Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

. - Ve lo dico per amore di fratello, perché quando ci ho un tesoro, non so essere egoista e tenerlo per me: abbiatelo per prova di affezione, è il trentacinque!… - Ah! - disse il marchese di Formosa, con grande stupore di ammirazione. Intanto, sempre tutto sereno, don Ambrogio Marzano andò a giuocare da don Crescenzo. Veramente aveva dovuto dare le solite quindici lire al suo cabalista ciabattino e ignorante, dieci ne aveva date all' assistito on onPasqualino, sebbene vi credesse poco, e altre trenta gli era costato un viaggio a Marano, da padre Illuminato, per portargli una tabacchiera di tartaruga, ma queste le aveva prese da un anticipo di spese processuali, fattegli da un suo cliente: sicché le duecento lire erano intatte e le giuocò tutte. Gaetano, il tagliatore di guanti, il marito della misera Annarella cui moriva il figliuolo, aspettava il suo turno per giuocare: ma era una dura settimana, non aveva trovato un soldo in prestito e a stento aveva potuto avere una anticipazione di cinque lire dal suo padrone; ne giuocò quattro, conservò la lira per i numeri che avrebbe potuto avere il sabato mattina. Ora, come la notte si appressava, don Crescenzo e i due commessi, stanchi, storditi, avevano una cert'aria inebetita, simili a chi ha assistito a un troppo lungo spettacolo musicale e coreografico, con un abbarbagliamento negli occhi e un assordamento negli orecchi; ma continuavano a lavorare, era la gran messe settimanale, una raccolta di migliaia, di centinaia, di diecine, per il Governo, su cui si prelevava il tanto per cento; e don Crescenzo dava un soprassoldo ai giovani elle buone settimane! Anche la gente che arrivava continuamente a giuocare, adesso aveva un aria curiosa: chi era affannato, chi si guardava attorno con una certa diffidenza, chi si trascinava stanco, chi aveva gli occhi vaganti delle persone che non sono in sé. Erano coloro che solo allora avevano saputo i numeri, o avuto i denari per giuocare; serve che terminato il servizio, prima di andare a letto, scappavano al Banco lotto; commessi di negozio, che avevano chiuso bottega, allora; giovanotti che facevano una scappatina fra un atto e l'altro del teatro Fiorentini; cabalisti del Caffè Diodato delle sale del Caffè Testa d'Oro, he erano clienti di don Crescenzo e che dopo aver lungamente confabulato, capitavano ad arrischiar quanto possedevano, in quella sera! Un magistrato carico di figli e di miseria, che tornando da una partita di scopa, a un soldo, arrischiava le venti lire con cui dovevano mangiare per quattro giorni, in casa; il pittore di santi, malaticcio, smonto, che aveva esatto anticipatamente i denari di una Santa Candida, a quell'ora, e li veniva a giuocare, salvo a rigiuocare, la mattina, quelli promessi da donna Concetta, per la statua di una Immacolata Concezione. Finanche una elegantissima piccola vettura chiusa si fermò e una mano guantata di grigio perla, ingemmata di brillanti al braccio, consegnò una carta e del denaro dallo sportello, a un servitore gallonato: il marchese di Formosa, che per la nervosità aveva lasciato la sedia e si agitava fra i giuocatori che andavano e venivano, riconobbe il profilo di una dama del suo ceto, la spagnuola principessa Ines di Miradois. - È dunque vero che Francesco Althan la spoglia di tutto… - pensò fra sé il vecchio signore. Adesso egli si era unito al dottor Trifari e al professor Colaneri che arrivavano ancora frementi di collera. Per quelle settecentosessanta lire del povero Rocco Galasso, si litigavano da ore e ore, per la divisione: Trifari pretendeva di aver indotto Rocco Galasso, suo compaesano, a firmare e voleva cinquecento lire: Colaneri pretendeva che Rocco Galasso aveva firmato la cambiale, per aver poi il tema dell'esame da Colaneri, compromissione grande che egli, Colaneri, si assumeva tutta e per cui poteva essere destituito, quindi a lui cinquecento lire. La lite era stata tremenda: due volte erano stati per venire alle mani; ma Trifari, a malincuore, sbuffando di collera, cedette, perché sapeva che Colaneri, nella notte, aveva delle rivelazioni, cosa che a lui uomo pletorico, eretico e bestemmiatore, non accadeva; e Colaneri cedette, perché Trifari gli portava molti studenti, con cui egli faceva degli affari per gli esami, affari veramente pericolosissimi, di cui temeva egli stesso, ma a cui cedeva per soddisfare il suo vizio. Infine, si erano divise le settecentosessanta lire. Avevano incontrato l' assistito he aveva domandato loro, in tono da ispirato, se volevano fare la elemosina di cinque lire a San Giuseppe: ed essi dettero le cinque lire, pensando che quella domanda erano numeri, e che dovevano giuocare il cinque, la moneta e il diciannove, che è il numero di San Giuseppe. Tutto ciò che dice l' assistito, l venerdì sera e il sabato mattina, sono numeri. Tanto che Trifari e Colaneri, dopo aver fatto la giuocata sui numeri prelibati, scendevano man mano a giuocar quelli, secondo loro, meno probabili; poi giuocavano, tanto per uno scrupolo, i biglietti popolari, che erano tre o quattro; e infine, appoggiati al grande banco di legno, guardandosi in volto, col sorriso ebete, cercavano ancora, se nulla avessero dimenticato. Malgrado l'ora tarda, la gente continuava a ingombrare il Banco lotto di don Crescenzo, a cui, in quell'ultimo venerdì di marzo, per un riflusso di febbre viziosa, sarebbe toccato un grosso introito; uno di quegli impeti furiosi, collettivi, dell'inguaribile malore che consuma tutte le forze della fortuna napoletana. Erano persone che escivano dai teatri e che avendo pensato tutta la serata a un biglietto da giuocare, non volevano rimandarne al sabato l'esecuzione, per paura di dimenticarlo, nella breve mattinata; erano dei cocchieri di carrozze da nolo, di notte, che si fermavano innanzi alla bottega, scendevano dalla cassetta e aspettavano il loro turno di giuocata, con la indivisibile frusta in mano e gli occhi pazienti di chi è uso alle lunghe aspettazioni; erano quei laceri, miseri venditori ambulanti notturni, figure piene di ombre, che la vivida e calda luce del gas faceva fremere di timidità, il venditore di giornali, il venditore di frittelle, il trovatore di mozziconi, il venditore di pizze, l lupinaio, il venditore di gramigna per i cavalli delle carrozze di notte, tutti, passando, volta a volta, gridando la loro merce, si erano fermati innanzi al posto i lotto ed erano entrati, non potendo resistere alla voglia di giuocare una lira, mezza lira, sei soldi; vennero il conduttore e i due facchini dell' omnibus he aveva portato all'albergo dell' Allegria viaggiatori arrivati con l'ultimo treno, mentre i conduttori e i cocchieri degli omnibus n piazza della Carità, man mano che le corse finivano, e che essi dovevano ritirarsi stanchi morti, prima di andare a casa, erano venuti a giuocare il loro biglietto. Intanto Formosa non si era deciso a giuocare, con quella specie di transazione col tempo, che fanno tutti i grandi amanti e i grandi appassionati: sulla soglia della bottega, da un canto per far passare la gente, egli discorreva con Trifari e Colaneri, che neppure volevano andar via, malgrado avessero esaurito il piacere della giuocata, stando lì per godere di quella luce, di quel caldo, di quelle persone, di quei denari che fluivano, di quei polizzini che partivano, pegni di fortuna, pegni di ricchezza, fantasticando in quale di essi vi fosse la verità. Quale, quale? Ecco il dubbio tremendo e dolce, l'ignoto immenso e ardente, il mistero che vi sorride a traverso i suoi veli, che non si sollevano. Dopo aver fatto una passeggiatina per Toledo, non potendo resistere, l'avvocato Ambrogio Marzano era ritornato anch'esso e si era unito al gruppetto dei suoi amici cabalisti che confabulavano fittamente. Incapace di non parlare del suo numero, del suo fulmine, aveva detto il trentacinque, il famoso trentacinque, tanto che Colaneri e Trifari erano rientrati per giuocarlo, e lui, Marzano, era rientrato per giuocare il sessantatré datogli da Colaneri. No, Formosa non giuocava ancora. Ma il termine della voluttà si approssimava ed egli sentiva l'imminenza del gran momento: e mentalmente, in uno dei suoi fervidi slanci mistici, pregava il Signore, la Madonna di casa Cavalcanti, l' Ecce Homo he egli venerava nella sua cappella gentilizia, perché lo illuminassero, lo ispirassero, perché gli facessero l'unica, la suprema grazia che egli chiedeva da anni. Di nuovo, i suoi amici, dopo aver bevuto questo altro piccolo sorso di piacere, erano esciti fuori e parlottavano vivacemente di numeri, eccitandosi in quelle grandi ombre che oramai regnavano su Toledo, spezzato da quel quadrato luminoso che gittava sul marciapiede la luce del Banco lotto. In quest'ora videro entrare anche Cesare Fragalà. Dopo aver chiusa la bottega, il gaio pasticciere andava sempre a passare un paio di orette al suo Circolo, dove giuocava al domino, con altri commercianti di coloniali, di panni, di agrumi, di olio, di baccalà, arrischiando un soldo a ogni partita. Il venerdì sera, anche giuocava quelle lunghe partite, ma distratto, un po'nervoso, attraverso la sua inesauribile giocondità giovanile; e scappava via un po'più presto per andare dal suo caro don Crescenzo, a fare la sua gran giuocata settimanale. Veramente, al suo ardore di giuocatore si mescolava una certa ritrosia, come un piccolo senso di rimorso, una vergogna di buttare il suo denaro in quella maniera; e perciò arrivava al Banco lotto molto tardi, quando vi era minor gente che lo vedesse, che lo conoscesse; e quella sera, al saluto di Formosa, rimase interdetto, gli seccava di essere stato veduto dal suo vicino. Poi, si strinse nelle spalle e fermatosi presso il suo carissimo amico don Crescenzo, che continuava a scrivere, piegando la sua bella barba nera sul petto e facendo una quantità di volatine eleganti con la penna, si mise a dettargli de'numeri, a lungo, a lungo, mostrando i suoi denti bianchi, in un sorriso. Don Crescenzo scriveva, imperturbabile: da sei mesi che Cesarino Fragalà giuocava al suo Banco lotto, ogni settimana le somme arrischiate venivano crescendo. E in quel fluire di numeri dettati, don Crescenzo riconosceva, con la sua osservazione particolare, i numeri dati dall' assistito, ioè per simbolo, e che ognuno aveva interpretati a suo modo, tanto che Formosa, Colaneri, Trifari, Marzano, Ninetto Costa e Cesare Fragalà, e quanti prendevano la sorte dalle parole di don Pasqualino, giuocavano numeri diversi, molti numeri, così che ognuno di loro, ogni tanto, finiva per fare qualche piccolo pericolosissimo, guadagno, quindici o venti scudi sopra un numero situato, eicento lire sopra un ambo: raramente, è vero, ma tanto da attizzare fatalmente la loro passione e da renderli schiavi di tutte le nebulose frasi di don Pasqualino. Per il che, con un lieve sorriso, mentre faceva la somma delle giuocate, don Crescenzo disse: - Voi pure siete cliente di Pasqualino De Feo? - Lo conoscete? - disse ansiosamente Cesare Fragalà. - Eh, siamo amici…- mormorò don Crescenzo. - Sa i numeri, non è vero? - chiese Cesarino, con un tremito nella gola. - Spesso… - Come, spesso? - Quando il cliente è in grazia di Dio, - rispose il postiere, enigmaticamente. E volendo finire il discorso, con un atto gentile, consegnando i polizzini, disse al negoziante di generi coloniali: - Cinquecentoquaranta. Quello pagò flemmaticamente, con la tranquillità del negoziante, senza che la sua fisonomia si turbasse. Ma quando fu uscito dal Banco lotto, sulla porta, cadde il suo sorriso e si rammentò di aver fatto in quel giorno il suo primo debito usurario, si rammentò di aver dato fondo ai cassetti della bottega, levandone tutto l'introito, per formare quella grossa cifra che aveva giuocata. Fu per distrarsi da quei dolorosi pentimenti, che si unì al gruppo dei cabalisti. All'una dopo mezzanotte, fermi innanzi alla bottega del giuoco, essi non sentivano né l'ora che passava, né la notte avanzante, né l'umidità penetrante, ardendo del loro continuo fuoco interiore, che nella notte dal venerdì al sabato divampava. E lungamente, interrompendosi, ricominciavano mille volte le stesse istorie, riscaldandosi, eccitandosi, guardandosi in faccia con gli occhi stralunati e vividi di fluido, quasi fossero allucinati. Cesarino Fragalà ascoltava, cercando di prendere la medesima febbre, ma non riuscendovi; era uno spirito debole, niente altro, ma senza pazzie, senza nervosità. E quando tutti enumeravano le ragioni per cui giuocavano, la tale necessità materiale o morale, il tale bisogno urgente, impellente, a cui soltanto il lotto poteva dare un appagamento, egli ascoltava con malinconia; e a un certo punto egli potette dire: - Oh io… io… ho bisogno di sessantamila lire per aprir bottega verso San Ferdinando e fare la dote alla mia Agnesina. Una infinita tristezza lo teneva. Buono, onesto, incapace di mentire a sua moglie per qualunque cosa, egli la ingannava da molti mesi, come un ciurmadore, le toglieva di mano i libri di cassa, che ella spesso si fermava a sfogliare, cercava di nasconderle il suo vizio, con una cura di tutte le ore, smarrendo così il buon umore e la quiete. - Se non fosse questo magazzino… se non fosse per Agnesina…- mormorava, in preda a un rammarico inconsolabile. Adesso, verso l'una e mezzo di notte, veniva il momento di chiudere il Banco lotto, poiché la clientela si era fatta più rada, più rada, e il marchese di Formosa, deciso alla fine, entrò nella bottega del giuoco, a giuocare. Con la nota in mano, dicendo lentamente i numeri a don Crescenzo, un lieve tremito agitava la sua voce: e gli occhi fissavano la carta, dove aveva scritto la lunga filza delle cifre, quasi per una subitanea emozione di piacere. La bottega del giuoco, oramai, diventava deserta; e gli amici cabalisti, Colaneri, Trifari, Marzano, menando seco anche Cesarino Fragalà che si sentiva infelicissimo, si erano messi dietro al marchese di Formosa, ascoltando i numeri, battendo le palpebre per approvazione, o crollando il capo in segno di sfiducia, infine assistendo a quella non breve operazione del giuoco di Cavalcanti, con la gravità dei preti, che assistono il vescovo nel pontificale. Dietro il banco di legno, don Baldassarre, il vecchio decrepito, don Checchino dalla faccia smorta, stavano immobili, con gli occhi socchiusi, stanchi morti di quella sgobbata di dieci ore, pensando all'altra sgobbata dell'indomani, dalle sette all'una, nel grande ardore dell'ultima ora. Solo don Crescenzo conservava la sua disinvoltura e la placida beatitudine del napoletano, che ha il suo piatto di maccheroni assicurato, e che serenamente assiste alla corsa affannosa degli altri, dietro il fantastico piatto di maccheroni, o dietro molti fantastici piatti di maccheroni, nel grande, immaginoso paese di cuccagna. Carlo Cavalcanti, infervorato, giuocava, tanto che al pagare vi mise le lire che il suo cameriere Giovanni s'era fatto prestare dalla usuraia Concetta, le lire che la sua cameriera Margherita s'era fatte prestare dall'usuraio don Gennaro Parascandolo, e settanta lire che aveva avute dal Monte di Pietà, impegnando due antichi e artistici candelabri di bronzo dorato, ritrovati in una stanza di vecchiumi, a casa Cavalcanti, in tutto duecentoventi lire; e rimase pallido, scontento, malinconico, a un tratto sfiduciato sul valore di certi numeri, dolente di non aver potuto arrischiare di più su certi altri, e infine disperato di non poter giuocare tutti gli altri, utti quelli che erano nei suoi calcoli. Così l'amante, dopo aver lungamente desiderato un colloquio con l'amata, quando l'ha ottenuto, ne vede fuggire i momenti con rapidità crudele e, dopo, resta profondamente addolorato per non aver detto una parola di quello che sentiva, alla donna sua. Quel vecchio, in cui l'età non arrivava a domare la furiosa passione, piegava il capo, subitamente accasciato come se avesse vissuto dieci anni in un minuto; e lento, tacito, uscì con gli altri, lenti e muti, per la via buia, andandosene a casa sua. Avevano freddo, tutti, in quell'inoltrata ora notturna; li vinceva un brivido sottile, per cui si stringevano nei soprabiti e abbassavano la testa, senza parlarsi fra di loro. Così arrivarono in piazza Dante, sotto il palazzo Rossi, già Cavalcanti, e il discorso cabalistico ricominciò; due o tre volte andarono su e giù nella piazza, mentre la candida e severa statua del poeta parea li sdegnasse, con le sue bianche occhiaie vuote. Conducevano seco il povero Cesarino Fragalà, corroso adesso da un pentimento invincibile, per aver buttato via tanto denaro, il denaro della sua famiglia, quello della sua Agnesina: ma era inutile, egli giuocava, perché era una creatura debole e allegra, cui pungeva un po'di ambizione commerciale; non sarebbe mai stato un cabalista, la pazzia negli altri lo sorprendeva dolorosamente, ma non gli si comunicava. Pure, restava con loro, quasi non avesse la forza di rientrare a casa, per coricarsi accanto a sua moglie, con quel rimorso di aver gittato cinquecento lire; e ogni tanto, distraendosi, si metteva a guardare le ombre della gran piazza, fisamente, quasi si vedesse apparire qualche visione straziante. A un certo punto, Marzano salutò e si allontanò, verso l'arco di Porta Medina, abitando egli a via Tribunali: ma gli altri continuarono ad andare su e giù, farneticando in quell'oscurità, in quel freddo, che non sentivano più: e più fremente di tutti, il marchese Carlo Cavalcanti, dagli occhi scintillanti, la cui figura si ergeva nella oscurità, forte e salda, simile a quella di un uomo trentenne. Poi, a un certo punto, si licenziarono Colaneri e Trifari, che abitavano ambedue in una povera casa del Cavone. Allora Formosa continuò, monologando, dirigendo la parola a Cesare Fragalà, o alle tenebre, o a sé stesso: e pian piano, discendevano verso Toledo, un'altra volta, quando una tranquilla voce li salutò: - Buona notte a questi miei signori. - Buona notte, don Crescenzo, - disse il marchese. - Avete chiuso, eh? Buona giornata. - Trentaduemila cinquecentoventisette, - disse d'un fiato il tenitore del Banco. Vi fu un silenzio. - Voi non giuocate, don Crescenzo? - domandò Cesarino Fragalà. - No, mai. Buona notte. - Buona notte. Egli si allontanò, sveltamente. Essi, visto che il Banco lotto era chiuso, oramai, tornarono indietro, pesantemente. E fu con un sospiro, che bussarono pianamente al portone del palazzo: rincresceva loro di tornare a casa. Si licenziarono, al primo piano, con una stretta di mano e un'occhiata di allucinati.

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