale; e sotto il rispetto formale, cioè come tutto contenente le parti, in altro, cioè nella mente di Dio: deduce Platone che l' uno essente ha due altre proprietà apparentemente opposte, cioè quella di stare , e quella di moversi (quinta Antinomìa speciale), che risponde alla sesta coppia pitagorica [...OMISSIS...] : dove la quiete e il moto sono concetti presi in senso universalissimo, non nel senso ristretto di moto locale, che è soltanto una specie de' varŒ moti che distinguevano gli antichi. Dice dunque che l' uno sta in quanto è in se stesso, e si move in quanto è in un altro. [...OMISSIS...] . Il che così si può intendere: « Le parti, cioè gli uni inferiori, essendo nell' uno tutto, ricevono da quest' uno tutto la loro stabilità, perchè sono in esso come uno nell' uno; ma l' uno, secondo il concetto di tutto, essendo in altro, cioè nella mente divina, conviene che di continuo si discerna da essa, e perciò da essa emani continuamente come forma, cioè come quell' uno che tutto contiene ed aduna »(uno nel IV significato). Ond' anche deduce che l' uno, rispetto a sè, è il medesimo ed è diverso; e così rispetto all' altre cose, cioè al più, è il medesimo ed è diverso (sesta Antinomìa speciale). Rispetto a sè, lo prova in questo modo. La relazione possibile d' una cosa ad un' altra non può esser che quadruplice: 1 o che sia la medesima; 2 o un' altra; 3 o sua parte; 4 o suo tutto: chè la parte non è nè un medesimo nè un diverso dal tutto, e così il tutto non è nè un medesimo nè un diverso dalla parte. Ora lo stesso uno non è nè parte di se stesso, nè tutto di se stesso, quasi di parti; nè l' uno è altro dall' uno. Dunque egli è il medesimo con se stesso . Ma sotto un altro aspetto è anche diverso da se stesso, cioè sotto l' aspetto di tutto che unisce in se le parti. Poichè come tale abbiam veduto lui non essere nelle parti, cioè nell' uno materiale, ma in altro. Ora quello che esiste in un altro diverso da sè, è uopo che sia un altro diverso da sè [...OMISSIS...] . Il che viene a dire che l' uno tutto, forma delle cose, come essente nella mente divina, è diverso dall' uno stesso emanato da quella mente, e imposto come forma alle cose, ha un altro modo di essere. Onde l' uno non solo è il medesimo a se stesso, ma anche da sè diverso. Rispetto all' altre cose prova del pari che l' uno è il medesimo con esse, e con esse diverso. Poichè quali sono l' altre cose? quelle che non sono uno. Ma l' uno è diverso da ciò che non è uno. Dunque l' uno è un diverso all' altre cose, cioè al non uno. Ma in un altro aspetto l' uno è anche il medesimo coll' altre cose che non sono uno. E lo prova dimostrando: 1 che l' uno non può esser qualche cos' altro dal non uno; 2 che non può esser sua parte; 3 e non può esser suo tutto: di che conchiude che l' uno dee essere il medesimo col non uno . Prova che non è altro dalle due nozioni d' identico e di diverso . Il diverso, dice, non può esistere nell' identico in quant' è identico, nè pure un istante. Ma le cose che sono, sono identiche finchè sono quelle che sono. Dunque in niuna di quelle cose che sono [...OMISSIS...] può esistere l' altro. Dunque l' altro non può esistere nell' uno essente, e però nè pure nel non uno; poichè se in questo ci fosse, già ci sarebbe anche nell' uno, chè il predicato diverso è reciproco (1). Di poi dimostra, che l' uno non può essere parimente una parte del non uno, e nè pure tutto del non uno, perchè in tal caso il non uno parteciperebbe dell' uno (2), e così cesserebbe d' esser non uno, contro l' ipotesi. Dal che conchiude che, se l' uno non ha la relazione di diversità dal non uno, nè quella di parte, nè quella di tutto, per modo che il non uno, restando non uno, sia una sua parte; rimane che l' uno sia il medesimo col non uno . La qual conclusione, benchè sembri strana, consuona però col principio messo da prima, cioè che tutte le parti insieme sia l' uno. Ora le parti in quanto sono moltiplici sono non uno: dunque il non uno è il medesimo uno. Il che è quanto un dire: « la domanda se l' uno sia diverso o identico col non uno, non può farsi, se si supponga che il non uno non esista, sia nulla: voi supponete dunque che il non uno sia qualche cosa: ma non può esser qualche cosa se non per l' uno che non abbandona mai l' esistente. Ora se il non uno esiste e quindi è uno, già si vede che esso è uguale all' uno, perchè altro non può essere che le parti informate dall' uno. Laonde le parti informate dall' uno, e quindi essenti, se si considerano puramente come parti, astraendo dall' uno; ma non negandolo di esse, sono non uno; ma se si considera come il non uno possa esistere, ritornasi col pensiero all' uno, poichè si vede che la condizione della loro esistenza è che sieno uno. Sotto questo aspetto dunque l' uno vedesi uguale a ciò che si dice non uno ». Trae di qui un' altra proprietà dell' uno, e una settima Antinomìa, attesi i varŒ suoi aspetti, cioè ch' egli è simile e dissimile a se stesso; ed è pure simile e dissimile all' altre cose . E primamente prova che l' uno è simile e dissimile all' altre cose che non sono uno, dall' esser ad esse diverso ed identico, nel modo detto di sopra. Essendo altro, ossia diverso dall' altre cose, l' altre cose sono altro, ossia diverse da lui (1). Dunque l' uno e il non uno, essendo reciprocamente altro, hanno questo di simile d' esser altro , perchè l' uno e il non uno partecipano della forma della alterità, ossia della diversità. Qui si vede come ciò che è dissimile, qual è il diverso, diventa simile, mediante una riflessione più elevata della mente, che fa della diversità stessa una forma astratta e perciò unica, applicabile a più subietti, i quali coll' applicazione di quell' unica forma diventano due, cioè diversi e dissimili. Infatti i subietti diversi ed altri l' un dall' altro, non si potrebbero riconoscere tali, se la mente non li considerasse mediante una sola idea; poichè nessun paragone ella può fare, sia per unire, sia per dividere più cose, se non applica loro un' idea comune «( Ideol. , 1.0 7 1.7) ». Il che prova di nuovo, che il più (il quale non si concepisce se non mediante la compresenza di più cose davanti alla mente, e però un certo confronto che le distingue tra loro e non le lasci confondere) (1), non si può intendere se non nell' uno e per l' uno. Ora, poichè fu dimostrato anche che l' uno è identico e diverso da ciò che non è uno, e che ciò che non è uno è del pari identico e diverso da ciò che è uno, sèguita che, se l' uno si considera in quanto è identico al non uno, e il non uno in quanto è diverso dall' uno, non si rassomigliano punto (2); e lo stesso si conchiude, se si considera il non uno in quant' è identico, e l' uno in quant' è diverso (3). Sotto queste considerazioni l' uno e l' altro sono dunque dissimili. E avendo dimostrato prima che l' uno, anche rispetto a sè, è identico e diverso, risulta ch' egli è simile e dissimile rispetto a sè, poichè quelle due proprietà sono contrarie, e però in quanto si paragonano quelle due proprietà si trova dissimile, ma se si considera che l' una è contraria all' altra, si trova simile a se stesso, perchè come identico è diverso dal diverso, e come diverso è diverso dall' identico: dunque ciascuna si paragona all' altra con una idea riflessa superiore che rende simili quelle due proprietà contrarie, appunto per questo che l' una e l' altra ha la forma della contrarietà alla sua opposta. Un' altra proprietà dell' uno essente, che s' inferisce dalle precedenti, si è, che l' uno tocca e non tocca se stesso, tocca e non tocca l' altre cose, ed è una ottava Antinomìa. E anche qui, come abbiamo detto d' altri vocaboli tratti dalle cose corporee, non si deve menomamente pensare che si parli d' un toccamento materiale; ma con questa parola non vuole indicare il filosofo se non la prossimità e l' aderenza d' un uno essente a se stesso e a ciò che non è uno. E dice, che sotto un aspetto e preso in un significato, l' uno essente è aderente all' uno essente, e a ciò che non è l' uno essente, il non uno, il più; e sotto un altro aspetto e in un altro significato, non è aderente. Il che, ragionando dalle cose dette deduce così. Si è veduto, che l' uno preso per tutte le parti è nell' uno preso sotto il concetto di tutto che le raccoglie. Se dunque l' uno preso nel primo senso è nell' uno preso nel secondo, l' uno dunque tocca l' uno, è aderente a se stesso; e lo stesso dicasi se per uno si prenda ciascuna parte, che, come vedemmo, deve partecipare dell' uno. Ma se l' uno in tal modo considerato è in se stesso e tocca se stesso, egli non tocca l' altre cose, appunto perchè si considera come essente in se stesso e non nell' altre cose. Ma abbiamo anche veduto che l' uno sotto l' aspetto di tutto è in altro ( «en hetero») (1): in quanto dunque l' uno è in altro o negli altri, intanto tocca gli altri, loro aderisce. Se quest' altro si deve intendere, come l' abbiamo noi inteso prima, la stessa mente divina, risulta da tutta questa dottrina che gli uni enti reali, sarebbero e toccherebbero l' uno supremo, Dio; e non viceversa. Così la specie non tocca l' ente reale; e questo spiega come le specie si dicono da Platone separate, benchè l' ente reale tocchi la specie di cui è informato e in cui è come in se stesso; e così pure Iddio non tocca la specie, ma la specie tocca Iddio, perchè essa è in lui, come in un altro, essente. Ma quando si dice l' uno e l' altro , quest' altro è relativo all' uno emanato da Dio come elemento ( «peras»), e però s' applica non solo a Dio da cui è emanato, ma anche alla materia ideale o reale ( «apeiron»). Questa, considerata recisa dall' unità ( «dyas»), non partecipa menomamente dell' uno, e però nè pure del numero; e però, fino che si considera in questo stato, non tocca l' uno, nè è da lui toccata, perchè non è ancora da lui informata: e quand' anco la materia si considerasse come uno, rimanendo quest' uno solo, e non potendosi distinguere in essa il due o altro numero definito, non ci sarebbe tatto, perchè questo non ci può essere se non tra due o più cose, tra le quali i toccamenti possibili sono tanti, quante le cose stesse, meno uno: di che apparisce di nuovo che l' uno rimane escluso dal toccamento. Dunque in questo senso nè l' uno tocca l' altre cose, nè l' altre cose toccano l' uno (1). Un' altra proprietà, e una nona Antinomìa dell' uno , conseguente alle trovate fin qui, si è, ch' egli, sotto diversi aspetti, è maggiore, minore ed uguale a se stesso e all' altre cose. La chiave di questa nona Antinomìa si è, che una proprietà può essere assoluta o relativa alla sua contraria. Ora la grandezza e la piccolezza sono proprietà relative, e non c' è una grandezza o una piccolezza assoluta, e perciò l' uno per sè è privo di grandezza e di piccolezza [...OMISSIS...] . Quindi è facile dimostrare, che l' uno e l' altro non possono essere maggiori e minori assolutamente, cioè per le loro proprie essenze [...OMISSIS...] : e in quanto manca loro una piccolezza e una grandezza assoluta, in tanto l' uno può dirsi uguale a se stesso e all' altre cose, cioè nè piccolo, nè grande, non maggiore, nè minore. Ma se si prende la grandezza e la piccolezza per qualità relative, quali sono, in tal caso si può dimandare se nell' uno e nell' altro ci sieno anche, oltre i concetti trovati fin qui, il concetto di questa relazione di grande e di piccolo, di maggiore e di minore. Ora questi concetti appunto ci si trovano. Poichè abbiamo veduto, che tutte le parti insieme sono l' uno (uno materiale), e che quest' uno è contenuto nell' uno come tutto (uno formale). Ora il contenente si concepisce come maggiore del contenuto, e quindi la forma maggiore della realità. Ma anche l' uno come tutto è in un altro (in Dio, Uno supremo) (3). In quanto dunque l' uno tutto è contenuto in quest' altro, egli è minore dell' altro. L' analisi dunque dell' uno dà, ch' egli, secondo diversi aspetti, sia maggiore e minore di se stesso e dell' altro, e sia anche uguale a se stesso ed all' altro. Veduto questo circa la relazione di quantità in generale, Platone applica la dottrina alla quantità discreta, e dice, che se l' uno è uguale, e maggiore, e minore di se stesso e dell' altre cose; dunque deve essere anche più e meno di numero, poichè l' eguale ha un egual numero di misure e di parti, e il maggiore ne ha più, il minore ne ha meno. Dal numero passa al tempo , e dimostra la decima Antinomìa speciale, che cioè l' uno: 1 è più vecchio e più giovane di se stesso, e non è nè più vecchio nè più giovane; 2 è più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non è tale; 3 diventa più vecchio e più giovane di se stesso, e non diventa tale; 4 diventa più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non diventa tale. Se l' uno è, come vedemmo, gli compete l' essere ( «einai»). Ma essere non è altro che partecipare dell' essenza col tempo presente (1), come pure lo stesso era ( «to en»), e lo stesso sarà ( «to estai») è partecipazione dell' essenza. Ma il tempo fluisce: dunque l' uno essente diventa sempre più vecchio di se stesso, cioè di quel che era. Ma il più vecchio è relativo al più giovane. L' uno essente dunque diventa più vecchio di se stesso, diventando più giovane. Ma l' uno ente che dal passato viene e tocca il presente, in questo momento in cui è presente non diventa già più vecchio e più giovane di se stesso, ma è già tale. Dunque non solo l' uno ente diventa più vecchio e più giovane di se stesso, ma anche è . Ma il presente sta sempre coll' uno, perchè, per quanto questi trascorra, sempre è presente. Dunque sempre e si fa ed è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma se poi si considera, che tutto il tempo non ha una durata, nè maggiore, nè minore di quella dell' uno, si vede che l' uno non si fa, e non è, nè più vecchio, nè più giovane di se stesso, perchè ha tant' età appunto, quant' è quella di tutto il tempo, nè più, nè meno. Quest' Antinomìa ha per fondamento l' uno essente considerato nella sua identità , e nelle sue modificazioni . Poichè, in quant' è semplicemente identico, egli ha una durata unica e indivisibile, e però non gli si può applicare una misura d' età. Ma in quanto si modifica, egli identico con una modificazione è anteriore o posteriore, più vecchio o più giovane di se stesso identico, ma con un' altra modificazione. Per ciò che riguarda gli altri, avverte Platone, che qui si parla di altri in plurale, e non di altro in singolare [...OMISSIS...] : il che ben dimostra ch' egli distingueva tra «heteron» e «hetera» (benchè poi non mantenesse sempre questa proprietà di parlare); il che conferma l' opinione da noi più sopra annunziata, che egli distinguesse due altri , quello in cui era contenuto l' uno come tutto, l' idea o forma di tutte le parti, ed era Dio come altro dall' uno emanato; e quello che era contenuto da quest' ultimo, ed erano le parti insieme prese. L' altro dunque preso come le parti insieme, ossia gli altri, dice, sono più che non sia l' uno. Ora in una pluralità il minor numero è anteriore al maggiore, e l' uno è anteriore e perciò più vecchio di tutta la serie: dunque l' uno è più vecchio (almeno secondo la priorità logica) dell' altre cose. Onde conchiude: [...OMISSIS...] : dove si vede che parla dell' « uno indefinito », cioè dell' uno che ha nel suo seno la materia non ancora vestita di numeri ossia di specie, il qual pure lo considera come principio de' numeri di quest' uno uscito il primo nella formazione dell' universo (almeno secondo l' ordine logico) dal seno di Dio: [...OMISSIS...] . Ma se invece di quest' uno materiale, si considera l' uno come tutto, cioè come forma del precedente, l' uno è posteriore all' altre cose, perchè il tutto non c' è, fino che tutte l' altre cose, sino all' ultima, non ci sieno, e però l' altre cose sono anteriori e più vecchie dell' uno, e l' uno più giovane. Ma anche ciascuna parte è una: dunque l' uno nasce ed è coevo alle parti, e perciò, secondo questo aspetto [...OMISSIS...] non è nè più vecchio, nè più giovane dell' altre cose. Dopo avere per questo modo provato che l' uno è più giovane, e più vecchio, e d' uguale età dell' altre cose, passa di più a provare che egli può e non può diventare più giovane e più vecchio delle altre cose. Prova che l' altre cose non possono diventare nè più vecchie, nè più giovani dell' uno di quel che sono (2), osservando che se a cose disuguali s' aggiunge cose uguali, rimangono disuguali come prima, e però passando un egual tempo per le cose e per l' uno, la differenza aritmetica dell' età loro rimane la stessa. Ma se si considera la proporzione geometrica , quando a due tempi disuguali s' aggiugne uno spazio di tempo uguale diminuisce, la ragione nella quale sono differenti; e però pare che si diminuisca l' antichità dell' uno, e rispettivamente la gioventù dell' altro, onde quel che era più giovane comparativamente al più vecchio diventa più vecchio, e quel che era più vecchio comparativamente al più giovane diventa più giovane (1). E poichè l' uno e i molti sono reciprocamente più vecchi, ed anche più giovani, lo stesso discorso vale in entrambi i casi. Ma in quanto sono uguali d' età rimangono uguali coll' aggiungersi una ugual porzione di tempo, sia che si consideri la ragione aritmetica, ossia la ragione geometrica. Avendo dunque detto che il tempo è una proprietà dell' essenza, cioè dell' essere partecipato dall' uno, e che perciò l' uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso e dell' altre cose, conchiude che l' uno, se è, cioè se ha l' essenza, è partecipe del passato, del presente e del futuro, che era, ed è, e sarà, e diventava, e diventa, e diventerà. Il che fa sì che a lui e di lui possa essere qualche cosa; e che anche questo sia stato, e sia, e sia per essere. E ciò che c' è di lui è la scienza, e l' opinione, e il senso: a lui poi è il nome e il discorso , poichè lo si nomina e se ne discorre. Dove si vede che Platone mette per condizione della scienza, e dell' opinione, e del senso, e dei nomi o segni, e del discorso, il tempo come inerente all' essere. Il che ben dimostra, onde Platone traesse la ragione, o la condizione dei predicabili e dei predicamenti, e di tutto il sapere di predicazione: questa condizione e ragione è per lui il tempo; e però un tal conoscere appartiene alle cose temporanee, e non alle sempiterne, di cui è proprio il sapere per intuizione o il sapere per sè. Poichè, se non ci fosse tempo, cioè il rapporto tra l' identità e la mutazione «( Psicol. , 1139 7 1171) », il conoscere umano non potrebbe essere discorsivo, com' egli è; e non si potrebbe predicare dell' ente cos' alcuna, o cos' alcuna attribuire all' ente; non si potrebbe dunque avere la scienza umana, che in quant' è riflessa e filosofica (la quale propriamente si chiama scienza, «episteme») esige le definizioni; e molto meno si potrebbe opinare; nè il principio sensitivo avere più sensazioni, e immutazioni; e di conseguente non ci sarebbero i nomi e la lingua. Convien dunque dire che, secondo Platone, i predicabili e i predicamenti appartengano al Mondo che ha presente, passato e futuro: all' ente in quanto, ritenendo qualche cosa d' identico, subisce successive mutazioni; e non all' ente in quant' è immutabile e sempiterno. Il che quanto sia vero apparisce dalla Teoria delle Categorie che noi daremo in appresso, dove vedremo che i generi degli enti non possono abbracciar tutto l' ente, ma nel solo ente limitato si trovano. Se noi dunque vogliamo distribuire in una tavola sinottica tutti questi elementi trovati da Platone, coll' analisi nell' uno essente, avremo la seguente distribuzione: Uno essente 1 Uno Essenza, contenente una pluralità indefinita, il grande e il piccolo. 2 Dispari Pari. 3 Parte Tutto. 4 Determinato Indeterminato. 5 In sè In altro. 6 Stante Moventesi. 7 Medesimo Diverso, rispetto a sè e rispetto all' altre cose. . Simile Dissimile, a se stesso e all' altre cose. 9 Toccante Non toccante, se stesso e l' altre cose. 10 Maggiore Minore ed Uguale, a se stesso e all' altre cose: a ) di grandezza, b ) di numero, c ) di età (tempo) (1). Tutte queste cose pertanto distinse Platone dialetticamente analizzando l' uno essente , ma vago e informativo: onde prende ora l' una condizione ora l' altra, anche opposta, secondo la materia che informa: le quali cose si possono considerare come elementi dell' ente, non elementi puramente materiali, ma elementi o costitutivi in un senso estesissimo. Ma sono essi anche generi? E se sono generi degli enti , come sono anche elementi dell' ente? Platone non dubita di chiamarli generi (1) di enti, perchè per ente intende tutto ciò che è, tutto ciò che mostra in sè d' avere una qualche potenza anche minima di patire e d' agire (2). Onde ogni atto o potenza in questo senso è considerato come ente, cioè come essente, benchè non sia un ente compiuto, che stia e si concepisca stare da sè. In questo senso dunque gli elementi sono generi di enti, noi diremmo d' entità. Si comprende dunque, secondo questa maniera di parlare degli antichi, che pigliavano «on» come participio, non solo ciò che esprime il nome sostantivo di ente , ma ciò che la mente anche per via d' astrazione considera a parte del resto, a ragion d' esempio l' accidente (enti mentali), e gli dà un nome suo proprio. Onde per provare che tali cose sono enti, cioè entità, Platone ricorre appunto ai nomi, e dice: [...OMISSIS...] . Di che deduce che tali enti o essenti hanno una comunicazione tra loro, perchè molti si predicano d' un solo; ma questa comunione [...OMISSIS...] è regolata di modo che nè tutti gli enti sono divisi l' uno dall' altro, nè tutti si comunicano alla rinfusa con tutti gli altri (due sistemi filosofici che combatte Platone), ma alcuni si congiungono ed altri no, onde è necessaria un' arte a distinguere quali sì, e quali no. Avendo dunque Platone definito l' ente dall' attività, di maniera che sia tutto ciò che ha attività anche minima [...OMISSIS...] , ne viene che sia proprio dell' ente il moto nel senso estesissimo (l' azione). Ma se fosse tutto moto non sarebbe, onde secondo qualche rispetto, deve convenirgli anche la quiete . Quindi due generi di enti, che si affanno e congiungono all' ente preso secondo il puro concetto di ente, il moto e la quiete. Ma il moto esclude la quiete: dunque questi due generi non comunicano insieme. Se non comunicano, l' uno è identico a se stesso e diverso dall' altro; e se convengono entrambi all' ente, dunque gli conviene anche l' identità e l' alterità, due altri generi. Qui dunque si distinguono cinque generi: l' ente, il moto, la quiete, l' identità e l' alterità, i quali da Plotino (2) e da altri Platonici (3) sono considerati come le cinque Categorie di Platone. Queste però non sono che la sesta e la settima coppia di quelle che enumera nel « Parmenide » (4), quantunque da queste, se rettamente si considera, si possono dedurre tutte le altre: chè già si vede che il moto, cioè l' azione, è necessario di porsi a principio se dall' ente uno si vuol dedurre, coll' operazione della mente, i suoi elementi, giacchè questo stesso d' aver la potenza di distinguersi colla mente dall' ente si concepisce come una cotale loro attività o movimento. Così si moltiplica l' essenza e ne viene il numero, da cui tutto il resto. Platone dunque, distinti nel « Sofista » questi che chiama cinque generi, prova che non possono unirsi a caso tutti con tutti; chè i contraddittorŒ, come il moto e la quiete, l' identità e la diversità, ricusano ogni congiunzione. Ma è ugualmente erroneo il dire che ciascuno si rimanga interamente separato dagli altri; poichè, separato l' ente dagli altri quattro, questi non sono più, e non rimane nè pur il concetto di ente che suppone un' attività e una stabilità, cioè d' esser unito col moto e colla quiete. Oltre di ciò, dice, continuando a confutare questi secondi (i Megarici), che non potrebbe più esserci discorso se non si potesse predicare una cosa d' un' altra; onde, essendo obbligato a far ciò gli avversarŒ, se pur vogliono parlare « « hanno in casa il nemico e l' avversario che dentro si fa sentire » », cioè si contraddicono col pure aprir bocca e pronunciare un giudizio (1). Dove si vede l' origine del concetto di categoria suggerito naturalmente dalla questione de' generi degli enti. Poichè, considerandosi per enti gli elementi che li costituiscono, come fa Platone, e questi riducendosi a generi, conveniva dimandare, se e come questi generi s' uniscano tra di loro: il che era quanto un chiedere « come si possano predicare gli uni degli altri ». Si vede ancora come sull' ali della dialettica egli ascendeva alle dottrine ontologiche (1), nè altre ne può aver l' uomo, se alquanto s' estende il significato di dialettica. Dimostrato dunque con somma sagacità ed evidenza che i cinque concetti sono tutti distinti e l' uno non è l' altro, prova pure che i contraddittorii non hanno comunione insieme, e che però non si possono congiungere il moto e la quiete, l' altro e l' identico; ma che si congiungono quelli che non si contraddicono, onde il moto e la quiete ciascuno partecipa dell' identico e del diverso e tutti quattro partecipano dell' ente, chè altramente non sarebbero nè si potrebbero concepire, e l' ente partecipa di tutti quattro. Poichè distingue tra ciò che è ciascuno, e ciò di cui partecipa: niuno può congiungersi col contrario a ciò che egli è, ma rimanendo ciò che è, può partecipare di ciò che non è lui. Quindi deduce il concetto del non ente: poichè, avendo mostrato che l' ente è un concetto diverso dagli altri quattro del moto, della quiete, dell' identico e del diverso, consegue che questi sieno non ente , cioè entità diverse dall' ente (2). Ma poichè queste quattro cose sono (3), e che se non fossero, non si potrebbero concepire, perciò anche del non ente si predica l' ente. Di che conchiude che [...OMISSIS...] : perchè queste specie che si possano attribuire all' ente, benchè si possano ridurre ad alcuni generi massimi, pure sono innumerevoli. Ma poichè il concetto dell' ente è diverso dagli altri, consegue che quante sono queste cose, altrettante l' ente non sia. E poichè ciascuna dell' altre cose è non ente, l' ente stesso è uno [...OMISSIS...] , e non è l' altre cose numero infinito [...OMISSIS...] . Infatti, spogliato l' ente di tutto ciò che di lui si predica, non rimane più nè attività, nè quiete nel termine dell' atto, nè si può paragonare con se stesso e dirsi identico, nè paragonare co' suoi predicati e dirsi diverso, e però l' unico concetto che rimane è quello dell' uno. E questo concetto dell' uno è quello che prese ad analizzare nel « Parmenide », dimostrando prima che se si lascia così scarno e solitario, non potendosi di lui predicare nè pure l' esistenza, non può stare, non è al tutto (che è la prima delle due fondamentali ipotesi intorno a cui s' aggira la dialettica nel « Parmenide »): se poi si predica di lui l' esistenza (seconda ipotesi) già si considera in relazione con un altro, che è da lui informato o unificato, e che non si concepisce senz' essere unificato, cioè senza che di lui stesso si predichi l' uno, di maniera che l' uno e l' esistenza sono predicati reciproci. Ma, posto ciò, s' ha già l' uno informativo dell' altro; e data questa prima universalissima dualità d' elementi, cercando tutte le passioni che può subire quest' uno informativo senza cessar d' esser tale, se ne traggono tutti que' generi che furono enumerati nel « Parmenide », da' quali innumerevoli altre specie. La dottrina dunque dell' uno e più , ne' due dialoghi del Parmenide e del Sofista, è la medesima. Ma, mentre in quello introducendo a parlare Parmenide stesso vuol dimostrare che dagli stessi principii conceduti dall' Eleate, a filo di logica, si può cavare, contro di lui, che l' uno e l' ente non è il medesimo, e che da questa prima dualità d' elementi procede una pluralità senza limite; nel « Sofista » dichiara espressamente di confutare l' errore di Parmenide, il quale, avendo posto esclusivamente il pensiero alla natura dell' ente e consideratolo come identico all' uno, non badò alla pluralità, innegabile anch' essa perchè contenuta nel seno dell' ente uno. E il primo passo è appunto questo, di dimostrare, che l' uno e l' ente sono due concetti diversi, benchè indissolubilmente legati insieme. Se sono due, l' uno non è l' altro reciprocamente. Se l' uno non è l ente, dunque l' ente è non uno, materia. Se l' uno non è l' ente, dunque l' uno è non ente come forma. Ma, quantunque il fondo della dottrina e l' argomentazione dialettica sia la medesima ne' due dialoghi, tuttavia in questo differiscono: che nel « Parmenide », come conveniva al principale interlocutore, comincia dall' uno puro e ne presenta le passioni; nel « Sofista » comincia dall' ente informato dall' uno (1), e dice che, se si spoglia l' ente di tutti i suoi predicati, rimane il puro uno , quello della prima ipotesi del Parmenide; se poi si considera co' suoi predicati, se ne trovano prima quattro massimi che sono l' attività, la quiete, l' identità, e la diversità. Ciascuno de' quali dà un concetto diverso dall' ente uno, onde sono non ente. Il non ente dunque del Parmenide e quello del Sofista, benchè ricevano la stessa definizione generica, cioè « ciò che non è ente », cangia alquanto di specie: perchè nel « Parmenide » talora il non ente è « tutto ciò che non è ente »anche l' uno; quando nel « Sofista » il non ente è « ciò che non è ente uno », come sono i quattro « predicati massimi, ne' quali non c' entra il predicato dell' uno, perchè rimane unito all' ente contrapposto a que' predicati »(1). Dimostra dunque nel « Sofista » contro « Parmenide » che l' ente uno non esclude la pluralità, cioè l' altro , ossia il non ente. Poichè, dice l' Ospite d' Elea, che ci tiene le prime parti [...OMISSIS...] . E dopo avere illustrata questa tesi con esempi, mostrando che ciò che si dice « non bello », « non grande », « non giusto », non è già nulla, ma bensì tutto quello che è diverso dal bello, dal grande, dal giusto; e così parimente il « non ente », non è nulla, ma tutto ciò che non è il concetto stesso dell' ente: e però che anche il non ente, è in qualche modo, ed è l' essenza dello stesso ente [...OMISSIS...] , ed ha una sua ferma natura [...OMISSIS...] ; dopo tutto ciò, dico, l' Ospite d' Elea soggiunge: [...OMISSIS...] . E Teeteto mostra di non essersene accorto, perchè s' era partito dall' ente uno di Parmenide, e per illazioni d' una logica irrepugnabile s' era pervenuto al non ente, negato da Parmenide, di cui l' Ospite Eleate reca i versi. Quello adunque che aggiunse Platone alla filosofia d' Elea è il non ente e le specie del non ente, come dichiara in appresso (1). Laonde un uno qualunque si può predicare che è, e si può predicare dell' altre cose. In quanto si predica che è, dicesi ente: e quest' è l' ente del Sofista, che risponde alla sostanza o al supposito d' Aristotele. Ma l' altre cose che si predicano di quest' uno ente, paragonate all' ente che s' è già predicato, è non ente, e questo non ente del Sofista risponde all' altre nove categorie aristoteliche che si dicono abbracciare gli accidenti (2). Dalla dialettica dunque, cioè dal considerare come nell' umano discorso si predicano alcune idee di altre, ma non tutte di tutte, e alcune si negano di alcune altre, pervenne Platone a stabilire che il concetto dell' ente, quantunque non potesse sussistere da se solo ma avea bisogno d' altri concetti che lo determinassero, tuttavia si distingueva colla mente dagli altri concetti, e questi non erano lui, onde si potevano dire non enti, in opposizione al concetto puro dell' ente; poichè il dire che sono altri concetti diversi da quello dell' ente, e il dire che sono non enti, è il medesimo. E a quell' analisi Platone pervenne spinto dal bisogno di confutare i sofisti (onde da essi intitolò il dialogo), i quali argomentavano: « Il non ente è nulla e però non si può esprimere con alcuna locuzione: dunque tuttociò che si dice è: si dice sempre il vero, e qualunque discorso si faccia intorno a qualunque cosa non può esser mai falso ». Fu dunque obbligato Platone a investigare la natura del non ente, e mostrare che non era nulla, e si potea pronunciare, e distinguere dall' ente. Ogni qualvolta dunque il discorso dice ente a quello che è, non ente , o viceversa, è fallace e mentitore. Così la sofistica fu recisa fino dalla sua più profonda radice. Ma noi dicevamo che questa investigazione dialettica condusse Platone all' Ontologia, e aggiungiamo ora in più modi. Primo perchè l' Ontologia trattando dell' essere in tutta la sua ampiezza, conviene che lo consideri anche nelle sue relazioni colla mente; ed essendo noi uomini quegli che speculiamo intorno agli enti, anche colla nostra mente umana. Secondo, perchè le idee, essendo sole quelle che somministrano il concetto dell' immutabilità e della eternità dell' essere, sono il fonte della dottrina intorno alla natura di questo: onde avviene che, conosciuta questa stabilità e necessità che nell' essere ideale si riconosce, anche la dialettica, ossia il ragionamento che vi ci ha condotti, trova nell' essere stesso per sè considerato la sua fermezza e immobile consistenza: il che non manca mai di far notare Platone, come là dove, distinto il mondo intelligibile dal reale che lo realizza quasi sua materia, deduce da quello il ragionamento necessario e apodittico, e da questo l' opinione , ossia l' elemento mutabile e materiale del ragionamento medesimo (1); [...OMISSIS...] : come sta l' essere ideale al reale, così sta il discorso assolutamente vero, che si fonda su quella, al discorso opinativo o verisimile, esprimente la persuasione che s' acquista colle percezioni sensibili di questo. In terzo luogo, già vedemmo che l' analisi dialettica dell' uno conduce al concetto di tutto, sia reale sia ideale; e questo alla mente divina, in cui solo può consistere simultaneamente in quella grande unità che gli è necessaria. In quarto luogo finalmente osservammo, che, se in vece di prendere a subietto del lavoro dialettico l' uno segregato da tutto il resto o l' uno informativo di tutto il resto, si prende l' uno anteriore a tutti gli altri contenente tutto da cui tutti gli altri uni procedono, altro non si fa colla dialettica stessa che considerare quello che a Dio convenga e che non gli convenga. Onde, trapassata la stessa Ontologia, siamo pervenuti alla Teosofia. Al che appunto s' appresero i neoplatonici (1). Plotino, che per acutezza e originalità va ad essi anteposto, considera i cinque generi, enumerati da Platone nel « Sofista » e altrove (2), come i sommi; e vuole che siano ad un tempo elementi e generi del mondo intelligibile (1), ma sotto un diverso aspetto: elementi dell' ente, in quanto si trovano e distinguono dall' intelligenza in ogni ente; generi , in quanto si considerano, ognuno da sè, come aventi delle specie subordinate. Il che per intendere come sia, dobbiamo prendere il discorso più da lungi, ed esporre come Plotino escluda, dal novero de' sommi generi, tutti quelli che Aristotele ed altri posero come tali. Egli dunque domanda in prima, se l' uno forse non si potesse computare tra' sommi generi: e lo esclude, percorrendo i suoi significati (2). Il primo significato da Plotino indicato è quello dell' uno puro [...OMISSIS...] , a cui nulla s' aggiunga, nè anima, nè intelletto, nè altro (e quest' è l' uno della prima ipotesi del Parmenide): esso non può esser predicato di nulla, e però non è una qualità generica, un genere. Il secondo significato è l' uno aderente all' ente, «to hen on», l' uno della seconda ipotesi del Parmenide. Ora questo già non è più lo stesso uno logicamente primo [...OMISSIS...] . Di poi l' uno, sia aderente all' ente o no, se si considera nel suo concetto di uno, non può esser genere, perchè il genere riceve in sè differenze, e con esse produce le specie nelle quali egli rimane, perchè rimane nelle specie la qualità generica; all' incontro se l' uno ammettesse differenze, si distruggerebbe, perchè, cessando d' esser uno, diverrebbe molti. I contraddittorii , come dimostrò Platone nel « Sofista », non si possono unire, ma solo i diversi . Ora al puro uno, il due e qualunque pluralità è contraddittoria (3). Il terzo significato dell' uno è che valga il medesimo che ente , nel qual caso, poichè si considera l' ente tra i cinque generi, così anche l' uno. Ma, risponde Plotino, che con ciò non s' avrebbe aggiunto all' ente che un nome di più, e non sarebbe mai l' uno primo e puro, l' uno come semplicemente uno, o l' uno distinto dall' ente coll' intelligenza. Ma non si potrebbe considerare come primo uno quello coll' ente, come ente dicesi da prima quello che è congiunto coll' uno, benchè ci sia un concetto anteriore, quello dell' uno? - Ciò che è superiore all' ente, risponde, non è a dirsi ente; laddove quell' uno che è anteriore all' uno ente, non può dirsi che uno. Onde questo è da prima uno. - Nella quale risposta si vede, che la parola ente è presa nel significato, in cui si prende nel « Sofista », dove si considera l' ente come un genere opposto all' altro genere del non ente (che abbraccia nel suo seno i quattro generi minori), cioè è presa come l' ente diviso colla mente dai suoi termini e dalle sue attribuzioni, e ritenuto il solo preciso concetto d' essente. Poichè, in questo significato di «usia» indefinita qual materia ideale, si può benissimo concepire che ei abbia un concetto anteriore, in via d' astrazione, all' ente, qual è quello dell' uno, appunto perchè concetto più astratto «( Ideol. , 575 7 5.1) » e formale dell' essente o dell' esistenza. Ma l' essere, come atto e non come materia , è anteriore a tutto, ed è forma d' ogni concetto dell' uno stesso: il che non considerarono bastevolmente i Platonici. Stabilisce di poi Plotino il principio, che « « non tutto quello che è comune in molti è genere » » [...OMISSIS...] , ma può esser principio o elemento e non genere; ma solo quello è genere che riceve in sè differenze e ha specie, e si predica delle specie come loro quiddità comune. [...OMISSIS...] L' uno dunque non si predica come quiddità d' alcuna specie, benchè inesista in ciascuna specie e in ciascun individuo, e non produce di sè nè ammette in sè le loro differenze. Un' altra proprietà del genere si è che egli sia ugualmente in tutte le specie. L' uno all' incontro, che s' attribuisce a tutte le cose, non è ugualmente in esse, ma più e meno: dunque non ha la proprietà de' generi. Vero è, che anche l' ente è più e meno, ma l' uno è partecipato variamente anche da quelle cose che sono ente ugualmente (2). Così l' esercito e la casa sono enti ugualmente, dice Plotino, e pure questa ha più unità di quello. Osserva poi, che « « ogni cosa non ha sola la tendenza ad essere, ma ad essere col bene » », ed è tanto più col bene, quanto più ha d' unità: e questo non meno nella natura che nell' arte. Onde conchiude che, tendendo tutte le cose all' uno e a imitare quello che è il medesimo [...OMISSIS...] , tendono al bene, è che l' uno è il bene (3). Cominciando dunque tutte le cose dall' uno, e in esso tendendo come in loro bene (4), l' uno è principio e fine de' generi, ma niuno di essi. Del rimanente qui e da per tutto Plotino confonde manifestamente l' uno, che è un carattere astratto del bene, col bene stesso: e non s' accorge che l' uno puro, senz' esser altro che uno, lungi d' essere il sommo bene è un vòto concetto; come accadde a' moderni, i quali spogliato il pensare d' ogni suo oggetto, credettero d' aver trovato il sommo pensiero «( Ideol. p. 1426 7 2.) ». Nondimeno nell' aver Plotino escluso il bene da' sommi generi, travide una verità. Poichè veramente il bene appartiene alla terza delle supreme forme dell' essere, come vedremo, ed eccede tutti i generi. Escluso dunque l' uno e il bene da' sommi generi, Plotino toglie a dimostrare che nè pure la quantità , la qualità e la relazione si devono computare tra essi. Non la quantità, perchè la prima quantità è il numero , venendo da questo tutte l' altre, e il numero è posteriore logicamente a' cinque generi. Poichè il moto, lo stato, l' identità e la diversità, sono insieme coll' ente come suoi elementi intrinseci, non come accidenti che a lui sopravvengono e lo qualifichino, o lo compiano; ma l' ente non è senza essi, costituendo essi l' ordine intrinseco di lui [...OMISSIS...] . Poichè il moto è lo stesso atto dell' ente, e lo stato non è già una sua passione, e l' essere identico e diverso non sono proprietà posteriori all' ente, perchè l' ente non divenne molti, ma era molti pur coll' esser ente, ond' avea identità e diversità. All' incontro il numero, e ogn' altra quantità che dal numero deriva, e la qualità e la relazione non entrano a costituir l' ente, ma sono posteriori e accidentali al medesimo. Nel che sembra esserci una contraddizione, perchè, se l' uno ente è per sè molti, come non ci sarà il numero? Laonde Platone nella stessa essenza ( «to on») pone latente un numero indefinito. Ma Plotino considera il numero attuale in tutta la sua estensione, onde dice che [...OMISSIS...] . Fa dunque derivare il numero dal moto , come l' unità numerica dallo stato dell' ente; e ne ripone l' essenza in una certa mistione di moto e di stato [...OMISSIS...] . Il che però ci sembra implicato di molti equivoci. Poichè se l' ente è un primo genere; il moto, ossia l' atto, il secondo; lo stato il terzo; l' identità e la diversità il quarto e il quinto: se qui non ci sono tutti i numeri, c' è però fino al numero cinque; e così ci sono abbondantemente gli elementi di tutti gli altri numeri, come anco dimostra Platone nel « Parmenide ». Deve dunque intendersi, ciò che Plotino dice della posteriorità del numero, della proprietà che ha il numero d' accrescersi sempre alla nostra ragione successiva e computatrice; e non d' un numero speciale che è inerente ai sommi generi ed elementi dell' ente. Di poi esclude da' sommi generi la relazione , perchè è posteriore ai termini tra cui passa la relazione: e così pure il dove che importa composizione d' una cosa in un' altra; mentre, dic' egli, [...OMISSIS...] : e perciò esclude il luogo, e il tempo. Il fare poi e il patire sono specie di moto , e così l' avere e l' atteggiarsi inchiudono una duplicità o triplicità, e però non sono primi generi. Ma sarebbe difficile il dire come l' alterità non involga una relazione, se non si restringa il significato di relazione (5). Esclude da' sommi generi di poi la bellezza, distinguendo quattro significati. Poichè, o s' intende la prima bellezza [...OMISSIS...] , e in tal caso è lo stesso uno e lo stesso bene. O s' intende quel bello che rifulge nelle idee, e questo, non essendo in tutte uguale, non può costituire un genere, oltrecchè è posteriore all' ente. O per bello s' intende la stessa essenza , e in tal caso è già computato in questa che è il primo genere (l' ente). O s' intende il bello che affetta noi che lo contempliamo, e in tal caso è movimento e in questo genere contenuto. Riduce pure la scienza al genere del moto; e dice potersi ella ridurre anche a quello dello stato , o ad entrambi: nel qual caso, essendo un misto di due generi, è posteriore. Esclude ancora la mente ( «nus») da' generi, come quella che è lo stesso ente da tutti i generi composta [...OMISSIS...] . E qui si vede come Plotino vuole, che i cinque generi del mondo intelligibile sieno elementi. Sono, dice, elementi della mente, e d' ogni mente [...OMISSIS...] , poichè questa è l' ente intelligente che unisce in sè gli altri quattro generi [...OMISSIS...] . Ma come da questi sommi generi provengono le specie? le specie, dico, dell' ente, del moto, dello stato dell' identità e della diversità? Plotino si sforza di rispondere a questo nel modo seguente. Primieramente, dice, come la scienza è una, e tuttavia ci sono molte scienze, che sono specie e parti di quella; così v' è una mente di cui l' altre sono specie e parti. La scienza una ha in potenza tutte le altre, ed è in potenza tutte le altre [...OMISSIS...] . Così, se facciamo astrazione da tutti gli oggetti speciali della mente, noi avvisiamo al concetto di una mente generica (1), che non ha niun oggetto speciale, ma che gli ha tutti potenzialmente. E` il pensare come pensare del Bardili «( Ideol. 1420 e nota) ». Questa mente non è nessuna mente particolare [...OMISSIS...] . Ma, come le scienze particolari sono qualche cosa in atto proprio della scienza una ed universale, e questa oltrediciò è tutta in potenza; così l' altre menti, che hanno oggetti generici o speciali, sono altrettanti atti della mente una in potenza; poichè, quando questa esce a' suoi atti, diviene quelle senza cessare d' essere ciò che era prima. L' ente dunque è la mente: e, avendo egli il movimento che è il secondo genere, mediante questo produce le specie. Fino dunque che l' ente mente è in potenza, è mente universale, superiore alle menti speciali che si generano per l' atto di quella. [...OMISSIS...] . Esister dunque in sè la gran mente [...OMISSIS...] , ed esistere in sè le singole menti; ma aver queste un' intima congiunzione e derivazione da quella, che le produce col passare a' suoi atti, cioè determinando i suoi oggetti per la virtù che ha insita del movimento. Quindi quella è la causa di queste. Le difficoltà di questo sistema sono manifestamente due: 1 Che quella che si chiama la gran mente e si fa causa dell' altre, essendo generica e in potenza, è più imperfetta d' una mente, che, poste l' altre cose uguali [...OMISSIS...] , fosse in atto; 2 Che non è spiegato come le menti inferiori possano avere un' esistenza a sè, se nascono col solo determinarsi quell' oggetto universale che si dà alla gran mente, dove si suppongono tutte le specie solo virtualmente comprese (1). Viene agli altri generi. Posto che la mente, la quale contiene tutto in potenza, ha il movimento consistente nell' atto del contemplare, ella può passare a tutti gli atti mentali possibili, e così infinite forze si spiegano all' occhio di questa mente: quindi il numero, la stessa infinità e la stessa grandezza [...OMISSIS...] . Questo movimento, che non è il primo essenziale ed elementare all' ente, ma una continuazione posteriore, manifesta già il quale e il quanto come determinazioni che s' aggiungono. Ora in tutti questi atti c' è la quiete e il moto , che così si specificano; ed essendovi il numero e il quanto, ed il quale altresì, c' è di necessità ancora l' identità e la diversità specificata. Dal concorrere in uno poi il quanto e il quale, Plotino fa venire la figura (1), e coll' intervento della diversità , che divide in più il quanto e il quale, le differenti figure e l' altre qualità tutte logicamente posteriori. La mente dunque è l' ente (primo genere) che ha unito a sè gli altri quattro e che abbraccia colla contemplazione tutti gl' intelligibili, tutte le idee, che ne' quattro generi si riducono. Questa è la prima e assoluta mente. Ma osserva Plotino che la mente umana discorre e scopre una cosa dall' altra: quest' è dunque una seconda mente, diversa da quella prima che con un' azione permanente, e senza discorso, ogni cosa abbraccia. Ora è evidente, che « « a quel modo che un acerrimo intendimento ottimamente argomenta, a quel modo appunto sono tutte le cose nelle ragioni antecedenti ad ogni argomentazione »(2) », poichè se così non fossero, non sarebbero vere le cose argomentate. Non si può dunque argomentare, cioè da una verità discoprirne un' altra, se queste verità tutte già non fossero ab eterno prima dell' argomentazione. Di che deduce che la mente umana o la mente ragionante presuppone dinanzi a sè una prima mente, la quale, non discorrendo o argomentando, ha semplicemente tutte le cose presenti, e che da questa la mente deve derivare (3). Ma come proviene questa seconda mente dalla prima? Ecco il gran nodo, il mistero della creazione. Plotino cerca di penetrarlo in questo modo. In quanto la mente, l' ente coi generi, non ha ancora che il primo atto, l' oggetto del quale sono i generi; in tanto è la prima mente (1). Ma in quanto la sua azione, continua e permanente, passa ai generi inferiori e di mano in mano alle specie; quel primo atto si moltiplica, specifica, determina, e dall' esistere nel tutto passa ad esistere nelle parti. Esistere nelle parti forma un altro modo di esistere diverso da quello che consiste nell' esistere nel tutto: e così la mente esistente nelle parti non è più la mente esistente nel tutto, ma è un' altra mente, le menti seconde. Tutte queste menti seconde però sono nella prima: ma, in quanto sono nella prima, concorrono a formarla, in quanto che in essa non avendo l' esistenza propria e separata sono tutte insieme la prima (2). Ma, in quanto sono parti, e come tali aventi un' esistenza propria, non sono la prima, ma altre da quella. Così il primo ente è uno e molti: e allo stesso modo ciascuno dei secondi enti e delle seconde menti (chè sono tra i molti dell' uno primo) è uno e molti. Ma conviene dichiarare in che modo. La prima mente produce le altre coll' azione colla quale determina i generi sommi ad essa essenziali in generi minori e in ispecie. Quella stessa successione dunque, che hanno dialetticamente i generi massimi fino alle ultime più ristrette specie, si vuole che esprima la successiva produzione de' diversi ordini di intelligenze. Questo stesso è il principio da cui si trassero le genealogie degli Eoni de' Gnostici, che sforniti d' ogni vigoroso raziocinio e impostori di professione, ad arbitrio d' una sregolata imaginazione, empirono la filosofia di tanti sogni d' empietà e corruttele. Il qual delirio non potea piacere al forte ingegno del filosofo Licopolitano, che confutò co' suoi scritti alcuni dei loro errori (1). Ma il principio del suo sistema è somigliante: diversa solo la derivazione degli enti dal primo. Poichè, come abbiamo veduto, sopra tutti i generi pone l' uno ( «to hen, to proton»), intorno al quale cade spesso nell' illusione dialettica de' razionalisti, a' quali, osservando essi che aggiungendo all' uno qualche cosa per via di predicazione lo limitano (1), sembra d' aver trovato il sommo, quando coll' astrazione sono giunti a concepire nudamente l' uno; quasi che questa stessa parola potesse indicar altro che il puro vuoto de' concetti, una pura forma mentale senza contenuto. Ma si contraddicono immediatamente appresso, chiamandolo appunto il primo , il sommo , il bene ( «to agathon»), come fa appunto Plotino, quasi che questo non fosse un predicare qualche cosa di quell' Uno, che pure doveva essere puro uno di cui nulla si predicasse (2). Da quest' Uno vien prima la Mente universale; da questa l' Anima universale; da questa le anime speciali; da queste la Natura (il principio animale); da questa la vita che si svolge, o il generato; e prima il Tempo, la Moltitudine, il Luogo ( «o topos»); e infine la Materia, male e caligine. Ma, come dall' Uno viene la Mente universale? Esso non ha nessun' azione, secondo Plotino, il qual teme che dandogli qualche azione già svanirebbe il concetto del puro uno ( «to haplos en») (3), e vi s' introdurrebbe un altro. Quest' uno non può dunque nè fare (4), nè pensare, nè essere (5), chè avrebbe i generi distinti in sè stesso: e il levargli anche l' essere e concepirlo superiore all' essere, è il punto più alto della speculazione (6). Come dunque riesce la mente universale? Plotino risponde per una certa esuberanza , o ridondanza (1), o profluenza [...OMISSIS...] , come il fiume dalla fonte (2), o come la vita, che si espande dal suo principio e quasi dalla radice ai rami d' un grand' albero [...OMISSIS...] , o come un fulgore, una corruscazione [...OMISSIS...] , da per tutto diffusa: similitudini o analogie del tutto insufficienti a dimostrare, come nell' uno non ci sia nè essere, nè azione, e tuttavia produca, e produca cosa che non ha identità con lui. Il fondo del pensiero plotiniano, a cui si riduce pur quello de' neoplatonici, è questo: In ciò che è assolutamente primo, non ci possono essere differenze di sorta, perchè, se ci fossero differenze, quale di esse sarebbe la prima? O questa ci sarebbe, o niuna sarebbe logicamente antecedente all' altra, ma tutte pari. Se una fosse la prima, questa solo sarebbe l' assolutamente primo; se fossero tutte pari, niuna sarebbe la prima: ma nè pure tutte insieme costituirebbero un primo, perchè la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità. Ma l' ente e l' essere (chè questi due si prendono spesso da Plotino come sinonimi), l' azione, la quiete, e gli altri generi, costituiscono altrettante differenze tra loro. L' assolutamente primo dunque dee essere anteriore a queste cose, superiore al bello ( «hyperkalon») e a tutte l' altre cose ottime ( «hyper ton ariston»). Ciò che vi ha d' erroneo in questo ragionamento è la sua base male scelta. Poichè questa base è il principio: « la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità »; principio vero in sè, ma male scelto, come dicevamo, per farlo servire a base d' una ontologia. Poichè l' ordine logico è un ordine parziale e formale, che non abbraccia tutto l' ordine dell' essere. Laonde si sarebbe dovuto provare che ciò che logicamente è anteriore, fosse anteriore anche nel fatto. Ma questo si suppone senza provarlo. Giace dunque il sistema sopra una base ipotetica, e però in aria. Le contraddizioni, in cui cade Plotino e tutto il neoplatonismo, ben dimostrano che la ragione protestava in essi contro il loro sistema. A ragion d' esempio Plotino non può concepir l' ente , senza concepirlo uno e molti [...OMISSIS...] , di maniera che l' unità e la moltiplicità è contemporanea all' ente. Questo lo conduce a dire, che l' uno non è ente, perchè non ha moltiplicità alcuna, ma è superiore all' ente: poi quando parla dell' ente, mostra di dubitarne, sentendo la necessità di definire che cosa intenda per ente [...OMISSIS...] , e di qual ente parli [...OMISSIS...] , mostrando così che l' ente può prendersi in un' estensione maggiore, dalla quale non si può sottrarre nè pure l' uno, se dev' essere qualche cosa. Ora questo scambio, di ciò che è logico per ciò che è ontologico, vizia tutto il sistema di Plotino e di tutti i neoplatonici. L' egizio nostro filosofo, secondo questa maniera di ragionare è obbligato di fare, che la prima mente, la quale esce dal primo uno come un suo splendore, altro non sia che l' ente coll' unione degli altri quattro generi, e di negare che in esso cadano altre differenze che queste cinque. Poichè introducendosi delle differenze in ciascun genere, di modo che se n' abbiano generi minori e specie, già non è più quel desso ma un altro. Per quanto sia sbagliata questa maniera di ragionare dall' ente logico all' ente subiettivo, essa però non ci obbliga di dare a Plotino la taccia di Panteista. Poichè egli viene a distinguere le diverse generazioni di cose con questo ragionamento: Iddio è quell' uno in cui non cadono differenze; Quando dunque nascono in lui per la sua continua attività i generi, questi non sono lui, perchè non ammettono la sua definizione. Del pari: La prima Mente non è che l' ente contemplante i cinque generi, senza che in ciascun genere cadano differenze; Ma tostochè essa mente per la sua attività quasi lampeggia in ciascun genere differenze, di maniera che quei generi si rompono in generi minori e in ispecie, la mente che contempla questi generi minori e queste specie non è più quella di prima, ma un' altra attività che alla prima si continua. Questa seconda mente non è la prima, ma un' altra, perchè a questa non compete la definizione e però nè manco la natura espressa nella definizione della prima. Laonde, non uscendo nulla dal primo Uno, nè dalla prima Mente, senza che ciò che esce tosto non perda l' identità col fonte da cui è uscito (1); procede che ci intervenga una specie di creazione, e che la prima Mente sia essenzialmente diversa dall' Uno primo, e che la seconda Mente, o Anima universale, sia essenzialmente diversa dalla prima Mente. E lo stesso si può argomentare circa le altre emanazioni. Non crediamo dunque che si possa accusare il sistema Plotiniano di Panteismo (2); ma egli è chiaro che non evita questa colpa, senza incorrere in altre non meno gravi. Poichè primieramente le definizioni del primo Uno e della prima Mente, ecc., sono arbitrarie e insufficienti a esprimere la natura divina e l' altre che si vogliono definire. In secondo luogo il Dio di Plotino, detto ugualmente l' Uno, il Primo, il Bene, è un Dio imperfetto, e non si può descriverlo perfetto se non con un sofisma. Il sofisma è questo: « « L' Uno non appetisce nulla, non conosce nulla: dunque è sufficiente a sè stesso: non gli manca cosa alcuna. All' incontro l' altre cose, la Mente, l' Anima ecc., appetiscono l' Uno, cioè il Bene: e però per sè sono deficienti e non sono prime »(1) ». Il vizio della quale argomentazione sta nel doppio concetto che può avere la frase « esser sufficiente a sè stesso »: perchè questa può intendersi d' una sufficienza reale e piena, e in tal caso non è sufficiente a sè stesso se non quello che è tutto sentimento, tutto intelligenza, tutto essere; e può intendersi d' una sufficienza dialettica e vuota di tutto, in quanto un concetto semplicissimo, privo d' ogni attribuzione, come quello del puro uno, non s' intende come possa aver bisogno d' altro, essendosi recise da lui colla mente tutte le relazioni e congiunzioni con ogni altro concetto (2). Per questa stessa ragione il Dio di Plotino è ridotto ad una vanissima ed astrattissima potenzialità: e però egli, negandogli tutto, lo chiama appunto « la potenza di tutte le cose » [...OMISSIS...] , e l' « indefinito » «aoriston» (2), e non senza contraddirsi vuole che unità così vuota sia causa di tutte le cause (3). In terzo luogo la Mente, che è il secondo principio che viene immediatamente dall' Uno, e che è la causa che fa tutte le cose, il Demiurgo del Timeo (4), è anch' essa potenziale e imperfetta, perchè è l' ente co' quattro generi (5), senza alcun altra distinzione, onde non può contenersi in essa che una cognizione generica, per ciò stesso imperfetta. Ma come fa tutte le cose la Mente? Allo stesso modo come l' Uno fa la Mente. Quando la mente è perfetta, cioè pienamente costituita da' cinque generi [...OMISSIS...] , ella continua a contemplare, e contemplando divide i sommi generi in generi minori e in ispecie. Ora questa virtù cogitativa, che procede alla divisione de' generi primi, non è più la mente; perchè la mente, secondo la definizione, è la virtù contemplatrice de' soli generi: dunque è un altro: quest' altro è l' Anima; l' anima universale, i cui oggetti sono tutti i generi minori e le specie distinte (6). E fin qui, dice Plotino, vanno le cose divine (1): a questi tre principii Uno, Mente ed Anima si riducono: perchè l' Anima è costituita dalle specie, onde al pari della mente la chiama specie (2), quando continuando ad operare ed andando quindi colla sua azione fuori di sè, fuori da quello che la costituisce secondo la definizione; esaurite tutte le idee che sono per sè sempiterne: fa che sussista un altro diverso da sè e dalle idee: quest' altro non può esser più idea, ma la stessa realità del mondo mutabile e al rivolgersi del tempo subordinato: perciò non divino. Si deve osservare che l' operante in tutta questa derivazione è sempre l' Uno: il primo atto del quale lo costituisce; il secondo, eccedendo la sua costituzione e natura, non è più lui ma la Mente; il terzo, cioè quello che esce dalla Mente già costituita, non potendo esser la Mente perchè eccede dalla sua costituzione, è l' Anima; il quarto che esce dall' Anima già costituita, eccedendo dalla natura dell' Anima, non è più cosa che appartenga al mondo ideale, ma è il Mondo reale. Quindi tutte queste cose nel sistema di Plotino sono intimamente connesse e congiunte fisicamente come una continuazione di moto , cioè d' azione. Onde parlando della Mente dice che [...OMISSIS...] , quasi dica, che basta il trovarvi che fa il nostro pensiero una diversità qualunque perchè in quest' ordine di cose si debba considerare come un' altra sostanza o ipostasi. E lo stesso dice dell' Anima rispetto alla Mente (2). Il qual pensiero non si può negare che sia acutissimo, perchè trattandosi di nature pure e semplicissime, che non ammettono nulla d' accidentale, se qualche cosa vi s' aggiunge è perita l' identità, e la cosa aggiunta dee costituire un altro subietto diverso dal primo. Ma per ciò stesso rimane l' imperfezione nel primo, che essendo diverso non può essere perfezionato dal secondo: e questo è uno de' fondamentali errori, che vogliam notato nella dottrina di questo filosofo, essendo al tutto insufficienti quelle molte frasi che spesso adopera per schermirsi da questa terribile difficoltà, che da per tutto il persegue. Continuando dunque noi ad esporre questo ingegnosissimo sistema, per quanto la sua incoerenza il permette, facciamo osservare, che da esso risulta che la Mente sia quasi un' imagine o similitudine del primo Uno, e l' Anima un' imagine o similitudine della Mente; poichè nei generi, che costituiscono la Mente, c' è l' Uno; e nelle specie, che costituiscono l' Anima, sono i generi: onde come in uno specchio l' Uno si riflette nella Mente, e la Mente nell' Anima. L' Uno, tosto che fa un atto diverso dall' Uno, non è più uno, ma è la Mente; e questo primo atto, che è la Mente, è la contemplazione de' generi che distingue in sè. Quest' atto dunque, che è nell' Uno, non è l' Uno, ma già è la Mente. La Mente, trovandosi media tra l' Uno e l' Anima, ha come due atti: col primo riceve ed è l' atto con cui essa è, e coll' altro dà; col primo è generata, coll' altro genera, ed è l' atto con cui, contemplando sè stessa ne' generi che la costituiscono, vede i generi inferiori e le specie. Quest' atto, che è nella Mente, non è la Mente, ma l' Anima. L' Anima, trovandosi pure media tra la Mente e la Natura, ha primieramente due atti: costitutivo di sè l' uno, l' altro comunicativo: il primo veniente dalla Mente, il secondo dall' Anima stessa che contemplando sè stessa, cioè le specie tutte, vede in esse la realità (1). Ma quest' atto che viene dall' Anima ed è in essa, non è più essa, ma è la Natura. Oltrediciò continua la potenza nella Mente, già generata, tanto da affissarsi nell' Uno quanto d' affissarsi in sè stessa; ma nè l' uno nè l' altro atto la fa uscire dal divino: e però, benchè l' affissarsi nell' Uno sia quello che la costituisce nella sua eccellenza, pure anche coll' affissarsi in sè stessa non si deteriora. Del pari l' Anima coll' affissarsi nella Mente è costituita nella sua propria eccellenza, ma dopo d' avere, coll' affissarsi in sè stessa, prodotta la Natura sensibile, può in questa immergersi colla contemplazione: nel qual caso, uscendo dal divino, si deteriora. Tutto dunque si genera per via di contemplazione ( «ek theorias»), e non solo le idee, ma le cose stesse naturali sono teoremi ( «theoremata»), cioè contemplati (2); e la Natura reale operando non fa che contemplare le varie forme di cui si veste e in cui si pone. Come dunque dall' Anima esce la Natura reale? L' Anima, il complesso delle specie, il mondo intelligibile ultimato, ha la virtù di contemplare; contemplando opera; operando produce: dopo dunque che l' Anima è costituita, la sua contemplazione di sè non può più produrre specie: sorge dunque un altro da sè, che è la Natura reale. Non sarà disutile intendere il pensiero di Plotino esposto da Marsiglio: [...OMISSIS...] . La prima Anima dunque è separata dalla materia: ma, come l' intende Marsiglio, contemplando sè stessa in quanto è essenza, comparisce la materia , essendo esaurita tutta la distinzione e la serie delle specie; e in quant' è intelligenza, comparisce la forma incorporea , cioè l' Anima vegetale del Mondo, intelligente anche questa: i quali due principii uniti insieme compongono il Mondo temporaneo. Nella materia finisce l' atto della contemplazione: essa è venuta dall' essenza, ma già non è più essenza (non più ente), perchè l' essenza è sempre una specie o idea. All' incontro l' Anima vegetale del Mondo, che è la prima forma della materia, a questa unita, svolge di sè, contemplando ancora, la natura genitale, e questa la natura sensibile, l' una e l' altra delle quali è come una vita evoluta [...OMISSIS...] , e questa produce le forme ultime puramente corporee (3) sempre per uno svolgimento [...OMISSIS...] . L' anima vegetale dunque contemplando opera come vita genitale e sensibile (onde il tempo), e dominando la materia informe (prodotta insieme con essa dall' Anima prima), le dà e rimuta le forme corporee, onde la moltitudine e il moto locale, e gl' individui viventi ed intelligenti, gli uomini, gli animali, le piante. In questi ultimi prevale più la materia che ne' primi. Ma conviene che più particolarmente noi vediamo in che maniera, secondo Plotino, si originino l' anime umane. Stabilisce in prima questo filosofo, che tanto la Mente quanto l' Anima prima, universale, separata, sia ad un tempo una e molte, come provò Platone che l' ente è uno e molti. [...OMISSIS...] Poichè, componendosi la Mente da' cinque generi, e questi trovandosi in tutte le specie in cui si dividono; per partecipazione in tutte queste si moltiplica la mente, come l' essenza del fuoco che si trova in tutti i fuochi grandi e piccoli, secondo la similitudine che Plotino soggiunge (2). Così l' Anima, che è la contemplazione de' generi minori e delle specie, si moltiplica secondo che gli anelli della gerarchia ideale l' uno dagli altri escono, e tuttavia queste molte anime si riducono ad una sol' anima contemplante. L' ultima di queste produce l' Anima vegetale della Natura. Ora qual è l' Anima umana? Plotino, quasi dubitando, dice: [...OMISSIS...] . Quando dunque nel continuo operare delle cause si giunge all' Anima prima, o Mondo intelligibile, e questa contemplando sè stessa produce la materia e l' Anima vegetale svolgentesi nella vita genitale e sensibile; in questa rimane il mondo intelligibile delle specie, come in queste rimane la Mente o i generi, e in quest' ultima l' Uno o il bene. Ma l' anima vegetale operando nella materia genera e s' individua, e la più eccellente di queste generazioni è quella dell' uomo, in cui è l' Anima umana. Di qui il principio dell' Etica Plotiniana, che consiste nel dovere di contemplare praticamente ciò che è migliore e ottimo. Poichè, se l' Anima umana si compone delle parti accennate, non è difficile l' intendere come, in quant' è in essa l' anima separata, si tenga nel mondo intelligibile; e, in quant' è anima vegetale, sia tratta dalla sua propria natura verso il sensibile e materiale. Ora, come il primo moto all' insù la rivolge verso il bene, così il secondo moto all' ingiù verso il male: e secondo che ella è più forte, o più debole, il che dipende dalla generazione, tende al bene, o si abbandona volontariamente alla materia: col qual sistema di cause naturali tutte così incatenate non si vede come si possa, senza incoerenza, salvare la libertà umana (2). S' avvicina Plotino all' errore de' due principii, ossia cade in un errore affine, quando ripone nella materia lo stesso male per sè «tuto to ontos kakon» (1). Errore veniente dal primo: poichè, come Plotino pose qualche cosa al di sopra dell' essere, cioè l' uno, il Bene; così doveva collocare altresì qualche cosa al disotto dell' essere medesimo, la materia, priva d' ogni unità e d' ogni forma, il Male. Di maniera che fece l' Essere medio tra il Bene e il Male, partecipe dell' uno e dell' altro. Ma come questo era un tentativo intemperante d' ingegno di oltrepassare i limiti dell' essere «( Logic. , n. 11.4) », il che accade a tutti i filosofi unitari; così vien meno a tali speculazioni esorbitanti e la possibilità di concepire ciò che vogliono e d' esprimere i loro pretesi concetti in parole. Onde come, quando Plotino parla dell' Uno, è costretto dall' intrinseca necessità di attribuirgli quell' essere, ossia quell' essenza che pure gli toglie; così cade nella medesima incoerenza parlando della materia, di che in fatto non potrebbe parlare, se non le attribuisse qualche essenza o qualche modo d' essere (2). L' anima poi s' infetta e accoglie il male contemplando la materia (1). Ma questo le accade non per quella contemplazione di sè, per la quale la materia si produce, ma per una contemplazione posteriore; chè l' anima è per sè buona, e il male le accade come accidente. Ma onde questa contemplazione posteriore della tenebrosa materia? Dalla debolezza di quell' anima che ha immediatamente generato la materia, come ultima produzione del tutto. Onde poi questa debolezza? Venuta la catena delle cause all' ultimo anello, e all' infimo prodotto la materia; questa non può più produrre cosa alcuna, perchè in essa è esaurita ogni attività produttrice: non potendo dunque più progredire avanti, la materia tenta di tornare indietro, e d' invadere procacemente quell' anima che l' ha prodotta, e per mezzo di questo ritorno abbracciandosi quasi all' Anima, da questa acquista le forme, e ne nascono le potenze vegetali, generative e sensibili. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo Plotino non solo dà l' esistere alla materia, coll' accennata incoerenza, ma anche il conato e l' azione d' introdursi nell' anima, producendo così la generazione , che è il modo col quale l' Anima s' unisce stabilmente alla materia. Quindi, benchè il male venga, secondo Plotino, come ultimo e necessario effetto di quella serie di cause, che incominciano dal Bene, onde non si può dire che ammetta i due principii indipendenti de' Manichei; tuttavia cade in due gravissimi errori: il primo che il male sia qualche cosa di reale, com' è la materia, e che questo reale sia una produzione necessaria e diretta di Dio medesimo. Certo egli suppone, che, col semplice generare la materia, l' Anima non si renda mala; ma ella però genera il suo nemico, il male: che invadendola, e così dando luogo alla generazione, la fa cadere e macchiarsi. Da tutto questo apparisce quali sieno le categorie, secondo Plotino. Egli concepisce le categorie come sommi generi, e nello stesso tempo come principii elementari dell' ente. Al di sopra e al di sotto dell' ente e de' suoi principii categorici, egli pone qualche cosa: cioè al di sopra, il Bene o l' Uno, e al di sotto, il Male o la Materia. Fra questi due estremi, pone due enti medii (1), la Mente e l' Anima; la prima delle quali comunica da una parte immediatamente col Bene, da cui esiste; dall' altra coll' Anima cui produce: la seconda, da una parte comunica immediatamente colla Mente da cui pure esiste; dall' altra col Male, cioè colla Materia, cui produce. I sommi generi o categorie sono nella Mente e la costituiscono; le specie che ne derivano sono nell' Anima e del pari la costituiscono: l' una e l' altra una e molte. I detti generi e ad un tempo principŒ sono cinque: l' ente, il moto, la quiete, la diversità e l' identità, da Platone enumerati già nel Sofista, e altrove. Il difetto delle categorie di Plotino, come pure di tutti i Neoplatonici, si è quello di avere classificato con esse l' ente ideale , e non l' ente in tutta la sua generalità. In fatti i cinque generi da esso enumerati sono generi d' idee e non di cose: essi non possono sussistere in sè gli uni dagli altri separati, onde fu obbligato ad unirli in un ente compiuto, la Mente. Plotino risponde che, in quanto sono uniti insieme e così costituiscono la Mente, sono posteriori, perchè il composto è posteriore al semplice, il più all' uno: e però se si classificano gli enti composti, non si hanno più de' generi sommi, ma de' posteriori. Questo è specioso, ma erroneo, perchè procede dall' errore dell' Unitarismo, che confuteremo dove esporremo la teoria delle categorie e ne' libri ontologici, che verranno appresso. Oltre altri errori indicati nell' esposizione che abbiamo fatta del sistema plotiniano, quello che nasce dalla stessa origine si è che Plotino, al pari degli altri antichi, non raggiunse la distinzione tra l' esistenza obiettiva e l' esistenza subiettiva: onde dall' una passa all' altra senza addarsi dell' abisso che le separa. E non è che egli non ne veda una distinzione di concetto, ma non s' accorge che nelle idee (e dicendosi idee si parla de' possibili intuiti dall' uomo) non compariscono se non dotate di un' esistenza obiettiva senza subiettività alcuna, e in vece d' osservar queste come sono, argomenta come devono essere, salendo colla speculazione alla prima Mente, della quale l' Anima è il verbo [...OMISSIS...] e l' imagine [...OMISSIS...] . Ora la prima Mente è l' unione dei cinque generi, e però è un composto, secondo Plotino, delle cinque prime idee generiche. Ma è costretto tantosto a prendere queste cinque idee generiche come cose reali, cioè a dar loro anche un' esistenza subiettiva, altrimenti si rimarrebbero sterili e prive d' ogni azione. Dice dunque di questa sua Mente, risultante da' cinque generi: [...OMISSIS...] . Sul qual passo sono da osservare più cose: 1 Quando Plotino distinse dall' Uno la Mente e dalla Mente l' Anima, disse che la differenza si riduceva a una pura alterità. Qui all' incontro l' alterità non produce diversa ipostasi, ma una sola Mente: incoerenza, che non si vede come evitarsi; 2 Riconosce Plotino che non ci potrebbe essere intelligenza senza una dualità, cioè un intelligente e un inteso, il che è un vero prezioso. Ma poi non s' accorge dell' assurdo di lasciare il suo Uno (Dio) privo irremediabilmente di intelligenza, a cui si può applicare quello, che egli trova assurdo per la Mente, [...OMISSIS...] ; 3 E` vero, che non si dà intelligenza senza questa dualità d' un intelligente e d' un inteso; ma nelle idee, come sono i generi, questa dualità non si trova. In fatti l' idea, o specifica, o generica, o universale, presenta un inteso, ma quello che la intuisce e la intende è l' uomo reale, il quale non è un' idea. Allo incontro non si può concepire un' idea che intenda sè stessa, senza che cessi d' essere idea e diventi una persona. Se dunque ciò, su cui Plotino specula, sono le idee che hanno un' esistenza puramente obiettiva, con qual diritto o per via di qual ragionamento passa egli a trovare un' esistenza anche subiettiva, che è quanto dire una persona intelligente? Confonde dunque le idee colla Mente che intuisce le idee. Ed essendo le idee molte, da questo trae che la Mente non è solo una, ma anche molte. Ma se si concede che molte menti ci sieno, perchè ci sono molte idee, non rimane per questo provato che la Mente sia una. Che anzi facendo risultare la mente da cinque idee generiche o categorie, non si vede alcuna via di fare che queste cinque formino una sola ipostasi, se non ricorrendo a qualche attività straniera alle cinque idee, che le tenga insieme e le contenga. Dirà Plotino, che questo è l' Uno; ma in tal caso l' esistente subiettivo che intende sarebbe l' Uno, e questo solo sarebbe la Mente, e intenderebbe cinque cose, intese e non anco intelligenti. Ovvero se queste cinque cose intendessero, sarebbero cinque menti, cinque ipostasi, e non una sola. E lo stesso è da dire dell' Anima, che egli fa constare di generi inferiori ai primi, e di specie. Poichè questo ha di proprio ogni subietto di esser uno, e di non poter essere più subietti, nè risultare da più subietti, benchè nello stesso subietto più cose si possano distinguere col pensiero, ma non mai più subietti. Onde, od ogni specie è anche un subietto intelligente, e in tal caso i subietti che si chiamano anime intelligenti non sono una, ma più: o le specie non sono subietti intelligenti, ma solo obietti intesi, ed in questo caso, conviene di nuovo trovare il subietto unico nel primo Uno, e questa sola sarebbe l' ipostasi intelligente, questa sola l' Anima che intenderebbe ugualmente e identica i generi, e ne' generi le specie. Forse Plotino replicherà che, altro essendo l' Uno considerato come puro Uno, altro quell' atto dell' Uno che contempla i generi, altro quello che contempla le specie, questi tre atti fanno che si distingua l' Uno in tre subietti. Ma non ogni alterità, a giudizio di Plotino stesso, costituisce un subietto diverso, altramente i cinque generi, e gli altri minori, e le specie, sarebbero altrettanti subietti diversi. Ora nè i generi, nè le specie, che come obietti sono diversi, hanno subiettività alcuna in sè che gli unisca. Nè si può conoscere che sieno più, se non c' è un subietto unico che ne contenga la loro pluralità, e che sia da questa diverso, nè un subietto può conoscere le specie se non ne' generi: e però il subietto, che conosce queste, deve essere identico a quello che conosce i generi. E, se ci fosse un subietto che conoscesse i soli generi e non le specie, come si troverebbe poi quello, che conoscesse le specie, se le specie stesse, molte come sono, quand' anco fossero subietti, sarebbero molte e non una? e una sola non si potrebbe nè pure conoscere come specie? Che se poi Plotino fosse pervenuto a ridurre le idee ad una sola, al che non giunse, qual poi sarebbe il principio della loro moltiplicazione? Questo non può essere, come noi abbiamo mostrato nella « Ideologia (n. 1449) », che un elemento di diversa natura dalle idee stesse, elemento variabile, a cui la idea si congiunge, cioè la realità; ma in tal caso, questa sta di fronte alle idee da loro originalmente indipendente, e non può venire, come la fa venire Plotino, dalle idee stesse già moltiplicate fino all' ultime loro specie. Onde anche per questa ragione si prova assurdo che la materia , e in universale la realità , dalle idee stesse sia generata; quand' anzi l' idea stessa rimarrebbe sterile, e non si potrebbe moltiplicare senza di questa. Se di più Plotino avesse veduto non solo che c' è un' idea sola anteriore ai generi e alle specie, ma che quest' idea dee avere una subiettiva sussistenza; in tal caso avrebbe dovuto conchiudere, che in un tale essere (al tutto diverso dalle idee che l' uomo intuisce), si trovavano due principii irreducibili: cioè l' intelligibile e il sussistente, e un solo e identico essere in entrambi: e così avrebbe conosciuto che l' essere primo non può essere Uno puro, ma un essere con una doppia forma, e avrebbe scoperte le due prime supreme forme dell' essere, e, come diremo, le due prime categorie. 4 Dalle quali cose si scorge che la maniera di filosofare di Plotino pecca per una gran mancanza di raziocinio dialettico (comune difetto de' nuovi platonici), onde asserisce le cose più gravi, e procede di asserzione in asserzione, senza rendersene esatto conto o darne qualche prova al lettore, contentandosi di leggiere e sottintese analogie per dedurne gravissime e paradossali conseguenze, che avrebbero bisogno di aperti e rigorosissimi raziocinŒ a persuadersi, facendosi altresì caso delle possibili obbiezioni. Questa sicurezza e autorevolezza di procedere, che, tenendo nascosta la catena logica, pretende da' suoi lettori che la indovinino da sè stessi e non ci facciano mai sopra difficoltà, è la stessa che quella che si vede nell' Hegel, e in tutti i filosofi entusiasti e imaginosi, i quali vogliono colla loro oscurità e misticismo imporre al pubblico, e captivarlo al loro carro trionfale; 5 Ma invano: il pensatore trova facilmente che tutti cotesti sistemi e in particolare quello di Plotino sono ipotetici, nè dicono esplicitamente il principio su cui si fondano, ma, senza accorgersene essi medesimi, lo suppongono; onde il principio, la base vera del sistema rimane sempre fuori del sistema; il che toglie loro l' esser sistemi. Così Plotino che descrive l' uscita di tutte le cose dall' Uno, e prima della Mente, poi dell' Anima o Mondo intelligibile, e finalmente del Mondo sensibile, non adduce alcuna ragione sufficiente per la quale i continui prodotti abbiano quel numero preciso d' anelli, e non più nè meno; e perchè l' Anima, a ragion d' esempio, s' esaurisca colle specie ultime, e perchè subito dopo ne esca il Mondo sensibile, e perchè tutto si fermi alla fine nella Materia. Ora qual è questo perchè? Certamente è questo che nella serie delle specie quando il nostro pensiero perviene a quelle che sono pienamente determinate (dette da noi specie piene, «Ideol. , n. 650 »), allora non sono più concepibili altre determinazioni, e quando si perviene alla materia, non si concepisce più nulla dopo di essa. Così appunto Plotino dice che la Mente ha in sè tutte le cose [...OMISSIS...] . Ora, in questo discorso, tutte le cose , [...OMISSIS...] , sono supposte dal sistema, e non ispiegate. Come dite voi che la Mente comprende tutte le cose, se non so ancora che ci sieno le cose, e che cosa importi questo tutte? Voi cominciate dall' abbracciarle tutte in una parola, e non fate difficoltà alcuna ad ammetterle, nè mi dite prima come sieno, o perchè sieno: e quindi la vostra filosofia parte da un tutto supposto. [...OMISSIS...] Ma che cosa è questo « tutto ciò che c' è di enti? » «pan ton onton». Voi non me lo dite: supponete sempre « tutto ciò che c' è di enti », quando sarebbe pur quello, che dovreste spiegare, e supponete di conoscerlo appieno pronunciando la sentenza che « tutto ciò che c' è di enti dee avere la sua operazione ». Appresso ancora viene questa sentenza: [...OMISSIS...] . Qui di nuovo si suppone conosciuto l' essere nel suo ordine intrinseco, e conosciuto tutto l' essere, e da questo presupposto, che è tutto il sistema, si trae il sistema, si decide che l' essere non può per sua natura fermarsi nell' intelligibile, benchè si abbia detto prima che nell' intelligibile c' è già tutto, che è possibile di farsi altro ed altro, che perciò quest' altro si dee fare, che ciò che si fa dee essere sempre un minore, e che essendovi l' anteriore, dee di conseguenza uscirne tutta la serie, fino all' ultimo anello che è la materia; senza mai dire perchè l' essere sia così fatto, e perchè l' ultima dell' essere sia la materia. Tutto il sistema dunque è basato sopra un sott' inteso, cioè sopra la natura dell' essere, che si suppone fatta in una data maniera, senza alcun esplicito esame, nè alcuna prova; e su questa supposizione poi s' argomenta a quello che di necessità deva fare l' essere, acciocchè risponda al sistema del filosofo. E tuttavia, benchè si tragga tutto dalla totalità dell' essere supposta in un modo supposto, si osa dire che c' è qualche cosa al di sopra e al di sotto dell' essere stesso! Ci ha dunque abuso di speculazione per mancanza di vera e compiuta speculazione. Finalmente stimo di non dover preterire del tutto la scuola de' Neo7platonici intorno alle derivazioni e partizioni dell' ente. Ella si può dividere certamente in più sˆtte, delle quali una fu quella de' Gnostici. Come furono divisi i Gnostici in due grandi classi, degli unitari cioè che derivavano ogni cosa da un solo principio, e dei dualisti , che ponevano due principŒ eterni: Iddio e la materia; così si potrebbero classificare anche i filosofi Alessandrini in generale (1). Lasciando noi i dualisti, si può compendiare in questo modo la teoria dei Neo7platonici unitari: « Tutte le cose, superiori ed inferiori, divine ed umane, eterne e temporali, fluiscono da un medesimo principio, e sono tenute insieme da un solo vincolo: le nature vanno compartite in diverse cerchie, secondo i gradi della loro eccellenza: le cerchie si allargano secondo l' imperfezione degli enti che contengono: l' infimo grado è occupato dalla materia ossia dal mondo sensibile: una cerchia più su stanno gli enti forniti di spirito e d' animo, quali sono le forze della natura, le anime, i demoni: superiormente a questi si trovano i generi delle cose intelligibili, ossia le idee: tiene il luogo supremo una tale natura, che abbraccia colla sua virtù, e collega in sè i generi tutti delle cose e le forze diffuse per l' universo. Tutte queste maniere di ente sono così distinte per natura come la mente nostra le concepisce distinte. « Causa di tutta questa piramide o piuttosto cono di enti è quella somma natura, che ne tiene la cima, dalla quale come da fonte emanano le cose riversandosi e cadendo da quello stato puro e divino in condizione più abbietta dalla regione intelligibile nell' umile e terrena feccia quasi sommerse. « Ora quella natura suprema, fonte dell' altre, contiene nel suo seno tutti i contrarii generi delle cose congiunti, avvincolati in uno, e indistinti: e però è uno e molti ad un tempo ( «en polla»), immoto e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta e completa, dotato di mente e cotale, che in esso si stringono in uno il principio del pensare ( «o nus»), l' azione del pensare ( «noesis»), e il termine od oggetto del pensare ( «noeton»): la chiamano poi perfettamente ente ( «to pantelos on»), e per eccellenza l' intelligibile ( «to noeton»). Laonde, benchè questa natura sia una e tutta, può non di meno dividersi quasi in parti, ma non però separarsi ( «ameristos merizesthai»), ravvisandosi in essa l' ente uno ( «hen on») e i molti ( «plethos»), e il vincolo che lega l' uno co' molti. Così si rinvengono tre cose, i diversi generi, «ta polla», l' uno che li collega, «to on», la punta o supremo fastigio e fonte dell' universo, l' ente per sè, l' ente unico, che unicamente è «to on, monadikos on» »(1). Tutte queste cose i Neoplatonici le dicono più tosto sentenziando che ragionando, e più tosto come effati arcani che come dottrine esplicate. E questo è il carattere di tale scuola, opposto a quello della filosofia di Platone stesso. Perocchè il filosofare di questo grand' uomo è un continuo dialettizzare; quando ciò che si desidera nei libri de' nuovi Platonici è appunto quel far dialettico che analizzando e provando stringe. Quest' è forse difetto generale de' discepoli, i quali da' loro maestri si contentano di t“rre le conclusioni alleggerendosi della fatica de' loro ragionamenti, supponendo quelle provate: e così poscia si ripetono come affermazioni sorrette dall' autorità, non giustificate dalla ragione. Al qual modo di filosofare si diedero specialmente i filosofi Alessandrini pel gusto che trovarono nelle dottrine orientali, le quali non sono ragionate e dialettiche, ma autoritative, brevi e apoftegmatiche. Quindi ne' sistemi de' Neoplatonici manca il nesso delle sentenze, cioè si preteriscono quelle questioni che cercano come una cosa venga dall' altra, e che pur sono quelle sole che potrebbero dare alla dottrina luce e forza a persuadere. Manca dunque in tali sistemi quello appunto che per essi si cerca, e si ha diritto d' avere. A ragion d' esempio, quando i Neoplatonici dicono, avervi una natura suprema, la quale è uno e molti ad un tempo, immota e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta, e in fine contenente tutti i contrari generi delle cose, avvincolati in uno ed indistinti, credono d' avervi bastevolmente ammaestrati. Ma il fatto sta, che ancor mancano interamente, non sono neppure accennate le questioni vitali che possono contenere qualche verace ammaestramento per noi. Perocchè queste questioni sono, come l' uno possa esser molti? come il mobile possa esser immobile? come ciò che è principio di natura possa esser la stessa natura? come i contrarii generi ed anzi le contraddizioni stesse possano giacere nell' ente medesimo semplicissimo? Queste questioni di somma importanza e difficoltà non si possono ammettere, non si possono evitare da un filosofo, come si eviterebbe da un debitore per via l' incontro di un creditore: ci si affacciano dappertutto importune con quel terribile - Come? in bocca: e se noi facciamo i sordi, o non rispondiamo per villania, restiamo puniti da noi stessi privandoci della sapienza filosofica che cercavamo. Che fanno adunque i Neoplatonici? Confessare aperto di non potersi spacciare da quelle questioni, sarebbe un andare troppo manifestamente contro il loro intento, che è quello di filosofare delle altissime cose. Essi dunque pigliano la via di mezzo, che è bensì più corta, ma non li conduce al termine: nè si propongono quelle questioni direttamente pigliandole a svolgere per disteso, nè le lasciano del tutto insolute; ma le risolvono per incidenza, e come a caso, sempre sentenziando invece che ragionando e deducendo. Trattasi, poniamo il caso, della questione Come l' uno sia i molti? Essi la risolvono dicendovi che « l' Uno scade dal suo « stato puro e divino in una condizione più abbietta », e così credono d' avervi pienamente soddisfatto. Ma chi mai non vede, che la difficoltà non è tolta con ciò, ma mutata in altra, e travasata di alcune parole in altre parole? Perocchè il difficile sta appunto qui nel sapere come l' uno, la natura prima e suprema, possa scadere dall' esser suo, e scadendo dall' esser suo non cessi di essere quello che è; come ella si possa trasformare, e tuttavia rimanere identica; come possa emanare di sè qualche cosa e tuttavia non diminuire; possa o parte di sè stessa o tutta sè stessa scendere a stato inferiore, e tuttavia nulla perdere di sua primitiva eccellenza. Ecco le questioni, che i Neoplatonici non risolvono: è sempre il gran problema dell' Ontologia che si affaccia per tutto, e che s' indura come diamante all' umano ingegno. Ma restringendosi a parlar solo delle categorie de' nuovi Platonici, essi le riducevano a tre, come vedemmo, cioè all' ente per sè, ai molti, e all' uno che legava ed identificava l' ente per sè ed i molti. Ora quel vincolo che lega l' uno e i molti rimane primieramente personaggio incognito, e però rimane incerto se possa fare una categoria da sè, o piuttosto appartenere ad un' altra categoria, per esempio, a quella de' molti: nè si vede qual vincolo possa avervi tra l' uno e i molti: che non sia egli stesso o uno o molti. D' altra parte i Platonici identificano l' uno coll' ente per sè, e così sono astretti a parlare dell' uno in due diversi significati, o come identico all' ente perfetto, o come vincolo dell' ente perfetto e dei molti. In secondo luogo l' uno non può costituire, propriamente parlando, una categoria; conciossiachè niuna cosa può essere se non è una, e però le cose tutte, niuna eccettuata, apparterrebbero alla categoria dell' uno. In terzo luogo i molti neppur essi possono dar nome ad una categoria; poichè o si parla de' molti presi singolarmente, e in tal caso ciascuno individuo è uno e non molti, appartiene alla categoria dell' uno, e non a quella di molti: o i molti s' intendono complessivamente, e in tal caso sono un complesso unico, che per la sua unità appartiene ancora alla categoria dell' uno. Se poi i molti si considerano ad un tempo nell' unico loro complesso e negl' individui che il formano; allora la parola molti non significa che quella relazione di somiglianza che hanno più singoli individui, onde dànno l' idea di numero; e così a questa categoria non apparterrebbero che le relazioni di somiglianza, per le quali si classificano gli enti, le quali relazioni di somiglianza non possono classificare una classe di enti, una categoria, ma piuttosto sono il fondamento di tutte le classi. Se poi per molti s' intende quella moltiplicità che si trova nel medesimo ente; neppur questa può costituire alcuna categoria, almeno se non si determina la natura di questa moltiplicità; e il determinar questa natura è di quelle questioni appunto che si trapassano dai nostri filosofi, quando dovrebbero in esse porre ogni sforzo d' ingegno. E veramente se si parla d' una moltiplicità qualunque, egli è indubitato, che ogni ente ha qualche moltiplicità: e, come la fede pone tre persone nello stesso Dio, così la ragione non può dimostrare in ciò alcun assurdo. Onde per nessun verso l' ente uno e il molti dei Neoplatonici possono pigliarsi per vere categorie. L' affinità e continuità delle sentenze ci persuase che riuscirebbe più naturale e facile la nostra esposizione raggiungendo Plotino a Platone. Ora dobbiamo tornare ad Aristotele, che esige una speciale attenzione. Aristotele è indubitatamente il più grande tra i discepoli di Platone, e se non lo arriva per elevatezza di mente, non gli sta addietro per sottigliezza, ed ha il merito grandissimo di avere ridotta a scienza la sillogistica «( Logic. , n. 26) », e d' averci lasciato de' libri, o de' commentari su tutte quasi le parti della filosofia. Sono ben lontani per lo più cotesti scritti aristotelici d' esser condotti, come si crede da molti, con un ordine rigorosamente scientifico. Anzi essi sottintendono sempre la scuola vocale (2), e per lo più disputano di questioni che dovevano esser vivissime a quel tempo tra i discepoli di Platone: questioni che talora conviene indovinare, per bene intendere a che miri e che voglia dire Aristotele, e in che stia la forza de' suoi ragionamenti. Nondimeno l' estensione e la varietà delle materie toccate nelle diverse opere di Aristotele, e l' aver egli approfittato di tutti i suoi predecessori, massimamente delle dispute che ebbero luogo nella scuola di Platone, ci consigliano ad esporre il suo sistema alquanto più copiosamente che non abbiamo fatto co' precedenti. L' ente può essere considerato in sè stesso, secondo che viene appreso in diversi modi e dalle diverse facoltà dello spirito umano, e secondo che è significato nel linguaggio. Quindi si presenta una triplice partizione dell' ente, verbale, dialettica e fisica . I filosofi precedenti a Platone, come i Pitagorici, privi ancora della dialettica e della logica, o avendola solo com' arte, non come scienza, non poterono accorgersi di questa triplice classificazione, e però le loro categorie altro non furono che certe classi, nelle quali l' ente alla rinfusa si prende ora sotto un aspetto ora sotto un altro. A Socrate e a Platone è dovuta principalmente la Dialettica e Logica riflessa e scientifica. Ma come l' entusiasmo, che suole accompagnare ogni invenzione, esagera ciò che s' inventa, la novità della vista rapendo quasi estatica a sè la mente; non è meraviglia che in Platone la Dialettica e la Logica traessero a sè ed assorbissero tutta la filosofia. Le categorie così divennero una classificazione ristretta agli enti ideali e mentali, e l' ente reale non ebbe in esse l' importanza che gli è dovuta. Quindi non pare del tutto aliena dal vero la critica che Aristotele fa a' filosofi più recenti (e vuol alludere certamente a Platone), là dove osserva, che essi [...OMISSIS...] . Ma seppe poi Aristotele stesso andare immune da una censura, se non uguale, simile a quella che egli fa al suo maestro? Certo, egli pose molta attenzione nella necessità di trovare una causa al moto, che non si poteva trovare nelle pure idee: e quindi, facendo un passo indietro, l' accompagnò agli antichi, che non separavano le idee da' reali, come dice egli stesso (1), e in questi soli vedevano le sostanze. Ma rivolgendosi alla considerazione de' reali, quasi abbandonati da Platone, disconobbe in parte la natura delle idee o specie, che rinchiuse nè reali, benchè finiti; e, rispetto a questo, cadde nell' eccesso contrario a quello che egli attribuisce a Platone. Di poi, riducendo a forme scientifiche la Dialettica del suo maestro, empì la filosofia d' entità di ragione , e a una classificazione di queste si riducono le sue categorie. Come dunque Platone diede un' attenzione troppo esclusiva alle idee , così Aristotele la diede pure troppo esclusiva alle entità mentali: e però nè l' uno nè l' altro uscirono bastevolmente, colla meditazione filosofica, dalla mente umana. La realità dell' ente finito nondimeno prende in Aristotele un posto alquanto più importante che in Platone. Sebbene dunque nè pure in Aristotele sieno tenute costantemente distinte le tre partizioni dell' ente sopraccennate, tuttavia confusamente ci appariscono; e però noi raccoglieremo da' libri di questo filosofo, e distribuiremo a parte, quello che a ciascuna di esse appartiene. Coglieremo quest' occasione altresì per fare su ciascuna di esse delle riflessioni non solo v“lte a distinguere quello che ci sembra inesatto, ma a perfezionare anche quello che ci sembra esatto e vero: il che ci risparmierà il dover ripetere le stesse cose altrove. Quando il linguaggio esprime fedelmente e senza equivoci i pensieri di chi parla, allora la partizione dialettica dell' ente e la partizione logica sono la medesima. Ma quando il linguaggio induce nell' animo altri concetti da quelli che naturalmente e logicamente si dovrebbero avere delle entità che vengono espresse, o connessi altrimenti, allora si manifesta la necessità di far notare nell' uso delle parole tutti que' casi, ne' quali i concetti e i pensieri umani non sono significati dalla lettera; al qual fine Aristotele scrisse i due libri « Dell' Interpretazione ». Egli trattò ancora più ampiamente la parte dialettica nei quattro libri che abbiamo sotto il titolo d' « Analitici », i quali risolvono gli argomenti nelle legittime loro forme sillogistiche, e si dividono in priori e posteriori . Noi non abbiamo bisogno di fare qui l' analisi di tali libri, che non si limitano solamente a dimostrare quando il linguaggio generi nella nostra mente nuove maniere di concepire e di connettere le entità, difformi da' concetti e dalle connessioni naturali; ma svolgono altresì tutte le fallacie delle argomentazioni: su di che questo filosofo ritorna in altri scritti ancora. All' uopo nostro ci limiteremo ad accennare quanto egli tocca in principio all' opera de' « Predicamenti » o Categorie; poichè qui egli incomincia ad avvertire appunto que' principali modi, nei quali il linguaggio devia dal rendere i precisi concetti della mente; onde se non si correggono coll' arte d' interpretarlo, facilmente si pigliano da esso concezioni assurde e nessi inestricabili; il che renderebbe impossibile la soluzione del problema ontologico. Questo esige prima di tutto che si dissolvano gli enti fattizi, di cui la ragione sufficiente sta appunto nella fattura e nella composizione che si genera nella mente a cagione del segno esterno. Osserva dunque Aristotele che le essenze (1), significate da nomi comuni, or sono della stessa, ora di altra natura: i primi nomi li chiama univoci ( «synonyma»), i secondi equivoci ( «omonyma»). Così il nome animale in quant' è comune all' uomo e al bruto è univoco, perchè significa la stessa essenza, l' animalità: ma il nome uomo , in quant' è applicato ad un uomo vero e ad un uomo dipinto, è equivoco, perchè il solo nome è comune, ma i concetti significati sono diversi (1). Dove si vede che l' essere un nome univoco od equivoco non appartiene al nome in se stesso, ma all' applicazione e all' uso che se ne fa. Di che avviene, che lo stesso nome si adoperi ora univocamente , ed ora equivocamente (2). Cadrebbe dunque in errore colui che, dall' unità soltanto del nome che si dà a più essenze, inducesse l' unità dell' essenza o del concetto; come cadrebbe in errore colui che inducesse la pluralità delle essenze o de' concetti da più sinonimi. Una dunque delle prime regole logiche ed ontologiche deve esser quella di ridurre, prima di tutto, il discorso al suo vero significato, di spogliare i concetti e gli enti dalle vestimenta delle parole, figgendo la mente in quelli anzi che in questi ( Logic. , n. 972). Il non aver fatto questo abbastanza, fu sempre la rovina della dialettica, degenerante in sofistica, tostochè essa, invece di attenersi a' concetti, si legò co' denti alle parole, prendendole per altrettanti concetti: e l' uggia che s' era messa di maneggiar quest' arme delle forme verbali non solo in assalire, ma ancora in difendere il vero, scemò forza a' difensori, e l' accrebbe agli assalitori. Nomi equivoci adunque, ovvero omonimi , si dicono quelli che s' accomunano a due essenze o a due concetti diversi. Gli Scolastici osservarono che, tra' nomi comuni a concetti diversi, alcuni sono tali che s' accomunano a concetti che non hanno alcun ordine o rispetto tra loro, altri a concetti che hanno qualche ordine o rispetto tra loro. A' primi lasciarono la denominazione di nomi equivoci , ai secondi diedero la denominazione di nomi analogici . Ma, ogniqualvolta un nome fu trasportato ed esteso dall' uso da un significato ad un altro, i concetti significati da quel nome hanno sempre tra loro qualche ordine o rispetto; e lo stesso esempio che arreca Aristotele de' nomi equivoci, cioè della voce uomo applicato all' uomo vero e all' uomo dipinto, segna due concetti che hanno similitudine nella forma e nel colore, benchè non così nella essenza significata dalla parola uomo . Ciò non può avvenire se non rispetto a que' nomi che casualmente significano cose diverse: per esempio, esse che vale essere ed anche mangiare; jus che vale diritto ed anche brodo , ecc.. Onde i greci filosofi distinsero i nomi equivoci primieramente in due classi, nell' una riponendo quelli che sono tali a casu , nell' altra quelli che sono tali a consilio . E così anco S. Tommaso chiama puramente equivoci quelli che sono tali per caso, e non quelli che sono equivoci per consiglio degl' imponitori (1). Questi ultimi senza distinzione vengono detti analogici dagli Scolastici. I filosofi greci divisero gli equivoci a consilio in tre classi: I Quelli, la cui denominazione comune esprime varie loro relazioni di dipendenza con uno stesso oggetto a cui primieramente spetta il nome [...OMISSIS...] . Così si dirà rodente tanto una sega, quanto un torrente, per la relazione di similitudine che entrambi hanno coll' atto del rodere; II Quelli, la cui relazione comune esprime varie relazioni di ordine ad un fine od effetto [...OMISSIS...] . Così si dirà medicinale tanto una radice, quanto uno stromento, o un esercizio, perchè ciascuna di queste tre cose sono ordinate all' effetto di restituire la sanità; III Quelli, la cui denominazione è comune a ragione della proporzione che hanno tra loro, e questi sono quelli a cui gli antichi riserbarono il nome di analogici (2), come si può vedere presso Ammonio e Simplicio, dove espongono la definizione dei nomi equivoci data da Aristotele (1). Così la denominazione di piede data al piè dell' uomo e al piè del letto, osserva Ammonio, è analogica; perchè il piè del letto sta al letto, come il piè dell' uomo all' uomo, cioè a dire l' uno e l' altro sono nella parte inferiore e servono a sostenerlo (2). Pure il restringere la parola analogia al semplice significato di proporzione, fa sì che rimane imperfetta la classificazione dei nomi equivoci. La primitiva origine di quella parola ha un significato più ampio della latina parola proportio; e se fu ristretto a indicare proporzione, anche in questo vocabolo, come in tanti altri, rimase imperfetta la lingua filosofica. E veramente la proporzione non appartiene che alla quantità, ed è determinata; l' analogia si rinviene anche tra le qualità, e le essenze, e le sostanze stesse, a tale che non si può determinare. E però il parlare dell' analogia, movendo unicamente dalla proporzione che passa tra diverse quantità e ragioni di quantità, fa sì che la parola analogia non convenga più in senso proprio e rigoroso a que' ragionamenti, che trattano delle cose spirituali, e massimamente delle divine, in cui non cade la quantità; ovvero che volendola a ciò usare si trasportino nel discorso ontologico i concetti limitati tolti all' estensione, allo spazio, ed al tempo. Laonde noi crediamo che si deva rendere più esatto e perfetto il linguaggio riguardante la classificazione de' nomi comuni; e che ciò si ottenga classificandoli in questo modo: Classificazione de' nomi comuni . I Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti un' unica essenza, applicabili a più individui, i nomi univoci (1); II Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti più essenze per puro accidente, essendo stati imposti ad una essenza senza riguardo all' altra, onde significano ciascuna essenza in senso proprio. Così Tigri significa il fiume, e significa anche animali feroci. Quando si dice Tigri per significare il fiume la parola è usata in senso proprio; quando si dice tigri per significare animali feroci, la si dice pure in senso proprio, senza alcuna considerazione al fiume di questo nome: aequivoci a casu; III Classe . - Nomi comuni imposti a più essenze diverse a bel consiglio, acciocchè col richiamare alla mente una di quelle essenze più note, udendosi il nome imposto all' altra meno nota o men vivamente conosciuta, questa s' intenda meglio per via di quella. Traslati, aequivoci a consilio . Ora quest' ultima classe è quella che importa diligentemente suddividere; e noi crediamo di poterne fare sei generi de' nomi metaforici, metonimici, causali, effettuali, proporzionali ed analogici . Egli è mestieri definire il carattere di tutte queste maniere di nomi traslati. 1 GENERE - Nomi metaforici . - Restringiamo questa denominazione a que' nomi che esprimono una qualche entità sensibile o vivamente conosciuta, e che si trasportano a significare una simile entità in altro subietto, dove la stessa entità trovasi in grado inferiore meno sensibile, affine di render questa più viva ed esagerarla. Così di un uomo sagace si dirà che ha uno sguardo acutissimo, trasportando l' entità dello sguardo acuto proprio dell' occhio corporeo ad una simile qualità che è nell' intendimento; perchè quella qualità, essendo più nota e viva perchè sensibile, aiuta a fare intendere la qualità dell' intendimento non sensibile, e però non vivamente conosciuta. Le metafore sono suggerite all' uomo dalla facoltà d' imaginare, e da quella legge del pensare umano, per la quale l' uomo vuole rendere a se stesso sensibili e vestire d' imagini le idee. I detti nomi applicati a significare sì un' entità in senso proprio e sì una entità in senso metaforico e rappresentativo, diconsi usati equivocamente a bel consiglio. 2 GENERE - Nomi metonimici . - Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quelli, co' quali, volendo richiamare alla mente altrui un' entità, invece di indicarla col suo proprio nome, la indichiamo con un altro, che non esprime cosa simile come fa la metafora, ma tale però che per mezzo di essa incontanente soccorre alla mente altrui l' entità che vogliamo esprimere, principalmente coll' aiuto del contesto del discorso. Quindi diciamo or la parte pel tutto, ora una qualità per una sostanza, e viceversa una sostanza per una qualità, ora il contenente pel contenuto, ora un indizio o segno qualunque arbitrario, bastevole, pel contesto del discorso, a risvegliare nella mente ciò che vogliamo. Le metonimie sono suggerite all' uomo dalle facoltà dell' associazione delle idee, e da quella legge per la quale colui che parla è mosso a dire il menomo possibile per ottenere d' essere inteso, il che è anche un fonte dell' eleganza del discorso, e chi ascolta ama quell' eleganza, nè vuole udir tutto espresso, ma trovare qualche cosa da sè, e così non fare meramente il passivo, ma l' attivo. Le metonimie e le metafore s' uniscono talora in una sola parola, a ragion d' esempio il chiamare tigre un uomo crudele involge una metonimia, pigliandosi la tigre per esprimere la sua qualità d' esser crudele, ed una metafora venendo applicata ad uomo. I vocaboli adunque applicati ad un oggetto in senso proprio e ad un altro in senso metonimico, sono una seconda classe di nomi usati equivocamente a bel consiglio. 3 GENERE - Nomi proporzionali . - Questi sono quelli che gli antichi chiamavano analoghi , presa la parola analogia in senso ristretto per proporzione (1); ma poichè la proporzione non è che una speciale convenienza che si trova nelle quantità e ne' numeri, perciò è da separare questa specie di convenienza dalle altre, che verranno appresso; senza di che non si riuscirebbe giammai ad avere un linguaggio preciso applicabile alle cose divine. A ragion d' esempio, il definire gli analoghi per quelle cose che hanno proporzioni simili, e poscia il dire che la scienza si predica di Dio e dell' uomo analogicamente, riesce un favellare inesatto. Perocchè non è mica vero che quella proporzione che ha la scienza dell' uomo all' uomo, l' abbia pure la scienza di Dio a Dio; giacchè la scienza dell' uomo sta all' uomo come un abito al soggetto, quando la scienza di Dio sta a Dio con relazione d' identità. Noi diremo dunque proporzionali i nomi in quanto s' applicano ad oggetti di diversa natura, per cagione della ugual proporzione che ha ad essi ciò che loro s' attribuisce. Così quando diciamo il piè dell' uomo, e il piè dell' albero, o del monte, o del letto; noi abbiamo usato lo stesso nome a indicare più cose aventi la stessa proporzione ai subietti, di cui si dicono. I nomi proporzionali si possono pigliare come una suddivisione di metaforici, ma meglio si distinguono da essi per questo: che i metaforici così si chiamano, perchè sono nomi di cosa più nota e vivamente conosciuta applicati a significar cosa simile, ma men nota; laddove i nomi proporzionali non si fondano nella semplice somiglianza , ma nella somiglianza o uguaglianza di proporzione . 4 GENERE - Nomi effettuali . - Così chiamiamo quelli, che esprimendo il nome d' una causa, si applicano a significare un effetto. Così si dice un « uomo sano », e si dice pure una « cera sana », per dire che quella cera è tale, che apparisce come effetto, e quindi indizio, della salute che gode l' uomo. Questi nomi, appartenenti in senso proprio alla causa, ma applicati a significare l' effetto, sono quegli che gli antichi dicevano equivoci ab uno . I nomi effettuali si possono pigliare come una suddivisione de' metonimici, ma meglio si distinguono per questo, che nella metonimia si pone la causa per indicare l' effetto unicamente come un segno di questo, senza che sia espressa nel vocabolo la relazione. Così quando i latini chiamano Bacco il vino, e Cerere il pane, non esprimono mica con ciò che il vino sia invenzione di Bacco, o le biade di Cerere. Ma dicendo sana la cera d' un uomo, si fa intendere la relazione di questo effetto colla sanità che n' è la causa, e però senza conoscerne la causa non si può intendere il vocabolo; laddove si può sapere che pieno di Bacco, vuol dire pieno di vino, ignorando chi sia stato Bacco, e che abbia fatto, essendo un nome proprio, non avente, come tale, relazione al vino. 5 GENERE - Nomi causali . - I vocaboli acquistano questa appellazione, quando si vuol esprimere la causa, e lo si fa applicandole il nome dell' effetto. Così dicendo sano l' uomo, e sano il cibo o la medicina, il vocabolo sano è usato equivocamente: perchè applicato all' uomo è in senso proprio; e s' applica al cibo, o alla medicina, perchè la medicina o il cibo è cagione della sanità che è nell' uomo. La qual maniera di predicazione equivoca è quella, per la quale i greci filosofi dicevano tali nomi equivoci ad unum . Anche questi si possono pigliare come suddivisione dei metonimici; ma è da fare un' osservazione simile alla precedente, cioè si possono distinguere da' puri metonimici in questo: che, per essere un nome metonimico, basta che esprima la causa per via dell' effetto come un segno o indizio di lei, senza che nell' applicazione del nome sia espressa la relazione dell' effetto alla causa, laddove i nomi causali esprimono questa relazione, nè si possono intendere senza conoscerla. Così dicendosi, che viene punito il delitto , o premiata la virtù, si prende il delitto e la virtù pe' delinquenti o pe' virtuosi, e questa relazione è compresa nel contesto del discorso. 6 GENERE - Nomi analogici o indeterminatamente proporzionali . - Riserbiamo questa denominazione a que' nomi, i quali in senso proprio significano qualche cosa che positivamente conosciamo, e che si trasferiscono a qualche cosa che conosciamo negativamente, a cagione delle relazioni che la cosa cognita ha coll' incognita con una certa proporzione che non si può determinare, o che è del tutto indeterminabile. Così il cieco applica i vocaboli tolti dalle sensazioni dell' udito a favellare de' colori; e il suo discorso ha qualche cosa di vero, riferendosi all' effetto, in qualche modo simile che producono nell' animo umano o d' allegrezza, o di tristezza certi suoni e certi colori. L' analogia dunque si fonda su tutte quelle relazioni che possono cadere ed esser da noi conosciute tra le cose, di cui abbiamo cognizione e percezion positiva, e le cose, di cui non abbiamo che cognizione ideale negativa. Raccogliere tutte queste relazioni accuratamente e classificarle condurrebbe a distinguere le diverse specie di analogia, e di nomi analogici. Ma quello che sommamente importa, e che non vogliamo qui trapassare, si è il distinguere con accuratezza le due principali specie di analogia, di cui favelliamo; perocchè ci bisogna distinguere queste due specie a spianarci il cammino per favellare esattamente delle cose divine. Convien dunque osservare, che, quando noi applichiamo un vocabolo agli oggetti positivamente conosciuti, possiamo con questo vocabolo significare due maniere di cose: 1 possiamo significare tal cosa dell' oggetto conosciuto, la quale non appartiene all' essenza dell' essere stesso assoluto: per es., il colore od altra cosa materiale per nessun modo appartiene a tale essenza; 2 e possiamo significare tal cosa, che per via d' argomentazione intendiamo dover appartenere all' essenza dell' essere assoluto, poichè altramente tal essere ci riuscirebbe manchevole, ma non sappiamo in che modo le appartenga. Così la scienza, la potenza, la bontà, ecc., bene intendiamo, che devono appartenere all' essere assoluto, giacchè un essere che fosse privo di tali pregi sarebbe imperfettissimo, e però non pieno nè assoluto. Ma quantunque tali vocaboli esprimano doti e pregi dell' essere stesso assoluto, tuttavia non ce ne formiamo il concetto positivo, se non in quanto vediamo realizzate quelle doti, pregi, o qualità in esseri limitati, che cadono sotto la nostra percezione, cioè negli uomini. E poichè il positivo della cognizione si trae unicamente dalla percezione, perciò la parte positiva della cognizione che noi aver possiamo della scienza, della potenza, della bontà, ecc., è limitata a quel modo nel quale tali doti sono partecipate dall' ente finito umano, e quindi anche i vocaboli, che le esprimono, non significano quel modo di essere che tali doti hanno nell' essere assoluto, ma quel modo di essere che tali doti tengono nell' uomo, in cui solo si percepiscono. Di che avviene, che così fatti vocaboli, applicati alla Divinità, sono inetti ad esprimerne adeguatamente la natura, appunto perchè i concetti positivi, che significano, sono tratti da cose contingenti e limitate; onde si dice che tali qualità si predicano di Dio analogicamente . Quelle cose adunque che conosciamo positivamente, ma che sono tali che non appartengono alla natura dell' essere assoluto, non si possono predicare di Dio analogicamente, ma solo metaforicamente (1), come accade quando si attribuiscono a Dio il volto, le mani od i piedi. Ma quelle cose che di natura loro s' intende dover appartenere all' essere assoluto, queste si attribuiscono a Dio analogicamente a cagione della limitazione in cui tali cose sono dall' uomo percepite. Si distingua adunque in così fatti pregi la cosa , dal modo della cosa . La cosa, in sè stessa considerata, è assoluta ed infinita; ma il modo, nel quale l' uomo la vede, è limitato e finito: la cosa adunque si predica di Dio veramente; ma il modo, con cui l' uomo la percepisce, si predica di Dio solo analogicamente. E poichè l' uomo non può svestire interamente la cosa dal modo limitato, nel quale la percepisce, senza che gliene venga meno il concetto positivo; perciò si dice in generale, che tali doti e pregi sono predicati di Dio analogicamente. Sei adunque sono le predicazioni traslate: la metaforica, la metonimica, la proporzionale, l' effettuale, la causale e l' analogica. Alcuni latini scrittori della scuola, come dicevamo, compresero tutti questi sei generi, che appartengono all' equivocazione detta a consilio , sotto il titolo di predicazione analogica. All' incontro i commentatori greci d' Aristotele riservarono il titolo di analogici al solo terzo genere di nomi, quello de' proporzionali. Questa discrepanza di linguaggio generò confusione nelle dispute, delle quali le scuole si trovarono infine stanche e svogliate. Classificando accuratamente le diverse specie di predicazione, come abbiam tentato di fare, s' appiana la via necessaria per arrivare ad intenderci. E` ancora da avvertire, che ogni nome ha un primo ed unico significato, cioè significa una sola essenza applicato agli individui della quale esso ha un senso univoco; ed è questo che poi si trasporta a significare altro, e diviene equivoco a consilio, ossia traslato (2). Si dee dunque distinguere l' equivocazione traslata del vocabolo proprio e trasferito ad altro oggetto, dall' equivocazione traslata del vocabolo relativamente a' diversi oggetti, a cui significare fu trasferito. Nel primo caso i due oggetti significati, l' uno in senso proprio, l' altro in senso traslato, hanno un ordine tra loro, come a ragion d' esempio nel vocabolo ente applicato alla sostanza ed all' accidente; nel secondo caso i due oggetti, significati entrambi traslatamente, non hanno un ordine espresso dal vocabolo, ma hanno un ordine ad un terzo oggetto a cui si riferiscono, come il vocabolo ente applicato a più accidenti. Chiameremo i primi equivoci diretti , i secondi equivoci laterali . Negli uni e negli altri si dee distinguere la prima essenza a cui appartiene il vocabolo in senso proprio: ne' primi equivoci diretti si paragona questo significato proprio co' significati traslati; negli equivoci laterali il vocabolo in senso proprio è supposto, e si paragona i diversi traslati tra loro. Benchè questa doppia maniera di equivocazione abbia luogo in tutti i sei generi, tuttavia noi parleremo solo dell' analogia . Il nome della essenza in senso proprio paragonato co' suoi analoghi si può chiamare analogante , e i nomi delle essenze che hanno con essolei analogia, si possono chiamare analogati . Quindi la prima specie degli analoghi abbraccia l' analogante coll' analogato; e questa analogia non corre che tra due soli termini: la seconda specie degli analoghi è quella che abbraccia più analogati, escluso l' analogante; e questi analogati non si restringono a due, ma possono esser più indeterminatamente (3). Si può dire che nelle mani di Aristotele ogni partizione dell' ente sia logica, perchè anche allora che lo considera e parte fisicamente, lo riferisce sempre agli atti e alle forme cogitative. La scienza, a cui Aristotele pose più attenzione, è quella di predicazione; trascurò alquanto quella d' intuizione , di cui s' occupò cotanto Platone. Si può forse dire che di qui provengano le differenze che si osservano tra quelle due filosofie, delle quali differenze parleremo in appresso. Il principio, secondo il quale Aristotele divide costantemente l' ente, è l' analisi della proposizione. Egli aveva acutamente osservato che tutti i verbi, che s' adoperano nelle proposizioni, si possono sempre ridurre al verbo essere, riuscendo al medesimo il dire: « quest' uomo cammina o è camminante », e si dica il medesimo d' ogni altra proposizione (1). Predicandosi dunque sempre l' essere in tutte le proposizioni, credette che queste potessero somministrare ogni partizione dell' essere. Aristotele dunque accintosi all' analisi della proposizione, ossia della predicazione, distinse tre cose: 1 Il modo con cui si predica, ossia la natura del subietto considerato in relazione col predicato; 2 La cosa o entità che si predica; 3 Il valore della copula, che è la predicazione stessa. I Circa il modo con cui si predica, Aristotele distinse l' essere che si predica per accidente , [...OMISSIS...] , dall' essere che si predica per sè , [...OMISSIS...] . Ma queste espressioni non hanno tutta l' esattezza logica: al predicarsi una cosa di un' altra per sè corrisponde il predicarsi una cosa di un' altra per un' altra, cioè per una ragione ad essa straniera; e il predicarsi una cosa di un' altra sostanzialmente o essenzialmente corrisponde al predicarsi accidentalmente (3). A ragion d' esempio dicendosi d' un uomo che è musico, la qualità, benchè accidentale, d' esser musico appartiene all' uomo come uomo, e quindi per sè; all' incontro dicendosi d' un musico che è giusto, la qualità accidentale d' esser giusto non appartiene per sè al musico, cioè al musico in quant' è musico (in senso diviso), ma al musico in quant' è uomo (in senso composto, « Logic. , p. 101 »), e però gli appartiene per un altro, aliena vi . Dicendosi poi « colui che ride è uomo », la qualità d' esser uomo appartiene all' ente che ride, essenzialmente , ma non gli appartiene per sè , ma per un altro, cioè per la connessione che ha il ridere coll' essenza dell' uomo; poichè la ragione fisica per cui ride è l' esser uomo, e non viceversa; se non in una relazione dialettica, in quanto che il concetto del ridere inchiude quello di uomo. Altro è dunque il predicarsi per accidente , altro il predicarsi per altro: il predicarsi per accidente, è quando « il predicato è un accidente del subietto ». Ma questo predicato accidentale può convenire al subietto per sè, e può convenirgli per un altro: gli conviene per sè , se è un accidente di quel subietto preso questo in senso preciso; gli conviene per un altro, se non convenendo al subietto in senso rigoroso e preciso, conviene però a ciò che involge il subietto, per esempio, al subietto in senso composto, come denominazione d' un altro; o al subietto accidentale, come quello che suppone e richiama la sostanza. Del pari, altro è predicarsi essenzialmente ed altro è predicarsi per sè. Si predica essenzialmente, quando il predicato costituisce tutto o parte dell' essenza del subietto; e questo in due modi, poichè: 1 o il subietto è reale, e allora il predicato è un equivalente; 2 o il subietto è dialettico, e allora il predicato non è un equivalente del subietto in senso preciso, ma del subietto in senso composto, nel qual caso può il predicato essere una sostanza o un subietto reale, come: « chi ride è uomo »; e dicesi anche predicarsi sostanzialmente , e risponde alla terza maniera di predicazione accidentale degli Scolastici. Questi quattro modi dunque di predicazione si devono accuratamente distinguere (1). II Ora la predicazione per altro è posteriore alla predicazione per sè: onde, volendosi enumerare i primi generi de' predicati, che così intende Aristotele le Categorie, queste sono da lui chiamate predicamenti per sè. Ma egli confonde manifestamente il predicarsi accidentalmente , e il predicarsi per altro , come dicevamo. Poichè, dopo aver distinti i tre modi di predicazione per accidente [...OMISSIS...] . E a queste otto, nel libro delle categorie, aggiunge le due altre dell' essere situato e dell' avere , con che le categorie diventano dieci, e considera questi dieci predicati per sè, senza congiunzione [...OMISSIS...] . Apparisce dunque dalle stesse parole d' Aristotele: 1 Ch' egli colle dieci categorie intende classificare « le cose che si dicono »( «ta legomena»), come indica anche il nome di categorie o predicazioni. Ma poichè queste possono esser considerate come predicati, e come tali già congiunti con subietto, ( «ta kategorumena»); ovvero considerate sciolte, l' una a parte dall' altra, in quest' ultimo modo considerate, le chiama «kategoriai». 2 Che queste indicano altrettanti modi di essere: onde Aristotele non classifica veramente con esse gli enti, nè i principii degli enti, ma i modi più generici dell' ente (2). 3 Che esse significano i predicati che convengono all' ente per sè , e non per altro; di maniera che l' essenza sostanziale, il quanto, il quale, la relazione, convengono all' ente per la sua propria virtù, e non per una virtù straniera all' ente; il che avverebbe, se il quale si predicasse del quanto o del relativo. Così l' essere un ente grande o piccolo non conviene all' ente per sè, ma all' ente che è quanto è (3). Che dunque i predicabili significhino lo stesso essere in dieci modi diversi, questo s' intende. Ma anche qui Aristotele lascia da parte la cognizione intuitiva dell' essere, e tutto deriva da quella di predicazione . Ora l' essere è prima della predicazione, ed egli si divide indipendentemente da questa. Le dieci Categorie sono dieci idee che s' intuiscono, e intuite si predicano. Quando si predicano, sono già divise. Ma per Aristotele prima sono predicati, e poi astratti, benchè di natura sua dichiari anteriore la specie alla materia. Astratti poi non può ancora Aristotele contemplarli così semplici nella loro oggettività (1): li considera dunque come subietti di cui si predica in diversi modi l' essere. Il riconoscere nondimeno che sono « essere per sè », è lo stesso che confessare che non ricevono l' essere dall' atto della predicazione, e questo assegna loro un luogo elevato simile a quello che avea destinato loro Platone. Se dunque si considerano le Categorie come semplici ed incomplesse, [...OMISSIS...] , altro non presentano che una classificazione, benchè imperfetta, dell' essere ideale. Ma egli vuol considerare sempre gli universali nei singolari , poichè per lui questi soli sussistono: quindi i suoi universali doveano essere di loro natura predicabili , chè solo per via di predicazione le specie s' apprendono congiunte alle cose reali. Pure quest' operazione della mente, che si chiama predicazione , non produce punto le specie o le essenze ideali, ma non fa che usare di queste. Queste dunque sono prima idee o intelligibili, e di poi predicabili. Onde coll' aggiungere la predicazione, altro non si fa che guastare il concetto di esse idee, confondendolo con qualche cosa di soggettivo non appartenente alla natura della medesima. Di più: questa mescolanza dell' operazione soggettiva della predicazione colle idee non è necessaria, nè pure secondo il sistema d' Aristotele; poichè, sebbene egli nega l' esistenza dei generi in sè, ammette però che esistano da sè soli e separati dalla materia nella mente: e questo basta, perchè se ne possa parlare come d' intuiti, senza mescolarvi nulla di soggettivo. III La terza cosa che distinse Aristotele nelle proposizioni, si è il valore della copula, che si riduce sempre al verbo E`. Questo verbo dunque secondo Aristotele: a ) Può significare tanto che ciò che si predica sia in potenza, quanto che ciò che si predica sia in atto. Da questo trae la distinzione dell' essere in potenza e dell' essere in atto: e questa partizione dell' essere l' applica alle Categorie , che è quanto dire a tutti i predicabili. [...OMISSIS...] Con questo riconosce che il possibile e il sussistente è essere egualmente, e, come altrove dice, il medesimo essere; e che le Categorie per conseguente appartengono ugualmente all' ordine delle cose possibili ed ideali, e all' ordine delle cose sussistenti o reali. b) Essere od è , può significare ancora il vero; come non essere o non è il falso: [...OMISSIS...] . L' essere nel significato a ) afferma (o nega) qualche cosa in sè: l' essere nel significato b ) afferma qualche cosa nella mente; poichè il vero e il falso esiste, secondo Aristotele, soltanto nella mente. Col primo di questi due significati del verbo E` si pone qualche cosa in fatto come quando si dice « l' uomo è un animale »; coll' altro non si pone nulla in fatto, ma si esprime solamente che è vero o falso ciò che si afferma, come: « Colui è cieco », che viene a dire esser vero che colui è cieco; benchè col predicare la cecità non si ponga nulla in fatto, anzi si tolga un' entità positiva, qual è il vedere. Quindi la divisione celebre presso gli Scolastici dell' ens extra animam , e dell' ens in anima (3). S. Tommaso dichiara, secondo la mente di Aristotele, questi due significati del verbo E`, così: [...OMISSIS...] . Ma come avvien egli che il verbo E` possa significare la verità della proposizione, a ragione d' esempio, che nella proposizione: « Quest' uomo E` cieco », il verbo E` possa aver forza, come se si dicesse: « E` vero che quest' uomo E` cieco? ». Poichè la proposizione, così ridotta, altro non fa che introdurre due volte il verbo E`, e tutte e due le volte non può significare la verità della proposizione; chè in tal caso, nel risolverne il valore, si dovrebbe formare una proposizione, che andrebbe all' infinito, sostituendo al verbo E` l' equivalente « E` vero », venendosi a dire: « E` vero che E` vero, che E` vero, ecc. »; e senza venir mai all' ultima particola della proposizione « E` cieco ». Dunque in questa ultima particola il verbo E` non significa E` vero; ma significa l' affermazione di un non7ente. Non si può adunque rendere ragione di tali affermazioni, se non si parla della facoltà che ha lo spirito di affermare; e se non si dimostra che l' affermare non è un costituire un oggetto, ma è un disporre il soggetto intelligente in un dato modo verso un oggetto dato dall' intuizione. E questa disposizione e atteggiamento è appunto lo stesso atto dell' affermazione. Di che anche questo è una prova, che la negazione , la quale non pone nessun ente ma lo rimove, esige un atto simile e contiene un simile atteggiamento dell' animo. E veramente non si può affermare o negare senza conoscere l' essenza che si afferma o si nega: ora l' essenza è l' oggetto dato dall' intuizione. Ma affermando o negando un oggetto, o qualche cosa dell' oggetto, l' oggetto si viene a involgere nell' atto affermante o negante dello spirito. Onde, sopravvenendo la riflessione, questa contempla lo stesso oggetto vestito della negazione o dell' affermazione dello spirito; ed allora non è più l' oggetto puro, ma un oggetto che, parte è dato allo spirito indipendentemente dalle operazioni dello spirito, parte è lavorato dallo spirito stesso affermante o negante. Così la cecità è l' oggetto, cioè il vedere (presentato puramente nella sua essenza dall' intuizione) congiunto colla negazione. Tutti gli enti negativi o privativi sono formati in questo modo dallo spirito. Sorge quindi una riflessione d' altro ordine più elevato, la quale, esercitando l' azione sopra l' oggetto così lavorato, separa in essa la stessa affermazione o la stessa negazione, e forma degli astratti enti negativi e privativi; ed allora inventa de' vocaboli che li segnino. Così il vocabolo CECITA` significa l' astratto di un ente negativo. Questi enti negativi concreti ed astratti sono due classi di quegli che si chiamano enti di ragione , od enti razionali . Ora Aristotele non pervenne a conoscere la vera generazione degli enti razionali, nè seppe accuratamente descriverli come gli sarebbe bisognato. A tal fine conveniva che avesse investigato la natura di questa singolare facoltà dell' intendimento umano di vestire gli enti delle sue proprie disposizioni, e di convertire poscia a sè stesso queste disposizioni soggettive in enti, significandoli con parole simili a quelle che usa per significare gli enti veramente oggettivi. Noi crediamo bene di cogliere l' occasione di questa critica, che per noi si fa alla partizione che Aristotele fa dell' ente di ragione, per dare la classificazione degli enti razionali , come prima abbiamo fatto de' nomi che si possono dire enti dialettici . Aristotele conobbe chiaramente quell' ente razionale che nasce dalla negazione e quello che nasce dalla relazione . S. Tommaso accenna queste due fonti degli enti di ragione (1). Egli circa le relazioni osserva, che queste non sono sempre puri enti di ragione, ma talora sono realità (2) inerenti agli enti, come accade quando gli enti inclinano l' uno all' altro, o hanno azione o passione tra loro (3). Quindi è che talora la relazione reale è d' una parte sola, se una parte sola è ordinata all' altra, e all' altra tendente, e dall' altra dipendente, ma non viceversa, rimanendo dall' altra parte una relazione di pura ragione (4). Ma il filosofo delle scuole non considerò abbastanza in questo fatto degli enti di ragione due cose sommamente importanti: La prima , che gli enti di ragione altri sono astratti e puri come dicemmo della cecità; ed altri sono inerenti ai nostri concetti degli enti reali, come l' uomo cieco . Questi secondi sfuggono dall' attenzione filosofica facilmente: onde avviene che si parli di entità reali, come fossero per intiero reali fuori della mente; quando sono pure un composto di entità reali fuori della mente e di entità di ragione lavorate e messe loro intorno quasi come una rete dalle operazioni diverse dall' umana intelligenza, siccome abbiamo veduto essere l' ente espresso dal vocabolo IO «( Psicol. , pag. 61 e seg.) », e siccome vedremo anche in appresso, parlando delle Categorie. La seconda cosa, non osservata abbastanza, si è la differenza che passa tra l' ente ideale e l' ente razionale . L' ente razionale è produzione soggettiva della mente, come abbiamo detto: quando all' opposto l' ente ideale è per sè oggetto , ed è affatto indipendente dalla mente dell' uomo, e distinto da ogni mente, benchè escluda la realità ed abbia per sua natura la proprietà d' insiedere nella mente. La mente poi è un ente reale: e però tra l' ente ideale e l' ente reale passa una relazione essenziale , la quale non è nè pur essa un ente di ragione, non una produzione dell' intelligenza soggettiva, ma una congiunzione effettiva . Ora la mente, o, per dir meglio, il soggetto intelligente, essendo suscettibile di sentimenti, ed essendo egli stesso un sentimento primo e sostanziale, vede il reale, cioè il sentito e percepito sensitivamente, nell' ideale; chè ogni reale sentito segna nell' ideale un suo corrispondente, e così l' ideale si manifesta come tipo delle cose reali. Questa visione del reale nell' ideale è un' operazione della mente, e si scorge: 1 Nella percezione intellettiva, nella quale la mente dell' ideale e del reale fa un ente solo conosciuto; 2 Nell' idea specifica, nella quale si vede il reale nell' idea, ma solo come possibile, e non ancora come sussistente. Ora, quantunque la percezione e l' intuizione dell' idea specifica sieno operazioni della mente; tuttavia non si può dire che gli oggetti proprii di queste operazioni sieno enti di ragione . Poichè nella percezione: 1 c' è l' ente ideale, che è per sè oggettivo; 2 c' è il reale, che non è prodotto dalla mente, ma dato nel sentimento; 3 e c' è l' unione di questi due elementi, che si fa per una operazione della mente, ma per una operazione determinata dal rapporto o nesso essenziale che passa tra l' ideale e il reale, e che la mente non fa che vedere. Vero è che un tale rapporto suppone la mente, ma questa esigenza della mente si riduce a quella che ha l' essere ideale di trovarsi in una mente, e il reale d' essere o ridursi in un sentimento; onde l' esigenza della mente e del suo atto è un' esigenza ontologica, cioè uscente dalla natura stessa e dall' ordine intrinseco dell' ente; e però tale rapporto non è produzione soggettiva della mente umana, ma più tosto è analogo alla creazione, la quale, quantunque si faccia mediante il Verbo divino, tuttavia il prodotto è reale. Quanto poi all' idea specifica , ella non è che l' essere ideale considerato in rapporto con un reale possibile, rappresentato da vestigŒ o immagini del reale; e però si deve dire quello stesso che si disse della percezione. Tuttavia nella percezione e nell' idea specifica c' è di soggettivo l' affermazione o la negazione della realità; ma questo elemento soggettivo non è per sè l' oggetto di tali operazioni, e però non si può dire ente di ragione. Che se si considera l' affermazione stessa e la negazione come operazione del soggetto, in tal caso quelli si conoscono come entità reali, cioè come reali atti del soggetto intelligente, e però ancora non sono enti di ragione. Gli enti adunque che propriamente meritano d' essere appellati razionali , come quelli che si producono dalle operazioni della ragione senza che abbiano una reale esistenza in sè, si dividono primieramente nelle due classi indicate: che alcuni sono meri enti di ragione, quasi finzioni della ragione stessa; altri sono misti, cioè parte sono enti di ragione, e parte sono enti oggettivi, ovvero anche reali. I meri enti di ragione sono prodotti dalle seguenti operazioni della ragione: I Negare ; II Dividere ciò che nell' ente oggettivo o nell' ente reale è unito; III Riferire una cosa ad un' altra, trattandosi di cose non ordinate tra loro per via di nessi reali attivi o passivi; IV Comporre ciò che non è composto in sè stesso; V Analogare; VI Sostanziare ciò che non è sostanza; VII Suppositare . Dal che si vede, che gli enti di ragione appartengono tutti alla scienza di predicazione, e non alla scienza oggettiva. Facciamo un cenno degli enti di ragione che vengono prodotti da ciascuna di quelle operazioni. I Negare - Produce gli enti negativi . - La ragione avendo facoltà di asserire e di predicare, ha quella altresì di negare ciò che ha asserito e predicato, o che potrebbe asserire e predicare. Talora la negazione non è compiuta, e in tal caso si risolve in una limitazione, e si riduce al DIVIDERE. Ma i limiti e le privazioni delle cose, concepiti astrattamente, sono enti negativi con qualche relazione alla cosa limitata. Talora la negazione è completa, ed in tal caso l' ente ch' essa produce è il nulla : il quale pure suole rivestire varie relazioni, quasi termine delle limitazioni da una parte, e termine dell' entità che comincia dall' altra. Questi enti negativi non involgono errore se si prendono per quello che sono; ma la mente erra quando li prende per cose positive che non sono. II Dividere - Elementi formali (2) di un ente . - In un ente semplice ed indivisibile per sè stesso la mente distingue più cose, le quali non si trovano separate in natura, onde la separazione è posta dall' atto della mente. Ma questa separazione mentale è di due specie: a ) Talora i due o più elementi formali, distinti dalla mente in un oggetto, quantunque non separabili, cioè tali che l' uno non può esistere senza l' altro, sono distinti nell' oggetto stesso, di maniera che l' uno non è l' altro, nè entra nell' altro, ma sono legati insieme per una specie di relazione essenziale . Così nel sentimento si distingue il principio ed il termine, il senziente e il sentito, benchè non possano separarsi senza annullarsi, e senza annullare il sentimento che essi costituiscono. In questo caso la distinzione che fa la mente è in sè vera, e a quest' ente di ragione risponde una realità nella natura della cosa. Ma se la mente, oltre giudicarli distinti , trapassa a giudicare che esistano separati , o che l' uno di essi può star senza l' altro; in tal caso, alla prima distinzione che è vera, si aggiunge un giudizio falso, un errore. A questa specie si riducono tutte quelle cose che sintesizzano, come gli organi di un unico organismo, i quali non esistono come tali, che per ragione del tutto, e dal tutto non si possono dividere; l' intelligente e l' inteso, i termini correlativi, le tre forme dell' essere, ecc.. b ) Talora i due o più elementi inseparabili sono bensì distinti nell' oggetto, ma l' uno di essi entra nell' altro, e non viceversa. Così, quando la mente in un individuo da lei percepito distingue ciò che è proprio, ciò che è specifico, e ciò che è generico; allora il concetto di ciò che è specifico contiene in sè virtualmente anche ciò che è proprio, e il concetto di ciò che è generico contiene virtualmente ciò che è specifico; ma non viceversa. All' incontro, se la mente non guarda ciò che questi concetti contengono virtualmente, ma ciò che si trova nella realità propria, nella realità specifica, e nella realità generica; se n' ha il contrario: perocchè in un reale, che ha tutto ciò che gli spetta in proprio, è conseguentemente realizzato anche ciò che esprime la sua specie ed il suo genere; e in quanto si considera realizzato in esso ciò che è specifico, già si contiene realizzato anche ciò che è generico (1). In tutte queste distinzioni che fa l' umana ragione si crea degli enti di ragione, i quali non si dee già credere che sieno chimerici e vani, ed errano quei filosofi, che dicono, parlando anche in questo ambiguamente, che tali idee non hanno alcun valore obiettivo; poichè, se la mente con esse non considera e pensa tutto intiero l' oggetto, lo considera nondimeno e lo pensa ne' suoi formali elementi, realizzabili o realizzati nel tutto. La mente adunque non erra con queste distinzioni logiche; ma incomincia ad errare quand' ella vi sopraggiunge dei giudizi arbitrarii, coi quali si dà a credere, che quelli che non sono che elementi formali dell' oggetto, sieno altrettanti oggetti compiuti. III Riferire - Relazioni razionali . - Di queste abbiamo accennato di sopra. Le relazioni possono essere classificate anch' esse in generi e specie, e questi generi e specie sono come elementi formali delle relazioni medesime. IV Comporre - Unioni razionali . - Queste si fanno per lo più per via di relazione; ma la mente in generale ha la facoltà di considerare qualsivoglia complesso di cose eterogenee come una sola unità . Quindi le idee complesse razionali . V Analogare - Attributi . - Trattandosi di oggetti che la mente conosce solo negativamente, ell' è costretta attribuir loro, per via di certa analogia, le proprietà delle cose ch' ella positivamente conosce, e queste proprietà, in quanto sono predicate analogicamente dell' oggetto ignorato, diconsi attributi . Così il cieco nato dà le proprietà dei suoni ai colori di cui sente ragionare, e dirà il color rosso dover esser simile ad una voce soprana, ed il nero ad una voce bassa. E così pure è che noi parliamo di Dio, trasportando in lui le perfezioni che conosciamo nella natura. Questa maniera di ragionare non induce alcun errore, qualora la mente che l' usa, sappia in pari tempo, che tali sue predicazioni sono meramente analogiche. VI Sostanziare - Esseri immaginarii . - Un' altra classe di enti di ragione sono quelli, che la mente compone di altri enti da lei conosciuti: e a questi appartengono le personificazioni, le mitologie o le favole, e gli enti ipotetici che per qualsivoglia ragione l' uomo introduce nel suo discorso. Questi esseri sono falsi ed erronei, e non hanno valore oggettivo in sè stessi, ma se l' uomo conosce la loro falsità, o ipoteticità, con ciò stesso sfugge all' errore, riconoscendolo. VII Suppositare - Enti suppositati . - Se, colla facoltà di astrarre e di distinguere, la mente umana produce quegli enti di ragione, che abbiamo detti elementi formali , e relazioni , ecc., colla facoltà d' analogare altri enti di ragione che diciamo attributi , e colla facoltà persuasiva ed assertiva gli enti immaginarii ed i negativi , colla intuizione si procaccia le idee; colla facoltà stessa di ragionare produce poi questa settima classe di enti di ragione, che diciamo suppositati , cioè presi per supposti . Ed ecco ond' ella è mossa a costituirli. Prima legge di operare della mente è il principio di cognizione, il quale la obbliga a concepire, tutto ciò che concepisce, come un ente; giacchè quel principio dice: « l' oggetto dell' intelligenza è l' ente ». Ora tale è la natura dell' ente che non si può concepire, se non si concepisce in esso un atto primo. Quindi accade, che anche gli enti di ragione, i quali non hanno la natura d' atti primi, ma o sono semplici elementi di tali atti, o sono atti secondi, o sono negazioni di atti, non si possono concepire dalla mente, se ella non li veste della forma di enti, e perciò di atti primi, senza di che ella non potrebbe pronunciarli così separati e divisi dall' ente. Al che le prestano gran servizio i vocaboli e gli altri segni sensibili: i quali, non rappresentando la cosa segnata nella sua natura, ma solo indicandola, non porgono all' attenzione di chi gli usa la distinzione che passa tra gli enti reali e compiuti, e gli enti di ragione. Onde venendo tutti significati per egual modo, anche gli enti di ragione passano mescolati e indistinti insieme cogli enti compiuti e reali, e sostengono, per così dire, la persona di questi. Nel che la mente non prende errore, se ella non sa qual sia il personaggio che giuocano tali enti in sulla scena del suo pensiero. Posto adunque che la mente è obbligata di considerare gli enti di ragione come enti in sè, niuna meraviglia è, ch' ella li prenda nel ragionamento a suppositi: e questi sono quelli che più sopra abbiamo appellati subietti dialettici . Noi intendiamo sotto l' espressione di partizione fisica tutte quelle distinzioni dell' ente, che non hanno per loro fondamento il linguaggio, nè le operazioni subiettive della mente umana, ma che sono nell' ente stesso, sia reale, sia ideale. La prima divisione, che sotto questo punto di vista si presenta in Aristotele, si è dell' ente singolare e in sè sussistente, e dell' essere universale , che non esiste separato e per sè, ma nelle cose come forma della materia, e nella mente come specie, separate dalla materia corporea, ma non da una sostanziale intuizione. L' ente singolare sussistente è la SOSTANZA, ossia l' ousia prima, [...OMISSIS...] : l' ente universale si riduce da Aristotele, come a sommi generi, alle Categorie. L' ente singolare e sussistente, cioè la sostanza prima, è triplice: 1 l' una sensibile e corruttibile; 2 la seconda sensibile e mobile, ma incorruttibile (gli astri); 3 la terza insensibile, incorruttibile e immobile, il primo motore (2). L' ente universale non è per Aristotele un ente sussistente, ma inseparato dal singolare: tuttavia esso considera le dieci categorie, in cui lo riparte, come i dieci generi supremi dell' ente (3). Conviene dunque che noi esaminiamo diligentemente questa partizione. La dottrina delle Categorie Aristoteliche soggiacque a diverse interpretazioni, ciascuna delle quali potrebbe subire una critica speciale; ma la prima osservazione è questa appunto d' essere da Aristotele esposta in un modo pieno d' incertezze e d' anfibologie, onde le varie interpretazioni. Pure, aderendo alla lettera d' Aristotele, ella apparisce meno imperfetta che pigliandola come fu intesa dagli scoliasti greci, e da' loro discepoli gli Scolastici. Partendo dunque dal principio che Aristotele, colle categorie non volle far altro che classificare i sommi modi dell' ente secando ne' suoi elementi il linguaggio e cercando in questo i più generici e primi predicati dell' ente (1), non farà più meraviglia, che nella tavola delle categorie aristoteliche non si trovi nè l' ente , nè la materia . Nè l' uno nè l' altra poteva trovarci luogo: non l' ente , perchè egli non è un modo, ma quello che di tutti i modi è suscettivo, e quindi di tutti i predicati; non la materia perchè nè pur essa è un modo dell' ente, ma, secondo Aristotele, il substrato ( «hypokeimenon») di tutti, e quella che sostiene tutti i modi. Io non intendo qui ricercare, se la materia e l' ente (privo de' suoi modi) fosse per Aristotele il medesimo: certo è, che Platone stesso prende l' «usia», ovvero l' «on», come l' indeterminato, l' informe, e in una parola la materia; se non che egli distingue, come vedemmo, tre materie, l' ideale , la spaziosa e la corporea , onde i suoi tre sommi generi degli enti. Aristotele dunque dice, che [...OMISSIS...] . Riconosce dunque Aristotele, che la specie e la materia sono di diverso genere tra loro, perchè non si possono condurre a un medesimo, rimanendo sempre distinte. Ma oltre questi due primi generi, distingue quelli che si formano dalle categorie dell' ente [...OMISSIS...] . Ma che sono questi schemi di categorie dell' ente? e che cosa è l' ente di cui sono categorie? E se anche la specie e la materia sono generi, non diventeranno dodici i generi anzichè dieci? Per rispondere a queste domande, conviene osservare che per Aristotele ogni genere è una specie (2), onde nomina spesso anche « « la specie della materia » » (3). Ma la materia stessa non è una specie, ma una natura contrapposta e irreducibile alla specie. Conviene dunque, che anch' egli ammetta due principŒ , che infine, con qualunque nome si chiamino, sono sempre quelli de' pitagorici: l' indeterminato e il determinante. L' indeterminato, cioè la materia, non ha numero, perchè non ha specie, e quando riceve la specie, allora solo si figura e distingue: la specie all' incontro, che è il determinante, ha numero, cioè ci sono diverse specie. Ricercando quali sieno, si viene a scoprire una gerarchia di specie, nella quale si distribuiscono in più e meno estese, e quelle contengono queste. Ma le più estese di tutte non sono contenute in altre d' estensione maggiore, appunto perchè sono le più estese. Rimane dunque a cercare, se le più estese di tutte, irreducibili ad altre, sieno una sola, o più; e questa è la ricerca delle Categorie, come le concepisce Aristotele. Onde « il diverso schema della categoria dell' ente », equivale a dire « la diversa specie che si può predicare dell' ente »: l' ente poi, che è il subietto della predicazione, è la materia di cui, avendo già ricevuto la specie, questa si può predicare (1). Rispose dunque Aristotele, che le specie più estese, e irreducibili, non sono una sola, ma dieci: e così stabili le sue dieci Categorie. Lasciati dunque da parte gli altri significati, in cui si prende la parola genere (2), Aristotele nelle categorie parla di « « quelli che ammettono differenze » ». [...OMISSIS...] Il genere categorico dunque si considera da Aristotele, come materia rispetto alla specie , e subietto delle differenze . Ma il subietto stesso e la materia prendono significati diversi tanto presso Platone, quanto presso il suo discepolo. Onde questi generi, ciascuno de' quali è detto « come materia »( «hos hyle»), si distinguono secondo che « « il subietto primo, ossia la soggiacente materia, è diverso »(4) »: di che deduce, che « la specie e la materia sono generi diversi », perchè, tanto la specie, quanto la materia, sono subietti diversi irreducibili l' un all' altro. Dove la parola « materia »qui ha mutato di significato, cioè ne ha preso uno più ristretto, ha preso il significato di « materia reale ». Checchè dunque dica altrove Aristotele circa la doppia materia ammessa da Platone, cioè l' ideale e la reale, egli cade nella stessa distinzione: poichè, se ogni genere si considera come materia, «hos hyle», e se due generi sono « la specie e la materia », convien dire che ci sia una materia ideale , che costituisce il genere delle specie, e una materia reale , che costituisce un altro genere. E questi sono veramente i sommi generi d' Aristotele del tutto irreducibili. Ma qual genere può costituire la materia reale? Se al genere, secondo lo stesso Aristotele, sono necessarie le differenze [...OMISSIS...] , come la materia, priva delle specie, avrà differenze? In nessun modo, differenze che abbiano un subietto identico; e altramente non sarebbero differenze. Per questo Aristotele, benchè chiami un genere la materia, non l' annovera co' sommi generi, cioè colle Categorie. Il che dimostra, che prenda la parola genere in due sensi diversi. Altro è dunque il genere che si definisce: « quello che è primo come subietto, e non si riduce ad un altro », e questa definizione conviene alla materia, che non si può ridurre alla specie: altro è il genere che si definisce: « il subietto delle differenze », e questa definizione non conviene ala materia (1), ma a quei generi ch' egli chiamò Categorie, poichè questi sono « i primi subietti delle differenze », che uniti a queste costituiscono i generi minori e le specie, e queste sottostanno come loro materia. Le Categorie dunque non appartengono alla materia reale, ma all' ideale, e sono le specie più estese , secondo Aristotele, e però le meno determinate e comprensive. Dal che si deriva primieramente, che Aristotele non ravvisò col suo pensiero la materia ideale in tutta la sua universalità, la quale non è altro che l' essere ideale (1), poichè, se l' avesse bene ravvisata col suo pensiero, egli si sarebbe avveduto ch' ella è una specie più estesa de' suoi dieci generi, e avrebbe ridotto questi a quella come a loro sommo ed unico genere, se così si vuol chiamare, perchè subietto dialettico irreducibile ad alcun altro, e suscettivo di tutte le differenze o determinazioni. Conviene dunque riconoscere che Aristotele ammette primieramente due principii (a cui aggiunge poi per terzo la privazione «he steresis») che non si fanno (2), la materia e la specie , e quest' ultima si parte, come nei sommi suoi generi , nelle Categorie: la prima poi è il principio, da cui vengono, non i generi, ma gl' individui , supposta la forma o specie. Ma risultando dall' unione di questi due principii, materia e specie, la sostanza; rimane a vedere come questa possa tuttavia annoverarsi tra le categorie: a tal fine dobbiamo ritornare alla dottrina aristotelica, che riguarda la sostanza. Primieramente dunque la sostanza è il primo, come dicevamo, della filosofia aristotelica, perchè di tutte le entità sono prime le sostanze, [...OMISSIS...] . E questa sostanza, che costituisce il primo filosofico d' Aristotele, non è l' idea di sostanza (essenza sostanziale), nè pur l' idea piena; ma la stessa sostanza reale. Questo suo concetto il dichiara, tra gli altri luoghi, nel libro delle « Categorie », dove parla della sostanza (4). [...OMISSIS...] Non poteva designarsi in un modo più preciso la sostanza individua e reale; perchè, essendo questa il subietto reale a cui convengono i predicati, è chiaro che dire: o che il subietto è nel subietto, o che il subietto si predica del subietto, altro non sarebbe che una logomachia assurda. Questa sostanza dunque, ovvero «usia» prima , non può essere la sostanza categorica, perchè le « Categorie » sono i sommi predicabili (1). Appresso, di quella sostanza che appartiene alle Categorie, e che è l' idea o specie di sostanza, o l' essenza sostanziale, soggiunge così: [...OMISSIS...] . Non dunque la sostanza reale, ma le specie e i generi della sostanza, dette da noi anche essenze sostanziali, si riducono, come all' idea più generale, alla categoria aristotelica della sostanza; dappoichè la sostanza categorica, come l' altre categorie sono comuni , dicendo Aristotele, che « « fuori della sostanza e dell' altre cose che si predicano, niente v' ha di comune »(3) ». Convien dunque conchiudere, che le Categorie aristoteliche non sono punto una partizione dell' ente in tutta l' estensione della parola, ma una semplice classificazione degli universali, ossia delle idee. Di poi è necessario osservare su questa classificazione quanto segue: 1 Niuna delle dieci categorie esprime puramente l' ente qual è in sè, non involto nelle operazioni della mente; ma tutte significano enti misti d' entità in sè, e d' entità prodotta dalle operazioni della mente. Per convincersene si consideri che i dieci predicamenti, secondo gli Scoliasti, si riducono: 1 alla sostanza, 2 agli accidenti distribuiti in nove classi (1). Ora la sostanza è un vocabolo che nomina l' ente con una relazione agli accidenti che sono in essa; e questa relazione è un ente razionale. Di più la parola sostanza divide l' ente da' suoi accidenti. Ma questa divisione e separazione è l' opera della mente: non trovasi nella natura delle cose, dove, quantunque ci sia distinzione, non vi ha separazione, cioè non c' è sostanza (propriamente detta) divisa dagli accidenti, nè ci hanno accidenti divisi dalla sostanza; ma la sostanza e gli accidenti formano un ente solo perfetto. Nei dieci predicamenti non si parte dunque l' ente puro, qual è in natura, nè l' ente qual è nella mente intuente; ma quell' ente artefatto dalle operazioni della mente stessa, da appendici che spettano alla condizione dell' ente razionale. Insomma sostanza ed accidente si possono dire elementi dell' ente finito, ma non enti compiuti. 2 Dalle Categorie aristoteliche rimane escluso l' ente assoluto . La parola sostanza , involgendo una relazione coll' accidente, non si può in senso proprio applicare che a quell' ente che è suscettivo di accidenti. Ma l' ente assoluto non ha accidenti: dunque il suo essere non si può in senso univoco e proprio chiamare sostanza, ma semplicemente ente . Oltre di ciò l' Ente assoluto, essendo singolare, non si può predicare di cosa alcuna, e però non appartiene al novero delle Categorie; ma è un' ousia prima. 3 Manca ancora nelle Categorie la sussistenza, «ypostasis», e la persona, «prosopon» (1). E qui è da notarsi, che i greci filosofi non isvilupparono mai il concetto di persona; e questo stesso vocabolo, nel senso filosofico, è dovuto ai dottori ecclesiastici, i quali n' abbisognarono per esprimere la sublime dottrina della Trinità, facendo con ciò grandissima giunta alla filosofia. 4 Manca oltreacciò per intero nelle Categorie aristoteliche l' essere morale , che è pure una forma primitiva dell' essere, la quale con niun' altra si può confondere o ridurre a nessun altro genere. 5 La categoria del luogo, «pu», porge due osservazioni a farsi: la prima, che altro è il luogo , altro lo spazio . Il luogo è una determinata parte dello spazio considerata in relazione dei corpi reali o immaginarii, che la occupano. Quindi il luogo non è che una relazione contenuta nella categoria «pros ti», laddove lo spazio è, sotto un certo aspetto, assoluto. Forse i greci non avevano una parola che significasse l' equivalente del nostro spazio puro ed assoluto, perocchè «diastema», non significa spazio, ma intervallo, o spazio limitato. S' avvicina però a significare lo spazio puro la parola «ekteneia», che vale estensione, benchè in greco, se non erro, ha più forza di significare l' atto dello estendersi, che lo spazio esteso; e così pure la parola «syneches», che suona continuo , e fu usata dagli Eleati appunto a significare il continuo esteso dell' universo, e finalmente la parola «chora» che vale recettacolo , e che io credo veramente sia adoperata da Platone per indicare lo spazio, benchè non senza una relazione al corpo in esso contenuto. Ma la ragione principale, per la quale Aristotele introducesse nelle sue Categorie il luogo e non lo spazio, probabilmente si è perchè avendo egli considerato nelle Categorie altrettanti modi di predicare, doveva fermarsi al luogo che si predica de' corpi, anzichè allo spazio illimitato che non si predica de' corpi. E tuttavia tra lo spazio illimitato, e il luogo (spazio relativo), c' è ancora lo spazio limitato occupato da' corpi (spazio limitato), il quale si predica de' corpi. Perchè l' ha dunque omesso il nostro filosofo? Si può rispondere che l' abbia compreso nella categoria della quantità «to poson». 6 Le categorie del luogo ( «pu»), e della situazione ( «keisthai») non sono modi con cui si predica l' ente in universale, ma un ente particolare, cioè l' ente esteso e corporeo. Ora le Categorie, nel senso d' Aristotele, non sembrano descrivere quante maniere si possano predicare le particolari specie di enti, nel qual caso il loro numero dovrebbe crescere pressochè all' infinito; ma sì quante sieno le maniere generalissime di predicare. Ora questo prendere l' ente esteso quasi fosse universale, quasi il luogo e la situazione propria dei corpi fossero predicamenti di ogni ente, dimostra, come la mente del filosofo era legata ai sensi ed agli enti corporei. Onde la sua ontologia riuscì angusta, perchè cavata principalmente dalla considerazione dell' infima specie degli enti, quali sono i corporei, anzichè dalla considerazione dell' ente in se stesso, senza restrinzioni positive ed arbitrarie. 7 Se tutte le Categorie di Aristotele sono enti involti in appendici provenienti dalle operazioni dell' intendimento, alcune sono al tutto enti razionali come la quarta, che è la relazione «pros ti». Vero è, che ci hanno certe relazioni oggettive: ma, oltre che il filosofo qui non le distingue dall' altre giacchè il «pros ti» abbraccia tutte le relazioni senza distinzione, è da considerarsi di più, che le tre ultime categorie ch' egli enumera l' avere , il fare , e il patire ( «echein, poiein, paschein»), sono relazioni reali. Onde da una parte la divisione delle categorie riesce imperfetta, perchè nella quarta «pros ti» già queste tre ultime si contengono; dall' altra, se queste categorie si escludono dalla categoria della relazione, questa non abbraccia quasi più altro che meri enti di ragione. Se non che, volendo enumerare le relazioni reali a parte, ne avrebbe dovuto aggiungere molte che omise, e principalmente il ricevere , che Aristotele confonde bene spesso col patire , ma a torto, perchè il patire involge il concetto d' una modificazione che l' agente produce nel subietto paziente; laddove il ricevere semplicemente non acchiude questo concetto, potendo il ricevente ricevere senz' esserne egli stesso modificato. Che se di più si considera la spiegazione che il nostro stesso filosofo dà delle Categorie, vedesi che egli riduce alla categoria della relazione anche la quantità comparativa, come il maggiore, il doppio ecc., e la posizione. Distingue adunque i varii aspetti, sotto i quali lo spirito considera le stesse cose, e ne forma varie categorie (1). Onde dice che il giacimento e la sessione , e gli altri atteggiamenti , sono ad altro; cioè esprimono relazioni: ma il giacere , lo stare , il sedere , ecc., non sono relazioni, ma sono denominati dalle posizioni rispettive le quali sono relazioni. Il che dimostra che la distinzione delle Categorie è tutta dialettica , come deve essere, perchè tolta dal predicare, sicchè esse si distinguono secondo il senso preciso delle parole, e però secondo le relazioni mentali significate dalle parole, di maniera che la posizione, per es., la giacitura, ecc. appartiene ad una categoria, cioè alla categoria «pros ti», e all' incontro lo stare, il giacere, ecc. appartiene ad un' altra categoria, cioè alla categoria «keisthai». E osserveremo anche qui di passaggio la somma diligenza che è necessario adoperare in tradurre un autore così dialettico, perchè, sostituendo una forma all' altra di dire, perisce spesso il vero sentimento che voleva esprimere il filosofo. La stessa cosa può appartenere a più predicamenti, secondo l' aspetto in cui la si considera e il modo con cui ella verbalmente s' esprime. Prendiamo l' esempio dall' ottava categoria «echein», che da alcuni si traduce impropriamente habitus . Se si considera e si esprime AVERE, l' abito appartiene all' ottavo predicamento «echein»; se l' abito si considera come una relazione a chi lo ha, appartiene al quarto predicamento «pros ti», come si rileva dal capo III del libro « Dei Predicamenti »; se si considera come un abito che affetta e qualifica chi lo ha (il che accade specialmente degli abiti spirituali), appartiene al terzo predicamento «to poion», come pure si dice nel capo 4 del citato libro. Laonde Aristotele nell' opera « Dei Predicamenti » fin da principio definì quali sieno i nomi denominativi, cioè quelli che vengono imposti agli enti da qualche cosa di accidentale, come grammatico da grammatica, e però sono casualmente differenti dai predicamenti, dunque si denominano le cose, e le cose stesse così denominate cangiano talor di predicamenti. Affine adunque d' intendere i predicamenti, giova aggiunger loro il verbo essere che esprima la forma della predicazione, come nella seguente: «e usia» «to poson» «to poion» «pros ti» «pu» «pote» «keisthai» «echein» «poiein» «paschein» Le Categorie dunque d' Aristotele non compartiscono l' ente, ma distinguono i modi di predicare qualche cosa dell' ente, e quindi i concetti diversi, secondo i quali si considerano gli enti. Di più Aristotele distingue il modo di predicare una cosa d' un' altra da ciò che si predica . I modi di predicare li chiama predicamenti o categorie , e ciò di cui in ciascun modo si predica, li chiama predicabili o categoremi. I predicabili, di cui parla ne' libri « De' luoghi » si riducono a quattro: il termine , il proprio , il genere , l' accidente: e sotto il genere comprende la differenza specifica e la specie, che è lo stesso genere coll' aggiunta della differenza. Dice adunque, che in ciascun dei detti modi di predicare si possono predicare quattro cose: il termine , cioè la quiddità della cosa, o il proprio , cioè una tale qualità che sia propria di quella sola cosa di cui si parla, come dell' uomo aver la facoltà d' imparare la grammatica (il che non costituisce l' essenza dell' uomo, ma è sempre unito all' essenza), o il genere colle differenze e le specie, o l' accidente (1). Questi predicabili o ricevono le loro determinazioni da questi quattro predicabili (2). Per esempio, se noi prendiamo il predicamento quale , questo quale si può definire, o esprimendone l' essenza (predicabile «Horos») o esprimendo qualche sua proprietà che non è però la sua essenza, ma conseguente ad essa (predicabile «idion»), si può ancora definire genericamente (predicabile «genos»), si può definire specificamente cioè col genere e colla differenza (predicabile «eidos», e «diafora»), e si può definire indicando solo qualche suo accidente (predicabile «symbebekos»). E così i predicabili si possono applicare alla definizione dei predicamenti . Concludiamo, le Categorie aristoteliche non danno una partizione ontologica dell' ente, ma dialettica; ed anche questa manchevole. Non soddisfanno dunque alle esigenze dell' Ontologia. L' aristotelismo, prevalso nelle scuole, racchiuse gl' ingegni entro il circolo delle partizioni dialettiche, e se alcuno tentò di uscire da quella cerchia, e spaziare negli ordini degli enti, non gli riuscì bene l' audacia, impotente a vincere le difficoltà del cammino scientifico, non tracciato quasi da piede alcuno, e la guerra degli uomini. Onde, quantunque nella storia della Filosofia si trovino molti tentativi dialettici sforzi di classificare più ampiamente che non aveva fatto Aristotele i concetti generali delle cose, componendo arti magne e mnemoniche e lingue universali, da Raimondo Lullo specialmente sino a Leibnizio; tuttavia invano si cercherebbe ne' lavori anteriori al passato secolo qualche veduta nuova ed originale sulla partizione ontologica dell' ente. Conviene dunque discendere fino al Kant, il quale tuttavia dichiara, che il suo scopo nel disegnare le Categorie è quel medesimo ch' ebbe Aristotele (1). E di vero, che anche la partizione del Kant sia dialettica anzichè ontologica , si rileva da questo, ch' egli parte dal principio che « pensare è giudicare », come Aristotele parte dal principio che « i modi del predicare sono i modi dell' essere ». I due filosofi in questo vanno a pieno d' accordo. E che « pensare sia giudicare », noi l' accordiamo (2), perocchè pensare è propriamente usare della facoltà del pensiero. Ora analizzando l' atto del pensiero trovasi che questo suppone una facoltà innata, e che questa suppone l' intuizione primitiva ed immanente dell' essere. Così dal pensare, cioè dal giudicare, il Kant si sarebbe potuto sollevare alla vera teoria dell' umana intelligenza. Ma, invece di ricercare le condizioni del pensiero le vere anticipazioni, egli s' occupò unicamente, come avea pure fatto Aristotele, delle forme del pensiero, e credette avere esaurito il suo argomento, quando le avesse diligentemente classificate e distinte. E come Aristotele prese a classificare gli enti misti di entità a parte sui e di operazioni mentali, senza accorgersi di tale mistura, così pure fece il Kant; ma con questa differenza, che quella parte, che gli enti aristotelici aveano d' attorno pel lavorìo soggettivo della mente, fu presa dallo Stagirita come fosse anch' essa entità vera a parte sui; laddove Kant, eguale ad Aristotele nel tenere le due parti confuse, prese anche la parte, che era vera entità a parte sui , per cosa soggettiva, razionale, dalla mente lavorata e prodotta. Onde il dialettico Kant diede nell' eccesso opposto a quello in cui avea peccato il dialettico Aristotele. Il Kant s' accorse che le cognizioni che cadono nell' umana mente, altre sono necessarie ed universali, altre sono contingenti e particolari. Que' giudizi , che non ponno intendersi se non concependo la necessità e l' universalità, li chiamò a priori , e se non sono dedotti da niun elemento empirico precedente, li disse a priori puri: que' giudizi che si ponno intendere senza ricorrere alla necessità ed universalità, egli li nominò a posteriori . Fin qui niente accade da osservare. Ma quando viene a determinare onde nasca la necessità e l' universalità da una parte, la contingenza e la particolarità dall' altra, allora egli stabilisce un criterio evidentemente erroneo, il quale, come è il fonte del criticismo, così pure è il fonte dell' erroneità di tale sistema. Il principio è questo: [...OMISSIS...] . Egli è pur singolare a vedere con quale leggerezza e sicurtà Kant ammette questo principio. Egli avrebbe dovuto darsi tutta la cura di provarlo con dimostrazione rigorosa, giacchè trattasi del fondamento unico su cui posa tutto l' edificio della sua filosofia. E pure nulla di questo. - Egli lo introduce a principio nel discorso quasi per incidenza (3) come cosa che viene da sè, su cui non si aspetta dal lettore la minima opposizione. [...OMISSIS...] Egli dunque dà per cosa certissima che, se qualche cosa vi ha nelle cognizioni umane che non venga dall' esperienza, debba necessariamente esser prodotta dalla stessa nostra facoltà di conoscere, e che le cognizioni umane non possano avere alcun altro fonte fuori di questi due: 1 i sensi , e 2 la stessa facoltà di conoscere . Tuttavia se egli avesse indagato la natura della facoltà di conoscere, non già dalle supposte produzioni di lei, ma dal rapporto che passa tra lei ed i suoi oggetti necessarii, egli avrebbe trovato ancora il varco d' uscire dal labirinto del soggettivismo. Ma vi si perdette irrimediabilmente, posciachè prese la facoltà di conoscere unicamente come attività del soggetto, o mosse da un principio anticipato, ch' ella producesse a sè stessa tutto ciò che si trova nelle sue cognizioni, e che non viene dato dai sensi. Questo è il pregiudizio della filosofia Kantiana, il postulato arbitrario, il punto in aria a cui il filosofo appoggia la leva per muovere da' suoi cardini il mondo scientifico. Posto che ciò che si trova nelle cognizioni umane travalicante il confine dell' esperienza è una mera produzione della facoltà di conoscere, ne consegue necessariamente, che ad indagare la natura di tale facoltà basti occuparsi in enumerare con accuratezza e classificare queste sue produzioni. Tale adunque fu il campo, in cui si esercitò il filosofo di K”nisberga. Quel pregiudizio fondamentale gli prescriveva il cammino da tenersi nell' investigare la natura dell' intelligenza, e quindi lo impediva d' investigare questa natura per altra via che la segnata da quel pregiudizio stesso. Quindi la natura della facoltà di conoscere rimase incognita a Kant, il quale non fece che ricevere la descrizione di questa facoltà quale gliela dava il mentovato pregiudizio ch' ella fosse la causa producente di ciò che si conosce oltre i limiti dell' esperienza. Egli è ancora singolare a vedere, quanta fiducia dimostri questo filosofo ne' dati dei sensi, e quanto poca, anzi nulla, ei ne conservi pei dati dell' intelligenza. Questo è il costante carattere de' sensisti: ai sensi essi credono ciecamente: le loro deposizioni sono le sole oggettive, come espressamente dice fra noi il Galuppi: l' intelligenza sola non ha alcuna virtù di cogliere dei veri oggetti, ma sol de' fenomeni. Favellando di ciò che l' intelligenza crede conoscere al di là dell' esperienza, ei la rassomiglia alla colomba che sentendo la resistenza dell' aria s' immaginasse di volare più facilmente e liberamente nel vuoto. [...OMISSIS...] Nel qual discorso si ammette come indubitato che il sensibile sia il solo punto d' appoggio che abbiano le ali dell' intelletto, e che senza il sensibile l' intelligenza non trova che campi vuoti. Non sono questi i soliti pregiudizi volgari dei sensisti? i quali non si son saputi svestire nè pure da colui che pretese di darci un sistema di filosofia trascendentale! E veramente, che questo sia pregiudizio, fede cieca e volgare ai sensi, incredulità arbitraria e parimenti cieca alla deposizione dell' intelligenza, si può desumere da questa riflessione: Non meno il senso che l' intelligenza sono potenze dell' uomo; Non meno il senso che l' intelligenza hanno dei loro proprŒ termini, cioè il senso ha i termini sensibili, l' intelligenza i termini intelligibili; Non meno il senso che l' intelligenza ha questa legge che non percepisce il suo termine, se non a condizione che egli sia congiunto colla sua potenza: di maniera che egli è un pregiudizio volgarissimo il credere che il senso percepisca i suoi termini in quanto sono staccati da lui, e in questo senso esterni; onde se per esterni si intende staccati dalla potenza, è falso che il senso percepisca meglio che l' intelligenza un' entità esteriore. Se adunque la condizione delle due potenze in tutte queste condizioni è uguale, perchè mai, se non per un mero arbitrio, si dichiara che il senso ha virtù di percepire veri oggetti, e non così l' intelligenza? Questo è il medesimo che sragionare in questo modo: [...OMISSIS...] . Ma onde si prova la minore di questo sillogismo? Da nessuna parte, per nessuna via. - Essa non è che l' espressione della profonda INCREDULITA` che si è messa negli animi alle cose sopra sensibili; la prova evidente della corruzione e DELLA MATERIALITA` DEL SECOLO. Se invece di asserire ciò che detta l' incredulità preconcepita alle cose spirituali, si volesse veramente ragionare e filosofare, si perverrebbe ad un risultamento assai diverso; cioè si conoscerebbe: 1 Che il senso non attesta nulla per sè solo, e non ha alcuna virtù oggettiva perchè esso ha termini, ma non oggetti: 2 Che è solo l' intelligenza quella che vede i fenomeni e le entità sensibili nel vero oggetto intelligibile, l' ente da lei intuìto fuori di tutti i sensi corporei, e così gli oggettivizza, ossia li conosce come enti, come oggetti distinti dalla facoltà; 3 Che la intelligenza per conseguenza ha un oggetto al tutto superiore al mondo sensibile, e che quello è il solo vero oggetto dal quale viene l' oggettività alle stesse entità sensibili; 4 Che la sola intelligenza perciò ha vera virtù oggettiva, cioè ella sola è la facoltà di farci conoscere con certezza le cose come sono in sè, e distinguere da noi stessi quelle che sono da noi distinte. I sensisti adunque, e Kant con essi, cadono fra l' altre in questa inconseguenza, che prestano tutta fede alla ragione quando ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti sensibili, e le negano fede quando con eguale o ancor maggior asseveranza ella ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti intelligibili; quasi che una stessa facoltà potesse essere ad un tempo e verace e menzognera secondo il bel piacere de' filosofi materiali. Per altro, quello che è ancor più assurdo si è il dilemma Kantiano: che ciò che non viene dall' esperienza debba venire dal soggetto intelligente; e però che non venendo dall' esperienza dei sensi il necessario e l' universale, questo dee venire dal fondo dell' uomo stesso. Questo argomento si potrebbe rovesciare, e riterrebbe lo stesso valore del precedente, dicendo: « Il necessario e l' universale non può venire dal soggetto intelligente, perchè questo non è nè necessario nè universale; dunque deve venire dall' esperienza ». Questo « dunque deve venire dall' esperienza », vale altrettanto del primo « dunque deve venire dal fondo dell' uomo ». L' uno e l' altro nulla provano, anzi sono manifestamente erronei. La radice di questo errore, si è il non distinguersi la facoltà dell' umana intelligenza dagli oggetti dell' intelligenza: quella è contingente e particolare, questi sono necessarii ed universali. Questi dunque non possono venire da quella, perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa (1). Ma datemi un uomo pregiudicato, un uomo che già precedentemente abbia invincibile ripugnanza (benchè non sorretta da ragione alcuna) ad ammettere oggetti intelligibili diversi da' sensibili. Questi che farà? Si getterà ad asserirvi francamente (perchè tali prevenuti asseriscono, non ragionano), che quelle qualità di universalità e di necessità non possono essere che apparenti, il che è quanto dire che si potrebbe pensare che l' ente non fosse ente, o che si potrebbe pensare qualche cosa fuori dell' ente, distruggendo così tutti i principŒ della ragione. Se Kant, o piuttosto il suo secolo e il suo paese non avessero rotto il filo della tradizione filosofica, egli avrebbe potuto imparare da que' pensatori che vissero molti secoli prima, che vi ha ripugnanza intrinseca in fare che « la natura contingente produca il necessario, l' universale, l' eterno », caratteri di cui sono forniti gli esseri ideali, e che, o convien negare i principŒ della ragione, e perciò rinunciare del tutto a filosofare, giacchè in qualsiasi modo si filosofa, si fa sempre usando di que' principii; o convien cercare altronde l' origine degli oggetti ideali, e de' loro eccelsi attributi. Io ho già citato altrove questo passo della sublime operetta che ha per titolo « Itinerario della mente a Dio », che qui riproduco: [...OMISSIS...] . Il quale argomento è così evidente, che nessun sofisma il potrà abbattere giammai. Malebranche ripetè questo argomento, ma avendo confuso l' oggetto eterno , che lo spirito nostro vede, col soggetto eterno (i quali sono una cosa in sè, ma sono due cose rispetto al nostro spirito) preparò la via a' moderni soggettivisti. [...OMISSIS...] Ma il Malebranche altrove sostituisce alle idee la sapienza di Dio; la quale appartiene a Dio, concepito come soggetto. La sapienza divina ha per termine le idee, o piuttosto il Verbo divino; e noi non vediamo mica la sapienza divina naturalmente, ma vediamo le idee nostre, le quali, senza la divisione che hanno nella mente nostra, nel Verbo divino con unità perfettissima si contengono. Onde, quantunque sia vero che noi siamo illuminati dal Verbo, non è però vero che vediamo per natura lo stesso Verbo, o il modo col quale le idee si unificano nel Verbo. Epperò nè pure è vero che vediamo la sostanza divina, o le idee nostre quali sono nella divina sostanza. Conosciuto il vizio radicale della filosofia critica; conosciuto com' ella si eriga sulla fracida base di un pregiudizio materiale e cieco: vano è sperare di trovare in essa una buona Ontologia. Tuttavia vediam brevemente quali sieno le partizioni dell' ente, che questo filosofo ci viene proponendo. L' ente di Kant, parte prodotto, parte dipendente dalle facoltà dell' uomo, dovea partirsi come queste facoltà; le quali egli riduce a tre: Senso, Intelletto, Ragione . L' Estetica trascendentale, cioè la dottrina della sensitività, ci sembra la parte migliore della « Critica della Ragione pura ». Ma ella soggiace tuttavia alle seguenti opposizioni: 1 Kant, seguitando non pochi filosofi che il precedettero (1), considerò lo spazio ed il tempo come fossero cose della stessa condizione: e dichiarò il primo forma della sensitività esterna, e il secondo forma della sensitività interna. Ma il tempo non si riferisce meno agli enti esterni, cioè a quelli che sono nello spazio, che agli enti spirituali, come sarebbe l' anima nostra e le sue modificazioni: dunque se fosse forma della sensitività, egli dovrebbe esserlo non meno dell' esterna che dell' interna. 2 Il tempo non si può pensare se non come una successione di cose almeno possibili; e se non si pensa questa possibilità, non si pensa al tempo: laddove io posso pensare lo spazio, non già senza la possibilità de' corpi, ma bensì senza pensare alla possibilità de' corpi, come un' estensione illimitata vacua del tutto (2). Quindi il concetto del tempo stà essenzialmente nella relazione di più cose che si succedono. All' incontro lo spazio si concepisce immobile, indivisibile, uniforme, senza alcuna necessaria relazione ai corpi. Il tempo adunque come concetto, consistendo in una relazione, esige un oggetto intellettuale; perocchè ogni relazione tra più cose che non agiscano tra loro, appartiene alla mente, appartiene cioè all' ordine che hanno le cose nella mente «(V. Antrop. , p. 276, 277) ». 3 Se poi si cerca in che consista tale relazione, ella si trova nella limitazione e mutabilità delle cose contingenti, riferita dalla mente all' illimitazione, immutabilità, ed eternità dell' ente, col quale conosciamo le cose. Ma questa eternità dell' ente che sta innanzi alle menti, benchè necessaria a concepire il tempo come termine di confronto, tuttavia non è lo stesso tempo. Laonde quel tempo puro di cui parla Kant come necessario a conoscere il tempo empirico, non è il tempo, ma è la stessa eternità dell' ente di cui noi abbiamo l' intuito, alla quale noi confrontiamo le cose variabili, o possibili o reali. Imperocchè veramente noi non potremmo dire che le cose si succedono, non potremmo concepire la successione, se non avessimo prima concepita la non successione, cioè la stabile presenza dell' ente; quel concetto supponendo questo come un suo relativo antecedente. Noi abbiamo già dimostrato nella « Psicologia » che la successione non può essere concepita, se non è tutta simultaneamente presente allo spirito: il concetto dunque della successione dimanda un modo di concepire simultaneo ed immobile, e questo ci viene dalla natura dell' ente intuìto che è fuori dello spazio e del tempo «( Psicol., p. 1179) (1) ». Il tempo astratto dalle cose è un ente di ragione, un vero concetto astratto e composto; ma il tempo affermato nelle cose è un' entità mista consistente in « un rapporto differenziale che hanno le cose contingenti da noi concepite coll' essere immutabile da noi intuìto, il qual rapporto sta nel riconoscere la successione di quelle nella presenzialità di questo ». 4 All' incontro lo spazio ha egli natura di concetto intellettivo? Quei filosofi che l' asseriscono come Kant (1), confondono il concetto dello spazio collo spazio. Che lo spazio abbia un concetto come l' hanno tutti i corpi, ciò è indubitato; ma che lo spazio stesso sia un concetto, questo è falso. 5 Kant dice che [...OMISSIS...] , e con ciò intende provare la necessità dello spazio, e quindi la sua provenienza soggettiva. Ma egli è falso, che non si possa prescindere col pensiero dallo spazio. Quand' io penso ad un' idea, o ad uno spirito, non penso allo spazio. Ora non potrei io limitare il mio pensiero a pensare a tali cose immuni affatto di spazio? E non posso anche concepire la possibilità che Iddio avesse prodotti de' soli spiriti, i quali non pensassero che a cose spirituali, nel qual caso egli non avrebbe creato lo spazio. Niente di ripugnante in ciò. Lo spazio adunque non è necessario, ma contingente, e creato. Che cosa è adunque lo spazio? Egli è un termine del nostro sentimento fondamentale; è una realità: egli appartiene dunque alla potenza della sensitività corporea come un' antecedente e condizion sua necessaria; è una forma, ma forma distinta dalla stessa sensitività, come più a lungo abbiam detto nell' « Antropologia » e nella « Psicologia » «( Antrop. , II; Psic. p. 554 e seg.) ». 6 Finalmente Kant crede che senza spazio e tempo non si possa pensare, non si possa avere alcun oggetto nel pensiero, e che per ciò essi si trovino in tutti i concetti dell' intendimento (1). Ma benchè ad assentire a questa dottrina siano inclinati gli uomini, perchè la loro attenzione è assorbita, quasi direi, dai corpi e dai loro fenomeni; tuttavia non lice ad un filosofo procedere così materialmente da non intendere che la mente pensa alle essenze le quali sono per sè oggetti, e sono tuttavia immuni da ogni spazio e da ogni tempo. Dal quale errore di fatto Kant ritrasse un grande svantaggio nella deduzione delle sue categorie, perocchè egli non pensò a classificare in esse se non gli oggetti che soggiacciono allo spazio e al tempo, come tosto vedremo (1). Veniamo ora alla derivazione de' concetti fondamentali della mente che Kant appella categorie. Kant primieramente confonde i giudizi co' concetti , descrivendo quelli come un' aggregazione di questi. Egli è prezzo dell' opera, che noi qui esaminiamo con qualche diligenza la dottrina Kantiana del giudizio, onde il nostro filosofo deduce tutta quanta la sua teoria filosofica, discoprendo i vizŒ di questa teoria nella loro radice, dopo avere svelati quelli che giaciono ne' preliminari di lei. A tal fine esponiamo la dottrina del giudizio colle parole stesse di Kant. [...OMISSIS...] . Egli prende quindi a classificare queste funzioni dell' unità nel giudizio , e ne fa uscire quattro generi dei giudizŒ, suddiviso ciascuno in tre specie, e così trova dodici classi di giudizŒ, ciascun de' quali somministra un attributo generale; e questi dodici attributi sono i dodici concetti fondamentali , ossia le dodici categorie di Kant. Ora ecco i vizŒ radicali di questo che egli chiama « « filo conduttore per iscoprire i concetti puri dell' intendimento » ». 1 Dicendo Kant che giudicare (sinonimo di pensare) è conoscere per via di concetti, egli omette nella definizione del giudizio quell' elemento che ne costituisce l' essenza, voglio dire la copula. La copula di ogni giudizio, anche del giudizio negativo, si riduce all' affermazione , onde fu detto giustamente che giudicare è affermare . Quindi è del tutto falso, che giudicare sia conoscere per via di concetti: anzi il vero si è che « « giudicare è conoscere per via di affermazione, o, se si vuole un termine più generale, per via di predicazione » ». Nell' atto di affermare o di predicare sta l' essenza del giudizio. Ora il conoscere per via di concetti, e il conoscere per via di affermazione, sono cose distintissime, e costituiscono le due grandi classi del sapere umano che abbracciano « le cognizioni ideali », o, come noi sogliamo anche chiamarle, intuitive, le quali sono quelle che si hanno per via d' idee o di concetti; e « cognizioni di predicazione »; alle quali soltanto appartengono i giudizŒ «( Psicol. , n. 1006 e seg.) ». 2 Non avendo Kant conosciuta la differenza essenziale che passa fra il conoscere per concetto, e il conoscere per affermazione, egli disse che [...OMISSIS...] . Se ogni cognizione umana fosse un conoscere per meri concetti, nulla si conoscerebbe per via di giudizio ossia per via di affermazione. All' incontro Kant dice ancora, che tutto si conosce per via di giudizŒ. Ella è questa in se stessa una patente contraddizione; la quale nasce dalla confusione fatta da questo filosofo tra concetti e giudizŒ; avendo egli nel seno dei concetti introdotti, senz' accorgersi, i giudizŒ. All' incontro concetto e affermazione sono cose affatto distinte: il concetto pone innanzi alla mente l' essenza delle cose racchiusa nel concetto, e questa essenza è data all' uomo, non già formata dall' operazione dello spirito stesso: l' uomo non fa che intuirla tale quale gli è data (1). Erra dunque grandemente Kant sopprimendo una delle due grandi classi del conoscere umano; cioè confondendole in una, ed a quest' una concedendo gli attributi di entrambe. 3 Ma onde una tanta confusione in un pensatore così profondo? - Dal sensismo del suo secolo; ed ecco in che modo ella provenne. I sensisti non arrivano mai e non possono arrivare ad intendere la natura del concetto, perocchè essi non riconoscono altri oggetti che quelli somministrati dall' esperienza dei sensi. Kant professa espressamente questa dottrina, e con essa incomincia la sua « Critica della Ragion Pura », ammettendola come cosa fuori di controversia, e non bisognevole di prova alcuna (2). Or tutto il criticismo non è altro in fine, che lo sviluppo di questa prima proposizione sensistica introdotta senza la menoma prova. Posto adunque che non si abbiano altri oggetti de' sensi, ne seguiva che nè pure fossero possibili de' veri concetti, perocchè concetti senza oggetto alcuno, sono un bel nulla. Per essere coerenti conveniva adunque negare affatto l' esistenza de' concetti, come fecero altri sensisti. Ma fra i sensisti ve n' ebbero alcuni a cui ripugnò di negare affatto i concetti, i quali sono ammessi da tutto il mondo, e la cui esistenza è troppo evidente; e di questi uno fu Kant. Che fecero adunque questi sensisti? Falsarono la definizione de' concetti: ne ritennero il nome, ma ne descrissero la natura tutto in servizio del sensismo da essi professato. Ecco in che modo alcuni pretesero che i concetti non fossero che collezioni d' individui (1). Kant venne allo stesso, ma il disse più oscuramente, usando il suo solito stile. Disse cioè, che i concetti contenevano in sè un moltiplice , una varietà, [...OMISSIS...] cioè tutti gli oggetti a cui si possono riferire; e che era lo spirito quello che esercitando una sua propria funzione (2) dava l' unità a quel vario moltiplice. Egli parla a lungo di questa sintesi che vi fa nascere dall' unità della coscienza del soggetto percipiente; il che se fosse, non si avrebbe che un concetto solo. Perchè il soggetto percipiente è un solo, Egli non considera che avanti il molteplice deve essere il semplice, e che ogni semplice basta a fare che l' intendimento intuisca un concetto. Egli non considera che l' essere ogni concetto generale non vuol dire che egli sia moltiplice, come diremo tantosto; nè s' accorge che l' introdurre una facoltà della rappresentazione è un pregiudicare la questione, perchè si tratta appunto di questo, come sia possibile la rappresentazione; e prima ancora, che cosa sia la rappresentazione, qual sia la natura di questa facoltà supposta di rappresentarsi le cose. 4 Ma per venire a quel che dicevamo, egli è un errore di tutti i sensisti il prendere la generalità propria de' concetti per una loro moltiplicità. Generalità e moltiplicità sono cose non solo diverse, ma opposte. Quello che è moltiplice, non può esser generale in quant' è moltiplice, perocchè la nozione del moltiplice non dà che un aggregato di particolari, a ciascuno de' quali manca la generalità. Il solo semplice può avere la dote della generalità . Per convincersene basta osservare attentamente in che consista la generalità de' concetti, e si vedrà che un concetto benchè generale è semplicissimo. In fatti che cosa vuol dire un concetto generale? Non vuol dire altro se non che con quel concetto si conoscono infiniti individui possibili: per esempio, col concetto uomo io conosco tutti gli uomini possibili in quanto sono uomini. Ma qui si noti: tutti questi che si conoscono, esistono fuori del concetto; ma tutti hanno la stessa relazione col concetto come col loro tipo comune. La pluralità dunque non è nel concetto, ma è negli individui che si conoscono col concetto, e che non sono il concetto. Confondere gl' individui conosciuti col concetto che li fa conoscere, attribuire la pluralità di quelli a questo, che, benchè semplicissimo, li rende noti, è il perpetuo errore de' sensisti, l' errore dominante nel sistema di Kant. La generalità dunque, ovvero universalità del concetto non è alcuna pluralità, ma non altro significa se non che quel concetto ha una relazione identica con molti individui, e questa relazione consiste nell' essere egli la loro comune intelligibilità. Sono adunque affatto erronee le sopradditate parole di Kant: [...OMISSIS...] . E veramente il concetto di corpo non significa mica un metallo, in quanto è metallo, ma significa un metallo in quanto è corpo. Laonde la rappresentazione del metallo come metallo non entra mica nel concetto di corpo. Onde quantunque col concetto, di corpo si possano conoscere tutti i corpi, tuttavia non si possono mica conoscere le loro differenze, nè distinguere un corpo dall' altro: perocchè a qualunque oggetto si riferisca quel concetto, altro mai non dà che una rappresentazione sola, quella di corpo; e se voglio conoscere il metallo o altra specie di corpo ho bisogno di altri concetti. Onde niun concetto fa conoscere altro se non una sola essenza: e se fa conoscere più essenze, non è un concetto solo, ma più concetti composti. Onde il dire che un concetto contiene in sè altre rappresentazioni, è un confondere un concetto con altri concetti che si possono benissimo aggiungere al primo, ma che non sono il primo. Ogni concetto adunque è semplice come tale, ed è universale in questo senso che l' essenza, cui rappresenta, può essere realizzata replicatamente senza fine; e tutte queste realità, in quanto realizzano quest' essenza, con quella sola e semplice essenza possono essere conosciute. 5 Trasportando adunque Kant nei concetti le proprietà dei reali, che coi giudizŒ si conoscono, come la plurità e la varietà, non è maraviglia ch' egli non potesse più distinguere la scienza che si ha per via di concetti, dalla scienza che si ha per via di giudizŒ; e che definisse il pensare, cioè il giudicare, un conoscere per concetti. Non riguardò adunque più il concetto se non come un elemento del giudizio, che però dall' analisi del giudizio si doveva desumere, definendo il concetto unicamente come « l' attributo di un giudizio possibile », e così disconoscendo che il concetto, come tale, ha un valore suo proprio antecedente al giudizio; giacchè il giudizio non è che un' applicazione di esso. A torto adunque egli considerò come « « filo conduttore a discoprire i concetti dall' intendimento la classificazione dei giudizŒ » »; quando anzi la classificazione dei concetti si potrebbe pigliare a filo conduttore per discoprire quali esser possano i giudizŒ. L' aver dunque sommessi i concetti ai giudizŒ, pose Kant sopra una falsa strada, e gli impedì interamente di conoscere la vera natura oggettiva de' concetti, e dell' intuizione che fa di essi la mente. Ma qual fu la classificazione dei giudizŒ di Kant? Fu qual dovea essere, erronea del tutto, dopo che avea attribuito ai concetti le proprietà dei giudizŒ, e a' giudizŒ le proprietà dei concetti, e confusa in una parola l' indole degli uni coll' indole degli altri. Acciocchè le nostre osservazioni riescano più chiare, sommettiamo prima agli occhi del lettore la tavola Kantiana delle diverse maniere di giudizŒ. Ed è la seguente: [...OMISSIS...] 1 Queste quattro grandi classi di giudizŒ ci sono date da Kant sulla sua parola, poichè non fa alcun ragionamento che provi che questa classificazione sia legittima e completa. 2 Che i giudizŒ abbiano qualità , questo è manifesto, ma che i giudizŒ abbiano quantità, relazione e modalità , questo è evidentemente falso. Quando si sono tratte fuori tutte le qualità de' giudizŒ, la loro classificazione è compiuta. Altro è la classificazione de' giudizŒ, altro la classificazione degli oggetti loro. Se noi diremo che i giudizŒ sono affermativi, negativi, limitativi , avremo in qualche modo classificati i giudizŒ; che se vogliamo classificare gli oggetti de' giudizŒ, questi oggetti possono benissimo avere un quanto , un quale , una relazione , ed un modo . Ma ella è regola logica, che « ogni retta classificazione deve avere una base sola »; e quella di Kant varia di base. Perocchè la divisione de' giudizŒ in affermativi, negativi e limitativi ha per base la diversità della copula che costituisce formalmente il giudizio; all' incontro la divisione de' giudizŒ in generali, particolari e singolari, ha per base l' oggetto, ossia la materia del giudizio. Variano adunque le basi della classificazione. D' altra parte, se un giudizio afferma, egli appartiene alla stessa specie, qualunque sia l' oggetto affermato; il contenuto del giudizio non cangia punto la sua specie, e però non può costituire una nuova classe. La quale osservazione non isfuggì interamente alla sagacità di Kant: ma ei pretese giustificarsi dicendo, che non considerava i giudizŒ, come giudizŒ, ma come semplici cognizioni (1). Il che è scusa vana, e di quelle che impacciano il processo del discorso filosofico. Perocchè altro è classificare le cognizioni , altro i giudizŒ: e se voi distinguete quelle da questi, e volete classificar quelle, perchè vi occupate a classificar questi? Si sente da per tutto l' imbarazzo con cui procede Kant, pel principio sistematico di confondere la natura de' concetti colla natura de' giudizŒ. Questa avvertenza cade in acconcio sovente ne' ragionamenti di Kant. 3 Nella tavola di Kant entrano giudizŒ semplici , e giudizŒ composti di più giudizŒ. Così il giudizio problematico « se vi ha una giustizia eterna, il vizioso sarà punito », altro non è che la relazione fra due giudizŒ affermata con un terzo giudizio che si può esprimere così: « l' esserci una giustizia eterna, e l' esser punito il vizioso, sono due concetti conseguenti ». Ma i giudizŒ semplici ed i giudizŒ composti non debbono confondersi insieme, perchè « ella è pure regola logica che deve esser unico l' oggetto che si divide o classifica ». Quindi volendo dividere i giudizŒ in genere, prima di tutto conveniva partirli in I semplici, e II composti; e poscia dare separatamente la sotto7classificazione degli uni e degli altri. 4 Un' altra regola logica, che presiede alla retta classificazione, si è che « un membro della divisione non deve entrare nell' altro ». Ma nella tavola de' giudizŒ data da Kant i giudizŒ categorici ed i giudizŒ assertorii entrano evidentemente ne' giudizŒ affermativi , e così pure i giudizŒ che Kant chiama generali, particolari , e singolari non possono essere che una suddivisione di giudizŒ affermativi. Molt' altre osservazioni si potrebbero fare sulla tavola de' giudizŒ data da Kant, ma per istudio di brevità lasciandole, coglieremo in quella vece l' occasione di porgere qui un' altra tavola della classificazione de' giudizŒ, senza spirito di sistema, dal confronto della quale si potranno facilmente distinguere i varŒ errori della classificazione Kantiana. Come ogni giudizio ha tre parti, il soggetto, la copula e il predicato, così la divisione de' giudizŒ deve esser triplice. [...OMISSIS...] I rapporti d' una classificazione coll' altra non sono difficili a rilevarsi, ma noi gli intralasciamo non iscrivendo noi ora una Logica . Tornando ora dunque a Kant, dalle predette forme de' giudizŒ egli cava i suoi concetti fondamentali, come li chiama, ossia categorie, che ei definisce altrettanti attributi di giudizŒ possibili; le quali categorie sono le dodici seguenti: unità, pluralità, totalità (quantità); realità, negazione, limitazione (qualità); inerenza e sostanza, causalità e dipendenza, comunità ossia reciprocità tra l' agente e il paziente (relazione); possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza (modalità). Noi abbiamo esaminata la classificazione di queste forme in un luogo del « Nuovo Saggio », a cui rimandiamo il lettore (1). Di più dalla critica, che testè abbiamo fatta delle classificazioni de' giudizŒ, risulta quanto esse, come loro legittime figliuole, devano essere manchevoli. Riporteremo adunque soltanto l' avvertenza che quella divisione di forme, secondo lo stesso scopo dell' autore, non è ontologica , ma puramente dialettica, e però ella è tale che non ci può somministrare in modo alcuno la partizione dell' ente o le sue passioni. Il che riceve conferma da questo, che essendoci elle date come altrettanti attributi , ossia predicati de' giudizŒ, esse escludono di considerare il soggetto come soggetto; quando pure il soggetto, se è reale, è la base di ogni entità. Oltre a ciò in esse non apparisce alcun ordine tra le varie classi, nè si trova perchè siano così distribuite. Certo che se si fosse trattato di porgere una tavola di categorie ontologiche , non conveniva cominciare dalla quantità, la quale suppone antecedentemente la sostanza, e una sostanza reale, e di più una sostanza determinata, cioè quella che riceve il più e il meno. S' aggiunge che le forme di Kant non comprendono che concetti ideali, negativi; sicchè il positivo dell' ente, che consiste nella realità del sentimento, non si trova affatto. Perocchè la parola realità , che è la quarta categoria, si è presa in senso improprio, non per accennare la realità che si manifesta nel sentimento, ma per indicare l' affermazione che fa lo spirito pronunciando un giudizio. Ora in una tavola di categorie veramente ontologiche non può mancare il più, qual è il positivo dell' ente, ossia la sua vera realità sentimentale. Ancora, le tre categorie di relazione non esauriscono tutte le forme della relazione. Poichè primieramente mancano tutte le relazioni ideali, come la dipendenza della conseguenza del principio; mancano tutte le relazioni nazionali, come la congiunzione di un predicato ad un soggetto dialettico, la qual congiunzione non si fa per via d' inerenza, come, per es., dicendo « il giudizio è un' operazione della mente », non è mica che l' operazione sia inerente al giudizio, perchè ella è identica col giudizio, il quale è quel luogo logico chiamato «Horos» da Aristotele. Ancora, la nona categoria dimostra il pregiudizio che l' azione e la passione siano reciproche; quando ci sono passioni ed azioni che non finiscono in un solo soggetto (1). Ancora, l' undecima categoria, cioè l' esistenza , è un genere che si suddivide nelle due specie di esistenza necessaria , ed esistenza non necessaria ma contingente: e però le tre ultime categorie non si dividono ex aequo come esigono i logici. Ma sarei infinito se volessi continuarmi in tutti i difetti delle categorie Kantiane; veniamo dunque alle idee della ragione. Come Kant derivò i concetti dell' intelletto da giudizŒ (1), così egli tolse a dedurre le idee trascendentali da raziocinŒ (2). L' unire la varietà dell' intuizione (percezione soggettiva) e farne uscire i concetti, è secondo Kant la funzione dell' intelletto , e chiama questo risultato la sintesi dell' intuizione. Noi abbiamo veduto, che v' ha qui un grande errore in darsi a credere che nel concetto vi abbia l' unificazione di una varietà; anzi niuna varietà cade nel concetto per quantunque generale; ma la varietà e la moltiplicità sta tutta fuori del concetto, cioè nelle relazioni che questo ha coi varŒ oggetti, ch' egli può farci conoscere sotto l' identica ragione. L' unire la varietà de' concetti facendone uscire uno della massima generalità il quale stabilisca la maggiore di un sillogismo, e così si possa ragionare, è la funzione della ragione. Il raziocinio per Kant è « « un giudizio ( conseguenza ) che viene determinato (cioè reso necessario) da un altro giudizio dato più generale ( maggiore ), mediante una condizione ( minore ) » ». Per es., « Caio è mortale »: è un giudizio che viene reso necessario dal più generale « l' uomo è mortale », mediante la condizione che Caio sia uomo. Ma anche la maggiore del sillogismo può essere condizionata, cioè discendere da un' altra proposizione più estesa, mediante una condizione sua propria. Onde non si può giungere ad una cognizione assoluta , se non percorrendo ed abbracciando tutta la serie delle condizioni, trovando così l' incondizionato. Quest' è quello che esige la ragione, nè si può accontentare d' una cognizione condizionata, la quale è nulla senza la sua condizione. Ora questa funzione della ragione , per la quale ella sintetizza i concetti, come l' intelletto sintetizzò le intuizioni della sensitività, conduce a tre oggetti , condizioni ultime del ragionamento. Ma non si creda per questo che Kant attribuisca per ciò alla ragione alcuna virtù di far conoscere questi oggetti veramente, quasi fossero oggetti in sè indipendenti dalla funzione predetta della ragione: nulla di ciò; essi non sono che illusioni . E qual ragione adduce di questa impotenza della ragione? Sempre il primo pregiudizio, la proposizione gratuita, supposta senza prove fino a principio dell' opera, cioè, che la sola sensitività dà all' uomo veramente oggetti. Dunque, allorquando l' intelletto o la ragione presentano oggetti, questi non possono essere altro che illusioni poichè non sono dati dalla sensitività!!! La sensitività ha l' esclusiva virtù di dare oggetti presso questi signori; e se poi cercate il perchè, non ne trovate altro, se non il fatto che la sensitività, colle sue prevalenti impressioni, li fa acciecati e legati al suo carro trionfale. Ma seguiamo la deduzione delle tre idee trascendentali della Ragione Kantiana. La ragione mediante il sillogismo lega i concetti trovando che l' uno è vero perchè contenuto nell' altro dato mediante la condizione ossia il termine medio. Consistendo dunque il raziocinio nella relazione di un giudizio con un altro, converrà ricorrere alla categoria della relazione per classificarli. Questa si divide in tre forme: 1 d' inerenza e sostanza; 2 di causa ed effetto; 3 di reciproca azione. Benchè con qualche stiracchiatura (1) queste tre categorie pretese Kant di dedurle dalle tre classi di giudizŒ categorici, ipotetici , e disgiuntivi , le quali appellazioni segnano di conseguente anche le tre supreme classi di raziocinŒ. Or dunque, ragiona Kant, esigendo la ragione di pervenire alla cognizione incondizionata, dee pervenire a ciò che dia unità a tutta la serie delle condizioni in ciascuna di quelle tre maniere di relazioni. Or quanto alla prima, che è quella d' inerenza e di soggetto, la ragione perviene all' unità assoluta e incondizionata del soggetto pensante , argomento della Psicologia; quanto alla seconda di causa e d' effetto, perviene all' unità assoluta della serie delle condizioni de' fenomeni , argomento della Cosmologia; quanto alla terza di reciproca azione o d' enumerazione de' possibili, perviene all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale, argomento della Teologia trascendentale. Quest' è quanto dire che l' idea dell' Anima intelligente, del Mondo, e di Dio, sono condizioni ultime assolute di tutti i raziocinŒ. E questo è vero. Ma ciò che non intende Kant, si è, che queste idee non sono condizioni del pensare, se non dato che realmente vi abbia l' anima, il mondo e Dio; e che non siano mica illusioni trascendentali. Perocchè, se fossero tali, l' anima, il mondo, e Dio, non vi sarebbero veramente; e così non vi sarebbe veramente il pensare, mancando la sua condizione. Ma, che il pensare vi sia, non è negato nè pure da Kant, il quale gli toglie bensì la virtù di provare l' esistenza degli oggetti, ma non quella di essere; onde noi abbiamo stabilito nel « Nuovo Saggio » il principio che: [...OMISSIS...] . Ma Kant, volendo dimostrare che quelle idee, o più veramente giudizŒ , nulla provano sulla reale esistenza dei loro oggetti; prende audacemente a dimostrare, che la ragione ammette tali oggetti non per veri ragionamenti, ma per via di certi paralogismi, o inevitabili sofismi, non già dell' uomo ragionante, ma della ragione stessa; di modo che questa non è solo impotente , ma essenzialmente mendace (2); il che se fosse, la natura stessa della ragione sarebbe cattiva. Il Manicheismo adunque è nel sistema di Kant. Ma egli è pur singolare a vedere come un individuo pretende di convincere di menzogna la ragione stessa degli uomini nella sua propria natura! Perocchè, o quest' uomo in far ciò usa della ragione, e usandone mostra di credere ch' ella è verace, ovvero intende di mentire egli stesso (e, s' egli mente, la ragione è giustificata); ovvero egli si fa un Dio, cioè un Dio falso, che prende a calunniare le opere del Dio vero. La superbia di Satana è dunque ancora nel sistema di Kant. Ma seguiamolo un poco nei suoi deliri. Espone prima il paralogismo , com' ei lo chiama, della ragion pura , cioè il sofisma con cui egli pretende che la ragione inganni l' uomo quando ella gli dice che v' ha un soggetto che pensa. Il preteso paralogismo, secondo lui, è questo: « Ciò che non può essere concepito che come soggetto non esiste che come soggetto, e perciò è sostanza; Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato che come soggetto; Dunque egli non esiste che come tale, cioè come sostanza ». Ora il Kant dice che questa conclusione è dedotta per sophisma figurae dictionis . E la prova ch' egli dà del suo asserto, ridotta a poche parole, è la seguente: « La sola intuizione, cioè la sola percezione de' sensi, somministra de' veri oggetti. Quindi la maggiore del sillogismo sarebbe una, se il soggetto concepito come soggetto potesse essere dato dall' intuizione sensitiva. Ma nella minore si parla di un soggetto, che non è dato e non può esser dato dall' intuizione sensitiva, ma è solo considerato per tale dal pensiero e dall' unità della coscienza. E però, non essendo un tal soggetto dato dalla intuizione sensitiva, egli non può essere un oggetto reale; ma solo un' apparenza o illusione trascendentale ». Muove sempre adunque il nostro filosofo dal suo diletto pregiudizio sensistico, che il solo senso somministra veri oggetti, e se ciò gli si accorda, egli ha ragione. Ma poichè per contrario questo sensismo è al tutto erroneo; convien dire che il paralogismo è del filosofo, e non della ragione stessa, con cui il filosofo si compiace di mettersi in lotta. D' altra parte egli ancora ignora, che nel sentimento vi ha sempre qualche cosa di sostanziale, e non dei puri fenomeni; e che questo vale specialmente pel sentimento interno che l' anima ha di sè stessa. Egli non punto osserva che nel sentimento suo proprio l' anima e sente la varietà delle sue modificazioni, e sente sè stessa soggetto unico e identico di esse; e questa parte del sentimento ha tutto ciò che racchiude una definizione legittima, e non già arbitraria, della sostanza «( Psicol. , p. 104) ». Dopo aver dunque Kant preteso di dimostrare, che non già l' umano individuo, ma la stessa ragione umana per sua natura paralogizza quando cerca di stabilire l' unità assoluta, incondizionata del soggetto pensante; egli passa a criticare i passi della ragione , quand' ella giunge all' unità assoluta della serie delle condizioni dei fenomeni , cioè del Mondo. E qui deride e sossanna la ragione umana più atrocemente ancora. Perocchè egli dice che il paralogismo, col quale la ragione stabilisce l' esistenza d' un soggetto pensante, almeno produce un' apparenza in un solo senso, senza che produca in pari tempo un' apparenza contraria. [...OMISSIS...] All' incontro quando la ragione cerca l' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni (mondiali), allora ella produce a sè stessa non solo apparenze, ma apparenze contrarie, cioè intrinsecamente si contraddice. Egli stabilisce quattro di queste contraddizioni della ragione circa il mondo, che egli chiama antinomie, ossia conflitto di tesi apparentemente dogmatiche. Kant adunque pretende di cogliere in contraddizione la ragione stessa , e per coglierla con sicurezza, che cosa fa? Le mette egli stesso in bocca le parole che ella deve dire per contraddirsi: la fa parlare come egli vuole. Questa impresa suppone due cose non piccole: 1 La prima che al filosofo sia facile il mettersi in persona della ragione umana, e parlare proprio colla bocca di lei: il filosofo nostro, se è di buona fede, deve essere intimamente persuaso, di conoscere perfettamente ciò che direbbe la ragione in persona, se ella fosse una persona che potesse parlare. 2 La seconda, che al filosofo sia possibile, dopo essersi messo in persona della ragione e stabilito quello che la ragione stessa direbbe se parlasse colla sua bocca, di sollevarsi AL DI SOPRA DELLA RAGIONE, e, chiamatala al suo tribunale, convincerla di aver dette delle contraddizioni. L' alta persuasione che dimostra Kant di sè stesso arriva a tutto ciò, ed ecco adunque, come la ragione umana parla per la bocca di Kant, suo (1) critico e maestro a bacchetta. [...OMISSIS...] A confutare queste pretese contraddizioni della ragione basta solo una parola: la ragione non parla così. Perocchè certo Kant in nessuna maniera può dimostrare direttamente, che così appunto parli la ragione com' egli la fa parlare. Che se egli non ispaccia più l' autorità della ragione stessa , ma discende a provare con suoi propri ragionamenti prima la tesi, e poi l' antitesi, in tal caso non è più la ragione, ma è egli stesso che si contraddice; almeno il certo ed evidente risultato delle antinomie si è questo, che « l' uomo individuo, chiamato Emanuele Kant, non giunse colla forza del suo ingegno a dissipare quelle contraddizioni, sieno poi esse vere od apparenti ». Che dunque le antinomie provino ad evidenza la limitazione dell' ingegno di Kant, questo è indubitato; ma non è egualmente indubitato che provino la limitazione della ragione stessa, come pretende Kant che provino per uno scambietto, e molto meno la sua intrinseca lotta, che la renderebbe positivamente stolta e suicida. Se quelle contraddizioni o antinomie fossero proprie della stessa ragione, (il che veramente asserì Kant ma nol provò, perchè non poteva in modo alcuno provarlo), in tal caso noi non apriremmo bocca, perchè non vorremmo metterci in lotta colla ragione nè pure per difenderla dal suo proprio furore, (il che d' altra parte ci sarebbe impossibile), e ci rassegneremmo ad essere anche noi stolti, avendo una ragione stolta, come gli altri uomini: se pure alla ragione, che si è contraddetta una volta, non fosse piaciuto di contraddire ancora le sue contraddizioni; il che non sarebbe impossibile, giacchè se nell' essenza della ragione umana è la contraddizione; chi mai potrebbe mettere un limite alle sue contraddizioni, che dovrebbero forse essere altrettante quanti i suoi atti? Ma posciachè le contraddizioni o antinomie non della ragione, ma sono di un uomo che si chiama Kant, il quale introdusse sulla scena la ragione personificata facendola parlare, quasi come dei proprii rispettabili personaggi suol fare il burattinaio; noi non temiamo punto di entrare a vedere se sia possibile di uscire dall' intrico, in cui questo uomo si confessò preso quasi fra l' uscio e il muro. Ripigliamo dunque ad una ad una le tesi e le antitesi, e mettiamo a prova il valore degli argomenti coi quali Kant intende provare le une e le altre. La prima tesi si è che « « il mondo abbia cominciato, e che lo spazio sia finito » ». Che il mondo abbia cominciato, si prova da Kant discretamente; e noi l' ammettiamo pel suo e per altri argomenti. Che lo spazio sia finito, Kant lo prova dalla supposizione che egli fa, che lo spazio non sia altro che un aggregato di parti, e che lo spirito acquista il concetto dello spazio con unire successivamente queste parti. Ma noi neghiamo affatto che lo spazio puro abbia parti, diciamo anche ch' egli è per sè semplicissimo e indivisibile, e termine del nostro sentimento fondamentale. Le parti appartengono ai corpi ed alle sensazioni prodotte da corpi, come sono le superficie ed altre astrazioni fatte sui corpi come le linee ed i punti. Onde l' argomento di Kant prova che sia limitato quello spazio che è occupato da corpi, o che è segnato dal nostro spirito per via di solidi, superficie, linee, e punti mobili; e questo spazio appunto perchè è limitato e misurato non può essere infinito. Ma niente vieta, che lo spazio puro come termine di un sentimento fondamentale sia infinito. L' antitesi opposta, si è che « « il mondo non abbia principio, quanto al tempo, nè confine quanto allo spazio » ». E circa i confini dello spazio noi vedemmo che convien distinguere: lo spazio, quale spazio puro, non ha confini come dicemmo, e come dimostrano anche gli argomenti che per provare quest' antitesi adduce Kant; all' incontro lo spazio occupato dai corpi ha confini, come anco provano gli argomenti addotti precedentemente da Kant per provare la tesi. Onde il sofisma kantiano qui si rileva in questo, che ora si parla dello spazio quale i corpi limitati lo somministrano all' osservazione dello spirito nostro, ora si parla dello spazio quale è termine del sentimento fondamentale. Si cangia dunque il soggetto delle due proposizioni opposte, e si vuol far credere che sia il medesimo. A provar poi che il mondo non può aver cominciato, Kant parte da questa proposizione che « « il cominciamento è un' esistenza preceduta da un tempo, in cui la cosa ancor non è » ». Ma questa proposizione è falsa, perocchè il cominciamento d' una cosa può essere preceduto da un tempo, se avanti di essa v' ebbero altre cose; ma se non v' ebbe avanti di lei niuna cosa, come è nel fatto del Mondo, cioè del complesso di tutte le cose contingenti, non vi è tempo innanzi a quel cominciamento, perchè non vi ha successione. Ma Kant dirà, « « che si può immaginare una successione e questa possibile successione è il tempo di cui parla » ». Rispondo, essere vero che a questo tempo o successione immaginaria non si può prescrivere confini determinati; ma questo non fa che un tal tempo possibile sia infinito , ma solamente indefinito , a quel modo appunto che alla quantità possibile della materia corporea, come pure al numero, non si può assegnare un termine, perchè si può sempre immaginare accresciuta, e a qualunque numero si può sempre aggiungere un' unità: il che è quello che S. Tommaso chiama infinito in potenza e non in atto, il quale non è veramente infinito. In secondo luogo, il tempo ossia una successione che si può immaginare come possibile prima del cominciamento del mondo, non appartiene al mondo, al quale appartiene solo il tempo proprio de' reali; e quindi non toglie che il mondo abbia incominciato ad esistere. Il tempo possibile appartiene dunque al mondo delle idee, il quale è nel suo fondo eterno, e non mai cominciato. Quindi il sofisma di Kant consiste anche qui nel mutare il soggetto della proposizione; perocchè con una dice « che è incominciato il tempo reale »; coll' altra, « che non è incominciato il tempo possibile »; le quali proposizioni così spiegate, come debbono essere, cessano di costituire una antinomia. La seconda tesi si è: « « che ogni sostanza composta è composta di semplici, e non esistono che semplici o composti di semplici » ». Primieramente questa tesi è ambigua, e però acconcia al sofista. E` ambigua, perchè la parola semplice ha più significati, e almeno questi due: 1 senza estensione , 2 senza pluralità . Ora, se per semplice s' intende senza pluralità e però si fa equivalere ad uno , egli è chiaro e non bisognevole di prova, che ogni sostanza composta è composta di semplici, perchè questa proposizione è identica a quest' altra « ogni pluralità è composta di unità ». Ma se per semplice s' intende privo di estensione , in tal caso non ogni sostanza composta è composta di semplici, ma di parti estese. Così un corpo è un aggregato di elementi estesi e continui: ma questi elementi, benchè estesi, non sono però composti, nè hanno parti in atto, essendo un puro sbaglio di Kant (comune però ai suoi maestri o condiscepoli, i sensisti) il credere che l' estensione sia un' aggregazione di parti; quando anzi il vero si è, che l' estensione continua, come tale, non ha parti in atto, ed ha solo parti in potenza (le quali non sono parti reali), cioè ha solo parti immaginate dalla mente, la quale può suddividere il continuo indefinitamente, senza che ciò che le rimane cessi mai d' essere continuo, come abbiamo altrove spiegato; onde l' esteso continuo si deve dir semplice, qualora per semplice s' intenda privo di parti e di pluralità. Ma più estesi continui corporei possono, venuti al contatto, comporre un continuo solo, il quale è composto di semplici estesi, benchè senza parti. Queste parti poi del composto non sono determinate dall' estensione, la quale è semplice anche nel composto continuo; ma dalle forze dei singoli estesi, ciascuna delle quali forze, diffondendosi in un piccolo spazio determinato e circoscritto, rimane in qualche modo distinta da tutte le altre. Se poi si parla di semplici volendo significare inestesi, niente ripugna che un inesteso com' è l' anima venga in composizione con un esteso com' è il corpo ed anco con un aggregato d' estesi, com' è il corpo organico composto di molti elementi estesi. Onde questa maniera di composizione risulta da una sostanza semplice (inestesa) con una sostanza non semplice (estesa e composta di estesi). Onde in questo senso è falsa la tesi che non esistano che semplici, e composti di semplici. Finalmente erra di nuovo Kant quando pretende che « « la composizione non è che lo stato esteriore, una mera relazione accidentale delle sostanze » ». Anzi vi ha una composizione sostanziale , ignorata interamente da' sensisti, ma data manifestamente nella natura per modo che « « il composto è sostanzialmente diverso da' suoi componenti » », ossia ha un' altra forma sostanziale «( Psicologia , n. 204, seg.) ». Così il corpo, considerato come semplice materia, e il corpo animato, è sostanzialmente diverso, perchè ha una diversa forma sostanziale. Veniamo ora all' antitesi , la quale si è che « « niuna cosa è composta nel mondo di parti semplici, e nulla esiste di semplice » ». Questa tesi Kant si fa a provarla con due argomenti i più sgangherati. Il primo muove da questa proposizione che « ogni composizione di sostanze non è possibile che nello spazio », la quale è gratuita e falsa. Perocchè l' unione dell' anima col corpo non si fa nello spazio (benchè nello spazio si manifesti); ma si fa nella percezione fondamentale dell' anima, la qual percezione è semplicissima, come abbiamo provato nella « Psicologia », n. 264 seg.. Nè gli basta a condurre a fine la sua prova questo errore, se non vi aggiunge anche quest' altro « « che tutto ciò che occupa uno spazio comprende diversità d' elementi l' uno fuori dell' altro » »: mentre il vero si è che in esteso continuo non vi sono elementi reali ma solo potenziali come abbiamo detto; e però egli non è punto nè poco composto quanto allo spazio. Tutti i fondamenti adunque della sua prima prova vanno in fumo. Il secondo argomento che adduce è questo: « « Il semplice non può essere dato dalla percezione de' sensi; ma la sola percezione sensibile (ch' egli chiama intuizione) dà degli oggetti, e senza questi non ci hanno che idee; dunque noi non possiamo dimostrare che vi abbiano semplici nella natura, ma solo idee di semplici » ». Ognuno vede, che la minore di questo argomento, è il solito pregiudizio sensistico, su cui il Kant fabbrica tutta la sua dottrina. Ciò che abbiamo detto innanzi basta a distruggerla. In secondo luogo egli parla di idee . Ma queste idee son esse semplici o composte? sono nulla o qualche cosa? sono enti corporei nello spazio o enti fuori dello spazio? Questo è ciò che il nostro filosofo stima bene di non dire; ma che il discreto lettore può dire nondimeno a sè, malgrado del suo silenzio. La terza tesi si è che « « la sola causalità secondo le leggi della natura non basta a spiegare i fenomeni, ma vi si esige di più una causalità per libertà » ». L' argomento da lui addotto è efficacissimo a provare questa tesi, il quale consiste in dimostrare che colla sola causalità fisica e non libera si avrebbe un ricorso di cause all' infinito, di cui non si potrebbe aver mai l' ultima, e quindi non si troverebbe mai la spiegazione, ossia la ragione sufficiente de' fenomeni. L' accordiamo completamente. Ma vien l' antitesi negante la libertà; e per istabilirla muove l' argomento da questo principio: « « Ogni cominciamento d' azione suppone uno stato anteriore della causa non ancor operante, onde conchiude che mancherebbe la ragione sufficiente che determinasse la spontaneità della causa ad operare più tosto che a non operare » ». Ma il principio non è applicabile, perchè si può concepire benissimo un' azione che non sia cominciata, e che faccia cominciare l' effetto: sicchè vi abbia il cominciamento nell' effetto e non nell' azione della causa. Così Iddio può e dee aver creato il mondo con un' azione che non ha mai cominciato, con un' azione eterna: e con quest' azione eterna produsse il cominciamento delle cose che sono l' effetto di quella azione. Un secondo errore contiene il ragionamento con cui Kant pretende provare questa sua antitesi, ed è che se vi ha la libertà, questa opererebbe ciecamente , perchè non avrebbe una causa determinante . Qui il filosofo confonde la causa efficiente , colla ragion sufficiente . La libertà non è certamente determinata ad agire dall' azione d' una causa efficiente che la distruggerebbe; ma non opera tuttavia alla cieca , ma sempre col lume di una ragione sufficiente . Ma perchè la ragion sufficiente non opera alla foggia della materia, perciò i sensisti non sanno intendere il modo del suo operare, conciliabilissimo colla libertà. Finalmente noi abbiamo dimostrato ancora, che ogni causa efficiente ha un suo oggetto, e che la libertà ha anch' essa un suo unico oggetto, e quest' oggetto è la scelta tra due volizioni. Onde la libertà è anch' essa una causa efficiente, ma d' indole speciale, perchè ha un oggetto tutto speciale (1). La quarta tesi stabilisce: « « che il mondo si riferisce a un essere assolutamente necessario » ». Ora Kant dice con ragione: « « che ogni condizionato presuppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all' incondizionato assoluto, che solo è necessario assolutamente » ». Fin qui siamo, press' a poco, d' accordo. Ma poi soggiunge, che questo assolutamente incondizionato dee essere nel mondo sensibile: e qui comincia il sofisma. Poichè egli muove a ragionare da questo falso principio: « « che il cominciamento d' una successione non può essere determinato se non per via di ciò che precede quanto al tempo » ». Ora questo principio è falso; perocchè il cominciamento d' una successione (nel tempo) può essere anzi determinato da un atto fuori del tempo, e che si fa nell' eternità; come abbiamo detto poco innanzi. Onde non si può trarre in alcun modo la conseguenza che vuol Kant, cioè, che l' assoluto che spiega l' esistenza del mondo appartenga al tempo, e quindi al mondo. L' antitesi poi di questa tesi, secondo il Kant, si è « « che non esiste niun ente assolutamente necessario » ». Questa antitesi viene dedotta dagli errori spacciati precedentemente dal nostro filosofo come verità lampanti. Toglie prima a provare, che l' ente assoluto non può essere nel mondo; perchè in tal caso l' ente assoluto, o sarebbe il primo anello della serie degli avvenimenti successivi, e in tal caso sarebbe senza causa, e non ispiegherebbe il tempo a lui precedente, e la serie degli avvenimenti andrebbe ad un regresso infinito, ed ella non sarebbe necessaria, perchè niuno de' suoi anelli sarebbe necessario. Fin qui il ragionamento corre e vale a distruggere l' errore della tesi, che l' assoluto si contenga nel mondo sensibile. Ma viene poi a provare, che l' ente assoluto non può trovarsi nè pure fuori del mondo: perchè, se la causa del mondo fosse fuori del mondo, per dare a questo il principio essa « « dovrebbe cominciare ad agire, e « la sua causalità così avrebbe luogo nel tempo » ». Quindi questo essere come causa formerebbe parte della serie de' fenomeni successivi del mondo, contro il supposto dalla proposizione. Ma, come abbiamo detto di sopra, si nega al tutto che la causa assoluta comincii ad agire, poichè ella opera con un atto eterno; come si nega al tutto ch' ella, qual causa, abbia luogo nel tempo; perchè il tempo stesso è l' effetto di quella causa; e però ella è affatto immune dal tempo ch' ella produce, producendo il mondo. Tali sono le famose antinomie della Ragion Pura di Kant. Non sono, no, antinomie della ragione; sono proprio antinomie e contraddizioni del sofista che potè sedurre e traviare forse per secoli la Germania. Gli argomenti con cui egli le fortifica non sono nè pure di sua invenzione: sono gli argomenti prodotti e riprodotti dagli empii di tutti i secoli: egli non fece che vestirli d' una misteriosa e solenne oscurità, di un gergo che ebbe un potere magico d' incantare tanti spiriti della sua nazione. Ma io voglio qui notare di più una peculiar lotta che si manifesta nelle varie tendenze di questo sofista speculativamente ATEO, checchè egli si dica, anzi il MAGGIOR ATEO che nel campo della filosofia sia comparso nel secolo XVIII. Egli dunque ha due tendenze: 1 La prima è di sollevar sè stesso sopra la ragione, giudicandola dall' alto del suo tribunale, o più tosto schernendola come una stolta, piena di contraddizioni, e questa tendenza domina in tutta l' opera dal frontispizio « « Critica della Ragione Pura » » fino all' ultima parola. 2 La seconda si è di dimostrare, che l' uomo era chiuso nella sfera della sensitività fisica che sola gli somministra oggetti reali: qui, nel senso fisico, finisce la cognizione umana: di che consegue che negli oggetti de' sensi, nella materia, sia riposto anche il fine dell' uomo. La ragione in fatti, secondo Kant, è una servetta civettella dei sensi: ella non vale se non a farci conoscere viemeglio gli oggetti sensibili, ad unirli, ed a fornirci certe regole utili per dirigere la nostra condotta rispetto a quelli. Ed unicamente per questo fine la ragione ricorre all' idea dell' anima, del mondo e di Dio, siccome a finzioni utili, per concepir meglio gli oggetti dell' esperienza sensibile, e guidarci nel farne uso più utilmente. Kant dichiara assai frequente quest' ultimo fine della sua filosofia speculativa: [...OMISSIS...] . Tali sono le due tendenze della filosofia di Kant, ma Kant, più sagace della sua filosofia, s' accorge che le due tendenze non istanno bene in pace fra loro. Perocchè se la ragione è piena essenzialmente di contraddizioni, se sta del continuo in sul ludificare la mente umana, come potrà essa pur servire all' uomo di guida nell' uso delle cose sensibili? Il filosofo dunque, impegnatosi a mostrare la ragione paralogizzatrice, contraddittoria seco stessa, prestigiatrice rispetto a tutto ciò che eccede la sfera de' sensi corporei, e com' egli dice, l' esperienza; è del pari impegnato a difendere il valore della ragione in tutto ciò che si contiene entro questa sfera del suo uso empirico, ed a sostenere, che gli stessi sofismi della ragione, le stesse illusioni ch' ella ingerisce nell' uomo, sono come a dire pie frodi, cioè hanno un fine utile all' uomo stesso. Allora quando il nostro filosofo è occupato dal pensiero di difendere in questo senso la ragione, egli ragiona così: [...OMISSIS...] . Dunque il paralogismo e le antinomie, che avete prima attribuite alla ragione, non sono proprie della ragione, ma dell' abuso che voi avete fatto di essa: [...OMISSIS...] . E perchè mai? Se l' idea di un essere non ha alcun valore oggettivo, come potete voi dimostrare che la ragione non ci illuda? Vedo bene che voi negate solo che la ragione ci illuda primitivamente , e con questo accordate che ci illude posteriormente. Ma dove fondate voi questa distinzione? Non è ella arbitraria come tutto il resto delle vostre dottrine? [...OMISSIS...] Onde questo ottimo? Forse, anche questa vostra probabilità d' ottimista, potete voi dedurla da altro fonte che da quella ragione stessa, che non ha alcun valore di provare oggettivamente, e tuttavia somministra delle regole suppositorie atte unicamente a compire la sintesi della varietà esperimentale? E in tal caso, che vale questa vostra probabilità? Non è ella una nuova illusione? E con un' illusione volete voi dissipare l' illusione? [...OMISSIS...] . Parole degnissime di tutta la vostra attenzione, o lettori. Deh! con che tuono di severo cipiglio non garrisce qui Kant i sofisti, i quali danno biasimo e mala voce a quella ragione, a cui come ad ammirabile sofisticatrice e lor degnissima madre essi debbono la loro esistenza e la loro coltura! Quale ingratitudine non usano i sofisti colla ragione! E` vero, che la ragione è per sè fonte d' assurdi e di contraddizioni infinite; ma i sofisti, che ne fanno uso, hanno essi il diritto di menar contr' essa tanto schiamazzo? Se ella inganna e delude, ha però un suo secreto fine in far ciò, e dispiega un' azione oltremodo benefica, la quale consiste in conservare appunto al mondo i sofisti, e dar loro quella cultura per la quale conoscendo di essere da essa ingannati, la mordono, senza badare a quel gran secreto ch' ella ha nell' ingannarli, che è di farli esistere!!! Dopo di ciò veniamo all' ultima parte della satira che Kant tanto industriosamente compose della Ragione. La ragione che dialetticizza, come vedemmo, si propone tre scopi: di pervenire all' unità assoluta incondizionata del soggetto pensante , ed ella non ci perviene se non per via di un paralogismo, che le fa credere che esista realmente un' anima pensante; di pervenire all' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni mondiali , e a questo non perviene nè manco per via di paralogismi, ma in questa vece cade necessariamente in quattro contraddizioni o antinomie, provando a sè stessa il pro ed il contra della stessa proposizione; di pervenire finalmente all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero , e rispetto a questo suo terzo e più sublime scopo ella non è più fortunata che rispetto a' precedenti, perchè cade in una illusione trascendentale che le fa credere che esista un essere intelligente suprema causa di tutte le cose. Ma qui entra Kant a soccorrerla, e come egli la liberò dalle illusioni precedenti, così ora la libera dall' illusione di ammettere l' esistenza di un essere supremo. A tal fine Kant, movendo dal suo solito principio che qualsivoglia ragionamento della ragione non può avere alcun valore oggettivo perchè la sola esperienza de' sensi è atta a somministrare de' reali oggetti, e Iddio non cade sotto i sensi, si fa a dichiarare inefficaci l' uno dopo l' altro tutti gli argomenti coi quali si credette fin qui poter provare l' esistenza di Dio. Così Kant s' applaude d' aver tratto d' inganno la ragione! Ma se Iddio non esiste, o la ragione almeno non può provarne l' esistenza, in che maniera soddisferà alla sua esigenza di ridurre ad unità assoluta la serie delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero? Kant crede che a ciò basti il fingere che vi sia Iddio: quest' idea, chiamata da lui Ideale, secondo Kant può servire di regola alla ragione per riuscire a quella unità. Ma se Iddio è quello che dà unità alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero, e tuttavia non esiste veramente; dunque nè pure quest' unità sarà verace, ma sarà finta e illusoria. A questa difficoltà Kant in sostanza risponde consigliando la ragione a rinunziare a questa sua esigenza di trovare l' unità assoluta delle condizioni degli oggetti del pensare. Perocchè egli dice, che questo bisogno è più tosto un bisogno pratico che speculativo; e che certo, se si vuol soddisfare ad esso, conviene ammettere l' esistenza di Dio. [...OMISSIS...] Per tal modo da prima era la ragione pura quella che esigeva un' unità assoluta di tutte le condizioni degli oggetti del pensiero: ma, posciachè questa esigenza conduce invittamente all' esistenza di Dio, ora si vuole che questa esigenza sia più tosto un cotal impegno o bisogno pratico, quasichè la ragione speculativa ne possa e ne debba far senza. Perchè dunque tante parole sparse innanzi per dimostrare che la ragione pura ha quella esigenza? Per eludere questa esigenza prima confessata e lungamente stabilita della ragione pura, Kant aggiunge, che, quantunque gli enti limitati non mostrino d' aver in sè stessi le condizioni della loro esistenza, tuttavia non si può dire per questo, che essi sieno condizionati. [...OMISSIS...] Il che è quanto dire, che più tosto che ammettere l' esistenza di Dio, si può ammettere il sistema degli atomi d' Epicuro, il concetto de' quali non li mostra a dir vero necessari, ma tuttavia si potrebbero presentare come necessariamente incondizionati!! Ma dove dunque si troverà questa loro necessità, e incondizionalità, se non si trova nella loro idea? Se l' idea di essi non ce la presenta, conviene dunque che sia fuori di essi, e se è fuori di essi, dunque la necessità e la incondizionalità sta nel concetto d' un altro ente, e non nel concetto delle cose finite. Ritorna dunque il bisogno di un Dio per chi non vuole rinunziare alla ragione. In appresso Kant passa a sostenere, che, quantunque l' idea di Dio non provi l' esistenza di alcun essere realmente esistente, tuttavia è un' idea buona per la pratica. [...OMISSIS...] Ma quali sono i principii del suo giudizio? Sono, che l' esistenza di Dio è una illusione trascendentale. Non conosciamo dunque niente di migliore dell' illusione? Convien dunque lasciarsi illudere per soddisfare al dovere di scegliere? Vi può essere un dovere morale che ci obblighi ad abbandonarci all' illusione? E a mentire a noi stessi pigliando come certe le nostre convinzioni imperfette? Che cosa è quest' addizione pratica che possa aggiunger peso agli argomenti che non han peso, se non l' addizione di una menzogna interiore? Quale filosofia può esser quella, che pone la necessità della menzogna interna come base della morale? Chi ha detto a Kant, che la ragione sia un giudice sommamente equo, se è ingannatrice? E che non le rimanga come giustificarsi se commette il peccato di sottrarsi a' propri inganni? Sebbene adunque in niuna parte della sua filosofia Kant possa fuggire le contraddizioni, tuttavia in niuna parte lotta tanto e combatte seco stesso, quanto dove parla della dimostrazione dell' esistenza di Dio. Perocchè prima confessa, che la ragione la esige per trovare l' unità delle condizioni degli oggetti del pensiero; poscia questa esigenza , ora non c' è più, perchè si possano rappresentare come incondizionati gli stessi enti limitati, come Epicuro faceva de' suoi atomi; ora dice, che questa esigenza non è propriamente una prova dell' esistenza di Dio, ma piuttosto un bisogno, un interesse che conduce ad aggiungere qualche cosa alla speculazione; ora finalmente la ammette di nuovo, ma soggiunge che « « la necessità assoluta dei giudizŒ non è la necessità assoluta delle cose »(1) »: il che è quanto dire, che la necessità assoluta de' giudizi non è necessità assoluta, perchè se un giudizio, col quale afferma l' esistenza di un ente, fosse assolutamente necessario, certo dovrebbe essere assolutamente necessaria l' esistenza dell' ente che con quel giudizio viene affermato; perocchè se questa esistenza potesse mancare, il giudizio che lo pone non sarebbe assolutamente necessario perchè sarebbe falso. Lasciando dunque da parte tutte queste appena credibili aberrazioni del sofista, vediamo come egli espone la necessità del suo Dio, che per lui è un' idea vuota di oggetto reale. Noi crediamo di trattenerci ad esporre questo suo ragionamento, perchè egli contiene non già una dimostrazione dell' esistenza di Dio ma bensì una dimostrazione della necessità dell' essere ideale , lume dell' umana mente; onde pigliandola così ella viene a darci una conferma della nostra teoria dell' essere in universale, mostrando la necessità d' ammetterla come ragione sufficiente di tutti i concetti dell' umana mente. Kant espose il problema della ragione così: « « trovare l' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti dell' umano pensiero » ». Ma fino da principio egli pregiudicò la soluzione di questo problema collo stabilire gratuitamente che « il solo senso fisico somministra all' uomo oggetti », e tutte le altre facoltà non hanno altra virtù che di lavorare intorno agli oggetti de' sensi, dovendosi considerare come illusioni trascendentali gli oggetti che esse mai presentassero all' uomo. Kant si tolse con ciò di filosofare liberamente, legato alla catena de' suoi sofismi. Egli distinse adunque: 1 Le intuizioni (percezioni) de' sensi; 2 i concetti dell' intelletto; 3 le idee della ragione; 4 l' ideale. Disse dunque: 1 Che i concetti non possono rappresentare un oggetto senza le condizioni della sensitività, mancando loro le condizioni della realità oggettiva e non trovandosi in essi che la semplice forma del pensare (1). 2 Che le idee sono ancora più lontane dalla realità oggettiva; perocchè esse hanno per loro immediato oggetto i concetti, ai quali cercano di dare unità sistematica. 3 Finalmente l' ideale è ancor più lontano dalla verità oggettiva; perocchè per ideale intende un prototipo di perfezione nel quale sono suppositate le idee, consistendo l' ideale d' ogni spezie in un individuo, a cui di tutti gli attributi opposti se ne dà uno, quello che è richiesto a renderlo quanto mai si può concepire più perfetto. [...OMISSIS...] Questo è in sostanza uno degli argomenti da noi usati per provare che tutti i pensieri, tutte le operazioni della mente umana esigono avanti di sè l' intuizione dell' essere universale , perocchè tutti gli altri concetti altro non sono che determinazioni e limitazioni di quest' essere, e l' universale, l' indeterminato, l' illimitato dee precedere agli atti limitanti, determinanti, particolareggianti. Onde Kant qui mostra d' aver approssimata la verità; ma egli determinò male quale fosse l' essere universale che serve di fondamento alle determinazioni delle cose . Egli confonde l' ideale col reale; perocchè: 1 La parola sostrato propriamente appartiene alle sostanze, e non può esser applicato all' essere in universale, che come un certo traslato. 2 Egli parla di determinazione di cose , e non di concetti e di idee; ma egli dovea in ogni caso aggiungere, che si tratta di cose possibili e non reali. Queste cose possibili si distinguono bensì da' concetti astratti , ma finalmente sono anch' esse concetti, perocchè una cosa possibile è un concetto o un' idea. Se Kant avesse parlato con proprietà, non avrebbe avuto dopo da disfare il fatto; perocchè dopo aver parlato qui di cose , toglie in appresso a dimostrare, che queste cose sono oggetti della ragione, che non hanno alcuna realità, e che si prendono come oggetti ideali per un' illusione trascendentale. All' opposto il vero si è, che niun uomo di buon senso prende nè le idee, nè gli ideali, nè le cose possibili per oggetti reali . Ma se la ragione è impotente di somministrare all' uomo oggetti reali per via d' idee e di concetti; ella può però somministrargliene per via di argomentazioni , cioè di giudizŒ incatenati fra loro; la qual maniera di conoscere non appartiene alle idee, a cui solo Kant pone mente. Questo filosofo dunque sbaglia: 1 nel credere che gli uomini diano alle idee ed a' concetti la virtù di porgere oggetti reali , mentre tutto il mondo non dà loro altra virtù ed officio che di porgere oggetti verissimi sì, ma ideali e possibili; 2 nell' affaticarsi a distruggere questo errore comune che non esiste se non nella mente di Kant; 3 nel voler indurre dal valor meramente ideale delle idee e de' concetti, che anche i giudizŒ ed i raziocinŒ sieno limitati ad avere un valore meramente ideale, senza che possano provare l' esistenza d' oggetti reali; 4 e poichè il ragionamento, quando prova l' esistenza di un ente reale che non cade sotto i sensi, vale bensì a provarci la detta esistenza, ma non a farci conoscere la positiva essenza di quest' oggetto; erra Kant di nuovo nel pretendere di dedurre l' impotenza di provarci l' esistenza di un ente, dall' impotenza di farcene conoscere l' essenza (1). 3 Egli dice che il fondamento delle determinazioni dee contenere in qualche modo la provigione della materia , onde possono esser presi tutti i predicati delle cose; ma qui l' uso della parola materia è di nuovo improprio e capzioso, perchè la materia in senso proprio spetta alla realità: all' incontro i predicati appartengono all' ordine delle idee, e però alla forma, trattandosi di cose possibili. Riconosce adunque Kant la necessità di un' idea, fondamento di tutti i concetti determinati; e noi pigliamo in tanto a conto questa concessione. Egli riconosce altresì che quest' idea , cui nomina anche essere primitivo, è semplice. [...OMISSIS...] Or l' aver conosciuto, che il fondamento di ogni determinazione ideale dee essere un' idea primitiva e semplice, avrebbe dovuto guardare Kant dall' errore di esigere per fondamento di detta determinazione anzi un ideale che un' idea . Perocchè l' ideale è un ente particolare perfetto (2); e i predicati di un ente particolare perfetto, benchè concepito come possibile, sono suoi proprii, esclusivamente suoi; onde non si possono prendere da lui senza privarli dell' adesione che hanno con lui, e così renderli prima idee , cioè generali. Onde egli è una manifesta incongruenza riconoscere la necessità di un fondamento delle determinazioni tutte, e voler poi che questo fondamento sia un ideale, cioè un particolare. Perocchè, se questo ente particolare è l' ideale del sapiente, e se voglio determinare un altro essere col predicato della sapienza; io debbo prendere la sapienza in genere, e non mica la sapienza di quell' ideale del sapiente, la quale è unita a lui per modo, che, se da lui la stacco colla mente, non è più sua, ma è la sapienza in generale. Della quale difficoltà lo stesso Kant ebbe sentore; e fu costretto a confessare che la determinazione non potea considerarsi come una CIRCOSCRIZIONE di quell' ideale; ma quindi cadde nell' assurdo che è via al panteismo, cioè che ella fosse uno sviluppo di quest' ideale stesso, quasichè un ideale, se è ideale e però perfetto, si possa concepire come bisognoso o suscettibile di qualche sviluppo (1). Il che però non vedo come s' accordi con quello che egli aveva detto poco innanzi, [...OMISSIS...] . Lasciando però da parte questa contraddizione, Kant aveva riconosciuto che « « il concetto universale d' una realità in generale non può esser diviso a priori , perchè senza l' esperienza non si conoscono specie determinate di realità comprese sotto quel genere » ». La quale riflessione l' avrebbe condotto dirittamente al vero, se l' avesse scorto a conchiudere, che dunque le determinazioni speciali (almeno le determinazioni positive) non poteano esser date dall' idea che serve loro di fondamento, ma dalla sensitività stessa. Con questo sarebbe venuto a conoscere, che il fondamento di tutte le determinazioni non dovea essere un ideale, ma bensì un' idea, e propriamente l' idea dell' essere indeterminato suscettibile per ciò appunto di determinazioni e di limiti. Ma l' impegno del nostro sofista era preso; egli volea convertire forzatamente quest' idea in Dio, per aver poscia il piacere di disfare questo Dio; il che gli dovea esser facile, perocchè è facile a disfare il mal fatto. Concludiamo: la partizione dell' ente tentata da Kant è dialettica come quella di Aristotile, e non ontologica: ella è di più soggettiva, e fatta d' un lavorìo tutt' a filagrana di sofismi. I fonti logici di un sistema così profondamente erroneo furono due: 1 Il sensismo , cioè il pregiudizio che i soli sensi dessero all' uomo degli oggetti reali: onde venne a Kant l' assunto di dover spiegare tutte le operazioni dell' intelligenza umana in modo che ella non dovesse mai dare all' uomo alcun oggetto, e posciachè ella pur ne dà, di spiegar questo fatto come una illusione. Allo svolgimento di tale assunto si riduce tutto l' idealismo trascendentale. 2 L' astrattismo , cioè il falso metodo di racchiudere la filosofia in pure astrazioni, presupponendo che il problema di essa consista nell' isolare da tutto il rimanente l' elemento razionale puro; il che diviene errore e fonte d' errori, tostochè, invece di considerare l' elemento razionale puro come parte di un tutto da cui è indivisibile, si considera come un tutto egli stesso, atto a dare argomento ad una scienza completa, come pare a Kant «( Psicol. , 1 7 5) » (1). Per soddisfare alle esigenze del principio della ragion sufficiente , i filosofi tedeschi lavorarono i loro sistemi da Kant fino a Hegel. Kant imbevuto del sensismo del suo tempo aveva accordato, senza credere necessario di addurne alcuna prova, che la sensitività fisica somministrava all' uomo oggetti reali, ed era essa la sola facoltà che avesse un tal privilegio. Tuttavia distinse la materia dell' oggetto sensibile dalla forma . Questa ei pretese che venisse dallo spirito, il qual vestiva la materia data dalla sensitività, delle due forme dello spazio e del tempo. Ma in quanto alla materia egli la lasciava come un fatto (empirico). Quindi nel sistema Kantiano rimaneva una dualità; perchè la materia sensibile (vera od apparente) non si poteva ridurre allo spirito come a suoncava la ragione sufficiente di questa dualità: e quindi si argomentò di ridurre ogni cosa ad un principio solo, che contenesse la ragione sufficiente di tutto. Questo filosofo tuttavia non osservò (ed è comune questa inavvertenza a tutti i filosofi della Germania) che, quand' anco venisse fatto di ridurre la pluralità all' unità, non è per questo solo soddisfatto all' esigenza del principio della ragion sufficiente, se non si perviene a tale unità, il concetto della quale contenga in sè la ragione di sè stesso. Così appunto quando Kant uscì a dire, che, quantunque la serie degli eventi mondiali non dimostrino in sè stessi la ragione di sè, o, secondo la sua maniera di parlare, non contengano la condizione della propria esistenza, tuttavia non si può per questo dire che essi non sieno incondizionati, perocchè si potrebbero concepire come assolutamente necessari; mostrò assai chiaro di non capire che cosa significhi ragion sufficiente: perocchè, se l' avesse inteso, avrebbe in pari tempo conosciuto, che ciò che non dimostra nel suo concetto la ragione e la condizione della propria esistenza, o del modo di essa, non l' ha. Perocchè avere in sè la ragion sufficiente, significa essere questa contenuta nel concetto della cosa; giacchè se è fuori del concetto delle cose, è fuori della cosa. Quando dunque un ente non ha la ragione sufficiente di sè nel proprio concetto, e conviene però cercarla altrove; il filosofo non può mica appiccicargliela, come dipendesse da lui il dargliela o il togliergliela: nè può neppure asserire la possibilità che esso l' abbia, contro il fatto che attesta non averla. Or tutto lo studio di Fichte si riduce a trovare un ente, a cui si riducano tutti gli enti; e trovato quest' ente dichiararlo arbitrariamente assoluto, quantunque il suo concetto non sia che quello di un ente condizionato , privo della ragion di sè stesso. Al che s' aggiunga un' altra riflessione preliminare. Tutto l' intento de' sistemi tedeschi, come dicemmo, è quello di trovare una ragion sufficiente della pluralità dell' ente. Ora questo intento suppone, che la stella polare, a cui affidano il corso de' loro ragionamenti, è il principio della ragion sufficiente . Ottimamente. Ma questo è un supporre la validità ed efficacia di questo principio; perocchè a tale validità ed efficacia è condizionato il valore di tutti i loro ragionari. Peccano adunque tutte queste filosofie di petizione di principio; perchè suppongono valido a conchiudere il vero un principio della ragione, mentre essi si propongono or di far la critica della ragione stessa, o di svolgere come nascono i principii della ragione, e come collo svolgimento del pensiero la pluralità stessa degli enti si va producendo. Il che dimostra, che evitare il circolo in filosofia non si può ricominciando di botto dall' ontologia , e che convien muovere anzi dall' ideologia , onde provvedersi di que' principii di ragionare che sono poscia gli stromenti co' quali la stessa ontologia si può edificare (1). Intanto, affine di portare un giusto giudizio de' sistemi tedeschi e de' sistemi ontologici in generale, è da fermare questo principio, che « il loro intento si è quello di dare una ragione sufficiente di tutte le maniere di esistenze »(2). Perocchè, conosciuto questo, noi possiamo esigere, che tali filosofi niente avanzino che sia privo di ragione sufficiente; giacchè, se lo facessero, mancherebbero al loro intento, e sarebbero in contraddizione seco stessi. Fichte adunque per trovare la ragione sufficiente della dualità che restava nel sistema di Kant, pretese che tutto quanto cade nel pensiero, e perciò l' uomo, il mondo, e Dio stesso, conveniva ridursi al solo IO. Egli moveva da questo principio: « tutto si deve rinvenire nella coscienza empirica », e biasimava Spinoza unicamente perchè fosse uscito da questo limite, dove l' uomo è racchiuso. [...OMISSIS...] Il principio, che non si deve uscire dalla coscienza empirica, è certamente specioso. Ma in prima quella parola empirica , che vi aggiunsero i tedeschi, è superflua e dannosa; superflua, perocchè empirica vale sperimentale, e la coscienza è sperimentale di sua natura, giacchè ognuno esperimenta ciò di cui è conscio; dannosa, perchè presuppone l' errore che v' abbia una coscienza non sperimentale, quasichè avere coscienza non fosse una vera sperienza. E quest' errore, insieme col vocabolo male appropriato, schizza appunto nelle filosofie tedesche, le quali tutte per poco presuppongono una coscienza diversa dalla sperimentale, che chiamano ora razionale, ora trascendentale, e che non è coscienza, ma piuttosto un cotal essere finto dall' immaginazione. Ora del principio, che non si deve uscire dalla coscienza, abusano gli idealisti; e della distinzione di due coscienze, l' una sperimentale, l' altra trascendentale, abusano quelli che volendo essere idealisti, pure intendono che al di là de' sensi e delle idee l' uomo ammette qualche cosa, e lo vogliono spiegare senza cessare di essere idealisti, tra' quali ultimi è Fichte. Vediamo adunque in che senso possa esser vero il principio, che non si deve uscire dalla coscienza, e quale ne sia l' abuso che ne fanno gl' idealisti trascendentali. Quest' abuso nasce dall' aggiungere a quel principio altri principii arbitrari, per esempio che un ente non possa inesistere in un altro, rimanendo distinto da quello in cui si trova. Questo principio è supposto gratuitamente da tali filosofi, quando, se avessero voluto consultare puramente la coscienza, questa stessa avrebbe loro data la prova della sua erroneità. La coscienza infatti suppone una dualità, il soggetto e l' oggetto, e suppone che l' oggetto sia nel soggetto, non in senso materiale, quasi come le frutta sono in un paniere, ma nel senso intellettivo, che altro non significa che l' oggetto è presente al soggetto e da lui conosciuto. Questo viene accordato anche da Fichte; ma egli coglie da questo appunto cagione d' uscire dalla coscienza, dicendo che questa dualità non si può spiegare, se non supponendo, che innanzi al soggetto ed all' oggetto v' abbia un punto d' indifferenza, dove si trovi la cagione del soggetto e dell' oggetto medesimo, nel quale punto d' indifferenza egli colloca la sua coscienza pura in contraddizione della coscienza empirica. Ma questa coscienza pura non è coscienza, se teniamo fermo quello che lo stesso Fichte ci ha accordato, cioè che la coscienza esiga un soggetto ed un oggetto. E in vero qual coscienza vi può essere, dove manca il principio che sia consapevole, e manca ciò di cui tal principio possa essere consapevole? La coscienza pura adunque supposta da Fichte come un antecedente alla coscienza empirica, non essendo per niun modo coscienza, sarà tutt' altro, se ella esiste; e questo è quanto dire, che il filosofo è uscito dalla sfera della coscienza, in cui si proponeva di rimanere. Nè basta a trattenerlo il puro nome di coscienza attribuito a quel supposto punto d' indifferenza, quando tal nome non gli conviene. La coscienza adunque suppone un soggetto ed un oggetto, ma non in ogni coscienza cade il soggetto, il quale non ha coscienza di sè che per riflessione, come lo stesso Fichte ci accorda, e però ha bisogno di essere oggettivato acciocchè egli diventi oggetto di coscienza. Nella coscienza adunque, propriamente parlando, non cadono che gli oggetti. Ma la coscienza stessa ci dice che un oggetto non è l' altro, nè si può coll' altro confondere od immedesimare. Ora gli oggetti che cadono nella coscienza sono innumerevoli, e tra questi vi è anche il soggetto che allor si rende consapevole di sè stesso, e ben presto si pronuncia col monosillabo IO. Or come la coscienza ci dà la distinzione di tutti i suoi oggetti, così ci dà la distinzione dell' IO da tutti gli altri innumerevoli oggetti che alla coscienza appartengono. La coscienza dell' IO ci dice bensì, che quest' io è il principio consapevole, ma ci dice in pari tempo, ch' egli, principio consapevole, è un solo di tutti gli innumerevoli oggetti della coscienza, ci dice che l' IO ha una relazione con tutti gli oggetti, ma che non ha la loro natura, che anzi la natura degli altri oggetti è essenzialmente e incomunicabilmente distinta dalla natura dell' IO. Così, quando io affermo me stesso da una parte, e dall' altra affermo un cavallo, una stella, o Dio stesso, è la coscienza, che ho di tutte queste cose, che mi fa conoscere la loro differenza, e m' attesta, che l' essenza del cavallo, o dell' astro, o di Dio, è un' essenza diversa di quella del me, affermante tali cose, e che perciò, se voglio ascoltare la coscienza, debbo prendere tutte queste cose per enti diversi. Vero è, che sono sempre io quell' istesso, che le conosco tutte, il che non vuol dir altro, se non che io ho con tutte la relazione di conoscenza. Ma quella coscienza che mi dice ciò, mi dice del pari che questa relazione non consiste in una identità di natura, ma bensì mi dice che quella relazione non potrebbe essere senza che la natura e gli enti fossero diversi. Onde, sebbene sia vero che per ispiegare la coscienza debbo supporre che un solo sia il principio consapevole, e questa unità di principio mi è attestata dalla coscienza; tuttavia tanto è lungi che sia necessario, per ispiegare la coscienza come vuol Fichte, di condurre tutti i diversi enti ad un solo ente, cioè all' IO, che anzi in nessuna maniera la coscienza umana potrebbe essere spiegata, se non si suppone diversità di enti, cioè se non si suppone, che quelli enti, che sono distinti dalla coscienza, siano distinti realmente. Fichte adunque cozza direttamente contro il principio di tutta la sua filosofia, che, come dicevamo, è quello della ragion sufficiente; perocchè, mentre egli crede di trovare la ragion sufficiente della coscienza nel ridurre tutti gli enti che cadono in essa ad un solo, il vero si è che con una tale riduzione, d' altra parte immaginaria e ipotetica, si distrugge bensì la coscienza, ma non la si spiega, essendo condizione indispensabile della coscienza la pluralità dei suoi oggetti, e l' unità solo di quell' oggetto che è anche soggetto. Fichte è infedele al suo principio di non dovere uscire dalla coscienza anche in un altro modo, cioè distinguendo, oltre la coscienza empirica, una coscienza razionale, la quale egli pretende di ritrovare nella coscienza empirica. Ma come ve la trova? Unicamente per questo argomento ch' ella è necessaria per ispiegare la coscienza empirica . E` dunque una argomentazione che adopera Fichte, colla quale argomentazione parte dalla coscienza empirica in virtù del principio della ragione sufficiente, e viene a questa pretesa coscienza razionale . Ma qual è questa nuova coscienza? questa cotale superfetazione della coscienza empirica? E` quel punto d' indifferenza di cui abbiamo parlato dove non v' ha nè oggetto nè soggetto. Ma senza oggetto e senza soggetto vi ha egli coscienza? No certamente; non resta dunque che una chimera; ovvero un' entità a cui non si può applicare il nome di coscienza, perocchè non vi si trova nè chi sia consapevole, nè ciò di cui possa esser consapevole. Con eguale improprietà egli dà il nome di IO a quella inconsapevole coscienza, cioè non coscienza, ch' egli suppone esistere anteriormente alla vera coscienza che è coscienza empirica; dico la coscienza empirica, cioè sperimentale, in tutta l' ampiezza della parola, non limitata alla sola esperienza degli organi sensorii. Onde pone due IO: l' IO assoluto, e l' IO empirico posto dall' Io assoluto. Ma se vi ha un principio che pone l' Io empirico, questo principio non può essere una coscienza, nè cadere nella coscienza; e però non sarà mai, e poi mai un Io; giacchè l' Io è per sua propria essenza una consapevolezza. Qualora adunque noi vorremo riconoscere per buoni gli argomenti di Fichte, questi ci condurranno alla necessità di riconoscere che l' Io, ossia la consapevolezza d' un principio d' azione intellettiva che pronunzia sè stesso, non può spiegarsi se non si ammette qualche cosa che sia anteriore all' Io, ed alla coscienza, e fin qui l' argomento corre. Lo stesso Fichte dice, che prima che noi venissimo al pensiero della riflessione, si erano succedute nel nostro spirito diverse operazioni spirituali, ma noi non ne fummo consapevoli. Solo ritornando lo spirito in sè, egli PONE SE` STESSO come un essere riflettente e pensante, ed allor solo ci rendiamo conscii di noi medesimi. [...OMISSIS...] Ottimamente: ma ciò che si trova d' antecedente alla riflessione non è mica per questo un' altra coscienza, non è un altro Io; ma è semplicemente uno spirito inconsapevole di sè stesso, e che non pronuncia punto sè stesso; perocchè altro è lo spirito intelligente, il quale è dato dalla natura, altro è l' Io , il quale è quello spirito già sviluppato e però artificiato «( Psicol. 67 7 .1) ». Ma da che fu mosso Fichte a dare il nome di Io a ciò che si trova nell' uomo di antecedente alla coscienza, e però di antecedente all' Io, onde cadde nell' assurdo d' ammettere due Io nello stesso soggetto? (1). Da quel principio male applicato che « tutto si deve rinvenire nella coscienza ». Ora la coscienza stessa lo conduceva fuori di sè, dimostrando d' essere fattizia, e d' aver bisogno d' una causa e di un' azione che la ponesse in essere. La verità del principio della ragione sufficiente risplendeva, e l' uomo poteva rendersi anche consapevole di questo splendore, e questo principio movente di tutta la filosofia conduceva a qualche cosa di anteriore alla coscienza. Ma poichè si era messo il chiodo di non doversi uscire da questa; però se ne usciva, e poi per non confessare d' esser uscito si copriva l' incongruenza con parole appiccicate, dando il nome d' Io e di coscienza a ciò che non era nè Io, nè coscienza. Quel principio adunque non è vero, se non inteso così « di dover muovere il ragionamento nostro dalla coscienza », ma non così « di dover fermarsi entro i cancelli della coscienza ». Questa seconda è la parte falsa, la giunta arbitraria de' sensisti e degli idealisti. Ma ond' avviene ciò, che la coscienza stessa conduca l' uomo fuori di sè, e il conduca a conoscere cose che non cadono in essa? Da questo che la coscienza è essenzialmente intellettiva, sorgendo in noi mediante una riflessione del pensiero sopra il soggetto pensante. Ora la natura dell' intelletto è tale, come abbiamo veduto, che mette l' essere intelligente in comunicazione (intellettuale) con cose diverse da sè. Nell' intelligenza vi è l' identità e il diverso, dato in natura; cioè vi è il principio intelligente, il quale è sempre identico a sè stesso in tutte le sue operazioni, e vi è il termine, ossia l' oggetto inteso, il quale è contrapposto al soggetto intelligente; e quest' oggetto inteso può essere qualsivoglia cose al tutto diverse dall' ente intelligente. Così nella natura intima dell' intellezione convien cercare il punto di comunicazione fra l' intelligente e gli enti da lui intesi; i quali hanno un loro modo d' INESISTERE NELL' INTELLIGENTE senza punto confondersi con lui, anzi da lui distinguendosi. Tale è il fatto , contro al quale non vale argomento alcuno, e molto meno l' argomento dell' analogia co' corpi e colla materia. Perocchè la immensa ripugnanza che hanno tutte le specie de' sensisti ad ammettere semplicemente un tal fatto, non procede da altro che da un argomentar che fanno per analogia a quel che vedono avvenir ne' corpi. Il quale argomento si riduce a questo: « un corpo non può inesistere nell' altro, dunque nessun ente può inesistere nell' altro »: dove la conseguenza è troppo più ampia delle premesse, e però vi ha il difetto logico della falsa induzione. Di più l' intelligenza non ha solamente ad oggetti suoi gli enti particolari, ma prima di tutto l' essere in universale , il quale colla sua universalità collega in varŒ modi gli enti tutti fra loro, onde nascono i principŒ del ragionamento , fra' quali uno è quello della ragion sufficiente , che produce nell' uomo il bisogno di filosofare. Or l' uso di questi principŒ, che suppongono il nesso degli enti dato allo spirito umano per natura nel primo suo oggetto, ci conduce da un ente all' altro, e talor anco dall' ente cognito all' incognito. Seguendo dunque il ragionamento là dove egli muove i passi, lo spirito nostro esce dalla coscienza, cioè a dire, non prende la sola coscienza per oggetto del suo pensare, ma altri ed altri oggetti. Fichte fa questo ragionamento: [...OMISSIS...] . Io non so se si possa dare un ragionamento più contraddittorio di questo. Si comincia dal dire che l' Io è una coscienza, e si finisce col provare che deve esistere un Io che non può venire a coscienza! Il ragionamento anzi prova che non v' ha un Io solo, come v' ha una sola coscienza; ma che anteriormente a questa coscienza, e prima che l' uomo pronunci questa parola Io, vi è l' uomo senza coscienza, e che non è propriamente Io in senso diviso, come dicono i logici, ma solo in senso composto (1). La proposizione: « Io so di me solo in quanto io sono, e io sono in quanto io so di me », contiene appunto il sofisma che i logici dicono compositionis et divisionis; perocchè nella proposizione « Io sono in quanto so di me », la parola Io può avere due significati: può significare semplicemente l' uomo (dove l' Io è preso in senso composto), e viene a dire, « quell' uomo che poi pronuncia Io », nel qual senso si chiama un Io l' uomo, non perchè col solo esser l' uomo sia un Io, ma perchè all' essere di quest' uomo s' aggiunse poscia l' Io; e può significare l' uomo avente la coscienza, e pronunciante l' Io (dove l' Io è preso in senso diviso), venendo propriamente a significare non l' uomo, ma la sua coscienza, l' uomo in quant' è consapevole. E` dunque vero che « Io, come coscienza di me, come uomo conscio, sono in quanto so di me »; ma non è mica vero che « Io, come uomo semplicemente, sono in quanto so di me », perchè anzi sono anche senza saper di me, ed ero prima che acquistassi alcuna coscienza, e dicessi Io. Quella proposizione adunque non prova, che l' uomo ponga sè stesso; prova solo, che l' uomo pone l' Io, cioè la coscienza di sè, quando dice me (2). L' Io adunque precisamente non è l' uomo, ma è un accidente dell' uomo, senza il quale sta l' uomo; è una produzione della riflessione, una cognizione acquisita; e non più. Fichte all' incontro confuse questa produzione accidentale colla sostanza dell' uomo, e suppose che l' uomo non fosse prima che ponesse sè stesso; quindi, in luogo di cavarne che l' uomo produce ne' suoi atti la cognizione di sè, ne cavò l' assurdo che produce sè stesso, che è la sua propria causa. La conclusione adunque di Fichte: « « Il mio Io è dunque solo in quanto egli si pone ed in quanto egli è attivo: l' azione è il carattere fondamentale dell' Io » », non hanno valore, se non tradotte in quest' altre: La coscienza di me stesso comincia in me con un atto mio proprio di riflessione, e però l' azione è il suo carattere fondamentale, perchè la riflessione è un' azione. Del resto avrebbe potuto dire di più, che il carattere di ogni ente è un' azione , presa questa parola in senso generalissimo, perchè l' essere stesso è un atto; e quest' atto in qualche modo pone l' essere, potendosi coll' astrazione distinguere in quest' atto il principio ed il termine, col quale la forma è già posta, fatta sussistere. Tale risultato dà l' analisi di ogni ente, e però non è maraviglia che ciò si avveri anche della coscienza, anche dell' uomo anteriore alla coscienza. Ma egli sarebbe pure un grande abuso d' astrazione il prendere il mero principio dell' atto per l' atto stesso, o per un atto compito e che possa stare da sè: valendo qui assai bene l' adagio scolastico, che « in actu actus nondum est actus ». V' ha poi una somma inesattezza di favellare, cagione ed effetto di gravissimi errori, in quelle parole che « « non v' ha coscienza se non si divide in soggetto ed oggetto, in ispirito e natura » ». Primieramente può cadere nella coscienza il solo oggetto, e non il soggetto; cioè io posso esser consapevole di qualche oggetto reale o possibile diverso da me, senz' avere alcuna attuale consapevolezza di me stesso, senza riflettere su di me nè punto nè poco. In secondo luogo, l' oggetto, di cui sono consapevole, potrebbe essere uno spirito, potrei essere io stesso; e in tal caso la natura sensibile (in quant' è contrapposta allo spirito) non cadrebbe punto nella coscienza. Onde la natura, il mondo, non è necessaria a spiegare la esistenza di una coscienza e di un Io. Questa considerazione è importantissima. Perocchè Fichte argomenta appunto così: [...OMISSIS...] . Ora, lasciando ciò che diremo appresso, noi neghiamo che la natura, il mondo, sia condizione senza la quale l' Io non possa avere coscienza; purchè gli sieno dati altri oggetti, poniamo oggetti spirituali, od oggetti anche meramente possibili. Onde il principio della ragion sufficiente non richiede assolutamente l' esistenza del mondo a far che l' Io acquisti coscienza, potendo egli a ciò venire per altre vie. In terzo luogo è del tutto falso, che la coscienza si divida in soggetto ed oggetto. Anzi la coscienza stessa ci attesta, che tanto il soggetto quanto l' oggetto non sono la coscienza, e molto meno due parti in cui ella si divide. In quanto al soggetto la coscienza ci dice, ch' egli è quello che è consapevole, ma non è la stessa coscienza, l' atto della consapevolezza. Il soggetto è il principio di quest' atto riflesso che consapevolezza si chiama, come è il principio di molti altri atti diversi da quello della coscienza. Fra gli atti del soggetto, ed il soggetto stesso, vi ha dunque una distinzione reale: gli atti del soggetto sono accidenti senza i quali il soggetto può essere. Tale è la coscienza; il soggetto può esser senza di essa; ma non può il soggetto essere senza sè stesso: egli è atto primo, di cui gli atti secondi sono derivazioni. Molto meno l' oggetto può essere la coscienza o parte di lei. Anzi è la coscienza stessa che ci attesta, che altro è lei stessa, altro i suoi oggetti; altro l' atto con cui ci rendiamo consapevoli, altro ciò di cui ci rendiamo consapevoli. La coscienza è un nostro atto o abito; ma l' oggetto, di cui ci rendiamo consapevoli, non è mica sempre un nostro atto, o un nostro abito. Se io sono consapevole di pensare una montagna, sono consapevole in pari tempo che la montagna pensata non è mica l' atto del mio pensiero, o la riflessione sullo stesso (la coscienza). Ma, che cosa fanno i sensisti? Dopo aver appellato alla coscienza, rinnegano tutte queste deposizioni della coscienza, e vi dicono che non possono essere vere , ve lo dicono sulla fede della loro parola, ve lo dicono a priori; anzi vi accertano che sono tutte illusioni, e che non esiste altro che la coscienza, e che il soggetto e l' oggetto sono parti di lei: a malgrado che di ciò non siamo consapevoli; anzi a malgrado che siamo consapevoli del contrario: quasi che, se fossero veramente parti della coscienza, la coscienza stessa nol dovesse sapere ed attestare. Dobbiamo dunque concludere esser falso il principio, « che l' azione di porre sè stesso supponga un Io puro ed assoluto »; quest' azione altro non suppone, che uno spirito che afferma sè stesso, ed affermandosi si conosce. Onde, in quant' è conoscente in atto di sè, egli si pone, ma questo è un suo essere accidentale; e però non pone la propria sostanza: ma nella propria sostanza pone un accidente coll' atto del conoscere. Quando poi si è posto e denominato Io , allora questo spirito, che acquistò tale modificazione accidentale e la denominazione d' Io, con un' altra riflessione sopra l' Io , pone di nuovo l' Io; ma il ponente non è un altro spirito, un' altra sostanza; ma lo stesso spirito di prima, identico. Onde, come le riflessioni sono innumerevoli, così le affermazioni di sè; e ogni volta che afferma sè l' uomo afferma un sè identico nella sostanza; ma modificato nella cognizione, perchè l' affermato è uno spirito che acquistò nuova cognizione mediante una nuova riflessione. E` dunque falso che l' Io ponga sè stesso, essendo vero solamente, che lo spirito pone l' Io presso quest' Io come significativo di quella coscienza, che non è l' essere dello spirito, come vuol Fichte, ma è puramente un suo accidente, la cognizione di sè, la quale può essere e non essere senza che lo spirito cessi di essere, benchè questo spirito la formi quando, conoscendo sè stesso, dice Io. E` falso parimente, che si abbiano due Io nello stesso uomo, l' uno ponente e puro, l' altro posto ed empirico. Ed essendo queste due falsità manifeste, qui potremmo chiudere il discorso sul sistema di Amadeo Fichte. Ma giova seguirlo nei suoi traviamenti. [...OMISSIS...] E certo, se qualche cosa potesse essere causa di sè, egli avrebbe in qualche modo in sè la propria ragione sufficiente: ma essendo una proposizione contraddittoria che chi ancora non è si dia l' esistenza, perciò cade tutto quel ragionamento. Que' filosofi nondimeno, che non hanno timore d' involgersi in perpetue contraddizioni, lungi dal trovar strano che un ente che ancor non è dia a sè stesso l' esistenza, o, come essi dicono, si ponga, vanno avanti, anzi più innanzi, e ne deducono che il nulla è cagione del tutto , creando così quel sistema che fu detto del nullismo. Costoro 1 partono sempre dal principio, che l' essere umano consista nell' atto o stato della propria coscienza; indi deducono che l' uomo prima della coscienza, essendo privo di essere, è NULLA. 2 Ma la coscienza è un atto dell' uomo stesso riflettente sul proprio essere dunque il NULLA, cioè quell' uomo che era nulla, ha dato l' essere a sè stesso, e diventò il creatore di sè medesimo. Essi negano adunque di riconoscere alcun essere avanti la coscienza, avanti alla quale pongono solo il nulla: confondendo essi il conoscere coll' essere dell' uomo; per uno strano abuso di astrazione, mediante la quale isolano il pensiero riflesso dall' uomo; e prendono quel pensiero così isolato come fosse tutto l' uomo in corpo ed anima. Il sistema del nullismo hegeliano è natìo dal sistema di Fichte come una naturalissima deduzione, ma egli è pur singolare a vedere la sorte dell' errore. Fichte insegna, che v' ha un Io assoluto che pone l' Io empirico , dove si trovano tutte le cose, il Mondo stesso; così fa dell' Io un essere infinito, Creatore, Dio. Ebbene viene Hegel: e accettando tutto il ragionamento di Fichte, ne conclude, che questo Io assoluto ed infinito è il NULLA; perocchè, se deve porre ogni cosa, anche sè stesso, dunque nell' atto di porsi, nulla è ancor posto, nè pure l' Io che pone; perocchè, se fosse posto, non avrebbe bisogno di porsi. Dunque il Dio di Fichte s' è cangiato d' un tratto logicamente nel NULLA di Hegel. Tanto è vero che le conseguenze di un errore conducono agli errori opposti, e le conseguenze di un assurdo conducono agli assurdi. La grandezza di questa filosofia sta appunto nella mostruosa grandezza degli assurdi, e quel certo attraente che esercitano sugli spiriti dipende dalla « Logica » che incatena l' uno coll' altro gli assurdi più contrari. Perocchè nei loro autori si scorge un gran potere di logica in rendere fecondi tali assurdi, che non si possono ammettere in modo alcuno senza aver prima rinunciato ad ogni logica. Del resto, se si considera che, non solo rispetto allo spirito umano, ma altresì rispetto ad ogni ente contingente, si concepisce la sua sussistenza come un atto avente un principio ed un termine, se si astrae il principio dal termine, questo principio astratto non esiste veramente, appunto perchè è un astratto. Indi prendono appicco i nullisti a dire che è nulla , e che dal nulla venne l' ente; perchè l' ente fu posto veramente in virtù del principio del suo atto. Questo astratto principio risponde in qualche modo alla materia prima degli antichi, che è nulla in atto e tutto in potenza. Ma tutta questa macchina cade a terra dal solo osservare, che il principio dell' atto costituente un essere non esiste punto separato dal suo termine; ma con esso e insieme con esso non è nulla. E` dunque abuso d' astrazione, che diede corpo a tali larve filosofiche. D' altra parte se si vuol riconoscere la ragione sufficiente dell' esistenza del termine nel principio dell' atto della sussistenza; non è già che si possa riconoscere in questo principio la ragione sufficiente di tutto l' ente; perocchè lo stesso principio dell' atto ha bisogno d' un' altra ragione che ne spieghi la sussistenza; perocchè il suo concetto non la contiene; potendo essere e non essere. Applichiamo quest' osservazione all' Io di Fichte che pone sè stesso. Quest' Io altro non è che il principio dell' atto di cui l' Io posto è il termine. Così lo descrive lo stesso Fichte, quando dice, che l' Io puro è superiore all' Io empirico, dove cade la differenza del soggetto e dell' oggetto, perocchè è l' origine di questo, e però lo chiama punto d' indifferenza . [...OMISSIS...] Ebbene, se quest' io è il principio dell' atto, pel quale sussiste l' Io termine di quest' atto; dunque egli si potrà bensì considerare come la ragione sufficiente del suo termine, ma non di tutto quell' ente che si chiama Io, e che come ogni altro si compone di principio e di termine. Rimane adunque a cercare ancora una ragione sufficiente di quel principio dell' atto che fa sussistere l' Io, perocchè quel principio non ha già in sè questa ragione sufficiente; giacchè, se l' avesse in sè, sarebbe racchiusa nel suo concetto. Ma il concetto del principio di quest' atto ci dimostra anzi, che si può egualmente pensare che esista o non esista; e però conviene cercare altrove la ragione sufficiente che spieghi perchè esista più tosto del suo contrario. Il che è quanto dire che il principio della ragione sufficiente dell' esistenza dell' umana coscienza non si può acquetare nell' Io puro ed astratto di Fichte; ma esige un' altra ragione fuori al tutto dell' Io umano, e veramente assoluta, la qual ragione è IDDIO. Ma egli è uopo che noi esaminiamo qui con qualche accuratezza gli argomenti da' quali Fichte fu indotto a credere, che affermare sia un porre, un creare. Questa sentenza già veniva qual conseguenza direttissima del pregiudizio degli idealisti, che niente possa essere fuori della mente dell' uomo. Ma Fichte adduce altre prove, e queste noi dobbiamo porre a disamina. I Argomento di Fichte . - [...OMISSIS...] . Giudizio sul detto argomento . - Esso è difettoso pe' seguenti capi: 1 L' Io non può porsi prima d' esistere: dunque non v' è un Io che ponga sè stesso; 2 la coscienza di sè può aversi senza bisogno che esista il mondo materiale; 3 Quando anco la coscienza non potesse essere senza il mondo, ciò non prova che l' Io ponga il mondo, ma solo che affermi il mondo già per sè esistente; 4 Il NON7IO non è il mondo; perocchè il Non7Io è una semplice negazione, e il mondo è cosa positiva; 5 Il mondo esterno (che il Fichte chiama la NATURA) è limitato; ma non viene da questo la limitazione dell' Io ; perocchè potrebbe esservi uno spirito che conoscesse il limitato, senza che per ciò fosse limitato egli stesso; 6 E` falso anche il principio presupposto da Fichte « che l' azione non si possa concepire senza una resistenza »; così si concepisce la creazione che è la massima azione; 7 Quand' anco l' azione avesse bisogno d' una resistenza per esercitarsi, ciò non proverebbe che questa resistenza la creasse ella a sè stessa; anzi, come cosa a lei opposta, le dee venire altronde. II Altro suo argomento . - Senza ammettere che l' Io ponga il mondo, non si può spiegare l' azione che l' Io esercita sul mondo. [...OMISSIS...] Giudizio sull' argomento . - Esso pecca in molti punti, cioè: 1 Niuno dice che Io sia unicamente un essere passivo, ma passivo in parte e in parte attivo: onde, enumerando gli assurdi che ne verrebbero dal far l' uomo del tutto passivo, il filosofo combatte avversarŒ che non esistono, e non tocca quelli che veramente esistono. 2 L' uomo non preforma, e non precrea il mondo, quando concepisce un ideale, a cui s' ingegna poscia di modificare il mondo. Tanto è lungi che l' uomo possa nulla sulla sostanza del mondo, ch' egli non può levare nè aggiungere al mondo la menoma particella di materia; benchè potrebbe concepirla diminuita od accresciuta, colla sua mente, in un qualunque ideale ch' egli si formasse. Ma l' uomo stesso, fino a che non ha perduto il senno, non potrebbe neppure concepire la menoma speranza di realizzare un ideale, nel quale si dovesse aggiungere al mondo o togliere un atomo. Che anzi il potere dell' uomo è limitatissimo, non solo sulla sostanza materiale, ma ben anche a modificarla; sicchè le modificazioni, che tutto il poter dell' uomo può cagionare sullo stato dell' universo, valgono presso che zero, computato l' universo intiero. Ora questa limitazione del potere dell' uomo sul mondo non trova alcuna ragione sufficiente nel sistema di Fichte; e tanto meno se si suppone che l' Io ponente sia un Io assoluto ed infinito. 3 Fichte trova impossibile che, se l' uomo rispetto al mondo è passivo, diventi poi attivo. Ma, primieramente, in ciò non vi ha la menoma contraddizione, perocchè l' uomo non è mica attivo sul mondo collo stesso atto con cui è passivo. Non si possono negare all' Io moltiplicità di oggetti, di atti, di facoltà, di leggi. Non v' ha dunque contraddizione che secondo gli uni sia passivo, e secondo gli altri attivo. Di poi, qui non si tratta di vedere, che cosa sia possibile, ma quale sia la cosa nel fatto. In terzo luogo, esclude forse il Fichte una limitazione posta all' operare dell' Io? una resistenza, un freno posto alla sua tendenza? Non già; ma, credendo di spiegarla, egli vuole che l' Io stesso produca a sè la resistenza e l' opposizione. Con questo sistema, alla prima difficoltà se n' aggiunge un' altra. Perocchè, se prima era difficile intendere come l' attività dell' Io potesse trovare una resistenza nel mondo, ora rimane questo a spiegarsi; ma s' aggiunge di più la difficoltà molto maggiore come sia possibile che l' Io stesso sia l' autore d' un ente che gli resiste e lo limita. Ricorrerà l' idealista al solito rifugio, che la resistenza è una pura illusione? Non può, perchè ha dedotta la necessità della resistenza come condizione dell' azione e della coscienza che l' Io vuol porre. E quanto poi non è arbitraria e strana quest' appendice, che l' Io, creando a sè la resistenza, cioè il mondo, si riserbò il potere di cangiarlo e di modificarlo! Vi ha forse una ragione sufficiente di ciò? E qual ragione sufficiente può assegnare il filosofo nostro, perchè l' Io si sia riserbato questa quantità determinata di potere, nè più nè meno? e se ne sia riserbata una quantità così piccola, che è nulla verso la potenza con cui il mondo resiste a' suoi disegni? E riserbandosi questo minimo grado di potenza sulla sua creatura, ha dunque rinunziato per sempre ad averne un grado di più? Il creatore potè abdicare così per sempre la sua onnipotenza? Avrà egli creato un complesso di esseri più potenti di lui? Non potrà annullare nè accrescere il numero delle sue creature? Non potrà più riassumere il suo maraviglioso potere? Non solo l' avrà perduto di diritto, ma anche di fatto? L' infinito sarà scaduto ad una condizione inferiore del finito da lui prodotto? E s' ella è così, dove oggimai si trova l' Io assoluto ed infinito? E` perito per sempre, come quegli animali che generando de' loro simili muoiono nell' atto della generazione. Mentre adunque Fichte inventa un sistema per assegnare delle ragioni sufficienti al fatto della coscienza, egli dà per ragioni altri fatti da lui supposti e disdetti dalla coscienza, i quali hanno bisogno assai più de' primi di spiegazione, ed anzi sono del tutto inesplicabili. Ed è poi lepido il modo facilissimo col quale fa comparire l' individuo umano al mondo! [...OMISSIS...] Vi par egli questa filosofia? non è ella una descrizione accurata e filosofica della maniera con cui l' uomo si pone da sè stesso? Ora sentitene la spiegazione: [...OMISSIS...] . Ecco adunque come i filosofi trascendentali descrivono i fatti, ecco come li spiegano. Li descrivono prima come produzioni di un Io precedente senza coscienza di sè, e tuttavia ASSOLUTO e INFINITO. Veramente chi ha coscienza (presso di loro sarebbe l' Io empirico) è qualche cosa di più di quello che non ne ha. Ma il loro assoluto, il loro infinito, il loro DIO, non ha coscienza, sì va travagliandosi per cavarla dalle proprie viscere, benchè il parto riesca sempre imperfetto. Così doveva essere, acciocchè un tal Dio potesse convertirsi nel nulla colla stessa facilità (mi si perdoni il paragone) con cui si rivolta la frittata nella padella. Quando poi vengono alla spiegazione, essi hanno alla mano la ragione sufficiente con ogni facilità, dandovela in questa o consimili parole: « era necessario che così avvenisse: l' Io doveva così operare: ne aveva proprio bisogno per porre sè medesimo: è una legge della sua coscienza »: quasichè, quando il filosofo dichiara una cosa necessaria, ella sia tale anche in fatto. Ma la necessità, dico io, convien provarla, convien trovarla nel concetto della cosa, e non fingerla, o introdurla a capriccio per un cotal puntello al proprio sistema. D' altra parte Fichte dice: « « Tostochè l' Io comparve a sè stesso nel mondo, egli dovette per legge della sua coscienza imaginare i suoi genitori e i suoi antenati » ». Ma datemi un poco la ragione sufficiente: 1 Perchè l' Io sia comparso nel mondo più tosto in un tempo che in un altro? perchè non prima, o non dipoi? 2 Perchè egli abbia creati questi fra' suoi genitori più tosto che altri, cioè genitori di tale età, fattezze, condizioni? perchè non gli si rappresentarono giovani anzi che vecchi, belli anzi che deformi, nobili e ricchi anzi che ignobili e poveri, buoni, anzi che malvagi ecc.? Dove trovate voi la ragione sufficiente di tutto ciò nel vostro sistema? E perchè certi fanciulli nascono orfani di padre, e non compare loro più la madre, morta nel darli alla luce? 3 Perchè l' Io non pone e crea sempre questa stessa linea d' antenati? ma conosce una serie più o meno lunga, e intende finalmente che la serie anche degli antenati incogniti non va più di là d' un certo termine? Nel sistema di Fichte la storia intera dell' umanità è una produzione dell' Io. Ma perchè mai inventò egli la storia in un modo piuttosto che in un altro? Quali ragioni sufficienti saprebbe addurre il nostro filosofo che spiegassero tutti gli accidenti storici che non mostrano alcuna necessità in sè stessi? Vi hanno molti concetti affini, i quali si confondono facilmente: i filosofi tedeschi, che hanno difetto d' analisi, traggono da una continua sostituzione di concetti gli oscuri loro sistemi: ciascuno de' concetti, di cui fanno uso, sarebbe importante e fecondo; ma, scambiati gli uni per gli altri, mescolano insieme la loro fecondità per modo che ne riesca un viluppo sottilissimo e un bastardume d' ogni generazione di piante che senza regola si aggraticciano ed impediscono. Il concetto di un Io assoluto produttore dell' Io empirico, in Fichte non è mai il medesimo; ma ora ei pone quell' assolutità in una cosa ora in un' altra. 1 Abbiamo veduto che l' ebbe posto in questo, che l' Io pone sè stesso. « Ma, non potendo avere tale proposizione alcun senso, s' ella non s' intenda così, che il principio di quell' atto, onde un ente (nel caso nostro l' Io) sussiste, pone il suo termine; questa proposizione nè ci conduce ad un Io, ma ad un principio di atto; nè ci conduce ad un principio necessario, ma contingente, e tale da supporre una ragione sufficiente fuori di sè. 2 Fichte dice ancora, che il carattere della ragione è il semplice porre in sè e per sè; e che in questa operazione si dee ravvisare la sua assolutità. In questo detto di Fichte v' ha della profondità, cioè vi hanno le vestigia di un ingegno che vide un nodo difficile, benchè nol sapesse superare; e già il solo vedere dove giaccia il difficile, suppone un pensare che non si trattiene alla superficie. Spieghiamoci. Il porre di Fichte altro non è che l' affermare . Quando l' uomo afferma, egli sa che una cosa sussiste; prima che l' affermi, egli è per lui come se quella cosa non sussistesse. Ma che cosa è questo affermare? Agli occhi di Fichte fu un porre gli esseri, un crearli; e ciò perchè altramente si sarebbero dovuti ammettere come esistenti esseri fuori della sfera del pensiero; e s' era messo il chiodo (tutto ad arbitrio) che non si dovesse uscire dal pensiero; non si dovesse uscire dalla coscienza: benchè pur si usciva (ed era contraddizione manifesta) col supporre un Io anteriore alla coscienza e causa di questa (1). Intanto però non si considerava, che è la coscienza stessa quella che ci dice che ella non crea le cose, ma non fa che affermarle; e l' analisi dell' affermazione importa il precedente concetto dell' esistenza; non potendosi affermare quella che già non esiste. Considerare adunque l' affermazione come una creazione, è un contraddire ad un tempo alla coscienza, e al concetto di questa operazione dello spirito che affermazione si chiama. Se affermando noi creassimo l' ente affermato, certamente lo sapremmo; noi avremmo il convincimento che l' ente affermato non esiste, se non nel momento dell' affermazione, e che cessando noi d' affermarlo, egli rientrerebbe nel suo nulla. All' incontro, noi, cioè tutti gli uomini, siamo intimamente persuasi, che l' ente non dipende punto dalla nostra affermazione, e che egli ha de' caratteri opposti a questa: per esempio egli ha il carattere di stabilità , quando l' affermazione è transeunte e momentanea; onde nell' effetto vi sarebbe assai più che nella causa: e quindi è impossibile trovare nell' affermazione la ragione sufficiente della sussistenza degli enti. E non di meno l' affermazione , colla quale noi ci persuadiamo della sussistenza degli esseri, è una operazione assai misteriosa; e l' aver veduto ch' ella non è di facile spiegazione, è ciò che ci fa lodare di profondità il pensiero di Fichte. Il misterioso, ch' ella contiene tale operazione, sta in questo, che per essa l' ente non è da noi conosciuto di più: giacchè l' ente si conosce coll' idea, e non con l' affermazione; giacchè quando si dice ente , si dice la sua essenza . E pure l' affermazione non è inutile al conoscer nostro: che cosa dunque conosciamo per essa? Primieramente non si dee mettere a suo conto l' occasione ch' ella ci porge di avere l' idea determinata dall' ente, perchè questa cognizione non ha propriamente la causa formale nell' atto di affermare; ma solo prende da quest' atto l' occasione, mediante il sentimento che serve di termine a cui si riferisce l' essere universale e così lo si limita. Rimane adunque che l' affermazione per sè altro non ci faccia conoscere se non la sussistenza di quell' ente di cui ci occasiona l' idea; idea che ci è data, come da vera causa, dall' intuizione dell' essere, e dal riferirlo che noi facciamo al sentimento. Ma che è la sussistenza dell' ente che non si trova nell' essenza (parlando di contingenti)? Altro non è che l' atto proprio dell' ente stesso, mentre l' essenza non è che l' ente in potenza. Ora quest' atto ha un rapporto reale con noi, o d' identità (se siam noi stessi l' ente di cui si tratta), o d' azione. Questa relazione reale , non essenziale all' ente, anzi contingente, è quello che si afferma. Coll' affermazione adunque, trattandosi di enti contingenti, si conosce non la loro essenza eterna e necessaria, ond' hanno il nome di enti; ma il loro atto contingente, la loro realità: in una parola non ciò che sono di diritto, per così dire, ma ciò che sono di fatto. Quel misterioso adunque, che si trova nella natura dell' affermazione, si riduce tutto al misterioso che si trova nella distinzione fra l' essenza dell' ente contingente e la sua realizzazione , o atto proprio dell' ente stesso. Or, quando noi abbiam detto che l' affermazione nostra non può esser quella che fa sussistere l' ente, perchè noi affermiamo un ente stabile e permanente anche oltre l' atto dell' affermazione; Fichte non ci può mica dire, che quest' è un' illusione trascendentale. Egli è singolare a vedere quanto venga comoda questa scappata a' filosofi della scuola tedesca. Ogni qualvolta vien loro fra i piedi qualche cosa che gl' imbarazza, se ne distrigano con tutta disinvoltura dicendo « quest' è un' illusione trascendentale ». Ma pure Fichte non può dir questo nel caso nostro; ed ecco perchè. Fichte e i fichtiani ragionano così: « Kant ha smembrato il pensiero, come pensiero, in antinomie, categorie ed altro, e in vece di verità ci ha lasciato contraddizioni. Se dunque cotesto smembramento del pensare non conduce che a contraddizioni, sèguita che si debba battere un' altra via per giungere alla verità, cioè la via del semplice affermare. La ragione, questa facoltà spirituale piena d' interna unità, non può condurre a contraddizioni (1). Il pensiero adunque non dee esser una proprietà suprema della ragione, ma solo una proprietà inferiore. Il semplice porre (affermare) in sè e per sè , o l' asserire senza più, è il carattere supremo della ragione, potendosi indi spiegare il pensare con tutte le sue contraddizioni »(2). Fichte adunque: I Confessa che la ragione non può contraddirsi nè illudersi; II Pone l' atto della ragione nel puro affermare . Dunque in questo affermare non può cader inganno. Dunque (per tornare a ciò che poc' anzi, p. 232, dicevamo: non potere Fichte in ciò imputarci di illusione trascendentale) la ragione, quando afferma un ente come cosa stabile e indipendente dalla stessa sua affermazione, non può farci cadere in alcuna illusione trascendentale: dunque ella non crea gli enti, ma li conosce già esistenti: dunque v' ha qualche cosa fuori della ragione umana, e in essa non si può trovar tutto, se ad essa medesima prestasi fede. Nè si può dire che l' affermazione non sia pura quando attesta tutto ciò: perocchè ella lo attesta sempre per tutti gli oggetti affermati, com' è suo proprio intrinseco carattere; senza il quale ella punto non sarebbe. III Ma Fichte poi attribuisce al suo porre in sè e per sè , che è l' azione essenziale della ragione, un altro senso; dal quale prende nuovo argomento per dichiararla assoluta e creatrice delle cose. Egli dice « che ogni tendenza dell' Io va a parare a quel punto, dove esso può sollevarsi dal pensiero e dal mondo ad un essere puro ed assoluto », il che è quanto dire che l' uomo non è pago se non si solleva all' infinito. Di che deduce che l' Io stesso, che ha questa tendenza, è infinito, assoluto. « L' Io si sente assoluto (così ragiona Fichte), e però indipendente dal mondo; egli tenta di strapparsi via dal mondo, e avvicinarsi allo stato assoluto. L' Io assoluto è quella idea che serve di base alle esigenze pratiche dell' Io « di comprendere in sè ogni realità », e di assolvere l' infinità. L' Io tende ad essere realmente assoluto, ma si trova in ogni momento limitato. Questa tendenza unita al sentimento di limitazione è la ruota che muove lo spirito umano, la quale non può fermarsi, ma trae l' uomo da uno stato all' altro; ella è la causa per cui l' uomo abbozza ideali di sè e del mondo, riformando sè e il mondo su di essi. Tendendo l' Io ad una assoluta illimitazione, egli dirige i suoi sforzi a t“r via la tendenza stessa; perocchè là, dove è tendenza, ivi è limitazione. Per questa tendenza di annullare ogni tendenza, mostra il carattere soprasensuale dell' Io: solo a questa condizione l' Io è assoluto. Tutta la moltitudine degl' ideali, tutte le immaginazioni d' una bella fantasia, traggon l' origine da questo carattere assoluto dell' Io. Ma questo carattere non è del tutto reale; esso è per ora un ideale che l' Io ha di sè, e giusta il carattere dell' Io resterà sempre un Ideale. Solo adunque in quanto l' uomo ha in sè l' idea dell' assoluto, e cerca in essa il proprio carattere fondamentale, egli è capace di poesia e di arte. Ma ancor egli sente che l' assoluto, suo carattere, lo muove alla moralità . Poichè l' uomo, ispirato da questa idea di assolutezza, disprezza e deve disprezzare tutti i motivi sensuali delle sue azioni, ed esercitare il dovere solo pel dovere: l' idea dunque del soprasensuale assoluto è il punto, donde parte ogni coscienza, e dove ogni coscienza di nuovo ritorna e si concentra. Qui si rileva l' errore capitale di Fichte e di tutti i filosofi trascendentali della Germania. Essi dicono in sostanza: « l' Io tende ad uscire dai suoi limiti; dunque ha un ideale di sè, un' idea dell' illimitato ed assoluto essere. Ma l' idea è un Io: dunque vi ha un Io7idea illimitato ed assoluto ». L' errore sta sempre nel confondere l' idea coll' Io, l' oggetto col soggetto. Si accorda che l' Io abbia l' intuizione di un essere illimitato, ideale; ma si nega che quest' essere ideale senza limiti sia lo stesso Io; perchè l' oggetto intuìto, non è il soggetto intuente. Il soggetto intuente, cioè l' Io, è quello che fa l' atto dell' intuire; ma chi mai dirà, che l' idea, che l' oggetto intuìto sia quello che fa quest' atto? Se l' oggetto intuìto è quello che intuisce, egli cessa, in quanto fa quest' atto, di essere oggetto intuìto, perchè l' intuìto e l' intuente sono relazioni che si escludono reciprocamente. Fichte dice, che, se si pone che l' oggetto sia diverso dal soggetto, non si trova più il nesso tra l' uno e l' altro; e che perciò conviene supporre, che il soggetto stesso si trasformi in oggetto, e rappresenti come due personaggi. - Ma questo è un correre a precipizio. Poichè: 1 Se non trovate il nesso che congiunga il soggetto coll' oggetto, in tal caso vi resta a confessare la vostra ignoranza, senza negare quel nesso che è un fatto evidentissimo. Per altro quel nesso si trova nell' atto della cognizione . D' altra parte, niuno può dimostrare alcuna ripugnanza nel concetto di più enti comunicanti insieme secondo la propria natura; 2 Il ripiego di Fichte, invece di sciogliere il nodo, lo taglia, negando che vi abbia un nesso reale, e dichiarandolo arbitrariamente illusorio; 3 Che anzi nè pure è vero che tagli il nodo: perocchè, dopo la spiegazione che pretende darne il nostro filosofo, quel nodo si rimane saldo come prima, anzi più involuto e aggruppato di prima. E veramente la spiegazione di Fichte si riduce a dire, che l' oggetto è solo apparentemente oggetto, ma realmente è anch' egli soggetto. E bene sia così: rimane però che quest' oggetto, in quanto è apparente, il che è un dire, in quant' è oggetto, non sia il soggetto. Vi ha dunque un nesso tra il soggetto reale e l' oggetto apparente, che rimane intieramente a spiegare, e che non si spiega già col distruggere l' oggetto facendolo rientrare nel soggetto. Sono adunque questioni che si confondono malamente insieme queste: Qual è la natura dell' oggetto? E` ella reale od apparente? Come può darsi un nesso tra l' oggetto (reale od apparente) e il soggetto? - Nè la soluzione dell' una è la soluzione dell' altra. Or non vale il dire, che, producendo il soggetto a sè stesso l' oggetto, produce anche il nesso che lega seco quell' oggetto. Perocchè con ciò altro non si farebbe, che di nuovo confondere due questioni differenti, cioè: a) Qual sia l' origine, la causa di quel nesso? b) Qual sia la natura di quel nesso? E` ella ripugnante questa natura o no? Da qualunque causa sia stato prodotto quel nesso, egli esiste: sia egli apparente o reale, esiste tuttavia. Ciò che si dee spiegare non è già la sua causa occulta; ma la sua natura manifesta , che sta nel fatto lampante della umana cognizione. Se l' Io occultamente produsse l' oggetto, questa produzione occulta non è il nesso che si vuole spiegare, perchè questo nesso è palese; e quella produzione perciò è esclusa dal nesso, e a lui anteriore. Se dunque Fichte immaginò quella produzione occulta come un' ipotesi atta a spiegare un tal nesso, dall' istante che è provato che quella ipotesi (d' altra parte mostruosa) non vale a spiegarlo, ella cade, e con essa tutto il sistema. L' errore fondamentale adunque di Fichte, come di tutta la scuola a cui appartiene, è di non poter intendere l' esistenza di un oggetto distinto essenzialmente dallo spirito che lo intuisce: e dal non poterlo intendere, argomentare che dunque l' oggetto dee incorporarsi occultamente col soggetto; imponendo così alla natura quelle leggi, che loro detta il non sapere. Dopo la pubblicazione del « Nuovo Saggio » e di altri miei lavori, ne' quali tolsi a dimostrare 1 che l' oggetto non si confonde col soggetto, e che questo fatto ideologico della distinzione dell' oggetto dal soggetto toglie via lo scetticismo, inevitabile a' sensisti e soggettivisti, i quali li confondono; 2 che l' oggetto per essenza s' intuisce dall' uomo per natura, ed è l' essere in universale: uno scrittore italiano affermò con forza il principio, che l' oggetto , distinto dallo spirito che l' intuisce, doveva essere la base del sapere e della certezza, e di questo ci congratuliamo; ma, nello stesso tempo che in questo vero egli conviene meco, stimò bene di farmi il viso dell' armi, e darsi la pena di scrivere diversi volumi per dimostrare, che io sono al tutto psicologista, ed egli solo è il vero ontologista. Perocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Questo scrittore credette di raggiustare il mio sistema col dire, che l' oggetto dell' intuizione che ha l' uomo per natura non è l' idea dell' ente, ossia l' ente ideale; ma che è l' ente reale , che contiene in sè ogni realità: perocchè, egli dice, l' ente ideale e comunissimo, se non è anche reale, s' immedesima col soggetto uomo (1). Così egli viene ad accordare di necessità a Fichte e agl' idealisti della Germania (che per altro si mostra persuaso di combattere vittoriosamente), che l' oggetto ideale , la pura idea , s' immedesima collo spirito; e però in questa parte diviene con essi idealista trascendentale. Dall' altra parte egli ammette coi sensisti, che il solo reale sia veramente oggetto, e con ciò pecca manifestamente di sensismo. Ben è vero che il reale può essere conosciuto e però può diventare oggetto della mente (il che noi diciamo oggettivare ), ma non è già vero, che sia conosciuto per sè stesso senza l' idea. Onde non essendo conosciuto per sè stesso, non è per sè oggetto della conoscenza. Laddove l' idea è conosciuta per sè, giacchè idea importa cosa intuìta, onde ella è per sè stessa oggetto, ed è quella che unendosi al reale lo rende conoscibile. Il vero oggetto adunque è l' idea; e questa poi partecipa l' oggettività al reale, a cui ella si unisce nella cognizione. Il supporre adunque che l' oggetto primo della mente sia il reale , è una eredità del sensismo. Essendo adunque dinanzi alla mente umana l' essere in universale , e mediante quest' essere illimitato giungendo l' uomo a conoscere la perfezione degli esseri, ed a produrre a sè stesso gl' ideali delle loro perfezioni; certo, dee suscitarsi in esso il desiderio di rendersi perfetto, e di toglier da sè, per quanto gli è possibile, i limiti: il che egli poscia giugne ad intendere che non può conseguire se non mediante l' unione coll' essere supremo ed infinito, dove, cessati tutti i limiti, è la pienezza dell' Essere realizzata: in una parola mediante l' unione con Dio. Ma egli non arriva mai naturalmente a concepire il desiderio, come suppone Fichte, di rendere Dio sè stesso; il qual desiderio mostruosissimo altro non sarebbe, che la massima inversione e perversione della propria natura, la massima immoralità e insieme la massima stoltezza. Lungi adunque d' avere Fichte osservata la natura umana, com' egli si proponeva, e conoscerne gl' interessi recessi; egli non pervenne punto a conoscerla, e confuse l' ultimo decadimento di essa, qual è l' orgoglio di divenire una Divinità, col supremo innalzamento a cui aspira, qual è la massima sommissione e umiliazione alla Divinità: perocchè l' ideale dell' uomo, l' uomo perfettissimo, è l' uomo che riconosce sè stesso nulla dinanzi al tutto che è Dio, onde sente d' avere ogni cosa ricevuto. Quanto è adunque illegittimo interprete del voto della natura umana quel filosofo, il quale prende per ideale dell' uomo l' angelo ribelle! Fichte distingue il suo sistema da quello degli Stoici così: [...OMISSIS...] . Colle quali parole voleva dire, che la coscienza essendo limitata, e non potendo mai pervenire a levare da sè tutti i limiti, essa coscienza, che è l' Io empirico, non può esser Dio, ma solo tende a rendersi uguale a Dio. Ma che cosa è questo Dio di Fichte? E` l' idea infinita dell' Io; quello che chiama Io puro, e che pone l' Io empirico: ponendo questo Dio non si esce dall' Io umano. E` un Dio ideale che continuamente tende a realizzare sè stesso, ed è impotente a segno che non arriva mai: onde stabilisce questo filosofo una perfettibilità eterna dell' uomo; e nello sforzo continuo di giugnere alla perfezione, senza mai pervenirvi intieramente, egli pone l' umana destinazione . Qui si vede comparire in altra forma il sistema della speranza sempre ingannevole di Foscolo (1). Ora egli è falso, per dirlo di nuovo, che l' uomo tenda a divenire un Dio realizzato; come è falso che l' ideale dell' uomo sia quello di un Io senza limitazioni di sorte alcuna; giacchè, togliendo all' Io tutte le limitazioni, egli perderebbe affatto la propria identità, e diverrebbe un altro essere: nè egli è possibile che l' Io desideri di perdere l' identità sua propria; quando anzi è vero che ogni essere intelligente brama bensì di perfezionarsi nella sua natura, ma non brama cangiar natura; la cui brama avrebbe d' altra parte per oggetto un assurdo. Dall' esame de' principii accennati di Fichte vedesi che la filosofia da lui proposta manca di solidi fondamenti. Vedesi del pari che questo filosofo, volendo stabilire un essere assoluto che contenesse la ragione di tutte le cose, e d' altra parte non volendo uscire dell' uomo, pel pregiudizio sensistico ed idealistico; ricorse ad un Io, che non può essere in alcun modo assoluto, infinito, ragione delle cose, Iddio. E veramente: I Quest' Io puro di Fichte non ha coscienza, appartenendo la coscienza all' Io empirico. Ma un assoluto, e un Dio senza coscienza, non può essere un assoluto, e un Dio; ma piuttosto uno stipite. II L' Io puro di Fichte non può esser libero , perchè la vera libertà è una dote propria della volontà , e la volontà non esiste se non qual conseguente de' beni conosciuti. Ma l' Io puro non conosce come tale cosa alcuna, e perciò egli opera del tutto alla cieca, e necessariamente. Abusa dunque il filosofo nostro, seguìto in questo da Schelling e dagli altri trascendentali, quando pretende che l' Io sia sommamente libero appunto perchè pone sè stesso. Schelling così esprime questo pensiero: [...OMISSIS...] . 1 Ora, se l' Io si conosce perchè si determina, dunque innanzi a tale determinazione non vi ha cognizione, e però nè pur volontà, e meno libertà (se per libertà s' intende una dote della volontà). La libertà dunque di cui parla qui Schelling è una cieca necessità. 2 Si dice che la determinazione che prende l' Io non ha fondamento ulteriore: ma le determinazioni che non abbiano per loro fondamento una ragione , sono cieche: la volontà stessa di Dio dee essere sempre guidata da un lume intellettivo: onde non è già un pregio, ma un difetto l' attribuire ad un ente il determinarsi senza cognizione e senza ragione; 3 Il dire che non ci possiamo innalzare al di sopra di quest' azione, è un parlare così improprio, che assai più vero sarebbe dire il contrario, cioè che non ci possiamo abbassare al di sotto di quest' azione. Che se egli sembra che l' astrazione non possa andare più là nell' operazione descritta da Schelling (benchè nè pur questo sia vero); in tal caso è da osservare che l' astrazione non ci conduce mica sempre ad esseri più nobili e perfetti, ma piuttosto ad esseri più imperfetti. 4 I nostri idealisti affermano che « isolandosi da ogni oggetto lo spirito non trova più che sè stesso »: ma essi non riflettono che cosa si esige acciocchè lo spirito possa trovar sè stesso, perchè non analizzano questa operazione. Lo spirito non trova sè stesso se non percipendosi. Ma non si può percepire, se non si afferma come un ente; e non può affermarsi come ente, se non sa che cosa sia ente . Ora sapere che cosa sia ente, è lo stesso che avere l' idea dell' ente. Lo spirito adunque non può trovar sè stesso, se non ha presente l' ente come suo oggetto. E veramente lo spirito è un soggetto, e non comincia a divenire oggetto a sè stesso, se non si contempla nell' essere , e così si oggettivizza, partecipando dell' oggettività essenziale dell' essere stesso. L' immaginarsi adunque che lo spirito possa percepir sè stesso, o sia trovarsi, astraendo da tutti gli oggetti, è un errore proveniente da difetto di scienza ideologica; lo spirito non può percepire e trovar nulla, se non col mezzo dell' idea dell' ente, che è l' oggetto per essenza: tolta via la quale idea lo spirito è nelle tenebre; non conosce più nulla, nè sè stesso nè l' altre cose. Anzi lo spirito così accecato cessa d' essere spirito intelligente; molto meno può essere qualche cosa di assoluto. Egli è poi strano che i filosofi tedeschi diano il potere all' astrazione di trovare o di creare l' assoluto , quando l' astrazione niente trova nè crea; ma solo separa; e si esercita sopra un oggetto già percepito. Che cosa può fare dunque l' astrazione rispetto allo spirito? Separarlo dagli oggetti reali che non sono lui stesso. Che ci rimane allora? Lo spirito solo; quello spirito che si aveva anco innanzi: con ciò non si è innalzato sopra il finito, ma s' è spogliato di tutte le sue cognizioni; e però non resta punto migliorato, anzi deteriorato all' ultimo grado. Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

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