Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679059
Perodi, Emma 8 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

. - Abbiate fede, e sarete guarito, - aggiunse la vecchia. Fede ne aveva, il povero Podestà, e masticò un fascio di foglie e bevve quanta più acqua poté. Ma dopo aver fatto tutto questo ed aver fervidamente pregato, si guardò il naso, e il naso era sempre rosso come un peperone; si tastò il fungo nero, e il fungo nero c'era sempre; si provò a parlare, e faceva sempre precedere da quell'esse incomoda ogni parola. Allora, scoraggiato, disse: - Sdonna smia, sper sme snon sc'è sbene. - Podestà mio, finché un cane peloso non vi morde il fungo e una biscia non vi bacia in bocca, da queste due infermità non sarete liberato. Vedo che né le erbe né l'acqua attinta durante il plenilunio vi giovano. - Sdio smio, se squei sbirbanti smi strovano ... - mormorò tutto afflitto ser Bandino. La vecchia rise facendo vedere le gengive spoglie di denti. - Quassù da me nessuno oserà venirvi a cercare. - Sperché? - domandò il Podestà. - Che volete che vi dica? Sono anni e anni che curo la gente con l'aiuto della Madonna, eppure a nessuno sapreste levar di capo che io non sia una strega. Ser Bandino fu rassicurato in parte da queste parole e si mise ad attendere che giungessero i due animali che dovevano liberarlo. Era una calda giornata di maggio, ed egli, vinto dalla stanchezza, si appisolò. A un tratto fu destato da un dolore acuto da quella parte del naso dove gli pendeva il fungo nero. Aprì gli occhi e vide un can da pastori con una lunghissima coda, che scappava. Ser Bandino si portò subito la mano al naso e si accòrse con gran piacere che quella escrescenza carnosa non c'era più; allora si mise a chiamar la vecchia. - Svieni, sdonnina, svieni; sci sono snovità sgrosse! La vecchina, che era su in camera, scese le scale e alzò le mani al Cielo in atto di ringraziamento, vedendo che il fungo era sparito davvero. - Ora, coraggio, - ella disse, - e come è venuto il cane verrà la biscia; abbiate pazienza e pregate. Ser Bandino si rimise in orazione, ma snocciolando sempre avemmarie finì per appisolarsi col capo inclinato a destra e la bocca spalancata. Un sibilo fortissimo lo destò, e così in dormiveglia si accòrse di aver in bocca la testa di una biscia. Sul subito si spaventò, ma ripensando alle parole della vecchia si fece animo e preso il rettile con due dita gli disse: - Grazie! Nel pronunziare quella parola capì di esser guarito dalla seconda infermità, e questa volta, senza far precedere ogni parola da un'esse, chiamò: - Vecchina, scendi presto, vieni a vedere; il miracolo è compiuto. La vecchina scese pian piano, e sentendo che il Podestà parlava speditamente, si lasciò cadere in ginocchio e pregò a lungo. Ser Bandino fece lo stesso, e quando ebbero terminato, la vecchia disse: - Spero che mi sarete grato e non mi lascerete morir qui come un cane. - Figurati! - disse il Podestà, - ora torno subito a Stia, punisco i colpevoli e dopo vengo a prenderti con una lettiga e ti conduco al palazzo, dove sarai servita e rispettata come se tu fossi mia madre. - Badate di non dimenticarvi della promessa! - replicò la vecchina. - Io sono gentiluomo! - esclamò Bandino. - E senti che cosa dico: Se non mantengo la promessa in capo a un mese, che mi possa ricrescere il fungo e che ritorni più scilinguato di prima. Ser Bandino, tutto allegro, scese il monte, e ogni tanto si toccava il naso, che aveva ripreso il colore del restante del viso, e si provava a parlare a voce alta. Non gli pareva vero di non essere più un coso buffo e di parlare come tutti gli altri. Quando giunse a Stia, era sera inoltrata e il palazzo era chiuso sprangato. Bussa che ti busso, nessuno gli andava ad aprire e di dentro le guardie gli gridavano: - Il Podestà è assente, noi non apriamo a nessuno. - Il Podestà sono io! - rispondeva ser Bandino. - Non ce lo date ad intendere, imbroglione. Il Podestà, quando apre bocca, si conosce subito. - Son guarito! - badava a dire ser Bandino. - Di certi mali non si guarisce; andate in pace, se no vi leghiamo come un salame e vi mandiamo a far compagnia ai dieci monelli, cagione di tanti guai. A farla breve, il portone del palazzo quella sera non si dischiuse per lasciar passare il Podestà; ma egli, che conosceva l'ingresso segreto delle cantine, per non dormire a ciel sereno, entrò in quelle e si distese per terra. La mattina, appena vide uno spiraglio di luce, uscì dal suo nascondiglio e andò di nuovo a bussare al palazzo. Le guardie, che nell'assenza del Podestà e dopo aver respinto la folla tumultuante vi si erano asserragliate come in una fortezza, invece di spalancare la porta, andarono a una delle finestre munite d'inferriate per vedere chi bussava. - Sono il Podestà, aprite! - ordinò ser Bandino; ma a quel comando si sentì rispondere con una sonora risata. - Guarda, guarda chi si spaccia per il Podestà! Se non vuoi essere arrestato per avergli rubato le vesti, raccomandati al cavallo di san Francesco. Non sai che il Podestà ha un fungo appeso a un lato del naso paonazzo, e parla scilinguato, - disse una delle guardie. - Sono il Podestà, aprite! - ordinò ser Bandino. - Se vuoi venire in gattabuia, peggio per te, - gli fu risposto. Il portone del palazzo si aprì, quattro braccia robuste afferrarono ser Bandino e quasi di peso lo portarono nella stessa prigione della torre dov'eran rinchiusi i dieci monelli, autori del disordine. Non valsero né le preghiere né le minacce di ser Bandino per farsi riporre in libertà. Tutto il giorno udiva i monelli parlare del naso e del fungo del Podestà, tutto il giorno li sentiva fargli il verso, e nessuno lo riconosceva tanto era cambiato. Tutte le volte che chiedeva alle guardie quanto tempo intendevano tenerlo in prigione, si sentiva rispondere: - È andato un messo a Firenze; quando tornerà col nuovo Podestà, sarai giudicato. - Ma se il Podestà son io! - Taci, bugiardo, ingannatore, furfante! - gli dicevano. Così passavano i giorni, così passò un mese. Quando quel termine fu spirato, ser Bandino, una mattina, nel destarsi, si vide dintorno tutti i monelli con tanto d'occhi sgranati. Volle interrogarli per sapere che cosa notavano in lui di strano, ma appena ebbe aperto bocca essi incominciarono a schiamazzare gridando: - È lui, è il Podestà! gli è ricresciuto il fungo nero accosto al naso ed è ritornato scilinguato. È lui! è lui! Ser Bandino si sentì morire. Non aveva potuto mantener la promessa fatta alla vecchia ed era ritornato tal quale come prima, perciò i monelli lo canzonavano egualmente. Le guardie, sentendo tutto quel baccano, accorsero, e appena aprirono l'uscio della prigione, rimasero sulla soglia senza osar di fare un passo. Il prigioniero era proprio il Podestà! E ora che cosa sarebbe avvenuto di loro che non avevano voluto riconoscerlo e si eran presi l'ardire di trattarlo a quella maniera? Ma il Podestà era tanto afflitto e avvilito di udirsi colpito di nuovo da quella doppia infermità, che non pensava a vendicarsi. Uscì a capo chino dalla prigione, senza aprir bocca, e dietro a lui uscirono tutti i monelli, che si affrettarono a tornare a casa. Verso sera, quando in paese non v'era più nessuno, il Podestà si avviò solo solo su per il monte in cerca della vecchina. Ma guarda che ti guardo, non gli venne fatto di trovar più né la casa né altro, e nel cuor della notte se ne tornò al palazzo. Questa volta le guardie lo riconobbero al parlare, e gli apriron subito. Benché fosse stanco morto, egli non si mise a letto. Inginocchiatosi dinanzi alla Santissima Annunziata, la pregò fervidamente non più di liberarlo dalle sue infermità, ma di dargli il coraggio di sopportarle. Mentre stava in orazione, che è che non è, ecco apparirgli la vecchina. - Se non hai mantenuto in tempo la tua promessa, - gli disse, - non è colpa tua. Appena libero sei andato a cercarmi sul monte; e in Cielo, dove le buone intenzioni sono valutate, ti si tiene conto di esse. Rassicurati, e a suo tempo sarai consolato, te lo prometto io! "A suo tempo! - pensava egli. - Dunque le mie prove non sono terminate? dunque dovrò soffrire ancora?" La vecchia sparì, e il Podestà poté dormire tranquillo nella sua camera. La mattina dopo, nel destarsi, andò subito a guardarsi nello specchio, ma la deformità del naso non era sparita ed egli non parlava speditamente. Allora pensò che doveva armarsi di coraggio per sostenere nuove prove; ma la speranza che a suo tempo sarebbe stato liberato, faceva svanire la cupa disperazione che lo aveva assalito nel passato. Però la sua pazienza fu messa a dura prova. Era appena ritornato al palazzo, quando gli fu annunziato da un messo l'arrivo di messer Alessandro Vitelli, temuto condottiero di quel tempo. Ser Bandino fece preparare per lui le più belle stanze, e dette ordine al cuoco di mandar ne' serbatoi a prendere le trote più belle e di tirare il collo ai più grossi capponi, poiché bisognava onorare un ospite di tanto riguardo. Il capitano giungeva dalla Consuma per recarsi ad Arezzo. Il Podestà gli mosse incontro a cavallo, con numerosa scorta, e appena incontratolo, volle fargli il suo bravo discorsino. - Sillustrissimo smessere ... - incominciò. Ma non poté finire, perché il capitano Alessandro Vitelli gli dette una di quelle guardatacce, come egli sapeva dare, e ser Bandino, tutto confuso, si sentì la lingua inchiodata al palato e si fece pallido come un morto, mentre il suo naso prendeva un bel color rosso vivo. - La Repubblica fiorentina tiene un Podestà molto strano in questa sua terra di Stia, - disse il capitano rivolto ai suoi, ma in tono abbastanza alto da farsi sentire anche da ser Bandino. - Non è un rappresentante che le faccia onore. L'infelice avrebbe preferito di essere ancora rimpiattato in cantina dietro la botte e minacciato dall'ira degli insorti, piuttosto che di trovarsi di fronte a quel superbo, cui non poteva ricacciare in gola le offese. Però dovette celare nel cuore il dolore e la rabbia che provava, e mettersi al seguito del condottiero, il quale non lo aveva neppur invitato a cavalcargli accanto. Se il primo incontro era stato amaro per ser Bandino, la permanenza di Alessandro Vitelli a Stia, fu un lungo e non interrotto supplizio. Il condottiero, non solo era entrato nel palazzo da padrone, senza curarsi per nulla del Podestà, ma aveva dato carta bianca ai suoi di esigere imposte, di reclutare uomini atti a portare armi, e di comandare, insomma, come se il rappresentante della Repubblica non esistesse, come se il Podestà fosse un fantoccio. Ser Bandino vedeva tutto e fremeva. Inoltre v'era una continua processione di gente a far reclami presso di lui per le ingiustizie che commetteva il condottiero, e questa gente gli rimproverava acerbamente la sua debolezza; ma ser Bandino non osava parlare ad Alessandro Vitelli. Un giorno, però, incalzato da tante e tante lagnanze, si fece animo e si presentò al capitano, il quale, squadratolo da capo a piedi, con fare burbanzoso, gli disse: - Chi vi ha ordinato di venire da me? - Sdoveri sdello stato smio, slagnanze sdegli Stiani! - Andate al Diavolo voi, le vostre esse e i vostri Stiani! - rispose il capitano. - Finché sto qui, intendo di comandar io, e voi non dovete farvi vedere, se no vi rinchiuderò in prigione. Bandino dovette fare una prudente ritirata; ma ridottosi in camera sua pianse amaramente sulla propria sventura e si raccomandò fervidamente alla Santissima Annunziata di liberarlo presto dalle infermità che gli procuravano tanti tormenti. Però, nonostante le promesse della vecchia, le lacrime e le preghiere, il supplizio continuò per più giorni, e il Podestà si ammalò dalla pena. Mentre era a letto, più malato d'animo che di corpo, il condottiero ricevé l'ordine di portarsi subito sopra Città di Castello; di notte tempo fece i preparativi della partenza e se ne andò, senza neppur curarsi del Podestà. I cittadini di Stia respirarono vedendo partire il Vitelli, che in pochi giorni li aveva dissanguati, e il Podestà guarì subito. Ma siccome una consolazione non vien mai sola, il brav'uomo, nell'alzarsi dal letto, si accòrse che gli era sparita la deformità del naso e che parlava speditamente. Lieto, lietissimo di ciò, invece d'inveire contro i monelli del paese, contro tutti quelli che avevano dato mano al saccheggio del palazzo, annunziò con un pubblico bando che voleva iniziare il suo governo con un generale perdono, tanto più che il popolo era stato abbastanza provato dal passaggio di messer Alessandro Vitelli. Questo atto magnanimo lo rese popolarissimo a Stia, dove ser Bandino terminò in pace la vita. Qui la Regina tacque ed ebbe dai signori villeggianti gli stessi complimenti ricevuti la domenica precedente. Mentre essi parlavano di Stia, dove volevano andare a fare una gita, giunse una carrozza di ritorno da Camaldoli e si fermò dinanzi alla viottola. Il vetturino schioccò la frusta per chiamar qualcuno, e tre o quattro dei ragazzi accòrsero subito alla chiamata. Un momento dopo tornarono gridando: - La signora dell'Annina manda a dire che viene domani a desinare dalla sua mamma. - E l'Annina non ce la conduce? - domandò la Carola. - Sì, conduce anche lei. Vengono tutti. Tirate il collo a due galline, mamma, - disse Beppe. - Alle frutta ci pensiamo noi: vedrete che lamponi e che fragole! A quella notizia la gioia ricomparve sul viso della massaia, e anche la Regina sorrise con quel sorriso buono che era il riflesso della felicità dei suoi.

Abbiate pazienza! Essa portò in tavola quello che aveva preparato, e lo zio si mise a mangiare brontolando, ma più mangiava e meno sbraitava. Intanto Biancospina gli mesceva da bere del buon vino, nel quale aveva messo i tre granelli di sabbia. Quando egli ebbe visto il fondo del boccale, non brontolava più, era invece tutto ilare e sereno, come colui che ha ben mangiato e meglio bevuto. Certo non si rammentava più del cavallo con la groppa che si allungava secondo il carico, né delle vacche e delle pecore che aveva date in cambio dell'animale. Biancospina, a vederlo così tranquillo, supponeva che la rena avesse già prodotto il suo effetto; ma ne fu convinta quando vide l'accoglienza che egli fece alla sorella e le cortesie che le disse sulle gentilezze della figlia. Cosimo si trattenne tutto il giorno, e, dopo aver pranzato con la sorella come se nulla fosse, montò a cavallo per tornare a casa sua. - E due! - disse Biancospina. - Ora c'è da servire il terzo! E infatti, il giorno dopo, giunse pure Cambio, rosso, stizzito che pareva, Dio ci salvi, una bestia. Appena arrivato rovistò la stalla, la casa, la cantina, salì in soffitta brontolando: - Agli altri due l'avete fatta; me non mi gabbate, streghe! Questo insulto lo rivolgeva di continuo alla sorella e alla nipote, che lo seguivano in su e in giù, mogie mogie, e avevano appena coraggio di dire ogni tanto una parola, temendo di farlo andare in furia più che mai. Quando ebbe frugato per tutto ben bene, disse alla sorella: - Ora ti servo io! Non ti accuso di furto, ma di malìa, e vedrai se mi levo il gusto di farti morire sulla forca. Strega, strega! Biancospina soffriva a sentir trattare in quel modo la sua mamma; ma offriva al Signore ogni umiliazione e ogni insulto, e lo pregava di darle pazienza, molta pazienza. - Zio mio, zio caro, - gli diceva, - rientrate in voi stesso: vi pare che si possa esser responsabili noi se il montone s'è annegato? - Ma io sono povero, povero, perché vi ho dato tutto per aver quel montone, e io rivoglio il mio. - Venite a ristorarvi e poi parleremo. - No; non mangerei neppure un uovo in casa vostra, avrei paura del veleno. Streghe, streghe! - Almeno bevete! - Peggio! Non voglio altro che la mia roba. Cambio parlava con tanta stizza, che Biancospina dovette perdere ogni speranza d'indurlo a mangiare e bere. Essa lo lasciò un momento insieme con la sua mamma e corse al prato dove invocò il pettirosso. - Che cosa comandi, Biancospina? - domandò l'uccello presentandosi a lei. - Non comando, chiedo, e chiedo umilmente. Lo zio Cambio pare un diavolo per aver perduto il suo montone; non vuol bere, non vuol mangiare, e io non posso fargli buttar giù la sabbia dell'oblìo. - Sapresti strofinargli la faccia con la rena, oppure soffiargliela negli occhi? Tre granellini entran presto in bocca o nel naso, e appena entrati, addio memoria! - Mi proverò, - rispose Biancospina. E andò via di corsa. Quando ebbe fatti alcuni passi, si sentì chiamare. - Biancospina! Biancospina! - Che vuoi, pettirosso? - Senti: ormai credo che tu non avrai più bisogno di me; i fratelli di tua madre sono puniti, voialtre siete ricche, dunque ti dico addio. - Addio, pettirosso, e grazie di tutto! L'uccellino volò via in cerca di un'altra bimba da arricchire, e Biancospina, dopo aver preso una grembiulata di rena asciutta sul greto dell'Arno, andò a casa di corsa. - Dunque, zio, non la volete fare un po' di colazione? - domandò a Cambio tutta umile. - La risposta te l'ho già data: rendetemi la roba mia. - Non volete neppur bere? Dovete aver la lingua secca! - Neppure! Fossi matto! Allora Biancospina aprì il grembiule e aspettò il vento. Sottovoce ella pregava Gesù, che ne mandasse una folata sola, tanto da sollevare un po' di sabbia e portarne tre granellini in bocca di Cambio. Il vento invece si levò impetuoso, la rena che Biancospina aveva nel grembiule si trasformò in una nuvola che avvolse la bimba e lo zio. Il vento però cessò subito e Cambio si mise a gridare con altro tono di voce: - Per carità, soccorretemi, sono accecato, ho la bocca piena di rena! Biancospina corse in cerca di un bacile pieno d'acqua e lo portò a Cambio, il quale la ringraziò tanto tanto. Egli non rammentava più nulla, neppure lo scopo della sua gita a Rassina, e si affliggeva soltanto di aver la bocca e gli occhi pieni di rena. Si lavò ben bene, ebbe parole di ringraziamento per la nipotina, e dopo aver mangiato copiosamente, rimontò a cavallo, e tutto in pace se ne tornò ad Arezzo. - E tre! - disse Biancospina. - Ora vedremo se si potrà campare un poco in pace. La pace, infatti, non fu turbata da nessun avvenimento insolito. Biancospina si godé le ricchezze donatele dal pettirosso, e a suo tempo sposò un signore ed ebbe nobiltà molta, ma si mantenne sempre affabile e compassionevole per i poveri. E qui, bambini e grandi, la novella è finita, e mi par tempo di entrare in casa, perché l'aria si fa pungente, - disse Regina. La cena era già preparata, una cena frugale ma appetitosa. - Tu resti? - domandò Cecco a Vezzosa. - Per stasera no; ma debbo chiederti un favore: Di' a Maso che per domenica, che è Pasqua, inviti il babbo e la Maria. Vorrei che anche lei dimenticasse il passato e i miei scatti; che facesse come i tre zii di Biancospina, insomma! - Sarai contentata. Ma ci credi tu alla virtù della rena d'Arno? - domandò Cecco. - No davvero, ma credo a quella della dolcezza, che fa svanire i risentimenti, piega i caratteri più ribelli e cura tutte le malattie dell'animo. - Dunque è la dolcezza che hai usato con la tua matrigna. - Forse! ... - rispose la ragazza, - ma chi è stato che me l'ha infusa nel cuore? Tu solo. Dunque il miracolo l'hai operato tu. Cecco non ci credeva ai miracoli, specialmente ai proprî, e ne attribuiva invece la specialità a Vezzosa, che lo aveva corretto della selvatichezza e della ruvidezza, due mènde che s'era trascinate sempre seco nella vita. Il battibecco minacciava di durare un pezzo, senza l'intromissione della Regina, che sentenziò fra i due contendenti: - Vezzosa ha operato un miracolo incivilendo Cecco; Cecco ne ha operato un altro facendo perdere a Vezzosa un monte di difettucci: la vanità, l'alterigia e la smania di passar per vittima, che inaspriva la Maria. - Dunque siamo due santi? - domandò Vezzosa ridendo. - No, santi no; siete due buone creature fatte per volervi bene, - disse Regina ponendo le mani grinzose sulla testa degli sposi, i quali si avviarono soli verso la casa di Momo; ma a un certo punto furon raggiunti da Maso. - Avevi forse paura che rubassi Vezzosa? - gli domandò il bell'artigliere scherzando. - Il sospetto non m'era passato davvero per il capo. Venivo a domandarti se ti farebbe piacere che si facesse la Pasqua insieme con la famiglia di Vezzosa. - Vezzosa lo desiderava, - disse Cecco. - E io son contento d'aver indovinato il desiderio della cognatina. Ora lo dico a Momo, e nessuno mi dirà di no. L'invito, naturalmente, fu accettato con piacere, e la Pasqua prometteva d'essere una vera solennità per quelle due famiglie di contadini.

. - Non abbiate timore, - disse il giovane. - Nostra Signora di Loreto mi ha assistito; il mostro che divorava il bestiame e i cavalli, è esanime. Cercate delle corde e trascinatelo sul ciglio di qualche burrone dove lo precipiterete. Egli non può più nuocere ad alcuno. Fu fatto ciò che Ubaldo aveva ordinato, e quando s'andò a misurare la lunghezza del drago, si vide che era più di cento braccia. Il vecchio signore esultava di esser liberato da tanto nemico e mantenne la promessa fatta a Ubaldo, dandogli Imelda in isposa. Il giovane, una volta marito della bellissima fanciulla, ricomprò bestiame e cavalli, fece lavorar le terre, armò uomini forti per difenderle; e il barone Federico, prima di morire, ebbe la felicità di sapersi di nuovo possessore di molte ricchezze. I due sposi erano così felici che non sapevano, nelle loro preghiere, che cosa domandare a Dio e non potevano altro che ringraziarlo; ma una sera che stavano per mettersi a tavola, ecco che fu introdotto un cavaliere così alto che con la testa toccava le travi del soffitto. In quel cavaliere Imelda riconobbe il cugino Corrado. Egli giungeva dalla guerra contro i turchi per sposare la cugina, e sapendo ciò che era accaduto nella sua assenza, aveva provato una rabbia sorda, che tuttavia seppe celare ai due sposi, poiché era assuefatto a fingere. Ubaldo, che non aveva alcun sospetto, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e gli assegnò la più bella camera del castello. Il giorno dopo condusse Corrado a fare un giro nelle sue terre, che in quel tempo erano coperte di mèssi. Ma Corrado, vedendo tutto quel ben di Dio, s'arrabbiava sempre più e odiava quell'intruso, che non solo era padrone di tante e ricche terre, ma che aveva anche sposato sua cugina Imelda. Un giorno il perfido Corrado invitò Ubaldo ad andare a caccia insieme con lui in prossimità del mare, e lo condusse in un bosco folto sul cui limitare v'era un mulino a vento abbandonato. Il Gigante aveva ammucchiato sotto il mulino molte fascine. Quando furono giunti in quel luogo, Corrado si volse verso il castello e disse a un tratto al cugino: - Corpo di Satanasso! io scorgo di qui il castello e anche il cortile. - Dove? - domandò Ubaldo. - Dietro quel boschetto di lecci. Non vedi le finestre della sala d'onore? Eppure sono visibili a occhio nudo! - Sono troppo basso di statura, - replicò Ubaldo. - Corpo di Satanasso! - esclamò Corrado, - eppure a quelle finestre vedo mia cugina, che parla con alcuni cavalieri ai quali dispensa le rose che portava in petto. Ubaldo si alzò in punta di piedi. - Quanto desidero di vederla! - disse. - Sangue di Satanasso! ci vuol poco. Sali sul mulino e sarai più alto di me. Ubaldo seguì il consiglio e salì la scaletta tarlata. Quando fu giunto in cima, il cugino gli domandò che cosa vedeva. - Non vedo altro che gli alberi, che mi paiono piccini, - rispose, - e delle case che non sono più grandi delle conchiglie che la burrasca getta sulla spiaggia del mare. - Guarda più vicino, - disse Corrado. - Più vicino non vedo altro che la pianura verdeggiante. - Anche più vicino, - replicò il Gigante. - Più vicino ancora non scorgo se non prati fioriti. - Ma guarda sotto a te! - Sotto a me! - gridò Ubaldo spaventato. - Invece della scala per discendere, vedo le fiamme che salgono! Ed era vero, perché Corrado aveva portato via la scala e dato fuoco alle fascine ammucchiate; e il vecchio mulino era circondato da una fornace ardente. Ubaldo si raccomandò al Gigante di non lasciarlo morire di una morte così tremenda. Corrado invece gli voltò le spalle e si allontanò fischiando. Allora il giovane, sentendosi soffocare, ripeté l'invocazione: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento comparve il Santo, tenendo nella destra un arcobaleno di cui l'estremità opposta era immersa in mare e spargeva rugiada fitta fitta; e dall'altra teneva la scala di Giacobbe, che riunisce la terra al cielo. L'arcobaleno spense l'incendio, quindi Ubaldo si servì della scala per discendere e tornò al castello sano e salvo. Corrado, nel vederlo, rimase a bocca aperta, e incominciò a tremare come una canna; quindi, per evitare che il cugino lo punisse della sua ribalderia, corse a prender le armi e fece sellare il cavallo; ma mentre stava per uscire dal cortile e imboccare il ponte levatoio, Ubaldo posò una mano sulla groppa del cavallo e disse: - Non temere, cugino; nessun essere vivente saprà quello che è successo fra noi. Tu sei angosciato perché Iddio mi ha dato prosperità maggiore che a te. Io voglio però guarirti dal male dell'invidia, che ti dilania il cuore. Da oggi fino al giorno della mia morte, tu avrai la metà di tutto quello che mi appartiene, meno mia moglie. Va' dunque, e non ruminare contro di me pensieri malvagi. L'atto di questa cessione fu rogato da un notaro in tutte le regole, e Corrado ebbe ogni anno la metà del prodotto dei campi e del bestiame. Ma questa generosità di Ubaldo non aveva fatto altro che invelenire maggiormente il cugino, perché i benefizî immeritati non procurano né soddisfazione né vantaggio. Egli non voleva più assassinare Ubaldo, perché morto lui perdeva la metà delle rendite de' feudi; ma lo odiava, come lo schiavo oppresso e bastonato odia la mano che lo schiaccia e percuote. Un'altra cosa poi aumentava la rabbia dell'invidioso, ed era il vedere che tutto prosperava intorno ad Ubaldo. Non gli mancava altro che un figlio per essere perfettamente felice, e Imelda mise al mondo un maschietto, bello e forte, che nacque senza piangere. Ubaldo mandò inviti a tutti i signori dei castelli vicini pregandoli di assistere al banchetto del battesimo, e i convitati giunsero da Ancona, da Loreto, da Fermo, da Camerino e da Recanati, tutti accompagnati da nobili dame e con seguito numeroso. Il battesimo del figlio dell'Imperatore non avrebbe richiamato maggior numero di cavalieri né di dame. Tutti erano già riuniti nella sala d'onore, e Ubaldo, insieme con la comare e il compare, era andato in camera d'Imelda per prendere il neonato e portarlo nella cappella, quando sulla porta della stanza comparve pure Corrado, con un sogghigno sul viso di traditore. Imelda, nel vederlo, gettò un grido, poiché sul volto del cugino ella aveva letto delle sinistre intenzioni, e il suo cuore di madre non l'ingannava. Corrado entrò in camera curvandosi e facendo inchini, e, dopo averle fatto i mirallegri, la ringraziò del dono. - Di qual dono intendi parlare, cugino Corrado? - domandò la povera donna mostrandosi oltre ogni dire meravigliata. - Me lo domandi? Non hai forse unito un figlio alle ricchezze di Ubaldo? - disse il Gigante. - È vero, - rispose Imelda. - Ebbene, sappi che un atto legalmente rogato mi dà diritto alla metà di tutto ciò che appartiene ad Ubaldo, meno la tua gentil persona. Mi scuserai dunque se vengo a richiedere la metà del bambino nato da poco. Tutti coloro che erano in camera mandarono un grido; ma Corrado rispose che voleva la sua parte del bambino, aggiungendo che, se gliela ricusavano, la prenderebbe da sé; e fece vedere un coltello da caccia che teneva infilato alla cintura. Vi fu un momento di terrore, e il Gigante ne approfittò per stendere le braccia fino alla culla, afferrare il piccino e darsela a gambe. Prima che Ubaldo pensasse a inseguirlo, egli era già fuori del castello, e col piccino in collo montava un cavallo già sellato, che pareva attenderlo, e via di carriera. Figuriamoci come rimanesse Imelda a vedersi portare via il bambino, e qual dolore ne risentisse Ubaldo! Egli però non si smarrì d'animo e disse: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! Apparì infatti il Santo, con la ricca veste e l'aureola intorno al capo, e disse: - Ubaldo, Nostra Signora di Loreto ti salverà. Guarda nella direzione in cui è fuggito Corrado; vedrai che tu non scorgi più il fuggiasco, ma vedi una casa nuova. Ebbene, in quella casa senza uscite, che la Madre di Dio ha fatto sorgere a un tratto per custodire il ribaldo, è imprigionato il tuo bambino. Corri a liberarlo da Corrado, che lo vuole uccidere. Ubaldo corse fuori, seguìto da gran parte d'invitati e di servi, e giunto alla casa vide, dalle solide inferriate, che il cugino affilava sopra una pietra la lama del coltellaccio che prima portava alla cintola, dicendo: - Se Ubaldo non mi dona l'altra metà della rendita de' suoi beni in cambio della vita del figliuol suo, è un padre snaturato. Non vedo il momento che egli torni a ramingare, e che io possa insediarmi nel castello. E arrotava sempre il coltellaccio. - Rendimi mio figlio! - urlò Ubaldo attraverso le inferriate. - Non son così pazzo; cedimi tutto quello che possiedi e lo avrai. Ubaldo esitò. Non poteva ridurre la moglie e il bambino alla miseria. Invece di rispondere, egli invocò il vecchio Santo: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento cento mani invisibili legarono strettamente il Gigante, la casa sparì come per incanto, e il ribaldo fu sollevato di peso e ricondotto in camera di Imelda, dove lo seguì Ubaldo col bambino fra le braccia. Appena tutti vi furono penetrati, quella stanza venne illuminata da un chiarore celeste, e il Santo comparve sopra una nube a fianco della Vergine Maria. - Eccomi fra voi, o miei fedeli, - disse la Madre di Dio. - Marco, il mio buon servo, mi ha fatto abbandonare il Paradiso per venire fra voi a risolvere una controversia. - Se siete la Madre del Signore, non permettete che mi si tolga il figlio che mi avete dato. - Se siete la Regina del Cielo, fatemi rendere ciò che mi è legalmente dovuto, - aggiunse Corrado sfrontatamente. - Ascoltatemi, - ordinò Maria. - Tu, Ubaldo, e tu, Imelda, avvicinatevi a me; fin qui io non vi diedi altro che le gioie della vita; ora voglio far di più per voi due: voglio darvi le gioie della morte. Voi mi seguirete nel Paradiso del Figlio mio, ove non penetrano altro che gli eletti, ove i dolori, i tradimenti, le malattie sono ignoti; in quanto a te, Corrado, sei nel pieno diritto, se vuoi, di dividere la nuova proprietà che è stata concessa ai tuoi cugini, e morrai come loro; ma per discendere bensì nelle profondità dell'Inferno, dove sei atteso per i gravi peccati commessi. Il Demonio ti farà lieta accoglienza nel suo regno dei dannati. Nel terminare queste parole, la Vergine stese la mano, e il Gigante scomparve in una voragine, mentre i due sposi e il bambino s'inchinavano uno sull'altro come una famiglia addormentata e sparivano nell'azzurro del cielo, trasportati da una nuvoletta vaporosa. Nel luogo ove avvenne il miracolo, la gente del paese costruì un santuario, e gli afflitti e i devoti vi recarono copiose offerte di monili d'oro e di gemme. Una notte i saraceni sbarcarono, non visti, sulla spiaggia vicina, e dopo aver saccheggiato il castello, che era guardato da pochi monaci, ritornarono ai loro bastimenti, portando seco tutti i voti ricchissimi e dando fuoco al castello. Però la memoria del miracolo è viva ancora negli abitanti del contado, e nessuno passa dinanzi al luogo dove sorgeva il castello del barone Federico, senza dire: - Vergine benedetta, fatemi morire come Ubaldo, Imelda e il loro bambino! La vecchia aveva appena cessato di parlare, quando Beppe tornò col mulo sull'aia. - Se sapeste, babbo, quante domande mi hanno fatto quei due signori che ho accompagnati! Volevano sapere quanti si era, che cosa si faceva tutti radunati sull'aia, e chi era quella bella sposina che li aveva invitati a rinfrescarsi. Hai capito, zia Vezzosa? - Spero che tu avrai risposto garbatamente, - disse la Carola, mentre la cognatina arrossiva. - Lasciate fare a me, che a parlare non mi vergogno. E volete un po' sapere chi è quel signore? - Sicuro che lo vogliamo sapere. - Ebbene, è il nuovo ispettore forestale. Il sor Paolo, che è stato a Camaldoli fino a ora, va in Piemonte, e questo è venuto a far vedere alla moglie se le piace il posto prima di condurla lassù. Lui c'era già stato, perché ha fatto gli studî a Vallombrosa, ma la moglie no. A proposito, il sor Paolo, che era venuto incontro ai forestieri, quando li ha visti ed ha sentito che volevan ripartire domani, s'è subito opposto. Vuole che restino da lui qualche giorno. Perciò la signora mi ha detto di avvertire la garbata sposina che domani non ripasseranno, e fino a domenica non scenderanno a Camaldoli. - Proprio il giorno di Pentecoste! - esclamò Vezzosa. - Tanto meglio, così ci troveranno tutti in casa e non interromperemo le nostre faccende per riceverli. - Sapete che cosa diceva il nuovo ispettore? - disse Beppe rivolto al babbo suo. - Che quassù vi è bisogno di rimboscare, e che egli vuole in pochi anni coprire le nostre piagge di abeti, come c'erano al tempo antico. - Tanto meglio, - disse il capoccia, - il legname è la ricchezza di questi posti. Mi contenterei che ci distribuissero degli alberi giovani da piantare. - E li distribuiranno! - rispose Beppe con tono sicuro. - Con quel signore non mi perito a parlare, e glielo dirò. - Via, ciarlone, va' a letto! - ordinò la Carola, - domattina bisogna esser desti all'alba, che il da fare non manca. Beppe si alzò a malincuore, perché aveva voglia di raccontare dell'altro; ma prima di andare a letto consegnò a Maso le due lire che aveva avuto dai signori, e mormorò nell'orecchio alla Regina: - Dite, nonna, la novella che non ho udito, me la raccontate domani? - Sì, - rispose la vecchia sorridendo a quel suo nipotino, nel quale le pareva di riveder Maso, - domani avrai la novella e parleremo dei signori. - Se volete ve ne parlo subito, - rispose Beppe. - Lei è una donnina garbatissima, ma che parla poco; il marito è un uomo gioviale e vuol bene alla moglie quanto ... indovinate un po', nonna, quanto? - Ci vuol poco: quanto Cecco a Vezzosa. - Per l'appunto! - Senti che confronti fa quel monello! - esclamò Cecco. - E che ne sai tu del bene che voglio alla mi' moglie? - Dovrei esser cieco per non accorgermi che gliene vuoi tanto, tanto; ma anche la Vezzosa te ne vuole, e di molto. - Via, a letto! - ordinò la Carola. E il ragazzo non se lo fece ripetere, perché con la mamma non si scherzava.

Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Intanto egli era riuscito a dire a Selvaggia: - Abbiate fiducia in me, io vi porto la liberazione. Il volto pallido dell'infelice ragazza si era illuminato a quelle parole, nelle quali egli aveva trasfuso tutta l'anima sua. La sera Barnaba si vestì riccamente e tornò a palazzo. La Contessa era raggiante di gioia, e lo condusse dal conte Gualterio, il quale disse: - Prendetevi questa povera figlia mia e rendetela felice. Selvaggia, piena di gratitudine per il suo liberatore, gli dette la sua manina a baciare, e Barnaba disse che le nozze dovevano esser celebrate subito, perché aveva fretta di condurre la sposa a Roma. La Contessa era tutta felice che gli portasse via la figliastra, e non fece nessuna opposizione. Con le stoffe donate a Selvaggia da Barnaba, le furono preparate ricche vesti nuziali, e il giovane disse che alla famiglia della moglie non chiedeva altro che il berretto di drappo d'oro della Contessa e una lettiga. Il matrimonio fu celebrato senza alcuna pompa e i due sposi partirono. Selvaggia, in quei pochi giorni, pareva divenuta un'altra e la gioia le si leggeva in viso. Però, quando furono a qualche distanza da Orvieto, Barnaba, che era di animo gentile, scese da cavallo, ed accostatosi alla lettiga in cui era adagiata Selvaggia, le disse: - Madonna, io ebbi pietà delle vostre sofferenze, e vedendo che il solo mezzo di liberarvi era quello di darvi il mio nome, vi chiesi e vi ottenni in isposa. Però io non voglio violentare per nulla la vostra libertà, e se voi non avete per me nessun affetto, siete libera di ordinarmi di condurvi dai parenti di vostra madre, che sono a Foligno, e io sarò sempre lieto di ubbidirvi. - Sposo mio, io vi ho accettato perché ho indovinato che avete un cuore generoso, e questa ultima proposta me lo conferma. Io vi seguirò ovunque, altera e lieta di affidarmi al vostro affetto e di non avere altri che voi sulla terra. Barnaba fu contentissimo della risposta della moglie, e giunto a Roma, si stabilì in una casa modesta, dove, lasciandosi guidare dalla saggezza, il giovane divenne in breve uno dei più ricchi e stimati mercanti della città. Selvaggia fu moglie affettuosa e lo pagò largamente del bene che le aveva fatto. - E ora la novella è finita, - disse la Regina - e chiedo scusa ai signori di averli tediati così lungamente. - Se ce ne raccontaste un'altra, saremmo molto lieti di ascoltarla, - disse la signora Durini. - Ora però c'è altro da fare. Prego tutti di lasciarmi un momento sola con la Regina, la Carola e Maso. Il rimanente della famiglia Marcucci uscì dalla stanza, e allora la signora disse: - Volete maritare l'Annina? Io ho per lei un buon partito. - Ma ha soltanto quindici anni! - osservò la Carola. - Lo so, - replicò la signora, - ma non tutti i giorni capitano certe fortune. Voi sapete che a Camaldoli c'è il direttore dell'albergo, un uomo assennato, che gode la fiducia dei suoi padroni. Egli ha un figlio, per nome Carlo, che ora ha ventiquattro anni. Costui segue la carriera del padre ed è pur direttore in un altro albergo a Firenze. È un giovane serio, ben educato e abbastanza facoltoso. Ha visto l'Annina, gli è piaciuta e me l'ha chiesta in moglie. Io non ho potuto risponder nulla; sta a voi a risolvere. - E l'Annina l'ha interrogata, lei? - domandò la Carola. - No, ma mi sono accorta che Carlo le piace. Se ricusate, io non lo farò venir qui; ma se accettate, domani torna a Firenze e ve lo manderò. - E a lei che gliene pare, signora? Che farebbe se l'Annina fosse sua figlia? - domandò Maso. - Io gliela darei a occhi chiusi. - Allora me lo mandi, ma non dica nulla all'Annina. - Non dirò nulla. Il matrimonio si farebbe l'anno venturo in estate, da quanto ho potuto capire, e Carlo provvederebbe la sposa anche del corredo. La Regina piangeva dalla gioia e pregava, pregava che la felicità potesse arridere all'adorata nipotina. Maso e la Carola erano sbalorditi.

Fece inginocchiare il figlio, gli pose le mani sulle due teste e disse: - Madonna santa, voi sapete con quanta devozione io vi ho dipinta; abbiate pietà di me; io non ho più altra ambizione che quella di vedere il figlio mio con un aspetto come tutti gli altri. Maria Santa, redimetelo! Dagli occhi della soave immagine sgorgarono a un tratto due lacrime, e il mostro, intenerito, chinò la testa. Quelle due lacrime gli caddero su una delle due teste, e dal cielo scesero allora due schiere di angeli cantando "Osanna!" e circondarono il mostro. Allorché essi, cantando, risalirono al cielo, le lacrime della soave immagine s'erano terse, e sul volto di lei si vedeva un sorriso di beatitudine. - Figlio mio, figlio mio! - esclamò Parri mirando il giovane, il quale, rimasto in ginocchio, nell'atteggiamento di prima, mostrava una sola testa, come tutte le creature umane. Prima cura del pittore fu quella di far battezzare e cresimare il suo figliuolo, e, sentendosi ormai liberato da quell'infernale persecuzione, ritornò ad Arezzo ove riprese a dipingere le figure lasciate incomplete nel Duomo, e molte altre di cui ornò tante chiese della città. Il figlio, che ora cristianamente si chiamava Giovanni, fu pittore assai valente, e in una parete di San Domenico ad Arezzo dipinse il miracolo avuto in suo favore a San Salvi. - E ora la novella è terminata, e io do la buona notte, - disse la Regina.

Ella accomodò i due maggiori in un gran canestro coprendoli bene di pannolini; prese il piccino in collo, e, postosi in tasca il poco denaro che aveva, verso sera uscì, piangendo, dal castello e camminò finché le forze la ressero, per allontanarsi più che poteva dalla dimora del marito; ma ad un tratto cadde sfinita per terra e nel cadere disse: - San Francesco, voi che aveste tanta pietà dei poverelli, abbiate pietà dei miei piccini! Dopo aver proferito queste parole, madonna Bice rimase distesa per terra, ma non lasciò andare Landino, che aveva in collo, e neppur Grifo e Leone che aveva accomodati nel canestro. Il beato san Francesco scese dal Cielo, dove gode la gloria di Dio, si fermò sulla strada dove giaceva la sconsolata madre, e toccandola con la mano che aveva operato tante guarigioni e miracoli, la fece passare istantaneamente dallo svenimento al sonno; poi, con quella dolce voce cui ubbidivano tutti, dalle fiere agli uccelli, chiamò a sé una capra, la quale accorse subito e presentò le mammelle piene di latte a Grifo ed a Leone, mentre col contatto del suo corpo cercava di riscaldare Landino. I bimbi maggiori popparono in gran copia il latte caldo della capra, e, quando si furono satollati, l'animale presentò la mammella al minore. Così quando madonna Bice si destò dal sonno, trovò i suoi bimbi più freschi e più tranquilli, e vide accanto a sé la capra, inviatale dal Santo e n'ebbe grande consolazione. Ma alzando gli occhi la colpì la vista dell'altissima torre del castello di Poppi, che le diceva com'ella fosse ancor troppo vicina al palazzo ove dimorava il persecutore suo e de' suoi piccini. Così, dopo aver mangiato alcune castagne, che erano per terra, riprese la via, e, senza curare la fatica, sostenuta e spronata dal desiderio di allontanarsi da Poppi, camminò buona parte del giorno, sempre seguìta dalla capra. Verso sera, quando si sentiva mancar le forze, s'internò in un bosco di querci per passarvi la notte a riparo; ma aveva fatto appena pochi passi , quando vide una capanna di paglia, spalancata, dentro la quale ardeva il fuoco sopra una pietra. Ella vi entrò e la capra la seguì. In quella capanna vi era un soffice giaciglio di fieno, del pane e del vino, così che madonna Bice poté ristorarsi, dopo aver custodito i suoi bimbi, e dormire tranquillamente fino all'alba. Ma durante la notte incominciò a nevicare, e nevicò tanto, che la neve otturò la porta della capanna. Quando la povera madre si vide circondata e quasi seppellita dalla neve, alzò gli occhi al cielo e invocò l'aiuto di san Francesco. Il Santo scese dal Cielo per visitare la povera madre nella capannuccia di paglia. Appena ella lo scòrse, si gettò in ginocchio e gli presentò i suoi piccini, supplicandolo di non sottoporla allo strazio di vederli morire di freddo e di fame. - Non temer nulla: - disse il Santo, - le mammelle della capra daranno sempre latte; il pane e il fuoco non ti mancheranno mai. Si consolò madonna Bice alla promessa ricevuta dal Santo, e, sedutasi accanto al fuoco, attese pazientemente. Intanto ser Bindo, pentito di aver lasciato partire la moglie e temendo che ella se ne andasse a Firenze a raccontar tutto alla propria famiglia e alla Signoria, era montato a cavallo e s'era dato a cercarla dovunque; ma la neve caduta nascondeva la capanna e sottraeva la madre e i bambini alle sue indagini. Le quali furono di breve durata, come il suo pentimento, e in capo a due giorni non pensava più a madonna Bice, quasi che ella non fosse mai stata sua moglie. La stagione si mantenne crudissima, e sulla neve già caduta ne cadde altra, per modo che la madre rimase davvero sotterrata per più di un mese; ma il fuoco non si spense mai nella capanna, perché ogni notte gli angioli scendevano giù dalla cappa del camino e mettevano legna e legna sul focolare. E neppur mancò mai erba fresca alla capra, né pane alla donna, poiché gli angioli portavano ogni notte abbondanti provviste, e si fermavano attorno al giaciglio di fieno, che madonna Bice aveva preparato ai suoi bambini, cantando cori celestiali, che Grifo e Leone ripetevano con le loro vocine infantili, guardando gli angioli con gli occhi sbarrati e i volti sorridenti. Era un paradiso per la povera donna quel soggiorno nella capanna; almeno lì non sentiva le aspre parole di ser Bindo, non udiva i lamenti della gente oppressa da lui, non vedeva le occhiatacce che egli lanciava sui figli suoi ogni volta che li scorgeva da lungi in collo alle loro balie. Ora ella non aveva altro che gioie e carezze; carezze dai bimbi, dalla capretta, e sorrisi dagli angioli bianchi e circonfusi di luce che andavano a visitarla. Con lo sparire delle nevi, madonna Bice ebbe timore di essere scoperta dal marito trattenendosi a così breve distanza da Poppi, e allora risolvette di partire; ma nel mettere la testa fuori della capanna, si accòrse che giro giro, a una certa distanza, i pruni erano cresciuti così folti da nasconderla a qualunque sguardo. Soltanto al di sopra la capanna era libera, ed era di sopra che scendeva il sole e faceva nascere l'erba dintorno, per modo da formare un bel prato, nel mezzo al quale zampillava una purissima sorgente. Mentre madonna Bice, gettatasi in ginocchio, ringraziava san Francesco di quel nuovo miracolo operato per sottrarla, insieme con i figli, alle ire del marito, il Santo le apparve e le disse: - Madonna, non tentar di uscire da questa fortezza di pruni. Qui crescerà tutto ciò che è necessario al sostentamento del corpo tuo e a quello de' tuoi figli; il sostentamento dell'anima cercalo nella preghiera. Con quest'acqua, che ha virtù salutari, bagna le gambe de' tuoi storpiati ed esse saneranno. Il Santo benedisse la donna, i bambini, l'acqua e la terra, e risalì al cielo. La madre, consolata da quella apparizione, prese subito il suo Grifo e, condottolo accanto alla fontana, bagnò con quell'acqua la gamba storpia, ma nel momento non vide che quella si raddrizzasse. Nonostante, era tanta la fede che ella aveva nel Santo, che bagnò anche la gamba storpia di Leone e quelle di Landino, e quindi li ripose sui loro giacigli di fieno, lasciandoli alle cure della capra, che scherzava con loro, li nutriva e li riscaldava. Allora madonna Bice si diede a esaminare lo spazio di terreno che correva fra la capanna e la barriera di pruni, e vide che quel tappeto verde, che a prima vista le era parso di erba, si componeva di tante pianticelle di legumi, che crescevano miracolosamente sotto gli spruzzi dell'acqua che scaturiva dalla fontana. V'erano rape, cavoli, fagiuoli, zucche, e, mentre nei campi quelle piante avevano bisogno di spazio e di un lungo periodo di tempo per giungere a maturazione, lì crescevano una accanto all'altra, e in una sola giornata erano buone da mangiare. Lo stesso avveniva degli alberi, che crescevano a vista d'occhio e con tanti rami da fornir fascine per il fuoco alla povera donna, nonché frutti succosi ai due bimbi più grandicelli. Madonna Bice non aveva mai goduto una pace più grande dacché era moglie di ser Bindo, e dal suo cuore partiva a ogni ora del giorno un inno di ringraziamento al suo Santo protettore. Ella non si stancava di bagnare le gambe dei suoi bambini con l'acqua miracolosa, e quelle gambe prendevano forza, si coprivano di carne e di muscoli, tanto che i piccini incominciavano a potersene servire e a zampettare sul prato, rincorrendo la capra e i caprettini che ella aveva partoriti. A farla breve, in capo a un anno, madonna Bice era circondata da tre bimbi belli e forti, che erano il suo orgoglio e la sua consolazione, e in quell'angusto spazio di terreno non le pareva di esser prigioniera, ma bensì libera, perché in quel circuito ristretto crescevano piante e fiori, e il suo sguardo poteva contemplare il sole e le stelle, e riportarsi sui bimbi, che erano per lei il mondo intero. Ser Bindo, invece, tormentato da una terribile malattia, era inchiodato da più mesi nel letto, con immensa soddisfazione dei suoi sottoposti. Una specie di cancrena gli aveva mangiato la polpa delle gambe, e da tutto il suo corpo emanava un puzzo così forte, che nessuno poteva avvicinarglisi. Il temuto e prepotente signore era dunque costretto a raccomandarsi ai servi che gli portassero il vitto, i quali spesso, neppur con le raccomandazioni più umili, riuscivano a sormontare la ripugnanza che provavano. La sola persona che avesse misericordia di lui era una vecchia serva di madonna Bice; ma la vista di quella donna era un tormento per ser Bindo, poiché ella invocava di continuo la buona padrona, e diceva: - Questa vostra malattia è una punizione mandata dal Cielo per aver discacciato la moglie vostra e i figli. Per non udire questi rimproveri, che in altre condizioni sarebbero costati la vita alla imprudente donna, ser Bindo faceva a meno di farsi assistere da lei, e preferiva essere abbandonato giorno e notte come un cane. Il dottore l'aveva bell'e spacciato; le donne del paese che conoscevano la virtù delle piante, non lo volevano curare; e ser Bindo, in mezzo ad atroci spasimi, si vedeva davanti la morte, che gli metteva un grande spavento perché sapeva che, una volta nel mondo di là, avrebbe dovuto render conto delle sue azioni, e specialmente delle barbarie commesse verso il sangue suo. Un giorno, mentre spasimava e gridava come un cane arrabbiato, si presentò sull'uscio della sua camera un servo, annunziandogli che un frate francescano si offriva di curarlo. - Fatelo entrar subito, - ordinò ser Bindo. Il frate fu introdotto. Era un vecchio con la lunga barba bianca, curvo, cadente. - Fratello, - disse al malato, - io ti reco la salute, affinché tu abbia tempo di pentirti della vita che hai menato. Anche infermo, ser Bindo conservava la violenza dell'animo. Perciò divenne rosso in volto a quel rimprovero, e, drizzatosi sul letto, rispose con voce minacciosa: - Frate, è inutile che tu rimanga presso il mio letto; io non tollero accanto a me chi osa giudicare le mie azioni; vattene! - e con l'indice teso gli accennava la porta. - Non sono le tue ingiurie che mi faranno partire. Vecchio e cagionevole come sono, ho fatto il disagioso cammino dalla Verna a qui, per ordine del beato san Francesco, il quale mi ha ingiunto di disputare la tua vita alla malattia e la tua anima al suo eterno nemico, il demonio. Tu potresti anche minacciarmi di morte, ma io rimarrei! Ser Bindo, non potendosi muovere, urlò, sbraitò, senza che nessuno accorresse alle sue grida; e il frate pregava senza prestar orecchio alle villanìe che il vicario si lasciava uscir di bocca, come se non fossero dirette a lui. Così rimase il frate tutto il giorno accanto al letto dell'infermo, e questi, stanco alfine d'inveire contro di lui, e sentendo aumentare gli spasimi, disse con la sua solita manieraccia: - Se hai un rimedio, usalo, perché io mi sento morir dal dolore. Il frate era sicuro che si sarebbe venuti a questi ferri. Egli cavò da una bisaccia un vasetto di balsamo, e, sfasciate le gambe dell'infermo, le unse tutte con quello, recitando a bassa voce una preghiera. Dopo poco lo spasimo cessò, e ser Bindo, il quale non sapeva più che cosa fosse sonno, dormì profondamente per più ore. Al suo destarsi vide il frate inginocchiato che pregava, benché la notte fosse nel colmo. - Che cosa fai costì? - gli domandò il vicario. - Prego per te e attendo che tu mi chieda di assisterti, - rispose fra' Celestino. - Quale interesse ti spinge a questo? - Nessuno, fratello, altro che quello di redimere un'anima. - Non lo credo. Fra' Celestino non rispose e continuò a pregare. Ser Bindo, invece, si addormentò, ma poco dopo si destò, gridando come un dannato. - Che hai, fratello? - gli domandò fra' Celestino alzandosi e curvandosi su di lui. - Soffri forse nuovi spasimi? Il vicario accennava di no col capo, e quando si fu riavuto un poco rispose: - Frate, io ho veduto in faccia la morte, che mi voleva acchiappare, e dietro a lei v'era una voragine ardente, che ella mi accennava. Dimmi, sull'anima tua, credi tu che quella sia la pena che mi aspetta? - Se non ti penti, lo credo fermamente. L'infermo non aggiunse altro, e poco dopo si riaddormentò. Il frate continuò a pregare con maggior fervore di prima, implorando da san Francesco che intenerisse con un raggio della sua fede quell'anima indurita nel peccato. E san Francesco apparve in sogno al vicario e gli parlò con quella voce dolce che ammansiva le fiere, dimostrandogli la sua perfidia, non solo verso la gente affidata al suo governo, ma principalmente verso la moglie e i figli suoi; e gli fece vedere madonna Bice ramminga per i boschi, portandosi faticosamente in collo i tre bimbi, i tre poveri bimbi storpi, che ella guardava con beatitudine, come se fossero tre angioli di bellezza. - Quella madre è felice, - disse il Santo, - e tu pure potresti esser consolato, poiché la felicità le viene dal sentimento di aver fatto il suo dovere, dalla consolazione di dedicarsi a quelle tre creature. Il cuore indurito del vicario si commosse a quelle parole di san Francesco. - Se potessi ritrovare madonna Bice e ricondurla presso di me! - esclamò. - Se il tuo pentimento è sincero, la ritroverai, e io ti darò una guida sicura per rintracciarla, - disse il Santo, e sparì. Quella volta ser Bindo si destò senza gridare, senza spasimare, e vedendo fra' Celestino inginocchiato e pregante, gli disse: - Frate, metti un poco del tuo balsamo sulle mie ferite: io ho bisogno di guarire, perché debbo rintracciare mia moglie e i miei figli. Il frate non si meravigliò udendolo parlare in quel modo, perché sapeva che san Francesco aveva la virtù di operare grandissimi miracoli; e col balsamo unse le piaghe del vicario. Quelle piaghe si rimarginavano a vista d'occhio, e l'infermo non cessava di domandare quando sarebbe stato guarito, perché era punto dal desiderio di partire presto. Allorché in capo a tre giorni le gambe ritornarono sane come prima, ser Bindo disse al frate: - Ora che il corpo è guarito, curiamoci l'anima, venerando fratello. E inginocchiandosi dinanzi a lui, fece ampia confessione de' suoi peccati, accompagnando la narrazione con lacrime di sincero pentimento. Il frate pure piangeva commosso, vedendosi dinanzi quel grande peccatore ammansito dalla parola di san Francesco, e ringraziava umilmente il venerato capo del suo ordine di averlo scelto per istrumento della conversione di ser Bindo. Appena il vicario si fu alleggerito la coscienza da quel peso, ed ebbe pronunziato l'atto di contrizione, promettendo di scontare con tante opere di carità le sue azioni malvage, ordinò che gli fosse sellato un cavallo, e, vestitosi in fretta, partì alla ricerca di madonna Bice e dei suoi figli. Fra' Celestino lo accompagnò con le sue preghiere, e quando ser Bindo ebbe sceso il monte di Poppi, vide avverarsi la promessa del Santo, poiché da una siepe sbucò fuori un cane da pastori, che prima abbaiò per salutarlo e quindi si pose avanti al cavallo, servendo di guida al cavaliere. Così camminarono lungamente, finché il cane non si fermò sul limitare di un bosco. Il vicario vi spinse il cavallo e avrebbe voluto andar oltre, ma il cane si diede a saltargli alle gambe, quasi lo volesse trattenere. Era già notte, e ser Bindo capì che doveva pernottare in quel luogo, forse per non turbare il riposo della madre e dei bambini. Egli scese dunque da cavallo, e dopo aver mangiato le poche provviste che aveva seco, legò il cavallo a un albero sotto il quale si distese e dormì placidamente come non aveva dormito dopo che la sua anima s'era macchiata da tanti peccati. Gli uccelli, che salutavano il nuovo sole, lo destarono al far del giorno. Allora ser Bindo rimontò a cavallo, e questa volta il cane non si oppose alla sua andata; anzi, abbaiando festosamente, lo guidò fra i castagni, fino a una siepe di foltissimi pruni, che si diede a strappare con le zanne. Il cavaliere capì, e, balzando di sella, trasse la spada e cercò di aprirsi un varco nel prunaio. Ma in questo lavoro si forava le mani, lasciava la pelle attaccata agli spini e sanguinava da tutte le parti. Nonostante non cessava di tagliare per giungere alla moglie; ma ogni tanto il pensiero di vedersi davanti i tre storpiati gli toglieva il coraggio di proseguire, e allora gli veniva la voglia di scappar lontano, di lasciare madonna Bice e i tre bimbi al loro destino. In quei momenti di scoraggiamento sentiva o gli pareva di sentire la dolce voce del Santo che gli diceva: - Prosegui nella via del pentimento; non ti saranno rimessi i peccati altro che se tu ricondurrai a casa la infelice madre e i tre bimbi. E allora ser Bindo riprendeva coraggio e tagliava con più energia i pruni. Finalmente egli forò quella folta parete, e l'occhio suo si portò nel centro della spianata dove sorgeva la fontana. E quale non fu la sua gioia quando, invece di tre bimbi macilenti e deformi, vide saltare tre creature sane, belle e allegre, che si baloccavano con un caprettino di latte e ridevano delle capriole della bestiolina. Ser Bindo, senza pensare ai pruni, fece uno strappo alla pungente barriera, e in pochi salti fu accanto ai bambini e se li strinse al cuore coprendoli di sangue. Essi gettarono un grido, e madonna Bice, che era nella capanna, accorse spaventata. Ma quando ella vide il marito che accarezzava le sue creature, non poté più camminare, non poté più parlare, e cadde in ginocchio alzando le mani al cielo, in atto di profondo ringraziamento. Ella non disse al marito una sola parola di rimprovero per le sue barbarie, e appena poté moversi, corse ad attingere acqua alla fontana e con quella gli lavò le ferite. Il sangue si stagnò improvvisamente, e ser Bindo, commosso da tanta dolcezza, s'inginocchiò dinanzi alla moglie e le disse umilmente : - Mi perdoni? Ella non poté rispondere, ma gli prese la mano e la bagnò di lacrime. Poche ore dopo ser Bindo faceva salire a cavallo madonna Bice, le poneva fra le braccia i due figli maggiori, ed egli, tolto Landino in collo, conduceva il cavallo per la briglia fino al castello di Poppi. In quel momento il cane che lo aveva guidato fece un lancio e, abbaiando, sparì. La gente accorreva meravigliata sulle porte delle case per vedere passare il prepotente signore, ora così umile, e bisbigliava che soltanto un grande miracolo poteva averlo cambiato a quel modo. - Salute, fratelli! Salute, sorelle! - diceva ser Bindo passando accanto alla gente. - Pregate per l'anima mia! Da quel giorno il vicario non commise più nessuna prepotenza a danno del popolo a lui affidato, e fu eccellente marito e padre esemplare. Egli spese tutte le sue ricchezze in elemosine e nella costruzione di una chiesa, che fece erigere nel luogo dove la moglie e i figli suoi avevano passato un anno, e che dedicò a san Francesco. L'acqua della fontana, che aveva servito a togliere la deformità ai tre storpi di madonna Bice, sgorga ancora; ma ha perduto la sua virtù; forse perché nessuno l'ha usata con la stessa fede dell'infelice madre, la quale morì in tarda età, venerata da tutti e invidiata dalle altre donne per il valore, la saggezza e la generosità dei suoi figli. Qui la Regina tacque e la Vezzosa prese a dire: - Anche voi, mamma, siete invidiata per aver d'intorno una nidiata di figliuoli sani, buoni e operosi; ma a voi sono state risparmiate le prove dolorose che ebbe a sopportare madonna Bice prima di conseguire quella felicità, non è vero? La vecchia guardò la giovine sposa, poi chinò il capo, e il suo volto, di consueto così sereno, si rannuvolò. Cecco, che aveva seguìto quella scena muta, si accostò alla moglie e la tirò per la manica, affinché non ripetesse l'intempestiva domanda; poi andò verso la mamma, e, per toglierla dall'abbattimento nel quale l'avevano piombata le parole di Vezzosa, la invitò ad andare a letto. Nessuno osò più parlare quella sera, e la veglia incominciata gaiamente, terminò molto triste. - Ma che mistero c'è sotto? - domandava Vezzosa al marito. - Lo saprai, ma ora taci; non vedi come tutti si sono fatti silenziosi?

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