Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbiate

Numero di risultati: 15 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Cipí

206568
Lodi, Mario 2 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Forse lui potrebbe accontentarvi: non abbiate timore se fischia, se scompiglia le piume o urla nei camini; un piacere non lo rifiuta mai. Addio! — E scomparvero all'orizzonte. Ed ecco che un giorno il vento, ansante per avere spinto sin lí dalla montagna una pigra nuvola nera, riprese fiato sopra il tetto e Cipí e Passerì gli gridarono: — O buon vento, aiutaci a svelare il mistero del signore della notte ai nostri amici che non ci credono, abbi pietà di tante mamme che piangono! Il vento si asciugò il sudore, scrollò il capo e brontolò: — Quel mascalzone se la merita davvero una lezione! — Ci aiuti dunque? — chiesero trepidanti Cipí e la passeretta. — Ora non posso perché ho molto da fare ma appena finito il mio lavoro vi prometto che vi aiuterò —. Poi si buttò nel cortile per vedere se era pulito e poiché da tanto tempo il custode non lo scopava, buttò in aria la polvere, i pezzi di carta e le foglie secche, brontolando. E se ne andò spingendo la nuvola nera. — Com'è buono il vento! — sussurrò Passerì felice al suo compagno. — Chissà però fin quando dovremo aspettare. — Ci vuole pazienza, — rispose Passerì, — chi è nel giusto deve saper attendere.

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Non abbiate paura delle ombre... fissate la nostra luce e venite... fissate la nostra luce e venite... venite... Cipí, che sino a quel momento era rimasto senza fiato, sussurrò a Passeri: — Vieni a vedere, Passerì... due stelle del cielo sono calate sul tetto e parlano... La passeretta, incuriosita, si fece accanto a Cipí. Le luci delle due stelle intanto non si stancavano di invitare: — Ogni sera, appena Palla di fuoco è scomparso, noi verremo a conversare con voi, gentili passeretti... Fissate la nostra luce e venite senza paura... fissate la luce e venite... Passerì fu percorsa da un brivido, si strinse a Cipí e sussurrò: — Ho paura, Cipí, tanta paura... — Paura di due stelline discese dal cielo? — No, Cipí, — esclamò la passeretta tremando tutta, — quelle non sono due stelline... quelli sono occhi parlanti... non vedi che dietro a loro c'è un'ombra nera? È lui! A quelle parole Cipí fece un salto indietro: — È lui! si, è vero... quella è la testa... quello è il becco uncinato... uh, che unghioni ha! Allora in silenzio si ritirarono sotto la tegola e da una fessura dalla quale potevano vedere senza essere visti, osservarono la scena. — Fissate la nostra luce e venite senza paura... noi vi porteremo dove c'è la felicità — ripetevano gli occhi parlanti senza stancarsi mai. A quel punto si senti sui tetti uno zampettío leggero: due uccellini si avvicinavano incantati alle luci che continuavano a ripetere: — Avanti, cari uccellini, non abbiate timore, noi vi portiamo nel regno della felicità senza fine... — Li conosci? — chiese Cipí alla compagna. Le due luci mandavano ora bagliori vivissimi ed era facile riconoscere tutt'intorno le cose. — Uno è figlio di Cippicippi e l'altro mi pare il figlio di Chiccolaggiú. — Avvertiamoli! — disse Cipí. Ma non fece a tempo ad aprir becco perché i due uccellini in quell'istante spiccarono il volo verso le luci e quando arrivarono là, il signore della notte li afferrò con gli unghioni, spense le luci e la notte tornò buia e silenziosa come prima. Dove c'erano le stelline restò, vuoto e nero come una tomba, il buco del signore della notte: degli uccellini nessuna traccia. — Mascalzone! — esclamò Cipí. — Altro che nutrirsi di ombre di comignoli! — È incredibile... è una cosa incredibile... - ripeteva sbalordita Passerì. — Ora che il mistero è svelato ho paura, tanta paura che lui ci faccia del male. Ucciderà i nostri figli? — Per i nostri figli e per tutti dobbiamo fare qualcosa, — concluse Cipí. E tutta la notte pensarono che cosa avrebbero potuto fare.

Pagina 88

I ragazzi della via Pal

208192
Molnar, Ferencz 3 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Non abbiate paura di me. Ditemi la verità. Io devo sapere se avete accusato ingiustamente mio figlio o se merita di essere punito! Nessuno rispose. Nessuno voleva amareggiare quell'uomo col cappotto che sembrava buono ed era così premuroso del carattere di suo figlio. Il signore si rivolse a Colnai: — Tu hai detto che vi aveva traditi. Devi provarmelo. Quando vi ha traditi? In che modo? Colnai balbettava: — L'ho... sentito dire... — Questo conta poco. Chi sa qualcosa di certo? Chi l'ha visto? Chi sa? In questo momento dalle fortezze sbucarono Boka e Nemeciech: Richter li guidava. Colnai respirò liberato: — Scusi — disse —. Ecco, c'è quel biondino... quel Nemeciech... quello l'ha visto. E sa tutto. Aspettarono fin che i due ragazzi furono nelle vicinanze, ma Nemeciech si dirigeva verso la porticina. Colnai gridò loro: — Boka! Venite un po' qui! — Ora non si può — rispose Boka —. Vogliate aspettare. Nemeciech si sente molto male. Ha un attacco di tosse. Bisogna che lo accompagni a casa. L'uomo dal cappotto quando udì il nome di Nemeciech gli chiese: — Sei tu Nemeciech? — Sì... — disse sottovoce il biondino; e si accostò all'uomo barbuto. Questi gli disse severo: — Io sono il padre di Ghereb e sono venuto per sapere se mio figlio è o non è un traditore. I suoi compagni dicono che tu lo sai perchè l'hai veduto. Rispondimi allora in coscienza: è vero o non è vero? Il viso di Nemeciech ardeva di febbre. La malattia lo aveva ghermito. Le tempie gli martellavano; la mano bruciava. E tutt'intorno il mondo gli appariva così strano! Quello zio con la barba che parla con una voce severa come il professore Raz parla agli alunni negligenti... tutti quei ragazzi... la guerra... le sue inquietudini... tutto... e quella domanda che faceva capire che se Ghereb era veramente traditore sarebbero accaduti grossi guai... — Rispondimi! — incalzava l'uomo con la barba — Parla! Rispondi! E' un traditore? E il biondino rispose coraggioso, col viso fiammeggiante di febbre, con gli occhi brillanti di febbre, ma sottovoce come se il colpevole fosse stato lui, rispose: — No! Non è traditore... II padre allora si rivolse minaccioso verso gli altri: — Allora avete mentito voi? La Società dello Stucco era sbalordita. Nessuno fiatava! — Avete detto una bugia, allora? — disse ghignando l'uomo dalla barba. Sapevo bene che mio figlio era un ragazzo onesto! Nemeciech si reggeva appena. Chiese modesto: — Posso andarmene? L'uomo con gli occhiali gli rise sul naso: — Puoi andartene, piccolo «sa-tutto»! E Nemeciech barcollò sulla strada a fianco di Boka. Tutto si confondeva davanti ai suoi occhi. Non distingueva più nulla. Un miscuglio ballava davanti al suo sguardo dove c'erano l'uomo nero, la strada, le cataste di legname e parole strane gli ronzavano all'orecchio «su, alle fortezze», «mio figlio è un traditore?» E l'uomo nero che rideva beffardo allargò una bocca che era la porta della scuola e dalla porta usciva il professore Raz e Nemeciech si tolse il berretto. — Chi saluti? — gli chiese Boka — Non c'è nessuno. — Saluto il professor Raz — disse piano il biondino. E Boka si mise a piangere. Sorresse, trascinò con sè frettolosamente il piccolo amico per la strada che si rabbuiava. Intanto, nel campo, Colnai così parlava all'uomo con gli occhiali: — Scusi, signore, ma quel Nemeciech è il bugiardo. Noi lo abbiamo proclamato traditore ed espulso dalla nostra società. Il padre era felice ed approvava: — Si capisce subito. Ha un viso ipocrita. Ha la coscienza sporca. E tornò lieto a casa per perdonare al figlio. Sull'angolo del viale Ulloi intravide ancora Boka e Nemeciech il quale barcollava lungo il muro, dall'altra parte della strada. Anche Nemeciech stava piangendo, triste, desolato di tutta la desolazione del suo cuore di soldato senza grado, e in questo pianto febbrile ripeteva sempre queste parole sole: — Hanno scritto a lettere minuscole il mio nome... a lettere minuscole il mio nome onesto...

Pagina 146

Il libro della terza classe elementare

211120
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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È naturale quindi che non tutti abbiate viaggiato. Ma è un peccato, perchè non potete immaginare quanto sia grande il mondo e guaiti a gente vi sia anche molto diversa da noi che veste diversamente, che mangia diversamente, che parla le lingue più diverse. Potete formarvi un'idea della grandezza della terra guardando la carta topografica anche della vostra provincia, dove il vostro paese ed la vostra città sono indicate con un punto. Ebbene la vostra provincia che è tanto grande rispetto al vostro paese, non è che una delle 92 provincie che formano l'Italia, e che sono grandi, su per giù come la vostra. L'Italia quindi vi apparisce come immensa... Eppure anch'essa è molto, ma molto piccola, rispetto alla terra. Al di là della gran catena di monti che la cingono a Nord e che si chiamano «Alpi» vi sono altri paesi, e poi altri ancora, dove si parlano altre lingue, vi sono altri monti, altri fiumi, altri laghi, altre campagne; e grandi boschi, e molte grandi città, e piccoli paesi, tanti che non si possono contare.

Pagina 357

La freccia d'argento

212171
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Pagina 52

Tutti per una

214893
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
  • paraletteratura-ragazzi
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Non abbiate timore, povere creature! Fatevi avanti, da bravi! Sono io, Melchiorre. Il vecchio Melchiorre che vi vuole tanto bene... Coraggio! Per primi arrivarono gli uccelli. Ghiandaie, cincie, scriccioli, colombi e piccioni. Cinguettavano, zampettavano, beccuzzavano, sempre inquieti e sospettosi. C'era da domandarsi com'è che non gli andasse tutto di traverso, con quella frenesia di movimenti: non stavano fermi un solo minuto e volavano via appena in possesso della preda. Poi si fecero avanti i gatti randagi, occhi famelici e corpi segnati dalle battaglie. Si avvicinavano cauti, tra mille esitazioni e ripensamenti, fermandosi a ogni momento per guardare in giro, come fossero indifferenti agli stimoli della fame. Poi, con uno scatto, afferravano un po' di cibo e si nascondevano tra i cespugli, miagolando sordamente per tener alla larga i concorrenti. Ultimi vennero i cani. Cani tristi di solitudine. Afflitti e stanchi nell'incedere, il corpo raccolto a parare i colpi della vita, la coda tra le gambe, l'occhio guardingo e pensoso. Prima di consumare la loro parte, andavano a mendicare qualche carezza dal vecchio Melchiorre. E lui aveva per tutti una buona parola. Passo a passo, si avvicinò anche il professore. - Ma da dove arrivano i cani? - chiese. - Da un buco nel muro di cinta, laggiù in fondo. Vedi? Dove c'è quel frassino. Il professor Zambelli si sentì rimescolare il sangue nelle vene. Cercando di controllare la voce che gli tremava in gola, chiese: - Non è che ieri sera hai visto un bastardino alto all'incirca così, rossiccio, con un collare grigio? - Fammi pensare... Ma sì, sicuro, ora ricordo. Continuava ad abbaiare, poveretto. Sembrava disperato. - È il mio Argo! - esclamò il professore, senza sapere se gioire o preoccuparsi. Domande senza risposta si affollavano trepide nella sua mente. Perché Argo non era rimasto con il giornalaio cui l'aveva affidato? Era fuggito per venire a cercarlo? Qualcuno l'aveva trattato male? O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.

Pagina 40

le straordinarie avventure di Caterina

215733
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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Vi racconto anche questo, perché non abbiate a meravigliarvi se incontrerete Tit con un soldo bucato appeso al collo. — Andamo via, — disse la bellissima Principessa. Ma prima molto gentilmente volle fare una suonatina sulla chitarretta che aveva al collo. La canzone diceva:

Pagina 70

Il Plutarco femminile

217654
Pietro Fanfano 1 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

Pagina 118

C'era una volta...

218748
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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non abbiate paura. - Il Re gli diede un pugno sulla gobba e questa sparì. — Maestà, datemi una tiratina alle gambe! non abbiate paura! - Il Re gli diè una tirata alle gambine, e queste, di bòtto, gli si raddrizzarono. — Maestà, afferratemi bene, la Regina per le braccia e voi pei piedi, e tiratemi forte. - Il Re e la Regina lo afferrarono l'uno pei piedi, l' altra per le braccia, e tira, tira, tira, il Nano, da nano che era, diventò un bel giovine di alta statura. Il Reuccio del Portogallo si persuase ch'era di troppo e disse: — Datemi almeno quel cavallo: farò la strada più presto. — Montò sul cavallo di bronzo, e dette le parole fatate, in un colpo sparì. La Reginotta e il Nano (lo chiamarono sempre così) furono moglie e marito. E noi restiamo a leccarci le dita.

Pagina 184

— Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d' oro. — C era una volta.... 15 Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare. Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d' oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina. Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d' oro straluccicava. Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare: — Dimmi la ventura di Serpentina. — Buona o cattiva, Maestà? — Buona o cattiva. — La zingara prese in Mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrol- lava la testa. — Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa? — Maestà, veggo guai! — E non c' è rimedio? — Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba. — O dove trovare questa Fata gobba? — Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! senza voltarvi in dietro. All'ottavo giorno vi troverete davanti a una grotta: la Fata gobba abita lì. — Va bene, — disse il Re — partirò domani. - Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada: Maestà! Maestà! — Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana: — Ahi! m' ammazzano! ahi! — Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l' anima!... E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo. — Bada! bada! — Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare: — Fata gobba! Fata gobba! — Gobbo sarai te! — rispose una voce. E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba.

Pagina Titolo

Il ponte della felicità

219004
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Allora, con l'accento più dolce che potè trovare, disse al vogatore: - Abbiate la bontà di aspettare un momentino. Questo ponte è di Alvise, e lo toglierà appena si sarà cambiato. Scusate. - Evidentemente la pazienza non era una delle virtù dell'omaccione, che, senza aggiunger parola, si distese quasi supino sulle sue doghe e lasciò che la chiatta andasse alla deriva. Oltrepassata la trave, si rialzò, non senza fatica, poi si rivolse alla fanciulla e le disse, con una voce che pareva venire da cavernose profondità: - Beh, per questa volta è andata così, ma ti avverto che un'altra volta prendo Alvise e il suo ponte e vado a gettarli in mezzo alla laguna! - Afferrò i remi, diede una spinta alla chiatta, volse di nuovo il capo verso Lori e le urlò, tra un lampeggiare di bianco e di nero (bianchi i denti, neri gli occhi grifagni): - Capito? - Sì, sì, Lori aveva capito! E tanto bene, anzi, da temere che quell'orco infuriato tornasse indietro ed eseguisse ipso facto la sua minaccia. Naturalmente, in mancanza di Alvise, il volo nella laguna sarebbe toccato a lei! Rabbrividì dal capo alle piante come se già si trovasse immersa in quel bagno non desiderato; ma la chiatta continuò sicura, sebbene lenta, la sua strada, mentre il lieve sciabordio dell'acqua lungo i fianchi dell'imbarcazione sonava agli orecchi della fanciulla come la musica più soave del mondo! La chiatta era appena svoltata all'imbocco del canale, quando Alvise ricomparve con una bracciata di panni gocciolanti. Per la prima volta da che il fanciullo si serviva di quel passaggio aereo, Lori lo attese senza tremare, tanto la paura dell'omaccione bruno aveva soffocato in lei ogni altra considerazione. - Alvise, - gli gridò - se tu sapessi...! - Che c'è, Lori? - È passata una chiatta. - Alvise non capiva. - Quale chiatta? - Se tu avessi visto che barbaccia e che occhiacci neri! - Il fanciullo si mise a ridere. - Una chiatta con gli occhi e con la barba? - Ma no, non scherzare!... - disse Lori indispettita. - Non c'è proprio niente da ridere. Era un omone, e ha gridato: «Ehi, dico!», poi si è sdraiato sul fondo della barca, è passato sotto alla trave e ha vociato: «Un'altra volta butto nella laguna Alvise e il suo ponte. Capito?», - spiegò la bimba tutto di un fiato. Con la coda dell'occhio Alvise sbirciò il rio. Era di un bel verde lucente, tra i muriccioli rossigni, e il sole, già molto caldo, gli dava un tremolio impercettibile. Ma la bellezza maggiore, almeno agli occhi indagatori del ragazzo, era la sua assoluta tranquillità. Allora, facendosi coraggio, disse a Lori, con aria spavalda: - Non aver paura, via!... Se quell'uomo ritornerà, lo concerò io per le feste! - Ad ogni buon conto, posati sull'erba i suoi panni fradici, si affrettò a togliere là, trave. Non si sa mai!... La balda sicurezza che spirava dalle parole di Alvise aveva dissipato la paura della fanciulla. Poteva infatti non sentirsi tranquilla con un paladino di quel genere?! - Ora andiamo a stendere i tuoi vestiti. - Girarono attorno al gruppetto delle acacie dietro alle quali c'era una radura erbosa, e stesero i panni bagnati agli ardenti raggi del sole di agosto. - Ecco fatto! - disse Lori, soddisfatta. - E ora che si fa? - Giochiamo alla bottega. - Era il divertimento preferito dai due fanciulli: consisteva neI disporre sopra una specie di banco di vendita tanti mucchietti di polveri colorate che Lori prendeva dallo studio del babbo, notissimo pittore; poi fingeva di essere una massaia e veniva a faiie gli acquisti. Quando erano stanchi di «fare alla bottega», si divertivano a mischiare le polveri, rosso, azzurro, giallo, bianco, per vedere quali altre tinte saltavano fuori. Inutile dire che, dopo un'oretta di quei passatempi, mani, vestiti, visi, e perfino i capelli avevano assunto tutte le sfumature dell'iride, con grande disperazione di nonna Bettina e di madonna Lucrezia, madre di Lori. Alvise avrebbe accolto la proposta della fanciulla, con grande entusiasmo, ma si ricordò in tempo che aveva indossato il vestito delle feste, in sostituzione di quello zuppo d'acqua, e che se lo avesse insudiciato la nonna avrebbe avuto doppio motivo di castigarlo. Suggerì dunque un altro giuoco, subito accettato da Lori. E per un bel pezzo, nella quiete dell'orto, sotto l'ombra dei rami fronzuti delle acacie, fu tutto un correre e cicalare dei due fanciulli, all'unisono con il cinguettio degli uccellini che svolazzavano sugli alberi.

Abbiate fiducia in Lui. - Se non nutrissi la certezza del suo aiuto, come potrei vivere ancora? - Madonna Lucrezia, Dio vi ha dato per consolazione la vostra Lori! - Avete ragione, nonna Bettina; mia figlia è un angiolo! - Mentre le due donne chiacchieravano, Loredana era uscita nel minuscolo orticello attiguo alla casa, tenendo sempre infilato nel braccio il paniere che conteneva l'acquarello eseguito all'alba. Voleva attendere lì Alvise, per andare poi con lui, come tutte le mattine, a fare la spesa: ella sostituiva in ciò la madre cieca, e lui, la nonna troppo avanti negli anni. In mezzo all'orto i larghi rami del tiglio, fioriti e olezzanti, si stendevano sul murmure soave del rio che scorreva tra i muriccioli di cotto rossigno. Oltre il secondo muricciolo si stendeva l'altro orto, fremente di sottili acacie col tronco avvinto di vite vergine, come la facciata della casa che s'intravedeva laggiù in fondo, tra l'intrico dei rami. Quanti ricordi le tornavano alla mente rivedendo il luogo dove la sua bella infanzia era trascorsa! Non avrebbe mai potuto dimenticare quel lembo sereno di terra. C'era ancora, lì a sinistra, appoggiata al muricciolo, la trave tutta verde di museo che Alvise gettava come un ponte sul rio per poter passare nel suo orticello dove lei lo attendeva trepidante nel timore di vederlo cadere nell'acqua quieta ma profonda! Ricordava quel lontano giorno d'estate in cui era finalmente accaduto il fattaccio!... Anche adesso risentiva il brivido provato allora al tonfo del corpo che cadeva nell'acqua, e le pareva di rivedere l'orco barbuto che era passato con la chiatta carica di doghe e aveva minacciato (che fosca luce in quegli occhi che si erano voltati a guardarla!), di gettarla in mezzo alla laguna. Tutto, per fortuna, era finito bene, ma Loredana non aveva mai potuto vincere la paura che le faceva quel passaggio da un orto all'altro. E anche ora, che erano trascorsi quattro anni e la casa e l'orto non le appartenevano più, vi ripensava con un tremito per tutta la persona. Chiari mattini di primavera, quando i rami cominciavano a rinverdire e le rondini volavano gioconde, chiamandosi l'un l'altra; lunghi pomeriggi estivi, quando ogni cosa intorno taceva come annientata dalla calura, e gli alberi e le zolle emanavano un profumo che stordiva; malinconiche sere autunnali, punteggiate dai richiami dell'assiolo nascosto chissà dove e dal fruscio delle foglie ingiallite che il vento e l'acqua trascinavano via, come sembravano lontani al ricordo nostalgico di Loredana! Oltre i tronchi delle acacie rivedeva la serena figura del padre, che con lo sguardo rivolto in alto mirava il cielo sconfinato sul quale erravano nuvolette vagabonde. E laggiù, intorno all'aiuola fiorita, non era forse la mamma che si aggirava leggera, cogliendo le rose olezzanti, come era solita fare, per portarle a Gesù? Ahimè, no! Era soltanto un raggio di sole che scherzava tra i rami agitati dalla brezza marina che giungeva dal largo e s'insinuava fra le strette calli con un lieve brusio! - Ebbene, Lori, stai forse contando le foglie degli alberi? - La fanciulla era tanto assorta nel ricordo di quei giorni lontani che non aveva udito l'avvicinarsi dell'amico, e sussultò al suo richiamo. Volse verso di lui il chiaro viso incorniciato dagli aurei capelli, e gli sorrise, festosa. - –.... stai forse contando le foglie.... Alvise aveva ora diciassette anni, ma era alto e robusto come un giovane di venti. Ben fatto, bruno di carnagione e di capelli, con le pupille nere e lucenti, possedeva una innata finezza di modi che lo rendeva simpatico a tutti. Aveva ereditato dal padre, Zuambattista Benedetti, capitano della Santa Cattarina, la passione per la vita di mare, passione che preoccupava la vecchia Bettina, la tenera nonna che gli aveva fatto da madre e lo adorava. Anche Lucrezia Sagredo aveva amato maternamente il piccolo orfano, e Loredana era stata per lui una sorellina affettuosa e piena di premurose attenzioni. La vicinanza delle loro casette aveva favorito quell'atmosfera di familiarità che per l'orfano Alvise era stata di grande aiuto e conforto. A sua volta egli aveva dato molta parte di se stesso alle due Sagredo allorchè la disgrazia le aveva colpite. Avrebbe desiderato perfino di ospitarle nella sua casetta; ma Lucrezia non aveva voluto recare tanto disturbo ai suoi buoni vicini, ben sapendo quanto fosse piccolo il loro nido e quanto modesto il loro tenore di vita. - Oh, Alvise, mi hai fatto paura! - Il giovane capi che Loredana era immersa in malinconiche reminiscenze e volle distoglierla subito con alcune frasi scherzose. - Tornando a casa ho veduto il tuo protetto, anzi i tuoi protetti. Tutti e due erano più eleganti del solito! - Dove erano, Alvise? - chiese Loredana, mentre - gli occhi le brillavano di gioia. - Stavano dietro campo San Barnaba, vicino al rio Malpaga. - E che facevano? - Come al solito, stavano deliziando i timpani dei passanti. Si trattava del vecchio senatore girovago e del suo inseparabile compagno, il cane lupo. La scimmietta era morta da tanto tempo, con grande rimpianto del vecchio che si era trovato privo di una vivace compagnia, nonchè di una fonte di guadagno. Loredana, nonostante le sue crescenti ristrettezze, aveva sempre trovato il modo di venire in soccorso del povero senatore; e questi, che con gli altri era ispido e scontroso al pari del suo cane, aveva per la fanciulla delicatezze veramente commoventi. Quante volte, di ritorno dai suoi giri in terraferma, aveva portato a Loredana fasci di fiori còlti lungo le prode dei fossi o sulle rive del Po, Il fiume superbo che bagna tanta parte di terra Italica! E la fanciulla gradiva molto quel dono, anche se, dopo tante ore di cammino sotto il sole e nella polvere, i fiori del buon vecchio avevano perduto la loro freschezza. - Bravo Alvise! Tu parli del Màuria, - (il sonatore girovago veniva chiamato così dal nome del suo paese di origine, «il Passo della Màuria», l'ampio valico erboso che si estende tra il bacino del Tagliamento e quello del Piave ed è vigilato dalle cime austere delle Marmarole e dell'Antelao), - e non mi dici perchè non venisti da noi, ieri sera. - Un'ombra scese sul viso di Alvise. - Ho bisogno del tuo aiuto, Lori, - disse rapidamente, conducendo la fanciulla nell'angolo più remoto dell'orto. La fece sedere sul muricciolo del rio e le si pose accanto.

Pagina 63

Al tempo dei tempi

219481
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
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. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - Il fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Vicerè, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava: - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva; non vedi che stenta per mantenere tuo figlio? Non credi che questo sia uno strazio per me? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole: - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perchè aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre: - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Ma che pazienza! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia! Chi se la piglierà così nuda bruca? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo. - Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera! - Il Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici? - domandò. - Una bella sentenza! Hanno dichiarato che l'abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l'abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo: - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo -