Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Davano il mal di testa, l'incapacciatura, l'incontro di certe espressioni, come imbucatarsi, romio, abbicarsi, galloria, poccioso, far tarisca e simili, e l'incontro di certe frasi locali come questa applicata alle Kellerine di Monaco: "dimoranti fra Settimo e Brandizzo in punto di bellezza" per significare un termine di mezzo, ossia né belle, né brutte. Tali frasi e periodi spiccavano come addentellati di nuove costruzioni strane fra la prosa politica, economica, commerciale, bancaria, che l'on. deputato C.F., direttore della "Gazzetta" in quell'epoca, ammanniva alla tiepida e giulebbata beatitudine de' suoi agiatissimi lettori. Onde questi allo scattare battagliero di quello scrivere nuovo, sussultarono indignati come gatti scottati da un piatto traditore; e fra essi vi fu perfino chi disdisse l'abbonamento al giornale! Ma, per converso, se ciò succedeva ai vecchioni insofferenti di ogni nuovo tentativo letterario, - nel frutto bizzarro, aspro ma tonico, morsero i giovani con entusiasmo, ristucchi quali erano dall'eterno annaspare delle frasi fatte, convenzionali, senili, piatte, e dei motti proverbiali esauriti, a cui soltanto si riconosceva il diritto ufficiale di adagiarsi in una prosa onesta, degna di cresima, assoluzione ed altri sacramenti. Quegli articoli rivoluzionari, che sorgevano a battaglia nell'antico giornale del Piemonte, intitolavansi pittoricamente: Una gita a Vienna col lapis, ed erano firmati Giovanni Faldella, nome codesto noto allora solo a pochi giovani caldi d'ispirazioni letterarie in più ossigenato e libero ambiente, ed ai frequentatori della società Dante Alighieri, istituitasi qualche anno prima in Torino, ed incubatrice avventurata di nuove e più spiccate individualità artistiche. La gita a Vienna col lapis terminava con una mossa originale; cioè con la seguente autobibliografia che i vecchi lettori della "Gazzetta piemontese" dovettero giudicare il colmo dell'impudenza letteraria. "Queste furono le mie note a lapis, che io ebbi la debolezza di comunicare al pubblico. "Ed esso che cosa ne dirà? "Niente - perché il pubblico non legge mai la prima stampa di un nome nuovo: onde tanto farebbe riempirla di parole estratte a sorte da un cappello. Quindi per questa volta sono costretto a farmela da me stesso la bibliografia. Eccola: "Vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi: sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, la elettricità e il reobarbaro... "Così seguiterò finché avrò carta e fiato; tale è il mio stile, come venne ridotto dal mondo piccino e dai libri grossi". Ma per rendere evidenti i pregi di tale opera, che pubblicata poco dopo in volume, risollevò d'un tratto più vibrate antipatie e simpatie, basti citare quanto ne scrisse allora nel "Secolo" di Milano il buon vecchio Eugenio Camerini; ed una lettera diretta al Faldella da Giosuè Carducci, lettera che venne pubblicata nelle "Serate italiane" del Molineri nell'aprile del 1874 - Camerini scriveva: "I Reisebilder di Giovanni Faldella non hanno certamente i pregi di quelli di Enrico Heine, ma una certa aria di parentela che attrae. V'è il sentimento della natura, l'acume di penetrare nel cuore degli uomini, la finezza di osservare i costumi e la maestria d'esprimere quanto l'intelletto vede e l'anima sente. Di una gita all'esposizione di Vienna ha fatto un libro che non spiacerebbe a Sterne. Egli ha una tavolozza ricchissima e non ha letto solamente il dizionario del Fanfani, come alcuno consigliava, ma ha studiato i buoni autori e specialmente i Toscani, tra i quali ha invidiabile disinvoltura, e ha saputo appropriarsene il buono senza cadere come altri nell'idioma Che pria li padri e le madri trastulla. "Altri riducono la lingua toscana al gergo delle bambinaie, al pappo e al dindi come diceva Dante". Ed il Carducci: "Mio signore. La ringrazio (e chiedo scusa se tardo) della Gita a Vienna; dono suo carissimo; che ho letto con tanto piacere e dato a leggere a qualche amico giovane. "S'io non m'inganno, Ella ha da natura la potenza di rappresentare con verità ed efficacia; ha dalla stessa sua potenza il sentimento ed il giudizio (che gli impotenti non hanno) del come, a riuscir poi bene in effetto, ci vuole meditazione e studio e fatica vera di applicazione su certi libri che non son poi di leggera lettura...: ha dallo studio assai virtù e qualche difetto. "Io non condanno la mescolanza dei piemontesismi coi toscanesimi, io credo con Dante e con i veri filologi e coi retorici veri che nel fondo dei dialetti, chi sappia cercarlo, trova l'accento e il colorito della gran lingua italiana popolare e classica. "Ma Ella ha (dolce e invidiabile colpa) difetti di giovane; aggruppa, condensa, epigrammeggia un po' troppo: certe sue pagine paiono cataloghi di bei motti, o di eleganze classiche, o di ardiri popolareschi. Ma molte altre sono miniate, disegnate, scolpite, tornite, finite come io vorrei fosse sempre la immaginosa e giovenil prosa italiana. A ogni modo, ove Ella anche, a parer mio, pecca, pecca per altro sempre da buon italiano: che è molto bene... "Coraggio dunque e avanti... "E voi, giovani cari, sarete bravi, buoni, liberi e onesti. Seguiti a meditare, a osservare, a studiare, caro signore: e scriva non moltissimo, e, scrivendo, faccia un po' più di aria fra le sue parole...". Questi giudizi autorevoli come nessun altro, e meritati, devono avere largamente compensato il Faldella della critica severa, acerba, non sempre spassionata che gli mossero in tempi diversi parecchi giornali umoristici, il celebre grammatico piemontese abate Perosino nel giornale scolastico "Il Baretti" ed altri giornalisti, più o meno sacerdotali, in giornaletti di provincia. Il caso occorso a Giovanni Faldella coi lettori della "Gazzetta piemontese", doveva rinnovellarsi, l'anno appresso, con quelli del "Fanfulla". Nel 1874 appunto, il giovane scrittore mandava al giornale romano i suoi nuovi Reisebilder, cioè quelli di Geromino sindaco di Monticella: e li intitolava amenamente con un motto proverbiale Viaggio a Roma senza vedere il papa. Lavoro questo inzuppato di sano umorismo italiano, e ricco di osservazioni finissime, e salienti nella festevolezza inarrivabile e scoppiettante delle frasi. Esso piacque, segnatamente alla clientela maschia del giornale; ed eguale accoglienza ottenevano le caratteristiche corrispondenze che egli, in quel torno di tempo, mandava da Torino al "Fanfulla" stesso firmandole Pofere Maurizie: onde fu con frasi mirifiche che di lì a poco la direzione del giornale dava l'annunzio della prossima pubblicazione di un nuovo lavoro del Faldella, Un serpe. Storielle in giro, strombettando che d'allora in poi l'appendice del "Fanfulla" si sarebbe innalzata ad altezze vertiginose ed inesplorate. Ma contrariamente ad ogni previsione, dopo tre sole appendici il romanzo rimase in asso; e dal giornale, per necessaria logica di fatti, scomparivano simultaneamente le corrispondenze di Pofere Maurizie, a cui succedeva, nella carica, l'avv. Vitale, che assumeva il pseudonimo foscoliano di Jacopo. Quel cambiamento a vista era successo per cagione di talune lettrici del "Fanfulla", delicate oltre la misura, e troppo use alla proverbiale eleganza di Fantasio, al discreto pettegolezzo parigino di Folchetto, alle riguardose scollacciature di Neera, e ai chlichés concernenti una mezza dozzina di signore della haute che, colle loro acconciature e cogli abiti trinati, vellutati, profumati, e tagliati da Wort o dalla Tua, ritornavano, regolarmente come le fasi della luna, a rimpolpettare la rubrica conservatrice intitolata High life. Siffatte lettrici del "Fanfulla" che pure avevano sopportata la gioiosa meraviglia del sindaco Geromino nel corpo del giornale, protestarono poi, strillarono contro il Serpe in appendice: protestarono, strillarono contro quella insolente freschezza di salute paesana, contro quel gorgoglìo insolito di frasi audaci, senza leccature melliflue. Poverette! Battistina, un bel pezzo saldo di ragazza fiorente, dalle guance colorite come una mela appiuola, esuberante di salute e di letizia; il medico Giannozzi, suo padre, devoto adoratore del bollito cotto a punto, che tirava via fra la gaiezza provinciale del paesaggio monferrino, cavalcando la sua brava mula, detta la Giggia, dall'allegra sonagliera, - urtavano, sconquassavano troppo i loro sentimenti di eleganza convenzionale, il romanticismo sciroppato del loro cuoricino: onde erano parate a gridare shocking! come le zitellone inglesi. E la direzione piegavasi ossequente alla gentile volontà femminea, alla vezzosa e profumata turba di leggitrici, onde onoravasi il giornale cavaliere. In seguito, allorché ad un redattore del "Fanfulla" accadde di raccattare, nel compartimento di un carrozzone di ferrovia, un numero del "Caffaro" che recava in appendice un bozzetto del Faldella, quel redattore si divertì, per sfoggio di umorismo, a cincischiarne alcuni monconi di periodi barbaramente. Allora l'antico Pofere Maurizie, giustamente irritato di quell'operazione, ripicchiò a dovere sulla "Gazzetta piemontese letteraria" il crudo umorista che non rispose più colpo. Nel frattempo, il Faldella, disgustatosi della letteratura giornalistica, in un momento di umor nero, accettò l'invito che gli veniva fatto di riprendere l'avvocatura, come collaboratore in uno dei primari uffici vercellesi di cause civili. E per un mesetto egli allora disputò davanti al tribunale civile di Vercelli; disputò di sortumi d'acqua, di vizi redibitori, e di separazioni coniugali, comprimendo le aspirazioni artistiche turbinose che gli avvampavano sempre per la mente feconda; ma non passò gran tempo che egli se ne ritornò al villaggio natio, nemico definitivo dell'avvocatura. Un chierico con vocazioni secolaresche che butta il collare alle ortiche, un prigioniero politico, che saluta coi liberi tacchi il selciato della patria libera, sono immagini sbiadite per rappresentare la felicità del bozzettista, che ha dato addio ai codici ed alla toga, riprendendo gli antichi amori artistici. Imperocché non era stato nella "Gazzetta piemontese" o nel "Fanfulla" che egli aveva iniziate le sue prime avvisaglie artistiche e i suoi primi studi letterari. Nel 1865, allorché era studente di legge all'università di Torino, aveva cominciato a pubblicare nel "Novelliere della Domenica" del Pietracqua un suo discorsetto: La festa di Dante, estratto da un imparaticcio di commedia inedita, poiché egli in quell'epoca andava scrivendo commedie e poesie italiane e piemontesi che riservava agli amici. Nel 1868, conseguita la laurea, si era inscritto nell'ufficio dell'avvocato deputato Luigi Ferraris, che poi divenne ministro dell'Interno, sindaco di Torino, conte, senatore ecc. Ma in quello studio, mentre sfiorava con parsimonia qualche fascicolo di liti, si regalava sovratutto colla lettura di libri di filosofia, di storia e curiosità giuridiche, scartabellandovi con un che d'intuizione dell'avvenire gli atti del Parlamento. Nel principio del 1869 egli, in unione coll'avvocato Muggio, con l'ingegnere Mora, e col prof. Coggiola, fondava in Torino un giornale letterario: "Il Velocipede, Gazzettino del giovane popolo". Il quale sia nella forma, sia nell'indole, mostrava apertamente di procedere in retta linea dal "Dagherotipo", il giornale brofferiano del 1840. Giovanni Faldella, in omaggio al titolo d'attualità, onde aveva decorato quel suo foglio, vi assunse il meteorico pseudonimo di Spartivento; e a malgrado dell'audacia di quel battesimo, vi svolse una prosa sempliciona a contorni ristretti, piuttosto secca, puristica e giustiana; poiché del Giusti egli era assai nutrito, e, scrivendo, non lasciava per anco intieramente libero adito alle originalità della sua mente. Ed il Mora, il quale ora è un fortunato costruttore di case e di teatri in Roma nuova, dove informa con venustà plastica i suoi ideali artistici, vi pubblicava contemporaneamente briose spumeggiature carnevalesche e la Dinamica del Velocipede, curiosissimo lavoro, testo dei velocipedisti. Il "Velocipede" dilettò per qualche tempo i buoni torinesi che si compiacevano di quel titolo, essendoché allora essi amavano assai il vedere di notte, nei larghi viali della città, spuntare d'improvviso nell'ombra, passare e sparire come razzi, come lucciole impazzite nella ventata di un turbine, le lanterne dell'economico e rotatorio bucefalo venutoci in voga. Ma l'entusiasmo nei fondatori andò presto evaporando, ed il giornale via via si faceva clorotico; cosicché si pensò di cederlo all'avvocato Nicetti, ferace ingegno e temperamento generoso da letterato estemporaneo e transitorio, il quale trasformatone poi il titolo, forse rimase in dubbio se dovesse farne l'organo didascalico della democrazia, o piuttosto l'organo ufficiale scientifico della pollicoltura italiana pei gentiluomini di campagna. Della prosa, che il Faldella scodellò su quel giornale, doveva in processo di tempo galleggiare e conservarsi un solo frammento a cura del dottore Senatore Paolo Mantegazza, il quale lo raccolse e lo dispose con evidente compiacenza, in uno dei suoi celebrati almanacchi, ad illustrazione del Ratafià di Andorno, gloria di quella terra come Pietro Micca. Intanto il Faldella si era inscritto alla fiorentissima società Dante Alighieri, che allora raccoglieva in Torino quanti giovani d'ingegno sentivano la nobile smania di calmare le inquietudini intime e primaverili nella libera espansione e discussione d'ogni idea artistica, scientifica e letteraria. Quella società era sorta in Torino nel 1864 per iniziativa degli studenti del 3o corso del liceo Cavour - e si era successivamente accresciuta di matricolini universitari, sicché dalla sala dei primi tempi (all'ultimo piano della casa che sta di fronte al palazzo di Carignano) poté trasportare la sede nell'ampio Anfiteatro di Chimica. Ne furono promotori, Cerri, Nizza, Palberti, Cesare Nani, G. C. Molineri, Giuseppe Sarti, Luigi Guelpa, Galateo, Felice Maissa e Roberto Sacchetti, e ne fu presidente per tre volte Pietro Delvecchio, il quale dirigendo quei tumulti di verginità intellettuale seppe formarsi quello spirito cortese, facile e destro e quel sorriso duttile che ora lo accompagna e lo rende simpatico nella scabrosa vita parlamentare. Nella Dante fecero le prime prove d'eloquenza Federico Pugno, Benedetto Marsano e Ernesto Pasquali - ed ivi Giuseppe Giacosa fece udire i suoi primi versi, fra cui la Cantica sul Materialismo, declamandola con una sonorità drammatica sentimentale, che sollevava l'entusiasmo. Ivi Giovanni Camerana, severo ed ardente cultore di arte e di poesia vi scandiva tragicamente i suoi versi cesellati. Quanto quei giovani fossero appassionati sinceramente dell'arte e della letteratura, si può arguire dal seguente aneddoto che Giacosa raccontò in una lettera al Capuana pubblicata dal Risorgimento di Torino, e che il Capuana raccolse nei suoi studi di letteratura contemporanea. La Dante, cedendo alle proposte de' soci più seri, aveva cominciato a discutere alcuni problemi scientifici, sociali, immaginosi, ecc. come il materialismo, lo spiritualismo, la riabilitazione della donna ecc. In fine della discussione si votava la tesi. Una domenica del 1871, al tempo della Comune di Parigi, racconta il Giacosa "si stava per votare, quando entrò nell'aula uno dei poeti, un finissimo disegnatore e coloritore di paesaggi in versi, ora grave e rigido magistrato (il Camerana), il quale, intesa appena qualche proposizione, più pallido e con voce più cavernosa del solito, tenendo in mano un dispaccio telegrafico, tremando per un'emozione profondissima, vibrò queste parole: "Mentre noi diciamo delle corbellerie, bruciano al Louvre i capolavori di Rubens e di van Dyck". Fu un affare finito e non si votò più nulla. In quella folla di giovani, Giovanni Faldella riuscì presto uno dei più notevoli e dei più notati. Alle adunanze pubbliche domenicali che si tenevano dalla Società, interveniva la parte più colta e più curiosa della cittadinanza torinese, a cui piaceva la letteratura; intervenivano assai signore e signorine, forse mosse essenzialmente da simpatie per quella scapigliatura di turbolenti autori in erba. Il Faldella, in una di quelle adunanze, sorse con Antonio Galateo, anima fervida e gentile di oratore lirico, a difendere i romanzi del generale Garibaldi; e poiché nelle adunanze successive l'avvocato Pugno e Giuseppe Giacosa parafrasando ed esaltando una critica di Vittorio Bersezio contro i predetti romanzi, vollero confutarne la difesa, il Faldella replicò loro con ampollosità quasi umoristica di pensiero patriottico. Egli sostenne che il genio ha una potenzialità universale, quantunque in alcune parti possa difettare per mancanza di applicazione e di preparazione. "Davanti ad un uomo grande - egli sostenne - non dobbiamo dimenticare la sostanzialità dei suoi meriti principali. Rimpetto a Garibaldi non siamo pubblico o critici davanti ad un autore, ma soldati e correligionari davanti ad un condottiero e ad un pontefice che deve tuttavia guidare la sua nazione alla sacra meta di Roma. Quindi per nessun modo dobbiamo diminuirne il prestigio. "Se l'eroe, dopo aver compiti fatti grandi e magnifici, vuole ancora rivolgerci generose ed amorevoli parole, noi accogliamole con affetto e riverenza, ancora che non le troviamo vergate con le seste o misurate sulla lavagna. Teniamole in serbo e guardiamole gelosamente come la prima lettera di una sorella, l'ultimo scritto del babbo, o il ricordino di nostra madre... "Se Garibaldi dorme qualche volta nei suoi romanzi, aliquando dormitat Homerus. Io penso che Garibaldi possa riposare di santa ragione, senza che altri lo mandi a letto... Quando Egli entrò liberatore a Napoli prendendo stanza nel palazzo d'Angri, un'immensa folla si accalcava per visitarlo ed acclamarlo. Si annunziò a quella folla che il Generale stanco dormiva. Immantinenti la folla si ritrasse indietro; e tutti camminarono sulla punta dei piedi; e pareva si fosse formato per lo spazio di una lega un circuito di silenzio intorno al Generale, che dormiva". E conchiudeva fra uno scroscio d'applausi: "Lontani mille leghe da lui imitiamo anche noi quel riverente silenzio". Il discorso veniva tosto riprodotto dal "Velocipede". In questa stessa epoca il Faldella, oltre le letture sciorinate alla Società Dante Alighieri, smaltiva ad una Società democratica, L'Avvenire dell'Operaio, che si radunava in un sotterraneo di piazza San Carlo, alcune lezioni veramente libere. Tali letture e lezioni come: Il fine dell'uomo e il perché dei Carabinieri Reali, L'albero della scienza, La storia del mondo, Crescite et multiplicamini ecc. si trasfusero poi nelle Dicerie popolari che più tardi pubblicava sulle "Serate italiane". In esse cominciava ad accentuarsi l'individualità artistica ed apostolica dell'oratore. Ma l'apogeo fulgido della sua vita di lecturer doveva raggiungerlo alla Dante Alighieri con Vita ed Amore, controcicalata a una drammatica lettura sul suicidio fatta dal socio Michele Termidoro, robusto e nutrito ingegno, casellatosi poscia capo ufficio nelle strade ferrate dell'Alta Italia. La lettura tragica di Termidoro, a cui aumentava la intonazione funebre il nome bizzarramente rivoluzionario del conferenziere, commosse talmente gli astanti che se ne volle il bis alla festa annuale della Società, riunione solenne, in gala, con accompagnamento di musica ed intervento delle autorità; ed il Faldella vi contrappose Vita ed Amore quale soavità di rorida speranza, che gli valse l'applauso affettuoso delle signore e signorine. Entrambi i dissertatori vi furono festeggiatissimi: Termidoro come baritono, il Faldella come tenore. Della Società caratteristica questi veniva poscia eletto vicepresidente; ed in essa, cedendo a istinti salubri di allegria, con Giacosa, Molineri, Pugno, Galateo, ecc. egli si prestava a combinare stupende discussioni in versi martelliani. I moniti presidenziali, le scampanellate, tutto doveva essere in versi martelliani; anche le interruzioni. Ed il Camerana austero poeta, in una di quelle divertenti adunanze sorgeva, girava intorno lo sguardo aquilino, e dopo una pausa di aspettazione si rimetteva gravemente a sedere, sillabando come un Torquemada: "Non chiedo la parola!...". Ma in quella fucina, fra la gravità non simulata di taluni momenti, nei quali sprizzavano pensieri alti e generosi, e la farsa acuta ed ironica, si temperavano pure saldamente molti fra i migliori caratteri e si snodavano alcuni fra i più elastici ingegni del Piemonte che ora onorino la coltura nazionale. Nel 1871 il Faldella sparve da Torino per rifugiarsi nella sua nativa Saluggia e proseguirvi eremiticamente nuovi studi, osservando, mulinando e scrivendo; e vi fu eletto Consigliere Provinciale, sopraintendente scolastico, e si occupò a fondare una società artigiana con annessa biblioteca circolante, fino a che nel 1873 se ne andò alla Esposizione Mondiale di Vienna, donde la sua Gita col lapis. In quell'epoca egli passando per Milano, conobbe Salvatore Farina, Emilio Praga, Arrigo Boito, Luigi Gualdo; e nell'avvicinarsi di quegli ingegni che si affiatavano a vicenda, senza nulla perdere delle proprie caratteristiche, si andava preparando miglior avvenire all'Arte della nostra giovane letteratura nuova. In quell'epoca scarseggiavano i giornali letterari popolari in Italia; la maggioranza dei lettori volgevansi di preferenza ai lavori di Francia, poiché da noi punto o poco si produceva in fatto di letteratura facile ed amena. Per le biblioteche e per i gabinetti di lettura si posavano soltanto riviste dotte, mensili; riviste non scevre di pedanteria, riservate a scrittori troppo noti e maturi, dagli ideali defunti; schiave della tradizione, gravi di erudizione, esse non trovavano che pochi sonnecchiosi lettori. Mancava il soffio, il sentimento della modernità che rendesse la vita nuova, e soddisfacesse le menti avide dei giovani irrequieti in quella plumbea artificiosa atmosfera letteraria. Onde, quando il prof. Molineri fondava in Torino le "Serate italiane", con intenti più largamente popolari, esse si onorarono in breve della cooperazione di quanti nuovi ingegni scattavano fuori di squadro in Piemonte ed in Lombardia. In esse il Faldella, che già aveva collaborato nella "Rivista minima" di Milano, cominciò a pubblicare le sue Figurine state scritte in parte qualche tempo prima in campagna, nella schietta freschezza dei paesaggi, senza convenzionalismo, con acuta osservazione ed intuizione della vita reale. Carluccio - Lord Spleen - Dies - Galline bianche e galline nere - Sull'organo - High Life contadina - I fumaiuoli - Gioberti e Radescki - La figliuola di latte - Un amore in composta - Gentilina - La vita nell'aia, vi passarono come zaffate di benefica aria frizzante, in uno schioppettìo di buonumore salubre, eccitando la curiosità dei giovanotti, e anche delle ragazze, ma di quelle non troppo artefatte e illanguidite dalla panna del romanticismo di convenzione. Erano scene, bozzetti di vera vita nostrale colta, appunto, oggettivamente; e odoravano come i paesaggi migliori della Sand, in Fadette, André, François le Champi. Così spiccava meglio la singolarità dello scrittore; così mostravansi ad altro pubblico quelle originalità di frasi, quel paragoni violenti nella loro giustezza che dovevano rinnovargli smoderate critiche da un lato, accrescendogli dall'altro lettori allegri e caldi ammiratori: immagini e paragoni come: "... spira un freddo acuto che sa d'aceto" e "... il marchese diventò per la rabbia una frittata verde". Più largamente si spiegava la potenzialità del coloritore, e la facoltà di rendere con tocchi rapidi e precisi la realtà delle cose; come ad esempio, nei Fumaiuoli: "... mi trovai nel salotto terreno, dove scopersi illuminata da una lampada, tutta la ripienezza e la felicità di una famiglia: un figliuolo deputato; un babbo cogli occhiali verdi e con la papalina da notaio; una sposa bionda e lustra per la contentezza; una suocera tutta cuffia, tutta faccende, tutta gomiti; un cane pelliccione che indorava la sua lana ricevendovi dentro la luce del petrolio; un gatto tristo che rantolando studiava una marachella contra il cane nella divisione della broda; una gabbia di canarini e l'almanacco del Mantegazza". Le Figurine, l'anno appresso, si pubblicavano in volume dalla Tipografia Editrice Lombarda; e di esse si occuparono assai i critici con brio e larghezza notevole di giudizi. Vittorio Bersezio nella "Gazzetta piemontese" dell'11 ottobre 1875 dedicava loro un'appendice di forma maiuscola e vivace, e poiché ebbe reso omaggio all'autore riconoscendogli un'intelligenza eletta che si giovava di una capacità osservativa specialissima, d'un sentimento artistico non comune e d'una squisitezza concettosa di tratti degna della buona scuola del vero umorismo, che vanta a suo antesignano Sterne, ed a suoi più illustri campioni Heine, Gian Paolo Richter, Thackeray e Dickens, soggiungeva: "La ragione dei principali difetti del Faldella è codesta appunto: di voler dipinger troppo, di volere colla parola rappresentare colori e sottocolori, tinte e mezze tinte, perleggiamenti di luce, effetti di chiaroscuro, ondeggiamenti di linee, tratti figurativi di uomini e di cose, che non sono nel dominio dell'espressione del pensiero che si giova delle lettere dell'alfabeto". Ed Alberto Rondani scrivendo dello stesso libro nella "Gazzetta d'Italia" del 10 dicembre 1875 così si esprimeva parlando dell'autore: "I suoi quadri sono di una diligenza ed accuratezza fiamminghe; ma come le tele fiamminghe e le scene lillipuziane di Meissonnier, fanno l'effetto del vero, sono anzi il vero tale e quale, e ne simulano le proporzioni". Ed il Degubernatis nella "Rivista Europea" segnalava il Faldella come quegli che aveva il primo gran merito di non somigliare ad alcuno dei suoi valenti compagni in letteratura, e di far valere un proprio carattere: pittore, anzi ogni cosa, pittore efficace di quadretti di genere. Ma per converso sorgeva l'avvocato V. G. Vitale a scaraventargli contro una critica veemente nella "Nuova Torino" del 9 luglio 1875, con la firma teatrale di Frou Frou. Frou Frou, dopo aver chiamato nottate le "Serate italiane" e dopo aver annunciato che il Faldella avrebbe fatto uno studio profondo sulle oche della Lomellina, per riscontro alle galline e ai tacchini della Vita nell'aia, così lo giudicava: "Faldella è convinto che la letteratura è un orologio. Sicuro; quando scrive fa come il meccanico ginevrino, il quale si adatta la lente all'occhio, cerca tutti i pezzi, li forbisce, li incastra, dà loro il colpetto di vite e poi mette l'orologio in vetrina. "Egli razzola, come i suoi gallinacci, nei dizionari, ne cava fuori parole, parole e parole, quelle che fanno più rumore, che sono sentite a Torino e credo in Italia come vi son veduti i Cinesi; le appiccica insieme e dà loro un po' di lucido inglese. Se da quell'accozzamento, ne sbuccia fuori qualche idea, è un di più; tanto meglio; se no, in quel mosaico, vi caccia dentro la storia della nonna, del gatto, del cimitero, del villaggio, del tramonto, della luna, delle stelle, cose vecchie quanto Noè, e così lui ha fatto l'articolo, il libro, ed ha risposto allo scopo delle "Nottate italiane "". Ma il Vitale con franchezza esemplare ebbe a ricredersi in seguito, ed in un articolo che firmava Jacopo, pubblicato sull'"Eco dell'industria" di Biella, nel numero dell'11 settembre 1879, dopo confessato il peccato di Frou Frou, scriveva: "Devo proprio dire che Faldella è forse il primo della scuola piemontese a scrivere, e non lo sembra agli occhi di tutti, perché non lo vuole lui, e s'ingegna a non parerlo. Leggere un foglio staccato di Faldella, almeno uno di quei fogli che mi passarono sott'occhi alcuni anni, fa, è volersi chiamar addosso l'itterizia. Faldella è minuzioso come una monaca, elegante come un fraticello di Montecassino, capriccioso come una damina fresca di collegio. Infilza le parole come fossero perle, le allinea, le lustra, le invernicia, le ricama, le fa ballare, le strofina, le ingarbuglia, le mette in convulsioni, come se avesse lui la tarantola addosso, o meglio per vaghezza di veder tutto quest'arruffio di cenci in aria a sfregarsi e dargli il luccichìo, di cui è vago il suo occhio largo, delicato e fine. "Faldella è un giocoliere espertissimo del dizionario. De Amicis ama la frase liquida, pura come un ruscelletto del Biellese... "Faldella, meno maraviglioso pittore, è un osservatore gigante, che studia con coscienza la sua prediletta campagna, e le cose più volgari sa rendere splendide e piacevoli... "La sua campagna è piena di luce, di chiassi, di voli, di profumi e di passioni; i suoi contadini sono vivi come i soldati dei bozzetti militari di De Amicis, ma più uomini, più veri, meno di maniera, meno languidi. "Nuoce a questa magnifica virtù di ricreazione la passione che egli ha delle parole, e per cui, se non si pazienta un po' a tenergli dietro e ad acclimatarsi col suo stile, si finisce di essere ristucchi. "Faldella adora la parola, non il dizionario, e ne conia. Per lui la parola è un suono, è una veduta, è un monile, e ne crea, senza paura, impipandosi della Crusca, fiero come un granatiere napoleonico. Quando lo si legge, si è costretti a raccomandarsi ogni dieci minuti al dizionario, e spesso vanamente, cosa che mette in bollore il sangue e dà il tetano a chi non è forte in pazienza. "Sarà tutto puro e glielo consento fino a un certo punto, ma, anche Fanfani era purissimo, eppure le sue novelle mi sono costate più sudori, che la mezza traduzione fatta in versi di Lucano. È vero che Faldella ha un ingegno incomparabilmente maggiore al povero Fanfani, ma quella sua ricercatezza di parole, quella sua fabbricazione a ruota perpetua, quel suo rispolverare vocaboli usati, quel toscaneggiare che sa molte volte di becerume colto in piazza della Signoria, quel ricamare ragnatele sulla punta di un ago, è uno scapricciarsi da Sardanapalo, che non può sempre piacere al lettore. Capisco bene che lui scrive per piacer suo, ma quando si stampa, non c'è malaccio ad esser meno ghiribizzosi e più temperanti nei propri gusti. "La malattia delle parole in quell'ingegno così vasto, così ricco d'idee, che non ha l'uguale qui in Piemonte, lo fa cascare sovente in vere stramberie, in volgarità paradossali. È il ricco che butta sulla strada a manciate i brillanti, e nella furia lancia i libri, le vesti, la penna, il calamaio - e il suo vaso da notte!". Meritava riportare integralmente questa smagliante bibliografia quale schietta e calorosa, cavalleresca ricognizione per parte di un antico avversario letterario, e poscia avversario politico; poiché siffatte dichiarazioni non si riscontrano soventi nel campo letterario sempre troppo propizio alle bizze ed alle invidie di mestiere. Nel 1876 il Faldella per mezzo della Casa Editrice di Gaetano Brigola, pubblicava Le conquiste, narrazione accozzata in volume con Il male dell'arte e Variazioni sul tema. Nelle Conquiste svolgonsi i casi pietosi di Fiorina; ed il concetto di una ragazza, che ricusa di sposare il seduttore, ne è nuovo; ma è troppo dottoresca, troppo politica l'ultima lettera di Fiorina morente a Marino Dallestro, onde il lettore si raffredda. Nel Male dell'arte, si svelano, con acutezza di analisi, le angosce di un artista incompleto dolorante nell'ansia della manifestazione. Vi sono tratti lampeggianti, bellissimi, come: "Non vi è urlo di belva, bisbiglio di uccello, parola fine di Manzoni o cannonata di Victor Hugo, accomodati a significare gli effetti d'amore. Esso ci tappa i vani dell'esistenza, ci accende i ceri dell'anima, la illumina a giorno, trae l'uomo in cima al suo arco; imperocché l'uomo non può essere di più su questa terra che innamorato". E si conclude con umorismo angoscioso: "Il male dell'arte sconvolge la natura delle cose; fa uccidere una moglie e piangere sul romanzo di un merlo o sulla etisia di un fiore", Ma è d'uopo dire che la mossa della narrazione, la quale si fa per mezzo di un plico postale, e la ragione di essa, sono evidentemente artificiose. Le variazioni sul tema delle conquiste, riescono un idillio sinfonico, brioso, che si accompagna con un sorriso di simpatia; e leggendo si vorrebbe poter augurare lietamente ogni felicità agli sposi, quando il fidanzato dice ai suoi amici: "... io ho dinanzi a me una gioia, una purezza, un tremore misterioso, che nascono nell'ordine come il vento, e la primavera". Ma, nonostante gli amoreggiamenti dolci e carezzevoli dell'arte, la elezione del Faldella al gran consiglio della Provincia ed i lavori di esso, lo solleticavano eccitandolo a maggiori cariche pubbliche; le gualdane politiche lo attiravano con le seduzioni di nuovi orizzonti umani a scrutarsi e lo prendeva acre voglia di vibrare il suo sguardo d'artista nelle fermentazioni degli animi ambiziosi, cui ubbriaca lo scintillìo del potere alto. Onde, nel 1876, poiché ebbe ottenuta la cresima politica del trentennio, presentavasi candidato al Collegio di Crescentino con un'arguta lettera campagnuola, bozzetto politico, pubblicato in supplemento apposito festivo della "Gazzetta piemontese"; e da tale supplemento credo sia originata l'attuale "Gazzetta letteraria" annessa alla "Piemontese", che si pubblica in Torino. In quel bozzetto egli fra le altre cose scriveva: "Io mi sono lasciato persuadere ad accettare la candidatura offertami per le seguenti ragioni espresse, meglio che da nessun altro, dal più magniloquente fra i pubblicisti romani. "Dice questo tale nel principio dei suoi dialoghi De Republica che la partecipazione alla vita pubblica è uno dei più importanti nostri doveri, per adempiere al quale dobbiamo abbandonare eziandio la soavità varia degli studi, variam suavitatem studiorum". E via via, svolgeva le sue idee, i suoi intendimenti, i suoi concetti politici ed amministrativi, largamente liberali, in vista della maggior felicità possibile dei suoi concittadini. E corroborava opportunamente il suo dire con testi latini che tornavano tratto tratto come le bullette vigorose di una predica, con frequenti richiami ai pensieri, ai giudizi di quel gentil cavaliere che fu Massimo d'Azeglio, ministro e pittore di paesaggi, ed ammiratore dei larghi fianchi e dei seni audaci delle belle figliuole di Rocca di Papa. Ma tutto ciò non valse al bozzettista la conquista dello scanno politico. Quel collegio era allora infeudato alla personalità valorosa, mirifica e luccicante del generale Bertolè Viale, di destra pura; e non fu poco scandalo per i giornali di destra vedere il Faldella nella sua gioconda giovinezza di idee e di fatti piantarsi contro l'ex ministro della guerra, per contendergli, con disinvoltura democratica, i voti di quelle popolazioni. Nello scacco, il giovane scrittore raccoglieva nondimeno tale numero di voti da ingagliardire le maggiori speranze per l'avvenire; e per consolare l'animo della momentanea ferita politica, egli tornò a tuffarsi fra i flessuosi abbracciamenti dell'arte sua, e scrisse Verbanine, dolcezza da idillio che l'editore Casanova di Torino ora sta componendo in volume elegante, da esposizione nazionale, illustrato maestrevolmente con originalità e perfezione di tocco dal Ricci valente pittore ligure. Nel maggio del 1878 i proprietari ed il direttore della "Gazzetta piemontese" incaricavano Faldella della corrispondenza da Roma al loro giornale, carica già sostenuta da egregi uomini politici ed onorevoli deputati, come il Trompeo, il Lacava e il Marazio. Ed il Faldella rifacendo la via del suo Geromino sindaco di Monticella, riprendeva nella capitale i suoi studi di osservazione. Assunto lo pseudonimo barbarico e battagliero di Cimbro, egli iniziava una serie di lettere notevoli per i concetti sereni e per le vedute che spingeva lontane nella fisiologia politica. Quelle lettere erano vieppiù notevoli per la forma inusitata in un giornale quotidiano, forma scultoria e pittoresca nella sua bizzarria; così a mano a mano, dalle altezze critiche della tribuna della stampa nella Camera ed in Senato; dallo studio accurato e scrutatore dei più appariscenti uomini parlamentari, nell'ambiente elettrico, saturo di passioni e di livori, dentro cui annaspano gli uomini di governo, egli maturava meglio i suoi giudizi e i suoi pensieri di letteratura politica, appianandosi in questo verso le vie dell'avvenire. Ma questo egli faceva in armonia colla sua coscienza di artista e scrittore. In quello stesso anno egli visitava l'Esposizione mondiale di Parigi, della quale principiava una rivista umoristica in appendice della "Piemontese", spumeggiante, arguta, degna di fare il paio col viaggio di Geromino alla capitale d'Italia; ed era nuovamente il sindaco di Monticella col suo buon senso quadrato di campagnuolo che ne faceva le spese; ma quella rivista lasciò poscia in tronco, occupandosi a pubblicare in volume il suo Viaggio a Roma senza vedere il papa che ottenne così cresimato dal pubblico e dai critici accoglienza anche più festosa. Ed in seguito nel 1879, pur durando nel suo ufficio di corrispondente romano della "Piemontese", pensava a rivedere ed ultimare un altro suo lavoro intensamente meditato, uno dei più mirabili che egli abbia scritto: Rovine, edito poscia in volume dalla tipografia Editrice Lombarda, con due figurine: Degna di morire e La laurea dell'amore. Rovine erano già comparse sulle "Serate" col titolo: Il figlio della signora dei cani e in appendice al giornale il "Movimento" di Genova col titolo: Un letterato inedito, ma l'autore può dirsi rifacesse tutta l'opera sua per pubblicarla in volume. Il protagonista delle Rovine è un ignoto e disgraziato ingegno piemontese, gagliardo e vivacissimo; uno dei più caratteristici soci della Dante Alighieri, dove egli esercitava su tutti i suoi colleghi influenza grandissima, a volte decisiva; era una vigoria, un polline artistico fecondatore che distruggeva se stesso trasmettendosi negli altri. E ben meritava il povero e possente artista, a cui forse non fece difetto che qualche qualità secondaria per l'arte, ma indispensabile per la riuscita nelle asprezze e nelle lotte della esistenza; ben meritava le pagine calde, colorite, cesellate dall'affetto, di Giovanni Faldella. Rovine sono quindi come scrisse l'autore stesso "... la biografia del Letterato inedito, figlio della Madre dei cani". La mossa ne è commovente, potentissima: "Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall'appetito e dalla contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli era mai capitata nella vita; lo gattigliava a fior di pancia un vuoto voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un accessit; udiva già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava ai grissini e ai peperoni del desco materno, all'effetto luminoso che avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumaio agganciano le viscere di uno scolaretto. "Come era fulgido Pinotto sotto i portici di Po! "Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi; infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un'anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l'orlo di ogni gradino; a momenti che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh! quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente egli è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose i piedi nel tinello, si smorzò la sua luce; ché trovò nell'atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l'usciere per una esecuzione mobiliare. "Pinotto fece uno sforzo e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: - Mamma! Carolina! Se sapeste!...". Ma la notizia che il povero ragazzo recava con tante carezze del pensiero e con tanti palpiti del cuore, non eccita neppur l'ombra d'un sorriso; i suoi non gli badano più che tanto; la mamma non lo guarda neppure in faccia, e solo la sorella "con una voce da vitella sgozzata" gli dice che il cane, "che Glafir ha la t... osse; - e giù uno scoppio di pianto". Allora Pinotto "scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, scappò senza il cappello in testa". Le pagine che seguono, scritte con diligenza analitica e indagatrice, anatomizzano e spiegano l'indole dell'animo e la natura dell'intelligenza di Pinotto, a mano a mano che egli progredisce negli anni. Sono tutte le infelicità irrimediabili di un nobile ingegno, d'una robusta esistenza che si accumulano fatalmente per cagione di Glafir "un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello"; perché Glafir aveva preso il posto del figliuolo nel tepore della famiglia. Ed è Glafir che ruba le carezze a Pinotto, gli amareggia il cuore, gli avvelena il carattere, gli sconforta il pensiero; è Glafir che lo renderà inedito, miserabile, pezzente, e gli farà maledire la vita. Ma, curioso ricorso storico di giustizia, di equità animale, quando, dopo molteplici casi, egli sarà ridotto all'estrema miseria, sarà un altro cane che lo assisterà con pietosa fedeltà; Fido! - un cane miserabile come il suo padrone. Erano soli in una topaia: "...estenuato - Pinotto - lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossì più forte e si sentì nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. "Credeva d'avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po' usciva sul ripiano, per vedere se c'era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. "Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: - Grazie, Fido!... Eccellenza... "Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l'apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle... Lo riceveva e lo irradiava d'oro, d'amore e di sole... "Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Essa aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note...". In questa pagina strana e commovente, mostrasi tutta la forza del Faldella come colorista, e stilista; vi è pieno il senso della misura, è esattamente intuita l'astrazione ideale del moribondo. L'Ignoto protagonista di questo lavoro del Faldella morì all'ospedale in Firenze nel 1875; e le "Serate italiane" ne pubblicarono allora una sentita necrologia. Il Faldella stesso, saldo nelle amicizie e tenace custode d'affetti, alcuni anni appresso, allorché pubblicò coi tipi del Roux Un idillio a tavola, primo volume del Serpe stroncato nel "Fanfulla", volle dedicarlo alla pietosa e forte memoria dell'amico G. M., del quale le Rovine sono appunto la biografia. Ed il Capuana, il sapido ed energico novellatore siciliano, che insieme col Verga ha tanti ammiratori, non dubitò un momento di illustrare le Rovine, cernendone pensieri, giudizi e notizie, per ricostruire il Profilo di Un ignoto nei suoi Studi di letteratura contemporanea (Seconda serie). Egli in quello studio robusto, già pubblicato nel 1879 sul "Corriere della Sera" di Milano, come bibliografia delle Rovine del Faldella, mostravasi benevolo critico del nostro scrittore, e gli attribuiva soprattutto l'ironia incosciente, osservando che gli arcaismi, gli stridori di forma sono per lui un affare di tavolozza. Riguardevoli giudizi pronunziarono pure del Faldella altri critici che sono parimenti essi stessi poeti o novellieri valenti; ed in prima il suo amicissimo e caro agli italiani ed agli stranieri Salvatore Farina, G. C. Molineri, G. Caprin, il Robustelli, Ferdinando Fontana, Leopoldo Marenco, Vittorio Turletti, Corrado Corradino, ecc. - P. G. Molmenti gli consacrò un capitolo nel secondo volume delle sue Impressioni letterarie. Al Molmenti Faldella dedicò: Degna di morire. Degna di morire (figurina nera) è una gentilissima mestizia, gioiellata in poche pagine: è la storia semplice di Elena Floresin. Elena che nei balli campagnoli "volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare la gemmea testa ed era per scuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone". Ma doveva ucciderla il sole in un mattino di aprile, nel quale ella "sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato". Il sole "... le faceva correre palpiti di calore crescente dal suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso". La novella prosegue pietosamente con un luccichìo caldo e commovente di frasi: "Quattro giorni dopo Elena era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo; non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l'avesse ridotta in marmo cogliendola nell'ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva". La laurea dell'amore - Trittico nuziale (figurina così divisa: Lui ? Lei ? Tutt'e due insieme) non ha nulla a che fare col noto lavoro del Droz: Monsieur, Madame et Bébé. In essa il bébé non c'entra, ma verrà indubbiamente dopo, poiché la morale della novella è il trionfo sano e possente di due sposi, ossigenati a dovere in una vivace freschezza campagnuola. È una figurina che si legge piacevolmente, con un sorriso, e fa sorgere il desiderio carezzevole di cacciarsi in un compartimento riservato d'un carrozzone di ferrovia, per libare la vita trasvolando lontan lontano con una gioconda fanciulla rapinata in isposa. Di questo volume occupavasi largamente il Cameroni in due appendici al "Sole" di Milano nel settembre del 1879; e ne scriveva in proposito: "La passione di Faldella per l'originalità già da alcuni anni mi ha reso simpatico questo giovane scrittore piemontese, benché lambiccato nei concetti e nella forma: "Mentre dalla maggior parte dei nostri novellieri si trascura la frase, l'autore delle Figurine e delle Conquiste la accarezza fin troppo, le dà il minio, la polvere di riso ed i nèi. Mutatis mutandis e ridotte di molto le proporzioni, si potrebbero attribuire al Faldella quelle censure di preziosità, cui lo Zola mosse a Cladel nel famoso articolo sui Romanzieri contemporanei, inserito nel Figaro dello scorso dicembre. Appunto perché artista e non soltanto novellatore, egli sa giovarsi della ricchezza della nostra lingua, ma troppo di sovente manca di naturalezza nell'espressione proprio come il Cladel". In prova il critico fornisce uno scampolo di florilegio faldelliano: "Rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato; il baratro della umiliazione e della crudeltà materna; strusciarsi per avere l'accessit; ? i capelli di due vecchie, che lucevano come fili di ferro elettrici; ? il lecchetto irresistibile; ? la religione condensata in un brodo consumato di ideale evangelico; ? una pugnalata di voce; ? spiattellarsi innanzi al sole come un ninfale eliotropio". Rilevata la bizzarria di queste frasi, e poscia poste in sodo le buone qualità dello scrittore piemontese, il Cameroni soggiunge: "... questa volta (nella simpatia per il Faldella) mi trovo onorato da ottima compagnia, giacché ricordo benissimo le parole d'elogio di quell'incontentabile buongustaio, che fu il Camerini, per l'autore della Gita con il lapis a Vienna". Venute le elezioni generali del 1880, il Faldella spinto dagli amici spolverava il suo bozzetto politico, e si ripresentava al Collegio di Crescentino solamente tre o quattro giorni prima della votazione: e vi otteneva un nuovo fiasco; ma un fiasco di quel buono, propiziatore di prossima vittoria; che gli succedeva di riportare di lì a poco, nel 1881. Il generale Bertolè?Viale andavasene in Senato, ed il Faldella otteneva il seggio elettorale del suo collegio confortato da settecento e più voti di suffragio ristretto. Alla Camera prese naturalmente posto a sinistra fra le congratulazioni e le condoglianze degli amici, che temevano la politica togliesse all'arte l'ingegno suo, o almeno lo guastasse nei suoi ingranaggi corrosivi. Ma il Faldella sullo scanno di deputato rimase tranquillamente quale egli era e quale aveva annunciato di voler essere nel suo bozzetto politico, dove scriveva: "... io non posso approvare la eunucheria politica, di cui si vantano pochissimi fra gli artisti e i letterati moderni, la quale non credo scusabile nemmanco con il voto di castità politica fatto dal Beato Alessandro Manzoni". Ed invero, abbiamo avuto fuori d'Italia e presso noi esempi confortanti di uomini di Stato che non trascurarono di ricrearsi la mente colle geniali occupazioni artistiche a cui li portava l'indole dell'ingegno loro, fossero pur condottieri di popoli o di Governi. Il Faldella deputato ebbe maggior agio a completare le osservazioni che aveva già intraprese come giornalista su le turbolenze della politica; e da quelle osservazioni poté trarre i materiali per la futura sua storia politica e aneddotica del parlamento italiano. Intanto senza più essere il corrispondente ordinario, egli continuò a mandare corrispondenze alla "Piemontese", ma corrispondenze di lusso. Il suo primo discorso alla Camera egli lo pronunziò nella tornata del 16 marzo 1881, allorché discutevasi la proposta di legge per un concorso edilizio a Roma con annessa costruzione d'un palazzo dei Lincei. Sorse a battagliare contro l'amico suo personale, e collega nel Consiglio della Provincia di Novara, l'illustre Quintino Sella, cui anch'egli cordialmente amava e italianamente ammirava; sorse quando la Camera snervata per lunga discussione era insofferente, e vi battagliò, con venustà di forma letteraria insolita od impropria per quel luogo e con originalità esilarante di idee. Poiché ebbe protestato di aver passata la vita sua modestissima nello studio delle lettere, dichiarò di non essere eccitato da un estro paragonabile a quello di Erostrato, se combatteva specialmente l'erezione di edifizi, i quali hanno rapporto colla cultura intellettuale. E poiché aveva narrato che in certi paesi di montagna la scuola si fa nelle stalle, faceva scoppiare per l'aula una larga risata, dicendo: "... che dire delle maestre? Con umilissimi stipendi, sono in pietose condizioni, da cui possono più spesso rilevarsi meglio con mezzi estetici, che con meriti didascalici, tanto che i comuni prima di nominarle richieggono la fotografia". E corroborava il suo concetto proseguendo: "Or bene, o signori, io domando se allora quando noi vediamo giacere l'istruzione elementare in così basso grado, noi possiamo deliberare tre milioni e mezzo per elevare un nuovo edificio in Roma all'alta scienza... "Io non ammetto tutte le durezze che contro le Accademie hanno scagliato alcuni liberi ingegni, come Brofferio, Baretti, Giusti, Beranger, ecc. Le Accademie, come quasi tutte le istituzioni umane, hanno la loro parte buona e la loro parte cattiva. "Secondo quello che ci insegna giustamente l'onorevole Sella, esse possono riuscire utili per la forza dell'unione, tesoreggiando capitali scientifici, e anche semplicemente mediante la pubblicità e la réclame. Ma esse possono altresì degenerare in società di mutua ammirazione e di altrui disconoscimento, o in società politiche, fossero pure associazioni costituzionali; posson far prevalere la forma alla sostanza, promuovere lo studio delle cose inutili, e propagare alcuni determinati vizi scientifici e letterari". E poscia con estro crescente di ironia gioviale, eccitava nuova e maggiore ilarità nei colleghi - resi attenti, soggiungendo: "Quanto alla mutua ammirazione - promossa dalle Accademie - ci restano a documenti i tipi comici, nella storia dei costumi fatta dalla vera commedia; ci resta, nel Poeta fanatico di Goldoni, lo stupendo conte Ottavio, presidente d'Accademia che, al finire di ogni sproloquio o di ogni recitazione, abbraccia l'accademico Lelio, l'accademico Florindo, l'accademica Rosaura, e stringe anche al seno con trasporto l'accademico Brighella!". Ed in quel suo estro, sparando citazioni, motti, giudizi, l'oratore confortava gli accademici a rimanersene paghi della dotazione di 100 mila lire e del Campidoglio per tenervi le loro adunanze, e ricordando come agli uomini d'ingegno poco o nulla abbiano soccorso le Accademie, continuava: "...Mentre in Francia, in Germania ed in Inghilterra gli autori già ricevevano lucro decoroso dal pubblico, e da noi i pingui canonici accademici ottenevano stampati dalle tipografie regie i magni volumi, i cui fogli sono tagliati solo dai legatori di libri, Carlo Botta vendeva la sua Storia dell'Indipendenza d'America per pagare i medicinali della moglie; e per pubblicare la sua Storia d'Italia in continuazione a quella del Guicciardini, dovette ricorrere all'obolo di pochi sottoscrittori. A questi soli si deve, se il tipo della devozione patria eroica, il tipo di Pietro Micca sorse e raggiò in quella italica prosa sfolgorante". Ed il sidereo Filopanti a tuonare: bravo Faldella! mentre la Camera applaudiva, pur mantenendosi di parere contrario. E non valse all'oratore svolgere con moto lirico una nuova onda calda di pensieri: "Io mi esalto perfino ricordando che re Umberto e la regina Margherita distribuirono i premi ai Lincei, spettacolo forse più bello di quell'altro, dell'onorevole Quintino Sella, che fece alzare i Lincei in piedi all'arrivo del maresciallo Moltke, cui Rovani giudicò l'Attila del calcolo sublime. Tutti questi quadri, al pari di quello di Vittorio Amedeo che osservando la persistenza di un lumicino in una soffitta torinese vi scopre un povero studioso e lo converte nel ministro Bogino o al pari di quello di re Umberto che col ministro Baccelli si insediò alla scuola di sanscrito del professore Lignana nella Sapienza di Roma, tutti questi quadri per me sono degni non solo dell'"Illustrazione universale" dei fratelli Treves, ma del perenne mosaico... "A questo mondo non vi è nulla che più ci scaldi e rischiari la fronte e ci schiuda l'avvenire meglio della scienza... Ma facciamo altresì la scienza applicata in azione. Quei milioni che volete consacrare ad un palazzo inutile, diamoli all'igiene, alla spaziosa, luminosa viabilità che sono conquiste moderne". Ma la legge a malgrado di questo e di altrui discorsi, che la battevano in breccia, venne approvata; e nei giornali, che intesero male dall'alto della tribuna nella persona dei loro reporter, il Faldella venne tacciato poco meno che di barbaro analfabeta! Barbaro lui che si era persino lagnato, perché i famosi volumi, cui l'Accademia dei Lincei partorisce e stampa ogni anno con elevatissima spesa, giacessero intonsi nella biblioteca della Camera! Continuò per un pezzo lo scalpore contro la barbarie di Cimbro Faldella; però bisogna dire che quello scalpore non fu accolto dall'ingegno sensitivo, tenace ma equilibrato dell'illustre Sella. Questi forse fraintendendo il discorso per la distanza dell'oratore dal banco della Commissione, gli aveva bensì risposto con accesa eloquenza, come se il Faldella (ciò che non era) avesse preteso mandargli in malora la scienza e la lingua latina. Ma, cessato quel bollore, si dimostrò buon amico del Faldella, il quale testè in alcuni Ricordi necrologici del compianto grand'uomo raccontava a tale proposito sulla "Gazzetta piemontese" il seguente aneddoto: "Allorché alla Camera un giovine deputato con balda coscienza contrastò uno straordinario sussidio che credeva intempestivo per un palazzo all'Accademia dei Lincei prediletta del Sella, questi se ne risentì, rispondendogli oltre misura. Tale eloquente risentimento inspirò un facile poeta, che schiccherò lì per lì un sonetto e lo mandò al banco della Commissione, dove il Sella sedeva relatore della legge per il concorso edilizio a Roma. Ignoro se quel sonetto fosse semplicemente arguto, o spinoso, od attizzino, imperocché non lo lessi, né seppi il nome del poeta. Esso era certamente contro al giovane deputato. Il Sella, scorsi quei quattordici versi, li comunicò al suo vicino e collega della Commissione, l'on. Del Zio, il quale forse poco prima lo aveva intrattenuto sulla opportunità scientifica di pubblicare finalmente, magari con l'ausilio dei Lincei, il formidato e condannato Triregno del Giannone, tenuto troppo occulto nelle sole due copie superstiti conservate dalla Biblioteca nazionale di Napoli e dall'Archivio reale di Torino. "L'on. Del Zio, percorso alla sua volta il sonetto, immantinenti vi scrisse in calce il motto della Sand: "Non toccate le fronde giovani! " quindi restituì il fogliolino al Sella. Questi fu preso, quasi commosso dall'improvviso ricordo di quella sentenza; lacerò o mandò a riporsi il sonetto; e d'allora in poi non tralasciò occasione per attestare la più cordiale cortesia al giovine deputato statogli aperto contraddittore". No! Il Faldella non era stato barbaro. Egli fin da quell'occasione avrebbe potuto soggiungere ciò, che appena accennò poi incompletamente nel banchetto di Torino, cioè che le Accademie nido di gente arrivata, giubilazione degli ingegni, sono non solo le meno abili ad ogni nuova scoperta onde possa onorarsi lo spirito umano, ma soventi vi sono ostili. Esempio l'Accademia delle scienze di Francia a cui Napoleone I aveva mandata, per il parere, la memoria di Fulton che gli proponeva la navigazione a vapore. La grave Accademia, con dotta ilarità, rilasciava all'inventore una ufficiale patente di utopista. Altro esempio, se vuolsi guardare a tempi più lontani, l'Accademia di Salamanca. Essa insorgeva contro Cristoforo Colombo e lo dichiarava pazzo per la sua divinazione di nuove terre. Il Faldella tornò a parlare alla Camera nella tornata del 20 giugno 1881, allorché si discuteva la riforma elettorale, e vi sostenne strenuamente lo scrutinio di lista. Nel suo discorso non mancarono le originalità. Fra le altre per sostenere che l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista avrebbero diminuite le corruzioni elettorali, egli uscì fuori a dire: "Nelle biografie dei grandi uomini politici dell'Inghilterra narrasi precisamente quanto essi hanno speso per la loro prima o seconda elezione. Si aggiunge di Beniamino Disraeli che una gentile signora gli suppeditò le copiose ghinee occorrenti perché gli fosse sbarrato l'arringo politico. E qui voglio l'onorevole Serena il quale oggi ha argutamente immaginato che Dante Alighieri non sarebbe eletto deputato collo scrutinio di lista. Onorevole Serena! Senza essere poeta sovrano, chi circonda il suo nome coll'aureola dell'arte, e si imprime nel pubblico con la sua potenza letteraria, ben può pretendere a quella notorietà, che è sufficiente per la riuscita nello scrutinio di lista. Oh! Dante Alighieri sarebbe un candidato sicuro nello scrutinio di lista. Per lo contrario io nutrirei i miei famosi dubbi per la sua riuscita nel collegio uninominale. Con tutto il fascio radioso del suo genio, il poeta resterebbe nella tromba, se rimanesse povero in canna, come è costume dei poeti, e se una pietosa dama non scendesse ad apprestargli le migliaia di lire, come fece la Ninfa Egeria all'autore dell'Endimione". E terminando il succoso e serrato suo discorso dichiarò: "È una voce falsa ma molto diffusa che noi ricusiamo lo scrutinio di lista per non sentenziare noi stessi a certa morte politica... Ma, signori, non lasciamo accreditare neppure materialmente quella voce col fatto di una votazione ostile. La storia darebbe certamente tristo giudizio di noi in paragone di quei Parlamenti e di quegli ordini rappresentativi che seppero fare innanzi al mondo nobili rinunzie. "La famosa assemblea nazionale francese, che dichiarò i diritti dell'uomo, interdisse, con zelo soverchio, a tutti i suoi membri la rielezione... "Negli ordini della Repubblica fiorentina era statuito che i magistrati scaduti non potessero rieleggersi salvo che trascorso un dato tempo. Questi insegnamenti non sono scevri di sapienza; indicandoci i benefici di avvicendare gli uomini alla cosa pubblica per evitare le cancrenose ambizioni e per usufruire ognora fresche e riposate virtù". Ma poscia l'oratore soggiunse: "Però il pericolo della sommersione nello scrutinio di lista ci sarà solo per me deputato novellino che devo molto ai vincoli di affetto paesano e di poesia domestica ecc.". E fu meno felice nella chiusa, poiché volle ostentare, un po' troppo, la sicurezza che lo scrutinio di lista dovesse riuscire letale alla sua rielezione. Lo Zanardelli, relatore dottissimo di quella legge, nella perorazione del suo splendido discorso pronunziato nella tornata del 21 giugno 1881 faceva onorevole menzione delle parole del Faldella dicendo: "Questo trionfo (della nuova legge elettorale) farà sì che nelle elezioni, come notò l'on. Crispi, siano veramente nazionali le gare; non solo assicurerà gli altri vantaggi, dei quali ho parlato: ma esso dimostrerà, come ieri disse con nobili parole l'onorevole Faldella, che noi possediamo una virtù, la quale nella vita pubblica vale da sola a riscattare molte colpe, l'oblio di noi stessi...". Nella sua vita parlamentare, Faldella preoccupato delle condizioni economiche del suo collegio per la scarsa viabilità, domandava e patrocinava due ponti sul Po, ed un altro sulla Dora Baltea; ed otteneva che una sua aggiunta venisse in parte accolta nella legge delle nuove opere stradali; e poscia nell'adunanza del 24 giugno 1882 pronunciava anche un discorso in favore della ferrovia Chivasso?Casale, accumulando argomenti vinicoli e strategici in favore di essa con vittoriosa mitraglia di parole assennate. Ma, ciò malgrado, venute le elezioni generali del 1882 con suffragio allargato e scrutinio di lista, egli come aveva preveduto, forse allora incredulo in se stesso, fu ripagato dai suoi elettori di una buona sconfitta. Ritornato alla tranquillità ridente del suo quieto villaggio, alla vita casalinga e raccolta; tornato alle sue contemplazioni e meditazioni, fuori del turbine affannoso della politica, che logora gli spiriti, egli riprese con maggiore intensità di lavoro i suoi studi; e poiché della politica gli durava il sapore acre, avendo poco prima delle ultime elezioni già pubblicato un volume della sua Salita a Montecitorio (1878?1882) col sottotitolo: Il paese di Montecitorio, Guida alpina di Cimbro, proseguì in quella via palpitante di passioni, e addensò pagine su pagine di politica artistica. E così pubblicò successivamente: I pezzi grossi (Scarpellate), I Caporioni (Profili), Dai fratelli Bandiera alla dissidenza (Cronaca), volumi che della Guida parlamentare sono il seguito galoppante. Siffatta opera, nella quale sotto nuovo aspetto mostravasi l'ingegno suo di cronista politico nella serenità e nell'argutezza critica dei giudizi - egli dedicava a Luigi Roux, ora deputato del Collegio di Cuneo, già direttore dell'Organo della Pentarchia, in allora soltanto direttore della "Gazzetta piemontese", e col Favale, editore dell'opera stessa che gli era intitolata. "Un giorno, gli scrisse il Faldella, il rustico autore di Un viaggio a Roma senza vedere il papa, Geromino, sindaco di Monticella, fu da te, dal tuo illustre predecessore e dai tuoi egregi colleghi, ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornalistica, egli nato per meditare e stintignare una pagina al mese... Ora spetta sovra tutto a te il sopportarne le conseguenze, accettando la cordiale dedicatoria di questo libro". Il concetto dell'opera è chiaramente reso manifesto nella lettera, colla quale gli Editori accompagnavano il secondo volume: I pezzi grossi. "Nel primo volume dell'opera l'autore, col titolo Il paese di Montecitorio, ha voluto dare, come si suol dire, una pittura dei luoghi, dove si svolgerà man mano l'opera medesima: dall'atrio del palazzo deputatesco agli uffici della segreteria, dalle sale della presidenza agli archivi, dagli ambulatori alla questura, dalla tribuna pubblica al banco dei ministri, il Faldella ha fatta una minuta descrizione della residenza del Parlamento animandola, come hanno bene avvertito i lettori di quel primo volume, coi ricordi storici che si addensano così gloriosamente affollati in quei luoghi, e coi profili dei personaggi che si incontrano ad ogni pietra di quel Paese. Compiuta così la descrizione dei luoghi, l'autore entra nella materia del secondo volume: I pezzi grossi, che sono estese fisiologie dei principali uomini politici. Seguito dei Pezzi grossi sarà il volume dei Caporioni. E siccome parecchi di questi appartennero al partito d'azione, parve opportuno all'autore di raggruppare intorno ad essi gli episodi più drammatici del nostro Risorgimento: onde uno speciale volume sarà la cronaca patriottica: Dai fratelli Bandiera alla dissidenza ed al trasformismo. Percorso il mondo parlamentare nelle sue cuspidi individuali, gioverà all'autore considerarlo nelle masse dei partiti, donde un volume sui partiti parlamentari ed un altro sui partiti extra?parlamentari, ed un altro ancora di Vedute e scene: e siccome dopo tanta vivisezione parlamentare è doveroso rendere omaggio alle tombe dei campioni della Camera, di cui è più recente il lutto, una parte dell'opera sarà Necropoli. E finalmente una parte sarà dedicata a quel ramo del Parlamento, dove in vigile riposo si archiviano i veterani dell'intelligenza, del censo, del patriottismo e delle maggiori cariche, donde un ultimo volume: Scorsa al Senato". A proposito di codesta Storia parlamentare che si disegna a linee larghe ed a tratti vigorosi, e si ispira a concetti elevati nella serenità degli schietti giudizi, - Nino Pettinati, elegante scrittore ligure?subalpino, con una venatura di anglosassone nel temperamento poiché di madre inglese, onde conserva nell'aspetto una gentilezza da Lord Byron sminuito, scrisse argutamente nella "Gazzetta letteraria" di Torino del 28 aprile 1883: "Alcuni che furono sin qui avvezzi a gustare e carezzare nel Faldella l'arguto pittore delle Figurine, l'umoristico narratore dei Viaggi a Roma e a Vienna, l'incisivo novelliere delle Rovine e recentissimamente il mesto romanziere del Serpe, veggendo oggidì il Faldella assumere la gravità e l'ufficio di questa Salita a Montecitorio ne restano sorpresi un poco e fors'anco dubbiosi di più. Generalmente parlando in Italia, da Brofferio, da Manzoni e da Cantù in poi, i letterati sono così poco storici e gli storici così poco letterati! Havvi - chieggono - nell'autore delle Conquiste la stoffa dello storico? e qualunque titolo abbiano i suoi lavori non saranno sempre romanzi? - Costoro a nostro avviso non hanno posto bene mente all'indole dell'ingegno del Faldella e non hanno seguite le fasi ch'esso ha traversato da qualche tempo in qua. Il Faldella è interessante novelliere, è vero, ed i suoi racconti hanno un'attrattiva non comune; ma bisogna pur riconoscere che la immaginativa e la novità non sono mai state le maggiori doti dei suoi lavori, sibbene la finezza dell'osservazione e l'acutezza delle rassomiglianze, le quali vincono di gran lunga in lui le qualità inventive. Come osservatore pochi superano il Faldella, e pochi del pari hanno maggior felicità nell'afferrare delle cose osservate le qualità caratteristiche, sviscerarne, per così dire, l'indole e il segreto, penetrarne l'essenza e riprodurle coi loro propri colori. Un autore moderno ha detto che difficilmente lo scrittore ed il lettore si capiscono bene, perché essi seguono strada inversa, vale a dire che lo scrittore va dal pensiero all'espressione, il lettore dall'espressione al pensiero. Al lettore di Faldella di rado è avvenuto di non comprendere la vita che spira dalle pagine di lui; imperocché il Faldella non arzigogola in espressioni soggettive e non getta mai il suo Io fra lo spettatore e i personaggi; ma per mezzo suo i personaggi medesimi si disegnano colle loro stesse azioni abilmente messe in luce. "In questa felicità di intuizione oggettiva unita ad uno stile quasi sempre incisivo e scultorio anche nella rappresentazione di sentimenti di minore importanza e talora anche ridevoli, in un desiderio continuo di curare dei personaggi e delle cose anche i menomi particolari e i tratti più fuggevoli, in uno studio continuo e zoliano di non dipartirsi dalla verità dei tipi quasi sempre imitati dalla vita reale, chi non riconosceva già nel Faldella le principali, se non tutte le qualità necessarie allo storico diligente e fedele? Ma abbiamo detto che bisogna pur tenere conto delle fasi che l'ingegno del Faldella ha traversate. Chi ignora infatti com'egli raccolto un dì nella mite atmosfera degli studi letterari campagnuoli, chiamato dipoi nelle officine giornalistiche a mirar più da vicino gli ingranaggi delle quotidiane vicende sociali, venisse in ultimo attratto nel grande agone parlamentare, rappresentante della Nazione egli stesso, e divenisse così testimonio e insieme attore del teatro politico contemporaneo? Allora l'ingegno dell'osservatore accurato, il fedele intuitore delle figure e dei caratteri, l'umorista flagellatore dei vizi in quel nuovo orizzonte si sentirono indubbiamente rafforzare: alla scarsezza della qualità inventiva suppliva largamente la realtà di tutti quelli obbiettivi veri e viventi; il poeta non doveva più tentar voli, ma bastava allo studioso di concentrarsi bene nelle ricerche e nelle osservazioni: l'estro dell'artista non aveva più bisogno di immaginare azioni e persone per sentirsi acceso a scattare in una artistica creazione: ma gli bastava appunto l'osservazione della realtà per iscoprire dove fossero il bello ed il buono artistico e far colla loro riproduzione un'opera d'arte. Così il passaggio dal romanziere allo storico si compiva; il poeta e il narratore non si elidevano, ma dandosi la mano si completavano; e l'autore delle Rovine veniva così alle assaggiature della Roma borgbese ed ora finalmente alla Salita di Montecitorio. E noi teniamo assai a far notare come nella nuova veste del Faldella storico non sia affatto cessato l'artista cui abbiamo applaudito sin qui, imperocché mentre quest'osservazione da un lato ci spiega la fase evolutiva del suo ingegno, dall'altro ci dà la chiave per bene intendere ed assaporare il suo lavoro storico che è di una caratteristica tutta speciale". Ed è vero. Siamo le mille miglia lontani dalla storia d'Italia dello Zini con quelle sue preziosità di frasi atticamente gravi, ma plumbee nella loro massa faticosa. Qui la storia è cronaca spigliata, allegra soventi, e a quando a quando, severa; severa nobilmente nelle elevazioni patriottiche, nei lampeggiamenti civili dell'epopea che fece la Nazione. Nel primo volume: Il paese di Montecitorio, vi è come la fisiologia del palazzo di Montecitorio, studiato in sé stesso, nei suoi abitanti, nei suoi frequentatori e negli ordinamenti amministrativi che regolano la vita politica e parlamentare dei rappresentanti della Nazione. Vi è arguzia, umorismo, ironia; a volta a volta, si illuminano medaglioni, miniati con amore, e frammenti scultorî a colpi audaci e vigorosi. Ne scattan fuori figure di letizia senile, come quelle dei veterani delle ardimentose insurrezioni per la libertà. Tali sono le figure del dott. Ripari e del vecchio bibliotecario della Camera Giovanni Scovazzi, fiero bandito di primo catalogo secondoché leggevasi in un numero della "Gazzetta piemontese" del 1833 che ne recava la condanna a morte unitamente alle condanne di Giuseppe Mazzini e Giovanni Ruffini. Tale è la figura dell'on. Del Zio il quale "ha una testa vigorosa di frate che dal castello di un campanile suoni a stormo e spari fucilate per una rivoluzione". Tale è la figura di Quirico Filopanti, l'amante universale, che si tolse nel 1873 il suo vero nome di Barrili; asceta pitagorico che vive spartanamente di acqua e di pane, e che "ci ha il giubbone nero, un po' roso, ma tuttavia pulito; ci ha il gran colletto bianco; ci ha le stelle in cielo, ci ha delle consolanti aspirazioni in testa; ci ha l'Italia a Roma; si tiene sicuro dell'avvenire nel nome del popolo e di Dio, ed egli è stoicamente felice". E via via, dalla biblioteca della Camera agli stalli dell'aula; dall'atrio del palazzo di Montecitorio alla Tribuna della stampa, a quelle della Corte, della diplomazia, della Presidenza e delle Signore; dal discorsino di esordio del deputato novellino, al discorsone ministro del deputato stagionato che porta tutta una sezione del museo di numismatica appesa alla catena dell'orologio; dalla sala di ricevimento al selce di Cordigliani ed alla rivoltella di Maccaluso; tutto vi passa intuito, scrutato, pennelleggiato con forza, verbalizzato con scrupolo. Ci si potranno bensì, qua e là, notare gonfiezze, superfluità, minuzie che rallentano, e deviano l'attenzione, stancano; ma sono mende che scompaiono in confronto delle numerose pagine ponderate, salde, elevate, concettose che interessano, svelandoci gli intimi congegni pei quali si muove, si agita e si manifesta nel lavoro legislativo la nostra rappresentanza nazionale. Nei Pezzi grossi, l'artista scalpellatore modella a mano a mano le figure di Domenico Farini, Marco Minghetti, Quintino Sella, Domenico Berti ed Agostino Depretis, intorno ai quali raggruppansi negli sfondi altre individualità minori, di più modesta indole. Lo studio sul Farini, che sale dolcemente a involgere tutta la famiglia dei Farini, riesce affettuoso, direi carezzevole, ed è fatto con schietta precisione, poiché l'autore è dirimpettaio di abitazione allo scalpellato personaggio nei silenzi campestri di Saluggia, dove l'ex presidente della Camera villeggia ogni anno fra le memorie venerate del padre, della madre e della nonna. Deboluccio, forse, lo studio sul Minghetti, quantunque questi vi sia considerato in due modi; come oratore, e poscia nella politica e nella storia. Assai bello e vigoroso invece quello su Quintino Sella, dove narra di re Umberto che ospite dei Sella nella Villa di S. Gerolamo nell'agosto del 1880, a preghiera del figliuolo sale a visitarne la madre, Rosa Sella, che per la grave età e la cagionevole salute non può scendere a inchinare Sua Maestà. Al Faldella erompe dall'anima una possente lirica aleggiante, generosamente patriottica, che sintetizza la rigenerazione della patria. Il filosofo di Cumiana, dall'aspetto prelatizio, Domenico Berti, evoluzionista per indole, è scrutato con acume. Ed Agostino Depretis coi suoi trenta e più anni di esperienza parlamentare e con tutto il suo bagaglio di uomo di Stato, bagaglio di pranzi politici, discorsi patriottici, programmi di Stradella e piacevolezze accorte di diplomatico magistrale - viene a sua volta anatomizzato con pazienza, ricercato nelle sue vigorie e nelle sue debolezze; viene scolpito e ritratto nelle pagine del libro in più pose; e tutte danno un magnifico padre guardiano; come l'emblema del tempo eterno che governa. Nel terzo volume della Salita a Montecitorio, I Caporioni profilati sono Cairoli e Zanardelli che tengono il campo con una cavalcata di eroi minori: Cairoli a cui l'autore inneggia come a patriotta, come a Bajardo: Cairoli discusso come Presidente dei ministri, nei suoi due ministeri; Zanardelli, dal vasto ingegno democratico, che come ministro dell'Interno si irrigidisce nelle sue convinzioni di larga libertà cittadina, si allarga nel mare magno della scienza giuridica col libro L'avvocatura, e si condensa con pazienza da benedettino nella dotta relazione per la riforma elettorale politica. Nel quarto volume, ultimo comparso della serie, cioè nella cronaca Dai fratelli Bandiera alla dissidenza, l'autore, risalendo alle prime imprese politiche che via via andarono preparando il trionfo della libertà e della nazionalità ed illustrando particolarmente la impresa audacissima del Pisacane a Sapri, scolpisce con felicità di esecuzione la figura violenta e generosa del Nicotera, lo ritrae con finitezza di tocco, nelle varie fasi della sua vita politica a impreveduti colpi di scena e di audacia. Vi studia le bizze fegatose dell'irrequietissimo agente di Cavour e storico d'Italia Giuseppe La Farina. Vi analizza il carattere metallico ed inflessibile di Francesco Crispi. E poscia ci presenta Agostino Bertani, patriotta saldo e antico, uomo politico rigido e fegatoso, dall'aspetto funereo, fatale; papa dell'estrema sinistra come lo sintetizza l'autore, Bertani ne appare dogmatico nei suoi discorsi alla Camera; vi appare quale uomo che stia sempre teso come un telescopio a guatare i misteri del futuro, o come Geremia profeta piagnucoloso quando prevedeva un'immensità di mali a Gerusalemme baldracca. E attorno attorno, le relative figure secondarie e terziarie, i paesaggi, gli sfondi, le prospettive aeree e terrestri che richiamano lo studio principale. Certamente nel corso di quest'opera, vasta e pensata, si avvertono mende, imperfezioni, giudizi non sempre a sufficienza comprovati dai fatti; ma è giustizia affermare che gli uomini politici, che ne formano maggior argomento, sono resi nel loro momento più caratteristico, tratteggiati a punto nelle manifestazioni loro più notevoli; e queste manifestazioni, coordinate all'azione politica generale. Gli aneddoti curiosi e nuovi abbondano; i giudizi pronunciati da altri autori su uomini e cose vengono raggruppati in modo da produrre l'effetto più notevole. Con questi volumi il Faldella ha provato chiaramente quanto opportunamente egli citasse nel suo programma l'opinione di Cicerone che opinava dovessero letterati e scienziati adoperarsi nella vita politica, per quanto lo acconsentiva loro l'ingegno, poiché si può adempiere agli obblighi di cittadino senza trascurare l'arte che li nobilita. Onde Nino Pettinati ebbe ragione di scrivere su tale proposito: "Si è detto sin qui, ed è diventata una frase fatta come tante altre, che in Italia la politica guasta i letterati e che il battesimo di Montecitorio è quasi l'estrema unzione degli scrittori. Faldella, che pure è stato un eccellente deputato come se lo sanno i suoi antichi elettori, è lì per ismentire la sciocca credenza. Il Faldella facendosi lo storico del nostro Parlamento contemporaneo ha dimostrato come oggidì la politica e l'arte in Italia sono più vicine che mai a fondersi e compenetrarsi: egli, continuando il grave incarico a cui si è sobbarcato, sta per provare come oggidì la nostra letteratura non ha più bisogno di pascersi di soli ideali e di astratti desideri per sentirsi ispirata, ed ispirando a sua volta, adempiere la sua missione civile. Questa missione letteraria, della quale si fa campione il Faldella, si ravvisa nel continuo dramma della vita quotidiana, nei giornalieri episodi del paese moderno che s'agita, che lavora, che dimanda, che progredisce; e a questa missione sentono di adempiere egualmente l'uomo politico che arringa generosamente dai banchi parlamentari, e l'artista scrittore che chiuso nel romito della sua stanza raccoglie nella storia l'eco di quelle arringhe e le riscalda al fuoco dell'arte riformatrice". Nel 1881, il Faldella aveva iniziata, coi tipi dei Roux e Favale la pubblicazione di Un serpe, quello stroncato nel "Fanfulla"; e al primo volume: Idillio a tavola, seguirono, a mano a mano, il Consulto medico e la Giustizia del mondo, uscita di recente, che suggella il ciclo delle Storielle in giro. Questa trilogia, nonostante la festività della forma, il brio dello stile e le spumeggiature esilaranti delle frasi, come in ogni altra opera dell'autore, - ha un fondo largo di mestizia, lascia a poco a poco ed inconsciamente filtrare nell'animo del lettore uno scoraggiamento funereo; segnatamente nell'ultimo volume vi è un'allegria che sa di pianto. L'azione semplice, improntata d'un forte carattere di verità, si svolge dapprima a Scozzeringo, soleggiato e ridente villaggio monferrino; si prosegue a Torino, Firenze, Roma, e si queta come per un filosofico ricorso storico, nell'iniziale villaggio. Vi è studiata e ritratta con evidenza ammirabile la vita del villaggio; le passioni che in esso si accendono per minuzie a cagione dell'orizzonte ristretto e della mancanza di ampi sbocchi alla fermentazione fisiologica, vi salgono e ribollono intuite, analizzate maestrevolmente. I personaggi scattano vivi e solidi in gran parte, come il dottore Giannozzi, Battistina sua figliuola, il conte senatore Baudone, l'arciprete Don Lanterna ecc. Altri sono alquanto indeterminati, come la diafana Rosilde, figliuola del conte, che pare una gentile figurina d'alabastro, scesa da un acquasantiere. Il dottorino Tristano Clessidra, il bieco figliuolo di nessuno, che una vampa d'odio consuma ed illividisce, quegli che dà il titolo vischioso alla trilogia, non è forse il personaggio meglio reso; non pare sia sempre estremamente vero. Vi è un che di artificioso nei suoi atti improvvisi ed eccessivi, segnatamente nella Giustizia del mondo, i quali atti male corrispondono alle premesse del suo carattere: le superano per gli effetti. Egli gioisce troppo della sua abbiezione morale, gustando la voluttà acre del fango; troppo si compiace di avvelenare la felicità altrui, per solo desiderio del male, poiché non vi è nessun interesse proprio che lo muova; troppo chiaro egli vede in sé stesso, poiché con manifesta ostentazione si diletta soverchiamente a porre sopra i suoi giornali?libelli il marchio di un titolo come: Il Serpe ? La Vipera ecc. I bricconi non ammettono mai di esser tali; si sarebbe quasi tentati a credere che il dottorino abbia letto anche lui il titolo Un serpe che raggruppa i tre volumi, e siasi ingegnato per quanto poteva a giustificarlo. E la vita giornalistica, i retroscena politici dove domina il magno commendator Nevone; dove si scorge il profilo carezzevole di una di quelle tali profumate, che con vocabolo di sensualismo moderno ora si dicono le orizzontali, pare anche sentano alquanto di manierismo. Bisogna dire che l'autore, quando ne scrisse, non avesse pur avuta occasione di analizzare e cogliere dal vero, come è suo costume, le misteriosità della vita nei grandi centri mondani e politici. Altro appunto che pure egli si merita assai è quello dei nomi che usa. Soventi essi frizzano troppo la caricatura, e ricordano assai quelli umoristici del teatro piemontese. E quando non vogliono essere una caricatura, pare cerchino di esprimere anticipatamente il carattere della persona che li porta. In questi volumi il dottorino si chiama Tristano, perché è un briccone; sua madre si chiama per antonomasia la signora Orrenda, perché bruttissima; il conte senatore, perché grasso, naturalmente ha un nome che per questa sola ragione suona come un otre: Baudone; don Lanterna, l'arciprete, ha la grazia di questo nome, perché l'autore gli destinava una statura da corazziere o da tamburo maggiore; e, mancomale, lo speziale si chiama Pasticca: il nome meno medicinale che l'autore gli poteva dare, secondo il suo sistema. Così via via. I nomi sono una grande difficoltà, ma se ne deve aver cura, poiché la verosimiglianza loro ringagliardisce l'effetto, e rende più veri i personaggi. Onde il Faldella dovrebbe seguire, a preferenza, il sistema del Balzac, il quale - come è noto - andava copiando dalle insegne delle botteghe i nomi che gli occorrevano per la sua grandiosa Commedia umana. Ma a parte ciò; a parte talune scene troppo accentuate, troppo colorite, vi sono, in codesta trilogia, pagine d'una freschezza e d'una verità insuperabili, vive scenette di villaggio rese a perfezione, nelle quali alita un che di umorismo incosciente; come quando il flebotomo Clementino Riondella, messo alla porta dal dottor Giannozzi, cui era andato a domandare audacemente la mano della figliuola, trovandosi vestito da guardia nazionale per la solennità, pensa alla maestrina Cornelia. - Clementino pensò: "Tanto Battistina non può essere mia! tanto bisogna cambiare... E cambiare adesso come di qui a poco, tanto fa... Ora sono già vestito! Perché dovrei vestirmi un'altra volta? Perché dovrei sciupare l'acconciatura? Poi il regno di una buona moglie è in cucina... e Cornelia è una imperatrice in cucina... E poi me lo ha suggerito il medico stesso, il padre di Battistína... "Così ragionando fece fronte in dietro". E entrò dalla maestra, che cucinava, la quale "staccatasi dal fornello gli corse incontro". "Aveva il viso di bragia, i capelli zingareschi, il labbro inferiore morescamente rovesciato, l'occhio giudaico. "Era una ragazza capace di cogliere un marito al volo e di imbullettare un ragazzo alla sua prima freddura. "Clementino si pose la mano destra alla visiera del kepì, e si avanzò verso Cornelia con passo militare. Essa ritrosì di pari passo, dicendogli: "- Spettacolo! "E poi: - Ah! bricconcello di un cerusichino! Ha proprio il buon tempo che lo incalza. Sentiamo un po', che cosa è venuto a fare da me il signor capitano? "Clementino senza levare la mano dalla visiera fece bocca da ridere e rispose: "- Sono venuto da lei, signora maestra, a vedere se ha da vendermi dei lupini... "A quelle parole la maestra, con smanceria vergognosetta portò l'avambraccio sugli occhi: ninnò il suo personcino e disse: "Birichino di un cerusichino!... "E faceva più volteggiamenti che parole: sollevò il suo grembiule, e con esso ventilò, sfiorò il volto di Clementino, il quale montava su, su, in excelsis, in visibilio. Egli finì con l'afferrare le due mani di Cornelia, che fingevano stracca riluttanza, le serrò in un mucchietto dentro le sue palme, e poi, ondulando la bocca nel desiderio aereo di un bacio e musicando sottilmente la voce, disse: "- Cornelia? Dunque sì? "- Si...ì si...ì! - rispose Cornelia, strascicando un sibilo come lo zeffiro. - Si...ì. - E buttò indietro la capigliatura mora?zingaresca, che discese vorticosamente a invaderle le spalle; e spalancò l'occhio giudaico verso il soffitto. "Le braciuole scoppiettavano al fuoco dentro la maiolica di Castellamonte: e sprizzavano zaffate colme di un profumo da far mangiare i morti. Furono l'incenso, il tiamo ed il cinnamomo di una promessa nuziale". (Per capire l'entratura dei lupini, occorre notare che in taluni paesi del Piemonte l'ambasciata per la visita ad una ragazza da marito si comincia col pretesto, che si è venuti a vedere, se ci sono dei lupini a vendere.) La narrazione del consulto medico, la lotta scientifica fra il vecchio medico dell'antica scuola, ed il novello dottorino di scuola recentissima, è stupenda; seguono paesaggi di una freschezza inimitabile, scene di campagna che par di vedere veramente, quadretti resi con zelo, con scrupolo da pittore fiammingo; onde G. De Abate, in un sonetto che dedicò di recente all'autore sulla "Gazzetta letteraria" di Torino, ebbe ragione di dire di lui: "Egli è il Michetti delle mie pianure". Non importa per la definizione che le scene del consulto siano sulle colline del Monferrato; imperocché il Faldella si è manifestato pittore da bosco e da riviera, da pianura e da collina. Nei volumi del nostro paesista vi è - come dice Giacinto Stiavelli, che trova nel Faldella un investigatore profondissimo delle cose, uno stilista accurato e brioso come nessun altro - vi è da raccogliere una fiorita, la più olezzante, di osservazioni fine, profonde o bizzarre, quali le seguenti. "Le ragazze che amano si sentono pesare a loro stesse, e non possono muovere con disinvoltura le loro persone. Esse portano dentro loro degli universi. L'amore inchioda loro il cuore; e tutto il lecchetto del mondo restante non potrebbe più farle muovere e correre con vivezza. "...L'amore, anche turato bene, può durare incarcerato un estate, due estati, sette estati; ma ce ne viene poi uno così caldo e veemente che l'amore fa saltare il tappo e schizza via". L'azione, senza troppi aggrovigliamenti, è interessante, perché vi palpita veramente la vita, e si svolge via via, con inflessibile logica di disgrazie, che sono sempre la grande parte dell'esistenza; onde, attraverso l'allegria della forma, si sente un largo fondo di mestizia che sale fino a invadere tutto nella chiusa: Rassegna funebre. In quest'ultima parte, a beneficio della contessina Rosilde, ideale bellezza da Immacolata Concezione, angiolo diafano che si immalinconisce senza pur lo strascico di un marito degno di sublimarla a maternità, si ingemma un sonetto di Giovanni Camerana, "poeta austero, smagliante e profondo"; sonetto inedito per una Madonna nera, ispirato forse dal Nome di Maria del Manzoni, ma che olezza d'uno schietto sentimento di devozione campagnuola: Ave Maria, che dalla nicchia d'oro Nella rigida tua veste ingemmata, Negra in viso, ma bella, ascolti il coro, L'ingenuo coro della pia borgata. Ave Maria, di stelle incoronata, Curvo e triste nell'ombra io pur t'imploro; La valle imbruna, è il fin della giornata, Coi mandrian dell'Alpe io pur ti adoro. Tu che salvi dall'ira del torrente, Tu azzurra visïon nell'uragano, Tu ospizio fra le nevi ardue, tu olente Aura, in che orror mi affondo, in che agonia, L'onta, il ribrezzo, il gran buio crescente, Tu lo sai, tu lo vedi; - ave, Maria. E questo sonetto che la pia e mesta contessina ingioiellava "nel suo aureo libro di devozione alla pagina delle litanie della Vergine" finiva per essere imparato a mente anche dal confessore di lei, l'arciprete don Lanterna - una delle più riuscite figure del romanzo. - Egli "trovava densa di grandiosità quell'invocazione bisognosa di fede che negli abissi della noia e dell'angoscia accomuna al povero contadinello l'artista, l'erudito, il ricco; vera dimostrazione del gran circolo più che cristiano, umano, più che umano, psicologico, spirituale". E concludeva: "La più sincera estrinsecazione della fede si è la carità: unica speranza, unica promessa di letizia". Tutto sommato la trilogia del Faldella riesce uno dei più notevoli, robusti e sani lavori che siansi, in tal genere di letteratura, pubblicati in questi ultimi tempi: è un lavoro donde spira un potente alito di verità, e la cui lettura, mesta dopo tutto, fa aleggiare il pensiero in alti orizzonti con più intensa avidità del bene. Ma la Giustizia del mondo, quantunque ultimo volume che sia apparso del Faldella, non è il suo scritto più recente; nel 1882 la Casa Editrice di Angelo Sommaruga pubblicava in Roma colla consueta ed arrischiata sua eleganza di formato, di caratteri e di fregi, pubblicava di lui: Roma borghese. Assaggiature, opera pensata e scritta assai tempo dopo il Serpe, e che ora tocca già alla sua seconda edizione. Codeste assaggiature si riannodano, nel concetto, al Viaggio di Geromino a Roma; e l'autore ci annunzia già che verranno seguite da altri studi sullo stesso argomento. Lo scopo di tale studio ce lo rivela l'autore nella prefazione al volume; prefazione che ha intitolata: Interno ragionamento per un'opera completa. "...io avrei proprio in mente di intraprendere un lavoro che non fosse perfettamente inutile, un lavoro su Roma borghese (la chiamerei così, non per omaggio alla principesca famiglia di tal nome, ma per antitesi a Roma pretina, volendo dire Roma borghese per dire Roma secolarizzata; lo capisce un cretino). "Nel mio lavoro vorrei raggruppare e fondere tutte le mie osservazioni fatte in un quattrennio filato di corrispondente giornalistico alla "Gazzetta piemontese". La presente condizione storica di Roma è riguardevolissima, perché unica nella storia. Imperocché la città che da due millenni e mezzo ne ha già viste e fatte tante, non è mai stata quale è oggi: diventata capitale della libera nazione italiana, e rimasta capitale del mondo cattolico; monarchica, e munita di molta licenza dai superiori per le pubblicazioni e le dicerie più rivoluzionarie". Con questi intendimenti, egli ci ha dati quattro saggi notevolissimi. Il primo, Colonie buzzurre, è la fisiologia dei quartieri alti di Roma nuova, fatta con felicità di tocco, da acquarellista innamorato: "I quartieri nuovi dell'alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o neppure leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch'essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova. "I gruppi delle nuove vie intitolate alle battaglie e agli assedi più belli del Risorgimento nazionale (Goito, Pastrengo, Palestro, San Martino, Gaeta) o nei nomi valorosi di Casa Savoia (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Umberto, Amedeo,) o in quelli insigni e benemeriti di Cavour, Farini, Mazzini ecc. si contrappongono ai gruppi delle vecchie vie coi titoli imbruttiti di santi (San Stefano del Cacco, Santa Maria in... Cacaberis) o con quelli dei più umili mestieri (sediari, canestrati, chiavari, coronari), o con quelli degli stranieri Avignonesi, Portoghesi, Greci, Aragonesi, Spagnuoli ecc.". L'autore rende, con fresca vena di umorismo, l'interno di talune famiglie d'impiegati piemontesi dalle rendite sottili e dalle bocche numerose e voraci, che meditano e rimeditano, col bilancio alla mano, la spesa di un soldo, quale era appunto la famiglia Berleris: "Tutti gli otto bambini, avviluppati in un lusso di tovaglioli intorno al collo, pranzavano con un solo uovo lessato col guscio (a la greuja). Scocciato sulla punta, si piantava nell'ovarolo o nella saliera, in mezzo alla tavola. I bambini, per ordine di età, vi intingevano il pane grissino dentro. Una volta, Emanuele, il più piccino e più birichino, sprofondò due volte di seguito nell'ovo il suo grissino; e la mamma, spiritata, gridò: - Guarda che 't chërpe. Bada che scoppi!". E Faldella prosegue cesellando squisitamente, per finire con uno slancio lirico, augurando la fusione dei vari tipi italiani in nuove ebbrezze di forza e d'amore, colla speranza che "crescano figli forti e illuminati, che congiungano gli esempi di Furio Camillo e di Camillo Cavour, di Pietro Micca, di Cola da Rienzi e di Ferruccio...". Così, sognando con epico sentimento di patria rigenerata, gli par di vedere "le statue equestri di Emanuele Filiberto e di Marco Aurelio camminare di conserva e passare sotto il futuro grand'arco di Vittorio Emanuele, glorioso come quelli di Settimio Severo, di Tito e di Costantino". Il secondo studio intitolasi L'Arcadia, e nella prima parte è divertentissimo. L'autore incamminandosi la sera del 7 marzo 1880 verso il Serbatoio dell'Arcadia romana (palazzo Altemps) credeva "di dover scendere in iscavi" a ritrovare e "ricostruire una bellezza di mondo antico, il mondo metastasiano del Settecento, delle villanelle artificiali, srugginite, merlettate, profumate, incipriate, scollacciate, e palpitanti nei tiepidi avorii, e dei pastorelli di ciccia prelatizia, le zazzere mantecate, le facce rosse e lisce come pesche nocciuole, l'alito di rosolio, e i fruscianti codazzi serici di porpora o di viola: il mondo di Amarilli e di Mirtillo, di Corisca ed Ergasto, di Dorinda e di Dameta, di Fillide e di Elpino, di Aurisba e di Comante ecc.". Egli descrivendo la sala affollata del serbatoio ha fatto un quadro ammirabile, degno del pennello di Ruysdael. "In fondo della sala c'è una galleria per il pubblico di minor conto, come a dire seminaristi e pedine, mogli e figliuole dei maggiordomi clericali, parrucchieri, tonsori delle chieriche; nella platea fittamente insediati abatini di primo canto, abatoni, domenicani dal collo ingrassato nel bianco scapolare, facce tonde di minori o nulla osservanti, cappuccini austeri, asciutti, colle palpebre soccallate, la barba che lista il petto, ambe le mani sul rialzo delle ginocchia accavallate; nelle sedie chiuse un canestrone di canonici, monsignori, prelati lustri inzuppati di rigoglio come frutte mature, mozzette violacee a iosa, una fiera di vescovi e arcivescovi, e finalmente nei seggioloni d'orchestra una mezza serqua e più di cardinali: Alimonda, Meglia, Davanzo, Pecci, Pellegrini ecc., dal rosso zucchetto sigillato sulla cervice come un'ostia da lettere". Quindi, pennelleggiate sempre con vigoria di colorito, sfilano le moderne pastorelle appetitose che rendono gli occhi lustri ai seminaristi; sfilano turgide nella descrizione del Bosco Parrasio, ricetto estivo sul Gianicolo; ma il bozzetto così spigliato nella mossa ed in tutta la prima parte, si impiomba sul fine in una stanchezza improvvisa, ed avvizzisce in un sermone che l'autore volle fare a giustificazione presente e passata della belante ed infiocchettata Accademia. Viene poscia nel volume La morte di un giornalista, e sono pagine commoventi dedicate a Salvatore Farina, che narrano con forte e pietoso sentimento di fraterna amicizia la morte di Roberto Sacchetti, l'autore di Cesare Mariani, di Tenda e castello, Castello e cascina, Candaule, ed Entusiasmi; l'amico ed il confortatore di Praga, del quale continuò le Memorie del Presbiterio, ultimandole e dettandone pochi giorni prima di morire, dal letto, la prefazione. Roberto Sacchetti "consumatosi nella lotta" era venuto a Roma quale corrispondente ordinario della "Piemontese", quando il Faldella assidevasi in Montecitorio, ed i due amici continuarono fraternamente la loro vita di giornalisti; ma la morte doveva abbattere d'improvviso il Sacchetti nella pienezza della sua gagliardia intellettuale; il lavoro eccessivo, a cui si condannava, lo aveva prostrato. Il Faldella lo ha ritratto stupendamente con squisitezza di tocco: "Sacchetti era silenzioso. Davanti alle prime impressioni, egli non era espansivo: raccoglieva, filtrava, assimilava... guardava fissamente mutolo coi suoi occhi orientali e colle tempie rosse e secche. Diventava poi espansivo parlando e scrivendo, quando si trovava nel secondo periodo di riferire le cose mentalmente elaborate, digerite... "Allora eterizzava, elettrizzava, polarizzava, magnetizzava, fecondava, completava le impressioni sue ed anche quelle sentite da altri". E più oltre, quando narra degli ultimi momenti del povero artista, l'autore ha un'elevazione gagliarda nella mestizia, che turba profondamente l'animo: "Eravamo nella camera io, il domestico di Mora, un selvaggio della campagna romana, e la giovane portinaia, Isolina, una Ofelia toscana. "Mi ricordo, come di una visione, dell'apparizione d'una giovane signora, sconosciuta, forse una compagna di collegio di qualche signora parente di Sacchetti, la quale le aveva telegrafato per quell'ufficio di misericordiosa assistenza. "Quella signora elegante, esile e bella, con un collo sottile che pareva un gambo di fiore, fu l'ultima coraggiosa infermiera che si curvò sul letto dell'ammalato. "Egli, che conservava forse il sentimento estetico, se ne dimostrava negli occhi contento, come all'apparizione di un angelo al suo capezzale di morte... e interrogava me collo sguardo, quasi per saperne il nome. Le sue mani, l'una nelle mie mani, e l'altra nelle mani della signora, brancicavano con soddisfazione di pace; sopravvenivano telegrammi che mi invitavano a baciarlo. Lo baciai sulla fronte...". E Roberto Sacchetti passò serenamente. Vien quarto ed ultimo assaggio di Roma borghese, Un viaggiatore piemontese, il quale è nientemeno che il capitano Celso Cesare Moreno, celebre nei due mondi e speciale martello, per qualche tempo, del giornalismo italiano, uomo di merito e di azione dopo tutto, tipo da capitan Dodero, o da viaggio straordinario di Jules Verne, tipo che il Faldella ha studiato e pennelleggiato con vivacità ed energia nel suo gustoso studio. Nello scrivere queste assaggiature il Faldella tenne certo a mente il consiglio di Giosuè Carducci; l'aria circola frizzante a ravvivare i periodi; vi è minor affastellamento di colori, quindi il colorito è più discernibile e vivace; e l'originalità dello scrittore vi appare più salda nella sapiente parsimonia dei vocaboli scelti con più acume, disposti con più misura; onde un effetto più intenso. Lo scrittore, via via, si è venuto facendo meno arzigogolato e più elaboratamente individuale; cosicché la sua potenzialità è maggiore. Infatti il lettore meglio si assimila le sue idee, e più nette scorge le cose che egli rende con frase immaginosa e nuova. Faldella usa sempre largamente i paragoni, e questa è una sua ricchezza, poiché per mezzo dei paragoni si pone in evidenza il nesso arcano che collega tutto, uomini e cose, ogni più varia manifestazione in una colossale ed eloquente parentela. Certo non sempre le immagini sono esatte; e per voler troppo rappresentare a volte egli si sforza, falla il segno, fa sorgere una nebbia di frasi sulle cose, o si confonde in pieno barocco; allora ne vengono fuori certi suoi periodi che molti giornali si compiacquero a porre in evidenza, tacendone quelli di bellezza tersa e cristallina: ne vengono fuori trovate di questa sorta: "La signorina Battistina, con le mani ìncrocicchiate sui ginocchi, con il busto leggermente penzolo come statua della fiducia in Dio, o come colomba che stesse per pigliare il volo, con un sorriso da cherubino sul bottone delle labbra e gli occhi bucati da tagli di diamante, annuiva, applaudiva ecc.". E quest'altra: "L'arciprete si fregò le mani, e poi, ripostosi un dito nella fossetta della gola, fece dei nastri per la stanza". Forse sarebbe stato più chiaro, più esatto dire che faceva la spola per la stanza, ché dei nastri non ne lasciava davvero. Questa frase fare dei nastri, per il passeggiare lungamente e ripetutamente nello stesso luogo, che si dice pure fare le volte del leone in gabbia, quantunque sia una frase adoperata dal Giusti nell'Epistolario e da Edmondo De Amicis e sia usitatissima in Toscana, specialmente a Pescia, che ha una piazza lunga e stretta, dove la gente va a fare i così detti nastri, è una frase che mi sa di tenia. E la frase dialettale monferrina "dormir sodo come una ripa" ha una pretesa omerica senza fondamento. Ad ogni modo, come ebbe a scrivere Théophile Gautier in Fortunio, ogni montagna suppone una vallata, come una torre suppone un pozzo; né si può avere l'altezza siderea senza la profondità equivalente. E un artista indipendente, come il Faldella, che colla squisitezza di un temperamento eccezionale ritrae colla penna il mondo da lui osservato ed intuito; e lo rende colle sensazioni genuine che gli sorgono spontaneamente ed improvvise nell'animo e nella mente, subisce inevitabili prostrazioni tanto maggiori quanto più è affinato il suo senso artistico. Ed in quelle prostrazioni inconsce, pur producendo immagini per la ressa delle idee, egli deve necessariamente riuscire meno felice e meno efficace. E fors'anco, segnatamente nei suoi primi lavori, per la foga che gli prese di ingolfarvi dentro una quantità di piemontesismi, di frasi scelte e di modi di dire classici, di proverbi locali, senza badare se ne meritassero l'alto onore, o se fossero locuzioni già corrotte destinate a sparire dall'uso, o a restringersi in una limitata cerchia vitale, accadde che molte parti dei suoi lavori rimasero incomprensibili dalla maggioranza dei lettori; e quindi affette da una tal quale paralisi progressiva. Ma il suo stile si è col tempo forbito, si è fatto più lucido, quindi dà più facili effetti, talché gli aumentano ogni giorno i lettori; i quali, fatta la bocca, mordono con festevolezza avida, nel frutto un po' agretto ma sano, ma tonico. Ed ora, anche oltre le immani ondulazioni dell'Atlantico, egli conta lettori; poiché, di recente, un immenso giornale americano ha pubblicato un succoso studio su di lui. "Una gentile signora, - ricorda Nino Pettinati - artista essa stessa, paragonava testè i libri del Faldella a certe musiche tedesche. A primo udirle - essa scriveva - e specialmente per chi non v'abbia l'orecchio un poco avvezzo, sembra che riescano soverchiamente affollate di note, di astruserie, di piccinerie, talora persino di stonature e di caricature. Ma poi riudendole bene si comincia a sentire che sotto tutto quell'avviluppo la melodia si svolge piana, dolce, ineffabilmente espressiva, e alla fine quando si cerca un modo di semplificarle, queste musiche, ci si accorge che ognuna di quelle note, di quelle astruserie, di quelle stonature è la melodia medesima...". Paragone signorile codesto, che esprime con fínezza di gusto artistico, l'effetto che veramente fanno le pagine dello scrittore piemontese. Sul finire dello scorso anno 1883, nell'affermarsi della Pentarchia politica in opposizione al Patriarcato di Stradella, il Faldella, invitato specialmente da Giuseppe Zanardelli e dal Roux, si risolvette ad essere collaboratore straordinario del nuovo giornale di opposizione diretto dal predetto deputato Roux "La Tribuna". Lo si vide allora ricomparire a Roma a meriggiare sul Corso, tranquillo osservatore ed investigatore della via; a furettare appassionatamente in mezzo a bibliotecari stagionati e preti tabaccosi, tra i libri vecchi, tarlati, ammonticchiati il mercoledì sui banchi di Campo di Fiori, come in ogni ricettacolo di carte stampate; lo si vide extra muros a passeggiare serenamente riflessivo fra ruderi venerandi insieme con amichevoli ed eleganti compagnie. Ma nella "Tribuna" egli scrisse pochissimi articoli politici; a quando a quando vi pubblicava invece pensati articoli di arte, riviste, studi letterari, sociali; così vi scrisse con acume di Flaubert, con finezza di Sbarbaro, con intendimenti filosofici del carnevale, con elevatezza di concetti e di giudizi in morte di Francesco De Sanctis ecc. Poscia d'un tratto sparve, e si seppe che, avido di paesaggio e di sole, era corso a rifugiarsi nel suo villaggio. Giovanni Faldella è di mezzana statura e di robusta complessione; ha testa forte, voluminosa, fronte ampia, pallida, vigorosa, da pensatore; capigliatura violenta, foltissima a ondulazioni castane, occhi miopi ceruli, d'una dolcezza femminea, i quali, come quelli del Daudet, vedono tutto e tutti, soccorsi dalla concavità delle lenti; ha naso dritto, accentuato, guance colorite dalla salute, baffi e barba d'un color alquanto più chiaro dei capelli: una barbetta "appuntata e lunghetta che ricorda il profilo degli antichi mitologici protettori delle selve, grandi adoratori di profumi campestri, di gradazioni di tinte verdi, di succhi d'erba, di rezzi e di boschi intricati" come scrisse di lui il nomade, fertile, audace e geniale poeta socialista lombardo Fernando Fontana. Fra le curve morbide dei baffi si scorgono soventi le sue labbra rosee a schiudersi ad un sorriso buono. Ha indole quieta ma capace di scatti improvvisi che tosto si posano; cammina sollecito, e lietamente contento della vita che lo accarezza, e dell'arte che gli procura profonde, intense ed intime soddisfazioni. Chiacchiera volontieri, con abbandono fiducioso, ed è espansivo cogli amici intimi, colora le frasi a rapidi tocchi, con smaglianti pennellate di parole immaginose, e rifugge dalle noie, da ogni lavoro che non torni armonico alla sua indole libera, alle sue tendenze intellettuali. Sente profondamente l'amicizia, e ne diede ampia ed affettuosa prova nell'assistenza che fece, con altri amici, al povero Roberto Sacchetti agonizzante; simpatizza vivamente per i caduti, per quanti soccombono alle strette della necessità, pur avendo ingegno, ma che non trovano la loro via; per quanti si ribellano alle pressioni ed ai freni artificiosi della esistenza, alle ingiustizie elevate soventi a dignità di legge, dimostrando in tal guisa di essere qualche cosa, una individualità che abborre dall'assorbimento e dallo scoloramento. E sovrattutto egli ama gli spazi ampi all'aria aperta, ossigenata, le linee quiete e grandiose della campagna che baciano l'immensità azzurrina del cielo. Nella sua Saluggia, egli vagabonda osservando e meditando. E nella pace fruttifera della sua camera da lavoro, fra gli alti scaffali che salgono, densi di volumi antichi e moderni, ad intonacare le pareti, fra il silenzio alto che gli è necessario, appena ombrato dalla gaia pispilloria degli uccelli fra gli alberi, egli accatasta le sue nitide cartelle, miniando, con serena coscienza di artista, le idee che gli si affollano festosamente in capo, facendo rivivere le cose studiate con amore, i paesaggi ed i costumi contadini che analizza con estrema finezza, e le scene tormentose dei grandi centri, nei quali si è tuffato come l'ape operosa nel fiore a raccogliere l'essenza mellifera. Ed a Saluggia egli ha composto i suoi migliori lavori, forse perché l'ingegno suo si fa più potentemente produttore sotto l'alito carezzevole della mamma venerata, che in lui giustamente s'inorgoglisce; sotto l'azione della parola tonica, altamente onesta del padre suo, buon vecchio dalla vita intemerata, medico dotto e benefico del suo paesello del quale fu sindaco sin dal Regno di Carlo Alberto, amico caro a Luigi Carlo Farini, con cui faticò eroicamente per combattere il colera in quelle terre, uomo di ingegno aperto e vivace, al quale solo una modestia eccessiva e l'amore ineffabile della casa, della famiglia e del villaggio tolsero di rendersi più largamente noto prendendo più intensamente parte alla vita pubblica. Ed in quel mite e dolce ambiente patriarcale Giovanni Faldella, ormai nella piena virilità del suo forte ingegno, che assurge spiccatamente fra gli ingegni più vigorosi ed originali dei nostri giorni, ci potrà dare nuove opere improntate a gagliardia di concetti e ad elevatezza di intenti, nella schietta rappresentazione della vita. CARLO ROLFI Roma, aprile 1884.

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