Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

. - Abbiate pietà di noi poveri ladri, comare Formica! Erano più morti che vivi. Già spuntava l'alba. Comare Formica n'ebbe compassione. - A patto che non facciate male al marito di costei! Il poveretto non ci ha colpa. - Non gli faremo alcun male. Sentendosi sciogliere braccia e gambe, i ladri si rizzarono, e via di corsa, senza voltarsi addietro: pareva che avessero le ali ai piedi. E alla Boccabella, dal gran dispiacere, rimaneva la bocca così amara, come se avesse masticato tòssico. D'accordo con le altre sei comari, ella tentò un'altra bricconata. Si presentò da quel riccone che era stato derubato: - Volete trovare ogni cosa? Io so chi è stata la ladra; ma voglio una buona mancia. - E una buona mancia avrete. Chi è stata la ladra? - Comare Formica. - Quella povera donnicciola? Non è possibile. - Mandate subito, i birri: troveranno ogni cosa. Vanno i birri: cerca, fruga, rimesta, e non trovano niente. - Se ve l'ha detto la Boccabella, vuol dire che gli oggetti rubati sono in casa sua. Vanno i birri, e senza bisogno di frugare, trovano le bisacce dei ladri riposte in un canto, e nella cassa e nelle cassette tanti altri oggetti di oro e di pietre preziose. E la Boccabella presa ed ammanettata fu condotta in carcere: e la sua bocca diveniva ancora più amara, quasi avesse masticato tòssico. Dopo di questo, comare Formica fu lasciata in pace. Le vicine, specie quelle dei galletti, avevano paura di lei. - Dev'essere una Strega! Lei invece filava, cuciva, tesseva, cantando sempre allegramente: - Fuso mio, gira · trova ... o pure: - Gugliata, gugliatina ... o pure: - Vola, spolina mia, vola, sposina!. e la sua voce squillava per la via, così limpida e dolce, che era una delizia stare ad ascoltarla. Le altre vicine, che erano curiose, sì, ma non avevano preso parte alle birbonate contro di lei, le domandarono: - E il palazzo, quando ve lo farete fabbricare, comare Formica? - Una di queste mattine, comari. - E il marito, lo avete già trovato il marito? - Verrà una di queste mattine, comari. Palazzo finito Attende il marito. - Sempre allegra, comare Formica. Ah! Ah! ... - Ride meglio chi ride l'ultima. Ma quale non fu lo stupore di quelle buone comari, quando una mattina videro che la casetta di comare Formica era stata trasformata, durante la notte, in un meraviglioso palazzo assai più grande e più bello del palazzo reale! E comare Formica, con la rocca al fianco e il fuso in mano, filava davanti il grande portone quasi non fosse accaduto niente di nuovo. - Fuso mio, gira e trotta! - Chi vi ha fabbricato questo palazzone, comare Formica? - Venne il vento e portò i sassi. - E poi? - Venne il vento e portò rena e calce. - E poi? - Venne il vento e portò l'acqua. - E poi? - Sassi, rena, calce ed acqua ... e il palazzo si è rizzato. - Sempre allegra, comare Formicai Il giorno dopo, comare Formica cuciva, seduta davanti al portone, quasi non fosse accaduto niente di nuovo. - Gugliata, gugliatina ... - Siete così ricca, e vi affannate a cucire? - Chi non lavora non mangia. - Lasciatelo dire a noi, comare Formica! - L'apparenza inganna, comari mie. - E il marito? - É in viaggio; arriverà una di queste mattine. - Come? Ce lo dite piangendo? - Solo il mestolo sa i guai della pentola! - Ah! povera comare Formica! Era stata sempre di buon umore, vivendo con un po' di pane, un po' di Cacio o una cipolla per companatico, e una bella bevuta d'acqua, ed ora che aveva quel palazzone e attendeva il marito, ora piangeva? Era proprio vero che solo il mestolo sa i guai della pentola! Il giorno dopo, comare Formica, dentro il portone, tesseva, quasi non fosse accaduto niente di nuovo, - Vola, spolina mia, vola, spolina ... - Siete ricca e vi spezzate le braccia tessendo? - Questa è l'ultima tela, comari mie. - Perché mai, comare Formica? - Perché viene il fuoco e mi brucia rócca, fuso e pennecchio. - E poi? - Viene il fuoco e mi brucia lenzuola e guanciali da cucire. - E poi? - Viene il fuoco e mi brucia velo di sposa e veste di Regina. - Non piangete, comare Formica! - La mia mala sorte vuole così. - Se avete bisogno di noi, comandateci, comare Formica! Povere siamo ma di buon cuore. Durante la nottata, le vicine sentirono soffi violenti e urli di vento attorno al palazzo di comare Formica. Ahuiii! Ahuiii!, quasi il vento gli girasse da ogni lato e tentasse di buttarlo giù o di portarlo via. Non osavano di affacciarsi per vedere quel che succedeva. E se si fossero affacciate avrebbero visto il palazzo tutto illuminato, tutte le finestre spalancate e due ombre correre per le stanze, una inseguendo l'altra, come spinte da una furia di vento che urlava: - Ahuiii! Ahuiii! Non era il vento, ma l'Orco che voleva afferrare comare Formica e non riusciva a raggiungerla. Intanto verso l'alba il rumore cessava. L'Orco scappava via - Ahuiii! Ahuiii! - per paura del sole, e il palazzo tornava allo scuro, con le finestre tutte chiuse. - Avete sentito, comare Formica, che ventaccio stanotte? - Non ho sentito niente, comari mie. - Come? Sembrava che volesse sradicare il vostro palazzo! - Non mi sono accorta di niente. Ho il sonno duro. - Perché piangete, comare Formica? - La mia mala sorte vuole così. - Non filate oggi, comare Formica? - Il fuoco mi ha bruciato rócca, fuso e pennecchio. - Non cucite oggi, comare Formica? - Il fuoco mi ha bruciato lenzuola e guanciali da cucire. - Non tessete oggi, comare Formica? - Il fuoco mi ha bruciato telaio, spola, ordito, velo di sposa e veste di Regina. E, la notte dopo, l'Orco tornava precisamente a mezzanotte. Ahuiii! Ahuiii! - Vuoi essere l'Orchessa, sì o no? - No! No! No! - Invece di pane, con Cacio o cipolla per companatico, mangeresti carni tenere di bambini e di bambine; invece di acqua, berresti sangue fresco di giovani e di zittelle. Vuoi essere l'Orchessa, sì o no? - No! No! No! - Prendo te e ne fo un boccone! E le vicine, se si fossero affacciate, avrebbero visto il palazzo tutto illuminato, tutte le finestre spalancate, e due ombre correre per le stanze una inseguendo l'altra, come spinte da furia di vento. Verso l'alba il rumore cessava. - Avete sentito, comare Formica, che urli stanotte? - Non ho sentito niente; ho il sonno duro. - Perché piangete, comare Formica? - La mia mala sorte vuole così! - Buon tempo e cattivo tempo non durano gran tempo. - Forse dite bene, comari! - Parliamo di cose allegre: e il marito, comare Formica? - Prima devo ringiovanire, - Sempre allegra, nonostante i guai! - Aspettate e vedrete. Insomma, con quella comare Formica non ci si capiva nulla; metteva a covare i soldi e i pulcini nascevano; menava vita da poveretta e si faceva fabbricare un palazzo più grande e più bello di quello del Re; venivano i ladri per rubarle i quattrini messi da parte, e invece lei legava e spogliava i ladri; piangeva la sua mala sorte e subito dopo le scappava di bocca una facezia. Chi era? Perché aveva detto: - Mio padre è Re, mia madre Regina, Ed io sono una povera vecchina -? Ed ora perché aveva detto: - Prima devo ringiovanire -? Le volevano bene: era buona, non dava noia a nessuno; ma avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava. E la notte dopo, di nuovo, precisamente a mezzanotte, - Ahuiii! Ahuiii! - l'Orco arrivava come un uragano. - Vuoi esser l'Orchessa, sì o no? . - No! ... Sì! ... No! ... Dal terrore la poverina non sapeva quel che si dicesse. - Sì o no? - Sì, sì! Ma devi darmi tempo un mese e un giorno. - Un mese, un giorno e un'ora! - E devi promettermi che per tutto questo tempo non mangerai carni tenere di bambini e di bambine, né berrai sangue fresco di giovani e di zittelle; non mangerai carne di sorta alcuna. - Te lo prometto. - Porterai qui i bambini e le bambine, i giovani e le zittelle, e ... e faremo un gran banchetto il di delle nozze. - Ah! bella! Ah bella! L'Orco, enorme, brutto, peloso, faceva così strani movimenti di tutto il corpo per significar tutta la sua gioia, che comare Formica non poté trattenersi dai ridere. Ma già si avvicinava l'alba, ed egli si affrettava ad andar via per paura, del sole... Ahuiii! Ahuiii! - Avete sentito, Comare Formica, che urli questa notte? - Non ho sentito niente; ho il sonno duro. - E il marito, comare Formica? - Prima devo ringiovanire. - Sempre allegra, nonostante i guai! Insomma con quella comare Formica non ci si capiva nulla. Le volevano bene; era buona, non dava noia a nessuno: ma avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava. Invecchiava - il tempo passava anche per lei - e lei parlava di ringiovanire! E la notte dopo, Ahuiii! Ahuiii! - ecco l'Orco con tre bambini e tre bambine, un giovane e una zittella. - Ingrassali bene con latte e riso; da qui a un mese saranno un boccone da Re. - Mi son dimenticata il meglio: per regalo di nozze devi portarmi una conocchia di argento e un fuso di oro; più un.agoraio di oro e un ago di argento; più un telaio di argento e una spola di oro. - Vado e torno subito. E in men che non si dica - Ahuiii! Ahuiii! - le riportava i regali di nozze richiesti. Nella giornata le vicine si stupirono vedendo comare Formica che filava davanti al portone del palazzo, come una volta. - Oh la bella rócca! Oh il bel fuso! - Cosine da niente, comari mie! Più tardi: - Oh il bell'agoraio! Oh la bella spola! - Cosine da niente, comari mie! - Ci avete gente in casa? Ridono, fanno il chiasso ... - Chi vuole un bel bambino o una bella bambina, glieli regalo. - Bocche che mangiano non ne prende nessuno. Sempre allegra, comare Formica! Come? regalava anche dei bambini? Ora se ne capiva meno di prima! Avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava. La mattina dopo, comare Formica filava davanti al portone e cantava: - Fuso mio, gira e trotta ... Molti ragazzi si erano radunati attorno a lei, con la bocca aperta di ammirazione per la bella rócca di argento e il bel fuso d'oro. - Comare Formica, perché non ci raccontate una fiaba? - Se state cheti,,ve la racconterò. - Come l'olio, comare Formica. Dunque ... C'era una volta una Reginotta, vanitosa, superbiosa, disubbidiente, gelosa, cattiva che era la disperazione della nonna. Non voleva far niente. - Non voglio sciuparmi le mani! - Se non ti emenderai verrà l'Orco e t'inghiottirà in un boccone. - Ben venga l'Orco; quando sarò cresciuta me lo prenderò per marito! La nonna era una Maga, di quelle però che fanno opere buone; e per virtù di filtri e d'incanti la trasformò in maniera che l'Orco non potesse riconoscerla. L'Orco aveva appreso le parole di quella sventata, ed era contentissimo di sposare una bella Reginotta, e la cercava per mare e per terra. - É finita? - Per oggi è finita. La mattina dopo, comare Formica cuciva davanti al portone: - Gugliata, gugliatina ... e i ragazzi si erano di nuovo radunati attorno a lei, con la bocca aperta di ammirazione pel bel ditale d'oro e per il bell'ago di argento. - E la fiaba lasciata in asso, comare Formica? - La riprenderò, se state cheti. - Come l'olio, comare Formica. - Dunque ... Dove eravamo rimasti? Ah! Che l'Orco contentissimo di sposare una bella Reginotta, la cercava per mare e per terra e non riesciva a trovarla. La nonna voleva, sì, gastigare la cattiva nepotina e ridurla buona, e a questo fine ne aveva fatta una vecchina, l'aveva mandata in un paese lontano, dove nessuno la conosceva, lusingandosi che l'Orco non l'avrebbe trovata. E siccome pel termine del giusto castigo mancavano pochi mesi, così la nonna gli aveva preparato un magnifico regalo ... - Quale regalo, comare Formica? - Ve lo dirò un'altra volta. La mattina dopo, comare Formica era dentro il portone col bel telaio di argento e la bella spola d'oro e tesseva: - Vola. spolina mia, vola, spolina! e i ragazzi, figuriamoci se si erano di nuovo radunati attorno a lei con la bocca aperta di ammirazione pel bel telaio di argento e per la bella spola di oro. - E la fine della fiaba, comare Formica? - La mia fiaba non ha fine. Dunque... Dove eravamo rimasti? Ah! Al magnifico regalo della nonna. Ma appunto fu quello che fece scoprire la Reginotta all'Orco ... E dovrà forse sposarlo .... - No! No! Non glielo fate sposare, comare Formica! - Le fiabe sono come sono, e non si possono mutare. I bambini si misero a strillare, e piangendo: - No! no! Non glielo fate sposare, comare Formicai I bambini strillavano e piangevano e le loro mamme ridevano. - Fàteli contenti, comare Formica! - Le fiabe sono come sono e non si possono mutare. Intanto, se mi volete bene, dovete ogni notte far guardia al mio palazzo ... E quando sentirete avvicinare ... il ventaccio - Ahuiii! Ahuiii! - prendetevi per le mani, da una cantonata all'altra senza lasciarvi un istante ... E allora i bambini saranno contenti: non farò più sposare l'Orco con la Reginotta, Comare Formica diventava più misteriosa di giorno in giorno; di giorno in giorno se ne capiva men di prima. Le vicine avrebbero pagato chi sa che cosa per sapere chi veramente fosse. Una, la più vecchia, disse: - Volete scommettere che la Reginotta vanitosa, superbiosa, disubbidiente, gelosa, disperazione della nonna, era lei? - Ma che! Ma che! Una vecchina che per tanti anni ha lavorato da mattina a sera, ha mangiato pane e Cacio o pane e cipolla, e ha bevuto soltanto acqua pura! Non può essere! Non può essere! - Stiamo a vedere! E da parecchie notti, poverine, facevano la guardia al palazzo di comare Formica, prese per mano da mezzanotte all'alba. E ogni notte udivano da lontano il ... ventaccio, come aveva detto comare Formica che soffiava: - Ahuiii! Ahuiii! - e non osava di avvicinarsi. Nessuno capiva quell': Ahuiii! Ahuiii! Soltanto comare Formica, invece di quel grido, sentiva: - Rendimi almeno i bambini e le bambine! É un mese che non mangio carne cristiana, e non: ne posso più! Rendimi almeno il giovane e la zittella, è un mese che non bevo sangue cristiano e non ne posso più. Ahuiii! Ahuiii! Erano passati un mese e un giorno: restava un'ora. E appunto prima che finisse quell'ora le vicine videro compirsi un portento. Mentre parlava con loro e rideva e le faceva ridere col buon umore di una volta, tutt'a un tratto, comare Formica cominciò a raccorciarsi, a raccorciarsi, a coprirsi di grinze, quasi la pelle dovesse staccarsi dal corpo, e uscirne fuori qualche altra persona. Le stavano attorno atterrite, senza aver animo di soccorrerla, incapaci di gridare, quando, ecco, le vesti e la pelle di comare Formica si squarciarono e ne usciva una bellissima giovanetta, bionda, con occhi celesti, sorridente, che sembrava essersi destata allora allora da. lunghissimo sonno. E aveva nell'aspetto e nei modi tanta dolcezza, tanta bontà, tanta modestia, da allontanare ogni sospetto che la Reginotta vanitosa, superbiosa, disubbidiente, cattiva, gelosa, disperazione della nonna, fosse stata proprio lei, come aveva detto quella vecchia, e che il gastigo l'avesse cambiata. - Era o non era dunque? . La fiaba non lo chiarisce e si arresta qui. Se poi volete saperne di più, mettetevi la via tra le gambe, andate nel paese dove comare Formica si fece fabbricare il bel palazzo di cui forse rimane qualche vestigio, se pure il vento, che allora apportò sassi, rena e calcina e acqua, non l'ha, dopo tanto tempo, spazzato via. Ma forse fareste inutilmente questo viaggio ... E poi, bambini miei, non è bene essere eccessivamente curiosi. Larga la via, stretta la foglia E siam rimasti tutti con la voglia.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682214
Salgari, Emilio 7 occorrenze

Si fermò dinanzi al conte, facendo un grazioso inchino, accompagnato da un delizioso sorriso, poi, stendendogli la destra, gli disse: - Sono lieta che voi, signor conte, abbiate accettato il mio invito. - Gli uomini di mare son ruvidi, marchesa; ma non rifiutano mai un invito, specialmente quando vien fatto da una signora bella come voi. Quelle parole fecero corrugare piú di una fronte e sollevarono fra gli adoratori della marchesa qualche mormorio. Il Conte de Miranda si voltò vivamente, con la sinistra appoggiata fieramente sull'elsa della spada e la destra sul fianco, e disse con voce chiara: - Pare che a qualcuno non sia piaciuto quel che ho detto: si sappia che noi, figli dell'oceano, sappiamo guidare le navi, ma regalare anche una buona stoccata. - Vi siete ingannato, signor conte - disse la marchesa. - Qui tutti hanno molta stima per gli uomini che, sfidando tempeste e pericoli, ci difendono dai filibustieri della Tortue. Nessuno aveva osato fiatare e le fronti si erano spianate. Solamente un capitano degli alabardieri di Granata, un pezzo d'uomo alto un palmo piú del giovane conte, era ancora molto corrucciato. - Signor conte, - disse la marchesa di Montelimar - volete offrirmi il vostro braccio? Sarò orgogliosa di appoggiarmi ad un forte uomo di mare. - Che metterà la sua spada e la sua vita sempre a vostra disposizione, marchesa - rispose il bel giovane, guardando insolentemente gli invitati che manifestavano un po' di malumore per la preferenza accordata dalla bella vedova a quel capitano sconosciuto a tutti. - Non chiedo tanto conte. Danzate? - Sí, marchesa; alla francese però, perché sono stato educato in Provenza. - Come mai? Non siete spagnuolo? I de Miranda, se non m'inganno, sono castigliani. - Puro sangue; ma mio padre aveva sposato una francese, e mi affidò ancora bambino ai parenti di mia madre. - Infatti mi accorgo che voi avete un accento diverso dal nostro. - Gli uomini di mare visitando tanti paesi, perdono l'accento della madre lingua; poi ho soggiornato molto anche in Italia. - Ecco perché voi parlate cosí dolcemente. Ah, l'Italia! Anch'io l'ho visitata ... E venite ora ... ? - Da Vera-Cruz, marchesa. - Dopo aver incontrato chi sa quante avventure! - No, marchesa: una tempesta ed un paio d'abbordaggi con due navi filibustiere. - Che avrete affondato, immagino. - Rimorchiate, marchesa, dopo aver imprigionato i loro equipaggi. - Ed ora andavate? ... - Mi fermo qui per difendere San Domingo. - Siamo minacciati? - Si dice che i bucanieri, d'accordo con i filibustieri, si preparino per un colpo di mano contro questa città, ma troveranno sul loro cammino i quaranta cannoni della mia Nuova Castiglia, e vi giuro, marchesa, che li farò ... Il conte si interruppe bruscamente e si voltò di fianco. Un capitano degli alabardieri, lo stesso che poco prima aveva borbottato piú degli altri, un bell'uomo sulla quarantina, alto come un granatiere, con due immensi baffi cadenti alla chinese, gli si era fermato a pochi passi come se cercasse di sorprendere le sue parole. Alla fermata improvvisa del giovane capitano, aveva girato sollecitamente sui talloni, battendo impazientemente la sinistra sulla guardia della sua lunga spada e abbordando una signora che in quel momento attraversava la sala. - Chi è quel signore? - chiese il conte alla marchesa, aggrottando la fronte. - Il conte di Sant'Iago, capitano degli alabardieri del reggimento di Granata - rispose la marchesa di Montelimar, sorridendo. - Vi interessa? - Niente affatto, signora. Mi pareva che ci seguisse, per ascoltare ciò che noi dicevamo. - È un mio adoratore. - Ad una cosí bella signora non possono mancare. - Oh, conte! - esclamò la marchesa, battendogli su una mano il suo ricco ventaglio dalle stecche d'oro. - Vi ama? - Alla follia. La settimana scorsa uccise un luogotenente di marina con un terribile colpo di spada, perché credeva che io avessi per quel disgraziato qualche preferenza. - Ah! Il capitano è geloso? - E un buon spadaccino, a quel che si dice - aggiunse la marchesa. - Vorrei provare un po' la sua abilità - disse il conte con voce ironica. - Guardatevene, signor de Miranda! - E che, marchesa; mi credereste voi tal uomo da aver paura di quel capitano? - No, conte, ma mi rincrescerebbe ... - Che cosa? - Che vi toccasse qualche disgrazia - rispose la marchesa, alla quale pareva che un'improvvisa commozione avesse alterato l'accento. Il giovane capitano si staccò dal suo braccio e la guardò con sorpresa: - A voi, che mi conoscete appena da cinque minuti, - disse - a voi spiacerebbe se mi succedesse qualche disgrazia? - Io ammiro i gentiluomini coraggiosi e amabili come voi, conte. Il giovane represse un sospiro, poi disse a mezza voce:: - È strano; anche mio zio ... Ma tosto s'interruppe, stringendo le labbra. - Che cosa avete detto, conte? - chiese la marchesa di Montelimar. - Che la musica è ottima, e che si potrebbe danzare questo delizioso fandango. - Era quello che volevo proporvi. - Ai vostri ordini, marchesa. Le danze erano già state riprese. Dame e cavalieri giravano vorticosamente nelle splendide sale del palazzo di Montelimar, elettrizzati da una dozzina di suonatori nascosti dietro ad una specie di giardinetto formato da una doppia fila di superbi banani, le cui grandissime foglie s'alzavano fino al soffitto dorato. Il conte cinse il fianco della marchesa e si slanciò agilissimo nel turbine dei danzatori e delle danzatrici. Alcuni si erano fermati per ammirare quel bellissimo giovane e la sua bellissima compagna, stupefatti della sua leggerezza e della sua grazia. Mai prima d'allora avevano veduto danzare a quel modo un uomo di mare. Il fandango era appena finito e il conte aveva ricondotta la marchesa al suo posto, quando alle sue spalle udí una voce che gli disse: - Signore, voi che danzate cosí bene, sapete giocare altrettanto bene? Il giovane capitano della Nuova Castiglia si voltò vivamente e non seppe frenare un moto di sorpresa nel vedersi dinanzi il capitano degli alabardieri del reggimento di Granata. Il conte lo fissò per un momento; poi rispose con accento ironico: - Un gentiluomo deve saper danzare, saper giocare e dare anche colpi di spada quando gli si offre l'occasione. - Vi ho proposto solamente di giocare, per ora - disse il capitano degli alabardieri. - Se ciò può farvi piacere eccomi ai vostri ordini, conte di Sant'Iago. - Come? Mi conoscete? - esclamò il capitano, facendo un gesto di stupore. - Cosí ... per caso La marchesa di Montelimar, un po' pallida, si era alzata. - Che cosa volete, conte di Sant'Iago dal conte de Miranda? - chiese. - Null'altro, signora, che proporgli una partita al montes - rispose il capitano. - Gli uomini di mare preferiscono il gioco alla danza; è vero, conte? - Qualche volta - rispose asciuttamente il giovane. - E poi avete già danzato una volta con la regina della festa. - Ma se la marchesa desiderasse fare un altro giro rinunzierei subito alla partita che voi mi proponete, checché dovesse succedere. - La notte non è ancora finita, e avrete tempo di muovere le gambe finché vorrete - disse il capitano degli alabardieri con sottile ironia. - Non giocate, conte - disse la marchesa. - Oh, non farò che una sola partita! - rispose il giovane capitano. - Sono distrazioni che piacciono alle genti che navigano. Andiamo, signor di Sant'Iago. Baciò galantemente la mano alla marchesa di Montelimar e seguí il burbero capitano degli alabardieri, non senza aver prima fatto alla bella vedova un leggero cenno, come per dirle: - Non vi preoccupate per me. Attraversarono l'ampia sala sfolgorante di luce, dove capitani di terra e di mare danzavano allegramente insieme con le piú leggiadre signore e signorine di San Domingo, ed entrarono in un salottino dove una dozzina di ufficiali, per la maggior parte vecchi, stavano giocando e fumando grossi sigari avana, senza occuparsi affatto della festa da ballo. Dei dobloni semplici e doppi scintillavano sui tavolini da giuoco, e dadi e carte venivano gettati con una certa noncuranza, piú affettata che reale, dai giocatori. - Signor conte, - disse il capitano degli alabardieri - preferite le carte o i dadi? Il giovane capitano di fregata parve pensare un momento, poi disse: - I dadi mi pare che diano un'emozione piú violenta delle carte, e ciò va benissimo per gli uomini di guerra abituati ai colpi di spada e di cannone. Non vi pare, signor di Sant'Iago? Non siamo dei tranquilli piantatori di canne da zucchero o d'indaco! - Avete dello spirito, conte. - Di mare, condito con molto sale - disse il giovane sorridendo. Noi siamo uomini molto salati. - Mentre noi siamo molto profumati, invece - rispose il capitano degli alabardieri di Granata. - Perché? - Viviamo sempre nei boschi, alla caccia dei bucanieri. - E ne uccidete molti di quei furfanti? - Uff! qualche volta qualcuno cade sotto i nostri archibugi, ma quasi mai sotto le alabarde delle nostre guardie. Appena quei furfanti odono lo sparo d'un archibugio, invece di attaccare, scappano come lepri. - Chi? I bucanieri o i nostri? - I nostri, conte. - Hanno tanta paura? - Basta talvolta un bucaniere bene imboscato per mettere in rotta i nostri alabardieri; e notate che non si mettono mai in campagna, se non sono almeno cinquanta. - Bel coraggio! - disse il conte de Miranda con un sorriso un po' sarcastico. - Carrai! vorrei veder voi al loro posto! - Li attaccherei a fondo alla testa dei miei marinai. - Si vede, infatti, che bella figura fanno i marinai che montano i nostri galeoni! - osservò il capitano beffardamente. - Dopo le prime cannonate, abbassano il grande stendardo di Spagna e consegnano ai furfanti della Tortue le verghe d'oro che hanno nella stiva. - I miei veramente ... Il conte di Miranda si fermò mordendosi le labbra come pentito di essersi lasciato sfuggire quella frase e disse: - Capitano, volete dunque che giochiamo? - Vi avevo invitato per questo. Vedremo se l'amore porta fortuna o sfortuna. - Che cosa volete dire? Il conte di Sant'Iago, invece di rispondere, fece un segno ad un servo negro gallonato vestito di seta e gli ordinò: - I dadi: vogliamo giocare. - Subito, signor conte. Un momento dopo il servo portava su un piatto d'argento finemente cesellato una piccola tazza d'oro con due dadi di dente di marsuino. - Che giochiamo, signor conte de Miranda? - chiese il capitano degli alabardieri. - Quello che volete. - Badate a quello che dite. - Perché, signor conte di Sant'Iago? - chiese il giovane con affettata indifferenza. - Carrai! - Caramba! Bestemmiate, signor conte. - Ed anche voi, mi pare. - Oh! Io sono uomo di mare! D'altronde nessuno vi proibisce di bestemmiare. Le genti di terra e di mare qualche volta vanno pienamente d'accordo su questo.. terreno. - Avete dello spirito, conte. - Qualche volta. - Giocate? - chiese il capitano. - Ve l'ho già detto: quello che desiderate. - Una pelle viva? Il giovane guardò il capitano con sorpresa - Non vi comprendo: quale può essere questa pelle viva? Quella d'un pescecane forse? Il capitano degli alabardieri di Granata si mise le mani sui fianchi, con un fare provocante, poi disse con voce grave: - Fra gli uomini d'arme di terra usa giocare una pelle, quando si è stanchi di gettare dell'oro sul tavolo. - Ossia? - chiese il conte de Miranda con calma. - Quello che perde si fa saltare il cervello con un colpo di pistola. - Brutto giuoco! - Anzi interessantissimo, perché si giuoca la vita d'un uomo. - Preferisco arrischiare i miei dobloni - rispose il giovane. - Lo trovo piú comodo. - E quando non se ne hanno piú? - Si lascia il tavolino da giuoco e si va a dormire nella cabina: almeno cosí usa nella marina. - Non fra noi però! - Che diavolo! Sareste uomini tanto diversi, signor conte? - Può darsi! - rispose seccamente il capitano. - Avete pessimi gusti. - Volete offendermi? - Io? Niente affatto, capitano, sono venuto qui per giocare e non per arrabbiarmi o suscitare uno scandalo. Che cosa si direbbe di me? - Forse avete ragione. - Lasciate dunque in pace le pelli vive o morte, e giochiamo dei dobloni o delle piastre. Quelle almeno non hanno peli né da vendere né da uccidersi - Puntate? - Cento piastre - rispose il giovane gentiluomo. - Volete rovinarmi? - No, perché sono un pessimo giocatore, signor di Sant'Iago; e poi non ho mai avuto fortuna né alle carte, né ai dadi. - L'avrete con le belle signore, con le marchese soprattutto - disse il capitano quasi con rabbia. - In mare non ho incontrato che navi, montate per lo piú da corsari, e quelle non mi regalavano baci, ve l'assicuro. Al mio saluto rispondevano invece con palle di buon calibro che facevano sudar freddo i miei uomini. - Ma in terra, sí però. - Signor di Sant'Iago, io sono entrato in questo salotto per giocare qualche migliaio di piastre e non già per chiacchierare. Dovreste saperlo che gli uomini di mare non amano parlar molto ... Cento piastre? - Sia! - rispose il conte di Sant'Iago con un gesto sprezzante. - Volete essere il primo? Il capitano, invece di rispondere, prese il bossolo d'oro, fece saltellare i dadi: poi li rovesciò sul tavolino. - Tredici! - disse. - Ecco un numero che porterà fortuna. - Siete superstizioso? - No, tuttavia questo tredici mi ha dato una scossa al cuore. - Allora morrete molto presto - disse il conte de Miranda ridendo. - Per mano di chi? - Non sono mai stato uno stregone, io. - D'un rivale? - Può essere. - Non lo credo, perché ne ho ucciso uno la settimana scorsa, per il semplice motivo che mi dava ombra. - Avete la mano troppo lesta, signor di Sant'Iago. - Che fora sempre quando stringe una spada. - Veramente anche la mia non è tarda - ribattè il giovane. Il capitano degli alabardieri lo guardò fisso fisso, come se cercasse di comprendere bene il senso di quelle parole, poi disse: - Tocca a voi. Il conte de Miranda prese a sua volta il bossolo e fece rotolare i dadi sul tappeto. - Quattordici! Che combinazione! - esclamò. - Caramba! Un tredici e un quattordici. Che cosa significano questi due numeri cosí vicini l'uno all'altro? Il capitano degli alabardieri si era passata una mano sulla fronte aggrottata. Una viva preoccupazione traspariva dal suo viso. - Che cosa ne dite voi, signor di Sant'Iago? - chiese il giovane. - Che voi avete vinte le mie cento piastre. - Di quelle non mi occupo: io parlo dei due numeri. - Nemmeno io sono uno stregone. - Continuate? - Sí: voglio vedere come si combineranno i nuovi numeri. Vi propongo tre colpi di cinquecento piastre ciascuno. - Sta bene: a voi. Il capitano riprese il bossolo e, dopo aver agitato nervosamente i dadi, li fece saltare sul tappeto. Un'imprecazione a malapena repressa gli sfuggí, mentre la fronte gli s'imperlava di sudore. - Tredici ancora! - aveva esclamato. - È col diavolo che io gioco? - Veramente sono vestito come lui! - disse il conte de Miranda, sempre ilare. - Giocate, per Dios! - Dodici! - esclamò il giovane. Il capitano sussultò. - Il tredici chiuso fra il dodici ed il quattordici! - disse, battendo un pugno sul tavolino. - Non trovate strano tutto ciò, conte? - Infatti è una cosa che dà a pensare. - E il numero fatale l'ho io! - Ma mi avete vinto cinquecento piastre, una somma che può consolare anche un capitano degli alabardieri. - Avrei preferito perderle, purché fosse uscito un altro numero. - Né io, né voi possiamo comandare ai dadi. Continuiamo. La partita fu ripresa, ed il conte d Miranda vinse le altre mille piastre, con un quindici e con un diciassette, contro un quattordici ed un sedici. Il capitano si era alzato di cattivo umore, nel momento in cui i servi annunciavano che era la mezzanotte e che perciò la festa era finita. - Vi manderò domani a bordo le millecento piastre che mi avete vinto, conte - disse il signor di Sant'Iago con voce secca. - Non abbiate fretta - rispose il giovane. - Mi accorderete una rivincita, spero. - Quando vorrete. - Non qui però. - Perché? - Non ho fortuna in questa casa. - E non si può litigar liberamente; è vero, capitano? - chiese il de Miranda ironicamente. - Può essere - rispose il capitano. - Buona sera, conte. Ciò detto, uscí dal salotto ed entrò nella sala da ballo, dove dame e cavalieri si affollavano intorno alla marchesa di Montelimar per accomiatarsi. Il comandante della Nuova Castiglia si era invece fermato, appoggiandosi allo stipite della porta. Aspettava probabilmente che gli invitati se ne andassero. Dall'espressione del suo viso si capiva che non era meno preoccupato del conte di Sant'Iago. Tormentava con la sinistra la guardia della sua spada e si torceva nervosamente i baffi. Quando la splendida sala fu quasi vuota, a sua volta avanzò verso la marchesa, la quale pareva che già lo cercasse con lo sguardo. - Signora, - le disse inchinandosi - mi perdonerete se io non sono piú rientrato per fare un'altra danza con voi, ma mi ero impegnato in una grave partita al giuoco. - Col capitano degli alabardieri? - chiese la bella vedova, con una certa ansietà. - Sí, marchesa. - Non avete questionato con lui? - Niente affatto. La marchesa respirò. - Guardatevi da lui, signor conte - disse poi. - È un uomo pericoloso. Il giovane batté una mano sulla guardia della spada. - Quando al mio fianco sta questa lama, io non ho paura di tutti i capitani degli alabardieri di Spagna, di Francia o d'Italia! - disse. - Marchesa, quando potrò rivedervi? Io devo chiedere a voi un'informazione che mi interessa. - A me? - Sí, marchesa. - Allora domani farete colazione con me. - Domani, - disse il conte, mentre sulla sua fronte passava come un'ombra - potrebbe essere troppo tardi. - Contate di partire presto? Siete arrivato solamente stamane. - È vero, marchesa: ma vi sono delle volte che non si può disporre del proprio tempo. Potrei rimanere, come potrei partire da un momento all'altro. Non vorrei andarmene però prima d'aver avuto un colloquio con voi. - Non siete venuto per proteggere San Domingo da un attacco dei corsari della Tortue e dei bucanieri? - Non posso rispondervi, marchesa. - Eppure voi non dovete partire cosí presto. Sapete cavalcare, conte? - Sí, marchesa. - Domani ha luogo la corsa al gallo e desidererei che vi prendeste parte. - Perché? - La posta è un mio bacio che darò e riceverò dal vincitore. Il conte de Miranda ebbe un leggero trasalimento. - Checché accada, - disse poi - prenderò parte alla corsa. Buona sera marchesa; noi ci rivedremo, perché è necessario. Baciò la mano alla bella vedova e uscí accompagnato da un valletto mulatto, il quale reggeva a stento un pesante doppiere d'argento. In quello stesso momento gli ultimi invitati lasciavano il magnifico palazzo di Montelimar.

.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l'Italia e siate venuto in questi mari lontani. - Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette - rispose il conte con voce sorda. - È probabile che anch'io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio. Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo: - Bevete, signore: l'aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri. In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo: - Sono qui, signora: sono entrati. - Chi? - chiese la marchesa aggrottando la fronte. - Una cinquantina intera. - Con qual diritto? - Ordine del governatore di San Domingo. - Comincia a diventare noioso quel signore! - disse la marchesa alzandosi. - Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa ... Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza. - Che cosa volere fare, Marchesa? - chiese il bucaniere. - Nascondervi. - Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo. La signora di Montelimar ebbe un sorriso. - Lasciate fare a me, conte - disse. - Avete qualche nascondiglio segreto anche qui? - Vi mando nelle mie cantine. - Bel luogo! - disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone. - Marto, conduci questi signori nell'ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte. I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d'un paniere dove aveva messo i resti della cena. Giunti all'estremità dell'ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime. - Compare, - disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza - giú vi è da bere a crepapelle. - E noi berremo! - rispose il filibustiere. - Ne assaggeremo un po' da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante. Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell'ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili. - È un paradiso un po' oscuro, ma pur sempre un paradiso, - disse Mendoza, facendo schioccare la lingua. - Passate, signori, - disse il negro - perché devo ostruire l'entrata con dei barili. - Non ci seppellirai vivi, spero - disse il guascone. - Non abbiate questo timore - rispose l'africano sorridendo. Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s'affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l'apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio. - Speriamo che questa avventura sia l'ultima! - disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. - Che ne dite, Buttafuoco? - Eh! - rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. - Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo. - Che ci vengano a scovare? - Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte. - Se verranno, ci difenderemo - disse Mendoza. - Qui siamo come in una casamatta. - Ma senza uscite - aggiunse il guascone. - Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all'ingiro. - In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare - disse Mendoza. - Quale? - chiese il conte. - Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell'Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte. Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo? - Un guascone non rifiuta mai di bere! - rispose l'avventuriero, con sussiego. - Signore conte, - disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa - dove avete raccolti questi due diavoli? - Uno l'ho pescato nel mar di Biscaglia - rispose il signor di Ventimiglia. - E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. - Ma anch'io ho respirato l'aria salubre del mar di Biscaglia. Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d'un mulo centenario. - Fate pure - disse il signor di Ventimiglia. - Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po' di respiro, chiudere gli occhi. - Ed io altrettanto - aggiunse il bucaniere. - Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia. - Un guascone non s'addormenta mai in faccia al nemico - disse don Barrejo. - E nemmeno un basco! - aggiunse Mendoza. - Si sono ben appaiati - brontolò il bucaniere. Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell'imminente pericolo che li minacciava. - Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? - disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti. - E che! ... Un guascone! ... - Questi guasconi sono dunque delle macchine? - Quasi, compare. - Se provassimo la nostra resistenza al vino? - Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s'incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare - disse l'avventuriero. - Quantunque guascone! ... - Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito ... - Guardate che bella pancia ha quel bottale! ... Scommetterei che contiene dello Xeres. - No, dell'Alicante. - Ma che! ... Xeres. - Me ne intendo io di vini di Spagna! - Anche senza assaggiarli? ... Compare! ... Voi siete un uomo meraviglioso! ... Scommettiamo uno dei vostri dobloni? - Vada per il doblone, - rispose don Barrejo, - Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione. Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all'insaputa dell'intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell'ambra. - Caramba! - esclamò il marinaio. - Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante! ... Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

. - Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi. - Impegnate la vostra parola di gentiluomo? - Sull'onore dei Montelimar. - Basta cosí, - disse il conte. Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza. Il marchese si era voltato verso i suoi uomini. - Date tre cavalli a questi signori, - disse. Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati. - Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. - Vi prego di seguirmi. - Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di Ventimiglia. - Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde io non vi odio affatto. - Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, - rispose il conte, con ironia. - Avevo i miei motivi per fare ciò, allora. - Avreste ora cambiata idea? - Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi. In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari. - Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione. - Saranno cacciatori, - rispose il marchese. Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone. Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri. Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa. Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi. Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno. Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino. - Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia. - A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera. Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi. - Deve essere Neala, - disse il marchese. - È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il quale appariva assai commosso. - Sí, conte. Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra. Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi. Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso. - Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo cosí presto. - No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi. - Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che ... Il conte lo interruppe bruscamente. - Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana. La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia. Era certamente il sangue che segretamente parlava. - Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa ... - Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell'Oceano Pacifico, dove l'aria è piú balsamica e piú pura che qui - disse il corsaro. - Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete. Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo: - Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

- Vi ho detto di no, quantunque voi mi abbiate condotto in un luogo assolutamente deserto e adatto per le imboscate. - Corpo d'una bombarda! - gridò il bandito. - Vorreste offendermi? Badate che quantunque oggi non sia che un semplice scudiero, ho nelle mie vene sangue di gentiluomini. - Ciò non m'interessa affatto, - rispose il conte. - Come non v'interessa? - gridò il brigante, fermandosi di fronte ad un'alta duna, colla sinistra posata sull'impugnatura della spada. - Voi cercate una lite con me, a quanto mi pare? - O siete voi invece che la preparate? - chiese il Corsaro, facendo atto di snudare pure la sua spada. - Corpo d'un trombone, diventate troppo insolente, signor mio! - Prendetevela come volete, a me non importa, signor bandito. - A me, bandito! - Sí, perché voi mi avete attirato qui, non già per condurmi alla casa abitata da quella giovane meticcia, bensí per assassinarmi. Quanto vi ha pagato don Juan de Sasebo? - Ve lo dirò, quando vi avrò passata la mia spada attraverso il corpo. - Siete ben sicuro di riuscirvi? - chiese il conte con calma. - Nessuno ha mai tenuto testa a El Valiente. - È il vostro nome di battaglia? - Sí, signor mio. - Allora ti farò vedere una cosa strabiliante. - Quale? - Di vedere El Valiente a piegare le ginocchia dinanzi a me e domandarmi grazia. Il bandito proruppe in una risata fragorosa, mentre il conte, che cominciava ad impazientirsi e che temeva di veder accorrere altri spadaccini in aiuto del brigante, sfoderava la spada. - Corpo d'una bombarda, siete coraggioso, signor mio. Un altro che si trovasse dinanzi al Valiente, getterebbe subito la spada e consegnerebbe anche la borsa. - Io non ho mai avuto queste pessime abitudini, - rispose il signor di Ventimiglia. - Orsú finiamola, buffone. Ti darò la lezione che tu meriti. Il bandito si tolse il sèrapè infioccato, uno nuovissimo che doveva aver comperato coi denari del Consigliere e se lo gettò sul braccio sinistro, per essere piú libero nelle mosse, spiccò due salti verso la duna per non esporsi al pericolo di dover indietreggiare verso il mare e cadervi dentro, poi trasse la sua spada, dicendo: - Mi basterà un colpo per spacciarvi. - Qualche botta segreta! - La piú famosa di tutti. - È inutile, brigante, che tu cerchi di spaventarmi. Di botte segrete me ne intendo anch'io. - La mia non potete conoscerla. - Basta, chiacchierone: veniamo ai fatti. Il conte si era messo rapidamente in guardia ed aveva fatto un passo innanzi, facendo qualche finta. Prima di assalire decisamente, voleva accertarsi della forza dell'avversario. Sapendolo forte spadaccino, non dovevano avergli mandato un mediocre tiratore. Il Valiente infatti parò senza scomporsi. - Si vede che sei forte, - disse il conte. - Questo non è ancora nulla, - rispose il bandito. - Vedrete il seguito. Vorrei darvi un consiglio perché non vi tocchi di fare partenza per l'altro mondo come un mussulmano. - Vorresti dire? - Che io al vostro posto, per non perdere tempo, approfitterei di questi pochi minuti per recitare qualche Ave Maria. - Comincia tu, intanto, - rispose il conte, il quale incalzava vivamente. - Non ne ho bisogno. - Te ne pentirai presto. - Che voi siate molto duro da smontare questo è vero, mio signore, - disse il bandito, il quale continuava ad indietreggiare, avvicinandosi alla duna. - Tuttavia spero di riuscirvi quando il vostro braccio darà qualche segno di stanchezza. - Allora dovrai aspettare qualche ora. - Ah! Corpo ... Il conte gli aveva portato una stoccata proprio in mezzo al petto, facendogli uno strappo sulla giacca. Il bandito si era salvato per miracolo, parando di terza e facendo un salto indietro. - Ecco una botta magnifica e che non mi aspettavo, - disse il bandito. - Non vale però quella delle cento pistole. Chi può avervela insegnata? - Un famoso maestro italiano. - Sono formidabili spadaccini gli italiani. Oh li conosco io! - Allora para questa. Il conte pareva che avesse ormai completamente dimenticato il pericolo che poteva minacciarlo e che cominciasse a divertirsi assai di quella terribile partita. Aveva data un'altra stoccata che Il Valiente era pure riuscito a parare appena a tempo. - Corpo d'una bombarda, - borbottò. - La faccenda non cammina come credevo. Quest'uomo è piú solido di quanto supponevo. Stiamo in guardia. Il conte tornava alla carica, impaziente di stancarlo, prima di tentare qualche colpo decisivo. Il bandito però gli sfuggiva sempre, indietreggiando verso la duna. - Tu mi scappi, - disse il corsaro, incollerito. - Mostrami la tua valentia, restando sul posto. Il Valiente non rispose. Pareva che colla mano sinistra tesa all'indietro cercasse qualche cosa. Per alcuni istanti ancora fu un continuo grandinare di colpi, poi il bandito fece un ultimo salto indietro che lo portò addosso alla duna. - Ora non mi scapperai piú! - gridò il conte. - Recita l'Ave Maria. - Eccola, - rispose il bandito. Si era voltato con una mossa fulminea e raccolta una grossa manata di sabbia l'aveva lanciata contro il viso del Corsaro, tentando di acceccarlo. - Bandito! - urlò il conte, il quale, accortosi dell'intenzione del miserabile, si era riparati gli occhi col suo ampio feltro. - Non avrò alcuna misericordia di te! Attaccava nuovamente. Il Valiente ancora una volta sfuggí all'urto, saltando di fianco, poi si abbassò tutto, raggomitolandosi quasi su se stesso. - Il colpo delle cento pistole, - disse il conte, mettendosi in guardia di seconda. - Lo conosco, miserabile, e non sarà la tua spada che mi passerà il petto. Il brigante mandò un vero ruggito. - Eppure bisogna che vi uccida, - disse poi, con voce rauca. - Io l'ho promesso a don Juan de Sasebo ed al marchese di Montelimar. Se mancassi all'impresa sarebbero capaci di farmi appiccare. - Il marchese di Montelimar! - gridò il conte. - Tu l'hai veduto? - Come vedo voi ora. - Dove? - Dal Consigliere. - Tu menti! - Sarò un furfante, ma non un mentitore. Il marchese è qui, perché è scappato da Taroga. Badate! A sua volta si era slanciato furiosamente, vibrando quattro stoccate, una dietro l'altra. Stava per tirarne una quinta, quando cadde, mandando un grido. La spada del conte l'aveva colpito alla gola, affondandovi dentro per parecchi centimetri. Rimase un momento quasi diritto, colle braccia aperte, poi ruzzolò pesantemente fra le sabbie, mormorando: - Sono finito. Il conte aveva ritirata prontamente la spada. - L'hai voluto, - gli disse. - Sono ... morto ... - barbugliò il miserabile. - Alzatemi ... la testa ... il sangue ... mi soffoca ... ve ne prego ... Il conte si curvò sul moribondo per alleviargli le sofferenze, quando si sentí afferrare per una mano strettamente e colpire. Il bandito aveva estratto la misericordia ed aveva vibrato un colpo in direzione del cuore, squarciando la casacca del conte e anche le carni. - Sono ... vendicato, - disse con un soffìo di voce. - Canaglia! - aveva gridato il conte, sentendosi bagnare una mano da alcune goccie di sangue. Riafferrò la spada e la immerse nel petto dell'assassino per ben due volte. Erano stoccate inutili, poiché Il Valiente era ormai morto. - Traditore! - mormorò il conte. - Marchese di Montelimar e anche voi, don Juan de Sasebo, me la pagherete. Si aprí il giustacuore, lacerò la camicia e si guardò la ferita. Brillando splendidissima la luna, poteva giudicare, anche senza torcia, il colpo vibratogli dal brigante. - Bah! - disse. - Non mi pare che sia cosa grave. Cerchiamo di raggiungere i miei spadaccini, se anche essi non sono stati assaliti. So dove si trova la lanterna: vedremo se si troveranno là. Si mise sulla ferita il fazzoletto per arrestare il sangue, si riabbottonò strettamente il giustacuore, armò le pistole che portava nascoste sotto la fascia e, dopo essersi orizzontato, si mise a seguire l'alta duna, senza nemmeno degnare d'uno sguardo il bandito. La notte era magnifica. L'oceano scintillava, riflettendo i raggi dolcissimi dell'astro notturno; la risacca muggiva e rimuggiva, senza produrre troppo fracasso e dal largo soffiava una brezza fresca e vivificante. Il Corsaro, temendo che il bandito avesse dei compagni nascosti fra le dune, affrettava il passo, tenendo la spada sguainata, per essere piú pronto a respingere un qualche improvviso attacco. La lanterna di Granata, destinata ad indicare ai naviganti l'entrata del porto verso la scogliera di ponente, scintillava vivamente, quindi il corsaro non poteva ingannarsi sulla direzione da tenere. Lo inquietava però profondamente il dubbio che anche i suoi spadaccini fossero stati assaliti da qualche banda di masnadieri. Camminò per circa mezz'ora, seguendo le dune e giunse finalmente nei dintorni dell'altissima costruzione che rassomigliava ad una torre, sulla cui cima brillava la grossa lanterna. Vide subito tre ombre ritte sulla spiaggia, occupate, a quanto pareva, a raccoglier frutta di mare. Alzò la voce: - Mendoza! Un triplice grido rispose: - Il signor conte! I tre spadaccini balzarono lestamente sopra le dune e lo raggiunsero. - Non siete stati assaliti? - chiese il conte, con stupore. - No, signore, - rispose il guascone. - Mi pare impossibile! - Eppure non abbiamo fatto altro che divorare ostriche; senza essere disturbati. L'avete trovata vostra sorella? - Sí, sotto forma d'un colpo di misericordia che per poco non mi spaccava il cuore. Guardate! Si aprí il giustacuore e mostrò loro il fazzoletto bagnato di sangue. - Per la mia morte! - gridò il guascone. - Me l'ero immaginato che vi avrebbero teso un agguato. - Signor conte, - disse Mendoza, con voce commossa. È grave la ferita? - Non mi pare. - È necessario medicarvi subito, - disse il guascone. - La fonda è troppo lontana, - disse il fiammingo. - V'è la lanterna, - rispose il guascone. - Andiamo a chiedere ospitalità al guardiano. Se rifiuterà lo getterò giú dalla torre. Venite, don Ercole. Mentre Mendoza si strappava una manica della camicia, per arrestare al conte il sangue, il quale non cessava di sgorgare, i due avventurieri si slanciarono verso la porta della lanterna, picchiando fragorosamente coi pomi delle loro spade. Una vociaccia rauca venne dall'alto. - Chi siete e che cosa volete? - Aprite subito, - rispose il guascone. - Abbiamo raccolto un naufrago e pare che stia per morire. - Portatelo a Panama. Qui non vi sono medici. - Farò io da medico. Aprite subito o getteremo giú la porta. - Aspettate un momento. Mezzo minuto dopo il fanalista comparve, tenendo in mano una torcia. Era un vecchio marinaio dalla lunga barba bianca, ancora molto robusto, col volto quasi annerito dai venti del mare e dai grandi calori equatoriali.- Che cosa volete dunque, voi? - chiese con voce brusca. - Il vostro letto, - rispose il guascone. - Ed io? - Andrete a dormire a casa del diavolo, D'altronde noi vi pagheremo largamente. La fronte rugosa del fanalista si spianò, udendo parlare di compensi. In quel momento giunse il conte, il quale s'appoggiava al braccio di Mendoza. - Dov'è questo naufrago? - chiese il guardiano del faro. - Eccolo, - rispose il guascone indicandogli il conte. - Ma le sue vesti sono piú asciutte delle mie! - Sotto sono però bagnate di sangue. - Si tratta d'un ferito, allora. - Basta, fate lume e guidateci nella vostra stanza. Il guardiano salí la scaletta, brontolando e si fermò al secondo piano del faro, introducendoli in una stanzetta la quale non conteneva che un letto ed un paio di cassettoni sgangherati. - Lasciate questa torcia e tornate alla vostra lanterna, - disse il guascone. - Se avremo bisogno di voi vi chiameremo, e voi, don Ercole, andate a tenergli compagnia. Pel momento la vostra spada non è necessaria. Mendoza ed il guascone tolsero al conte la giubba, il giustacuore e la camicia e osservarono attentamente la ferita. In quell'epoca cosí ricca di guerre, tutti gli spadaccini erano un po' medici e sapevano fare delle fasciature e curare benissimo delle stoccate. Con un solo sguardo il basco ed il guascone s'avvidero che la lama della misericordia non aveva prodotto gran che di male. La punta però aveva tagliate le carni per una lunghezza di cinque o sei centimetri ed in prossimità del cuore. Il bandito aveva tirato giusto il suo colpo: se la sua mano fosse stata piú ferma avrebbe spacciato il conte. - Niente di grave, è vero, amico? - chiese il signor di Ventimiglia. Molto sangue e nient'altro. vero, signore, - rispose Mendoza. - È stato un colpo di pugnale. - Sí, datomi quando l'assassino era stato toccato. - Chi credete che abbia ordito l'agguato? - Il marchese di Montelimar, d'accordo col Consigliere. - Ma se il marchese è a Taroga? - disse il guascone. - Vi era, volete dire, perché ora si trova qui. - Tonnerre! - È scappato! - Chi ve lo ha detto? - L'assassino, prima di morire. Che vi abbia ingannato? - chiese Mendoza, il quale fasciava intanto la ferita con un pezzo di lenzuolo trovato in un cassettone. - Non credo. D'altronde non aveva alcun motivo di tenermelo nascosto o d'ingannarmi. Allora bisogna riprenderlo, - disse don Barrejo. Senza di lui non potrò mai sapere dove quei dannati hanno nascosta mia sorella. E lui od il Consigliere devono cadere nelle nostre mani. Essi hanno preparato un agguato a me, e noi ne prepareremo uno a loro. - Noi siamo sempre pronti, è vero, Mendoza? - disse il guascone. - Anche a dar fuoco a Panama, - rispose il basco, il quale aveva terminata la fasciatura. - Dovremo però agire colla massima cautela, - disse il conte. - Domani, giacché la mia ferita non presenta alcun pericolo, torneremo alla fonda della Castigliana e studieremo sul da farsi. Conto specialmente su di voi, don Barrejo, che possedete una fantasia cosi ricca di trovate. - Mi occuperò di questo affare, signor conte. - Intanto occupiamoci di un altro piú pressante, - disse in quel momento il fiammingo, entrando. - Che cosa c'è dunque d'urgente? - chiese il conte. - Mi dispiace darvi una brutta nuova, signore, - rispose il fiammingo. - È caduto giú dal faro il guardiano? - chiese il guascone. - S'avanza un grosso gruppo di soldati attraverso alle dune. - Tonnerre! - esclamò don Barrejo. - Vengono a prendere voi, - disse il conte, - Mi pareva impossibile che il marchese ed il Consigliere vi lasciassero tranquilli. A me lo spadaccino ed a voi le guardie. - Scappiamo, - disse Mendoza. - Non potremo, - rispose don Ercole. - Il drappello si è diviso e s'avanza da due opposte direzioni, per prenderci in mezzo. - E poi il signor conte è debole e non potrebbe resistere ad una lunga corsa, - aggiunse il guascone. - Io però ho un'idea. Don Ercole, sono ancora lontani? - Un migliaio di passi e mi è parso che non abbiano molta fretta da avanzarsi. - Perdinci! ... Che occhi che hanno i fiamminghi! - esclamò don Barrejo. - Vincono quelli dei guasconi. - Fuori la vostra idea, don Barrejo, - disse il conte. - Non abbiamo tempo da perdere. - Voi, Mendoza, andate a vedere se la porta del pianterreno è ben chiusa; voi, signor conte, rimanete pure qui, anzi fareste bene a coricarvi un po', e voi, don Ercole, venite sulla lanterna. Io rispondo di tutto. Uscirono e salirono rapidamente la scaletta esterna che girava in forma di spirale intorno alla torre, giungendo ben presto sotto la cupoletta dove brillava una grossissima lanterna con vetri. Il fanalista stava seduto in un angolo della terrazza, occupato a fumare la sua grossa pipa. - Dove sono? - chiese il guascone a don Ercole. - Eccolo laggiú, il primo drappello. Il guascone guardò nella direzione indicata e vide infatti, a circa ottocento passi dal faro, avanzarsi una minuscola colonna, composta da non meno di due dozzine d'uomini. Seguiva la spiaggia lungo le dune. Brillando sempre la luna, non era possibile ingannarsi, poiché le corazze, gli elmetti, gli archibugi e le alabarde scintillavano vivamente. - Segue le dune di settentrione. - Vogliono proprio prenderci in mezzo. Ah! ... La vedremo. Quando si è un po' furbi, si può sempre sfuggire ai pericoli. Armò una pistola, si levò da una tasca una manata di piastre e s'avvicinò al guardiano, il quale, tutto immerso nel gustare il suo tabacco, non si era nemmeno degnato di voltarsi, pur avendoli uditi a salire. - Vecchio mio, scegli, gli disse il guascone, mostrandogli l'arma da fuoco ed il denaro. Vuoi piombo o argento? ... - Che cosa volete? - chiese il guardiano, balzando in piedi e lasciando cadere la pipa. - Assassinarmi forse? - Niente affatto, anzi vi offro un buon gruzzolo di piastre, però voi dovete ubbidirmi senza perdere un solo istante. Se rifiutate, allora non rispondo della vostra vita. - Dite, - rispose il vecchio, spaventato. - Innanzi tutto spogliatevi del vostro vestito bigio, che mi è assolutamente necessario. - E poi? - Lasciatevi legare sotto il vostro letto. - Volete portar via o guastare la lanterna? - Non sapremmo che cosa farne di questo grosso fanale. Sbrigatevi, o invece delle piastre vi caccio una palla nel cervello. - Scelgo le piastre, - disse il guardiano, dopo una breve esitazione. - D'altronde una resistenza da parte mia sarebbe impossibile. - Voi siete un uomo ragionevole, - rispose il guascone. - Ecco le piastre e giú il vestito. Il fanalaio, che ci teneva piú all'argento che al piombo, fu lesto a obbedire. Il guascone infilò i calzoni, indossò la grossa casacca di panno bigio con bottoni di metallo giallo, e si mise in testa il berrettone di tela cerata. - Somiglio ad un fanalista? - chiese a don Ercole, il quale stava legando ed imbavagliando il disgraziato sorvegliante. - Potreste lasciare la spada per la lanterna, - rispose il fiammingo, sorridendo. - Quando sarò vecchio, amico. Ora conducete, o, se vi piace meglio, portate quest'uomo nella camera del conte e cacciatelo sotto il letto. - Preferisco portarlo. - Ed ora a noi, signori soldati, - mormorò il guascone, quando fu solo. Raccolse la pipa del sorvegliante la quale fumava ancora e si sedette su un gradino della scala esterna, mettendosi a sua volta in osservazione.

Non abbiate fretta, però, don Ercole. La porta della posada non è stata ancora aperta. Si vede che l'ostessa sta facendo la sua toelette per ricevere degnamente il conte. - Eccoli! - gridò in quel momento una delle tre guardie. Don Barrejo fece un salto indietro e si portò sotto le finestre d'una casa, mettendosi a cantare a mezza voce una canzonetta amorosa. - Che cosa fate? - chiese don Ercole, stupito. - Lasciate fare a me, - rispose il guascone, ridendo. Le tre guardie della capitaneria scantonarono a loro volta e piombarono addosso ai due avventurieri, colle spade alzate, gridando: - Arrendetevi o siete morti! Il guascone si volse tranquillamente verso di loro, mentre don Ercole s'appoggiava contro il muro, perché non lo sorprendessero alle spalle. - Buena noche, caballeros., - disse con voce melliflua. - Che cosa fate qui? - chiese una delle tre guardie. - Facevo una serenata alla mia bella, - rispose il guascone. - Una splendida catalana, sapete, con due occhi che brillano come stelle e ... una bocchina, miei cari signori, da far girare la testa anche al Signor Presidente dell'Udienza reale. - Chi è? - Alto là, signora guardia. Non si deve essere troppo curiosi quando vi è di mezzo una donna, bella come la mia. Se vedeste che capelli ornano quella meravigliosa testina! ... Se il grande Velasquez, il nostro glorioso pittore, fosse ancora vivo, se ne innamorerebbe alla follia e dipingerebbe certamente un quadro meraviglioso. E la carnagione della mia stella ... Le creole di Cuba possono andare a nascondersi: veri riflessi d'alba! ... E le sue manine? Ed i suoi dentini? ... Veri granelli di riso, ve lo giuro sullo spadone arrugginito del mio defunto padre. Mentre il fiammingo faceva sforzi disperati per non scoppiare dal ridere. le tre guardie della capitaneria guardavano stupefatte il guascone, il quale non accennava a finire di decantare le meravigliose bellezze della sua donna. - Ma ... - cominciò finalmente la guardia anziana, la quale cominciava a perdere la pazienza. - Ma che ma! ... Osereste mettere in dubbio le bellezze della mia señorita? Guardatevene, perché io sono un vero caballero; quando si tratta di difendere la donna del cuore, non ho paura nemmeno di due cinquantine. - Io non voglio contraddirvi, quantunque mi sembri impossibile che una cosí meravigliosa bellezza abiti in questa casupola. - Alto là! ... Non offendete il palazzo della mia donna! - disse il guascone, con voce minacciosa. - Quest'uomo è pazzo! - esclamò un'altra guardia. Don Barrejo lanciò un rapido sguardo verso il fondo della via e, non scorgendo piú né il conte né Mendoza dinanzi alla porta della posada, fece due salti indietro, urlando ferocemente: - Io pazzo! ... Ora la pagherai, furfante. Snudò la spada e piombò sulle tre guardie, mentre il fiammingo faceva altrettanto. Gli assaliti indietreggiarono fino sull'angolo della via, poi puntarono le spade, gridando a loro volta: - Arrendetevi alla forza! ... - Eccola, la forza! - rispose don Barrejo. - A voi il magro, don Ercole! ... Insegnerò a questa gente a rispettare la dama del mio cuore. Non scherzava quel diavolo di guascone. Tirava colpi di draghinassa con furia incredibile, validamente appoggiato dal fiammingo, il quale, se parlava poco, agiva molto. Per qualche minuto la via risuonò di colpi fragorosi, poiché, se gli avventurieri picchiavano sodo, nemmeno le guardie della capitaneria si tenevano indietro: poi queste ultime, impotenti a far fronte a quel grandinare furioso, vistesi in procinto di essere infilzate, stimarono piú opportuno voltare le spalle e scappare a gambe levate. Il guascone ed il basco le inseguirono per due o trecento passi, minacciando di fare una vera strage di quei disturbatori degli innamorati; poi, vedendo che continuavano a correre come se avessero alle calcagna una muta di cagnacci, tornarono rapidamente indietro per rifugiarsi nella posada. La porta era stata chiusa, però trapelava attraverso la toppa un filo di luce. Alla prima battuta del guascone si aprí ed i due spadaccini si trovarono in una vasta stanza, piuttosto bassa, dalle pareti un po' affumicate e illuminata da una grossa lanterna. Dinanzi ad una tavola già bene imbandita di cibi freddi e d'un bel numero di bottiglie polverose, stavano seduti tranquillamente il conte, Mendoza ed una bellissima donna sulla trentina, dai capelli nerissimi, adorni con un mazzolino di fiori, due occhi scintillanti, tagliati a mandorla come quelli delle castigliane, e che indossava un ampio nagua a striscie nere e gialle. Il guascone, vedendola, si tolse il feltro e s'inchinò galantemente, con un tonnerre formidabile, aggiungendo subito dopo: - Buena noche, señora! ... Voi somigliate alla donna del mio cuore, sotto la cui finestra poco fa cantavo una canzone d'amore. - Davvero? - chiese il fiammingo, scoppiando in una clamorosa risata. - Voi cantavate sotto la finestra d'una catapecchia, la quale probabilmente serviva d'abitazione a qualche brutta negra. - Tacete, don Ercole, - rispose serio serio il guascone. - Voi non avete mai conosciuti i miei segreti. - E le guardie? - chiese il conte. - Scappate, signore. Ora possiamo cenare tranquillissimi. - Erano molte? - Oh! ... Tre sole, - rispose con noncuranza l'avventuriero. Peccato che la mia bella della catapecchia non abbia assistito agli atti di valore del suo innamoratissimo. - Voi siete pazzo, don Barrejo, - disse il conte. - Me lo hanno veramente detto anche le guardie; io tuttavia non credo di avere ancora il cervello guasto. Gliele ho date però, ve l'assicuro, signor conte, e le ho fatte correre. In Guascogna non ci sono mai stati dei pazzi e nemmeno dei manicomi. - Che paese meraviglioso! - esclamò Mendoza. - Un'altra volta voglio nascere dall'altra parte del mar di Biscaglia! ... - E farete bene, però mi pare che sarebbe meglio mostrare a quella deliziosa ostessa come sanno lavorare di denti i guasconi ed anche i fiamminghi, è vero, don Ercole? Se il conte ci permette? ... - Metteteli pure in opera, - rispose il signor di Ventimiglia. - Mi rincresce che manchi qui un po' d'antipasto. Ah! ... Come divorerei in contraccambio i bellissimi occhi di questa simpatica catalana! ... - No, sivigliana, - disse Mendoza. - Sempre occhi delle belle spagnuole, - rispose il guascone, con un sospirone, mentre si tirava dinanzi un paio di tondi ben pieni di pesci arrostiti e si empiva il bicchiere. Don Ercole, degnatevi di imitarmi. Anche voi, signora, se non avete cenato col signor conte. La bella ostessa scoppiò in una risata argentina. - Io non sono una signora, caballero, - disse, mostrando due magnifiche file di denti. - Sono la padrona d'una povera posada. - Per un guascone, una donna è sempre una signora, - rispose don Barrejo, il quale però, pur chiacchierando, divorava come un lupo e vuotava bicchieri di eccellente Porto, aiutato vigorosamente dal taciturno fiammingo. - E poi, pei vostri magnifici occhi un guascone si farebbe uccidere. - Che cosa sono questi guasconi? - chiese la bella castigliana. - Dei parenti prossimi del diavolo, - rispose Mendoza, il quale faceva gli occhi di triglia alla vezzosa ostessa. - Misericordia! - esclamò Panchita, facendosi precipitosamente il segno della croce. - Compare, - disse il guascone, guardando con un certo cipiglio il basco. - Anche al di là del mar di Biscaglia si dice che vivano dei prossimi parenti di Belzebú. Sareste geloso di me? - Don Barrejo, - disse il conte, - vorreste attaccare lite? - No, signor di Ventimiglia: in questo momento preferisco attaccarmi alle bottiglie di questa graziosa castigliana. Tonnerre! ... Va giú come l'acqua, è vero, don Ercole? - Come l'olio, - rispose il fiammingo. - Señora, spero che ne avrete molte di queste, nella vostra cantina. - Mio marito l'ha provveduta per bene prima di morire. - Ah! ... Vostro marito è morto? - Durante una contesa avuta una sera con un filibustiere. - Pessima gente quei bricconi, - disse don Barrejo. - Ammazzano sempre! ... Quelli sono veri figli di Belzebú. Oh! ... La finiranno anche loro. Señora, un'altra bottiglia del vostro Porto. La vuoterò tutta alla vostra salute, parola di gentiluomo. - Voi, don Barrejo, siete una spugna, - disse il conte. - Io e don Ercole abbiamo battagliato contro le guardie della Capitaneria del Porto, signor di Ventimiglia, e, quando si combatte, la sete viene sempre, almeno ai guasconi. - E anche ai fiamminghi, a quanto pare, - aggiunse Mendoza. Don Ercole, invece di rispondere, si accontentò di versare attraverso la sua bocca di lupo nordico l'ultimo bicchiere rimasto sulla tavola. La taverniera giungeva in quel momento portando un cesto pieno di bottiglie. Il conte aveva già, prima dell'entrata dei due avventori, posato sull'angolo della tavola un bel mucchio di piastre, poteva quindi fornire abbondantemente da bere e realizzare nel medesimo tempo un bel guadagno. - Ora, donna Panchita, parliamo, - disse il conte, mentre Mendoza e don Barrejo continuavano a sturare bottiglie. - Io sono venuto qui per chiedervi una informazione. - A me, signor conte! - esclamò la bella castigliana, con stupore. - Avete molte conoscenze in città. - Sono nata qui. - Avete mai udito nominare un certo don Juan de Sasebo, consigliere dell'Udienza Reale di Panama? La castigliana pensò un momento, poi rispose: - Sí, io ho avuto occasione di fornire a quel consigliere del mio vino. - Quello doveva essere un gran furbo, - disse il guascone. Sapeva dove poteva trovare il buon vino. - Allora voi sapete, Panchita, dove abita, - riprese il conte. - In calle dell'Arameio. - Siete certa di non ingannarvi? - Certissima, signor conte. Sono andata io coi miei due servi a portargli una cinquantina di bottiglie. - Tonnerre! ... Bevono i consiglieri dell'Udienza Reale di Panama! - borbottò il guascone. - E poi danno a me della spugna! ... - È lontana da qui la sua abitazione? - riprese il signor di Ventimiglia. - Si trova di fronte al palazzo del Viceré. - Lo sai tu, Mendoza? - Saprò trovarlo, - rispose il basco. - Che uomo è quel don Juan de Sasebo? _ chiese il corsaro alla bella castigliana. - Sulla quarantina e uomo coraggiosissimo, perché si dice che un tempo fosse stato aiutante di campo del re di Spagna o d'uno dei suoi parenti. - Sapete dirmi altro? - No, signor conte. - Avrete cinquanta piastre per le informazioni datemi. - Voi siete troppo generoso. Che cosa posso fare per voi? - Darci una stanza o due per poterci riposare alcune ore, - rispose il signor di Ventimiglia. - Non ne ho che una, con sei lettucci che in questo momento sono tutti vuoti. - Non chiedo di piú. Il conte si era alzato. I tre avventurieri, che avevano già dato fondo anche a parecchie altre bottiglie, si erano pure levati. L'ostessa accese una candela di sego e salí una scala, introducendo i suoi ospiti in uno stanzone, che era occupato da un bel numero di letti tutti vuoti. Appena entrati, furono colpiti da uno strano fragore che si ripercuoteva al di fuori. - Che cos'è questo? - chiese il conte. - È il fiume che passa proprio sotto la posada, signore, - rispose la castigliana. - E che ci canterà la ninna nanna, - aggiunse il guascone, per farci addormentare piú presto. Badate di non dormire coi due occhi chiusi, - disse il conte. Che cosa temete, signore? Chi mi assicura che gli uomini che avete fugati non tornino per cercarvi? - Tanto peggio per loro, signor conte. Io e don Ercole ci siamo accontentati di battagliare; se ci compariscono dinanzi un'altra volta, li uccideremo, è vero, signor fiammingo? - Certo, - rispose l'omaccione. - E se tornassero in buon numero? - disse Mendoza. - Forse che noi non siamo le quattro piú formidabili lame della filibusteria? - rispose don Barrejo. - Corichiamoci, - disse il conte. - Dormiremo con un occhio aperto. - Buona notte, caballeros, - disse la bella sivigliana. Il guascone fece un galante inchino, dicendo: - Bella signora, io vi contraccambio l'augurio e cercherò di sognare i vostri occhi fulgidissimi. Voi cercate di sognare almeno i miei baffi. L'ostessa scappò via, ridendo, mentre i quattro avventurieri si gettavano vestiti sui letti, mettendosi accanto le spade e le pistole, non essendo proprio sicuri di passare la notte tranquillamente. Purtroppo erano stati buoni profeti! Sonnecchiavano da un paio d'ore, quando furono bruscamente svegliati da alcuni colpi sonori picchiati contro la porta della posada. Il conte ed il guascone erano stati i primi a gettarsi giú dai letti. - Tonnerre! - esclamò quest'ultimo, afferrando la sua draghinassa. Che non si possa dormire cinque minuti a Panama? Queste sono le guardie, - disse il conte, aggrottando la fronte. In quel momento la porta della stanza si aprí e comparve l'ostessa, appena coperta da una manta rigata, in preda ad un vero spavento. - Caballeros, - disse, con voce affannata. - Vi sono giú dieci o dodici guardie del porto, che domandano di perquisire la fonda. - È profondo il fiume? - chiese il conte. - Profondissimo, caballero. - Potete tenere a bada quegli uomini per qualche minuto? - Dirò loro che mi lascino almeno il tempo di vestirmi. - Quella finestra dà sul fiume? - Sí, caballero. - Noi scapperemo di là; ci permettete di rivedervi? - La mia fonda è sempre aperta per voi, signor conte. - Ritorneremo domani sera. Si tolse da una tasca una borsa ben fornita e gliela mise nelle mani, dicendole: - Addio, bella vedova: conto sulla vostra furberia. I colpi risuonavano piú sonori: le guardie picchiavano furiosamente coi calci degli archibugi e colle impugnature delle spade, gridando con voce minacciosa: - Aprite o gettiamo giú la porta! ... Ordine del viceré! Mentre l'ostessa usciva correndo, per rispondere, il guascone spalancò la finestra che dava sul fiume. Un corso d'acqua, piuttosto impetuoso, scorreva sotto la posada, lambendone la parete. Il conte s'affacciò e lanciò un rapido sguardo. - Quello che mi rincresce, - disse, - è di dovere bagnare le pistole. Bah! ... Ci rimarranno le spade, è vero, don Barrejo? - Talvolta sono piú preziose delle armi da fuoco, perché almeno sono piú sicure, - rispose il guascone. - Sapete tutti nuotare? - Tutti! - risposero ad una voce i tre avventurieri. - Saltiamo, prima che le guardie buttino giú la porta. - A me prima, signor conte, - disse il guascone. Salí sul davanzale, si assicurò bene la draghinassa e saltò risolutamente nel fiume, il quale scorreva quattro metri piú sotto. - È profonda l'acqua? - chiese il conte, quando lo vide ricomparire. - Si nuota magnificamente, - rispose il guascone. - Giù tutti! Uno dietro all'altro saltarono e trovarono tanta acqua da sprofondare, senza toccare il letto del fiume e da ritornare, senza incidenti, a galla. La corrente, che era rapidissima, li prese e li trascinò via. Erano però tutti abilissimi nuotatori e, quantunque i gorghi cercassero di quando in quando di subissarli e di attirarli nei loro giri vorticosi, dopo quattro o cinquecento metri presero terra a breve distanza l'uno dall'altro. - Con una notte cosí afosa, un bagno non fa veramente dispiacere, disse Mendoza. - Specialmente quando salva la pelle, - aggiunse il guascone, il quale si stringeva addosso i panni per sbarazzarsi dell'acqua che li inzuppava. Il conte si era affrettato a salire la riva, per vedere dove avevano approdato. Si trovavano sul margine d'una piantagione di zucchero, coperta di canne altissime le quali potevano offrire un ottimo rifugio. Era molto difficile che le guardie andassero a scovarli fino là, quindi pel momento nulla potevano temere. - Che cosa faremo, ora? - chiese il guascone. - Qui non vedo né una posada, né una taverna, né una venta. - Vorreste bere ancora, don Barrejo? - chiese il conte. - Eh! ... Se fosse possibile vuotare qualche bottiglia di Alicante per asciugarsi piú presto, non ne sarei dispiacente, - rispose il guascone. - Succhiate una canna da zucchero. Qui ve ne sono delle centinaia di migliaia. - Le lascio ai fanciulli, signor conte. - Allora aspettate che il sole vi asciughi. Noi non possiamo rientrare in città, inzuppati come siamo. E poi non dimenticate che oggi o questa sera dovremo fare una visita. - Ad una taverna? - A don Juan de Sasebo. - Volete proprio vederlo? - Se il marchese di Montelimar non mi ha ingannato, mia sorella si trova nelle mani di quel consigliere. - Allora andremo a prenderlo pel collo e, se resisterà, stringeremo forte. Io mi domando che cosa faremo noi, intanto? - Guardate ed imitatemi, - disse Mendoza. Estrasse la draghinassa e cominciò ad abbattere le canne, formandone in terra un fitto strato. - Signor conte, - disse poi. - Potete coricarvi e terminare il sonno cosí malamente interrotto dalle guardie. Qui nessuno verrà di certo ad importunarci. Il guascone ed il fiammingo non avevano indugiato a fare altrettanto, sicché in pochi minuti si prepararono un giaciglio, se non troppo comodo, per lo meno bene asciutto. - Dormiamo, in attesa che il sole renda le nostre vesti almeno un po' presentabili, - disse il conte. Si gettarono sullo strato di canne, uno presso all'altro ed essendo la notte caldissima non tardarono ad addormentarsi, quantunque fossero ancora inzuppati d'acqua. Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto. La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna. - Andiamo a fare una prima esplorazione in città, - disse il conte. - Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo. - Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, - rispose il guascone. - No, come un montone, - disse Mendoza. - Vada anche pel montone! ...

- Non abbiate tanta fretta, amico. Abbiamo ancora da bere, tonnerre! ... Ah! ... È vero che il vostro padrone ospita il marchese di Montelimar? - Sí, signore. Lo conoscete voi? - Abbiamo bevuto parecchie volte insieme, al Messico e abbiamo anzi divorati parecchi pranzi in allegra compagnia. - Che brav'uomo quel marchese! ... - Io lo stimo il primo soldato dell'America centrale. - Lo dicono tutti, - rispose il meticcio, vuotando un altro bicchiere che il fiammingo gli porgeva. - Eppure mi avevano detto che era stato fatto prigioniero dai filibustieri del Pacifico. - È vero, però è riuscito a scappare. - Ah! ... Ditemi un po', mio caro amico, sapete che il marchese abbia una figlia? Al Messico si diceva che si fosse sposato segretamente con una principessa, però a me non volle mai confessarlo. - Sicuro che l'ha. - Bella? - Bellissima. - E dove l'ha nascosta: che io non l'ho mai veduta? - Ultimamente l'aveva affidata al mio padrone. - E l'ha ancora? - No, signore, l'ha mandata a Guayaquil, perché erasi sparsa la voce che un famoso corsaro voleva rapirgliela. - Non era sicura in Panama? - Si diceva che i filibustieri si preparavano a tentare un colpo di mano sulla città e, per precauzione, il mio padrone l'ha fatta partire. Anzi io facevo parte della scorta. - Fortezza salda, Guayaquil? - Fortissima, - rispose il meticcio. - Un altro bicchiere, ancora. Voi siete un pessimo bevitore. Ehi, oste dannato, porta delle altre bottiglie ed un canestro di pesci salati. Abbiamo fame e anche molta sete, è vero don Alonzo? Il disgraziato meticcio non si sentí in caso di rispondere. Sempre addossato alla parete, guardava il guascone con due occhi che non avevano piú alcuna espressione. - È finito, - sussurrò don Ercole al guascone. - Pare anche a me. - E la supplica? Aspetta che chiuda gli occhi. Per ora so quanto desideravo. Il trattore aveva portato i pesci salati ed altre bottiglie. Il meticcio ne mangiò qualcuno, bevette un altro bicchiere, poi si abbandonò contro la parete, russando quasi subito. Il guascone ed il fiammingo terminarono tranquillamente la loro seconda colazione, vuotarono coscienziosamente le altre bottiglie, e, dopo d'aver pagato lo scotto, se ne andarono non senza aver raccomandato all'oste di lasciar digerire il vino al povero meticcio, senza disturbarlo. La digestione fu piuttosto lunga, poiché non fu che verso le otto della sera che il servo di don Juan de Sasebo aprí gli occhi. Si guardò intorno, stupito di trovarsi solo. - Ehi, taverniere! - gridò. - Dove sono andati quei signori che mi tenevano compagnia? - Se ne sono andati cinque o sei ore fa, - rispose l'omaccione. - Senza lasciarvi alcuna carta? - No. - Ed un gruzzolo di piastre da consegnare a me? - Hanno pagato il conto e nient'altro. Quantunque avesse il cervello ancora un po' annebbiato pel troppo vino ingollato, il disgraziato ebbe un lampo di lucidità. - Che cosa ho fatto io, sciagurato! - esclamò. - Quei due individui erano certamente due nemici del mio padrone e mi hanno condotto qui per farmi cantare su cose che forse li interessavano ed io, stupido, sono caduto nella trappola. Correrò a narrare tutto al mio padrone. Mi ricordo ancora quello che mi hanno domandato, malgrado il gran vino bevuto. Furfanti! ... M'avete derubato delle piastre, ma io ve le farò pagare. Uscí dalla fonda come un pazzo e dieci minuti dopo don Juan de Sasebo che stava nel suo gabinetto, conosceva quanto era accaduto al disgraziato. Il marchese di Montelimar era presente alla narrazione. - Tu sei un miserabile! - urlò il Consigliere, quando il meticcio ebbe finito di raccontare la sua gita alla fonda. - Tu meriteresti di morire sotto la frusta, canaglia! ... - Ammazzatemi pure, - rispose il servo, il quale si strappava a ciocche a ciocche i suoi capelli lanuti. - Sí, sono stato un miserabile. - Un asino! ... Un bue! ... - Sí, un bue, padrone. - Quest'uomo ci ha traditi, - disse il Consigliere, volgendosi verso il marchese di Montelimar il quale fumava flemmaticamente un grosso sigaro, sdraiato su una soffice poltrona coperta di pelle rossa di Cordova con grosse bordure dorate. - Adagio, amico, - rispose l'ex-governatore di Maracaibo. Questa avventura potrebbe invece portarci fortuna. - Tu lo credi? - Udiamo un po', Alonzo, - riprese il marchese, senza rispondere al Consigliere. - Uno di quei due uomini era alto, magro, assai bruno, con due baffi neri, assai rialzati e due occhi piccoli e scintillanti? - Sí, Eccellenza. - E portava alla cintura, invece d'una spada, una draghinassa, vero? - Verissimo, Eccellenza. - Lo conosci tu? - chiese il Consigliere. - È il braccio destro del conte di Ventimiglia, - rispose il marchese. - Sono ben audaci quei furfanti! D'altronde nulla è perduto, anzi io credo che questa avventura ci gioverà. Giacché quell'imbecille di Valiente con tutte le sue spacconate si è fatto stupidamente ammazzare, noi organizzeremo una vera caccia al conte. È piú facile coglierlo in aperta campagna che in Panama, dove può trovare mille rifugi. Metti a mia disposizione cinquanta cavalieri scelti e vedrai che io coglierò quei corsari, prima che v edano le mura di Guayaquil. - Anche cento, se ne vuoi. - Non troppi: pochi ma coraggiosi, e poi i filibustieri non sono che in quattro, e per quanto valenti, non potranno tenere testa ad un mezzo squadrone ben montato e bene armato. - Chi guiderà la spedizione? - Io, - rispose il marchese. - Voglio finirla una buona volta con quel conte, il quale turba continuamente i miei sonni. Se non è il diavolo in persona, non mi sfuggirà. - Credi tu che siano già sulla strada di Guayaquil? - Ne sono certissimo. - Quando conti di partire? - Prima della mezzanotte. Manda i tuoi scudieri a reclutare gli uomini che mi sono necessari e bada soprattutto che i cavalli siano ben riposati e di prima qualità. - Fra un'ora il mezzo squadrone sarà dinanzi alla porta del mio palazzo, - rispose il Consigliere alzandosi.

- Io credo, capitano, che voi abbiate torto di lamentarvi - disse Mendoza. - Sono troppo furbi i vostri marinai. Se sulla nostra barca vi fossero degli spagnuoli, scommetto che a quest'ora le granate scoppierebbero sulle nostre teste come gragnuola. Il signor Verra non è un marinaio da lasciarsi sorprendere. La scala di corda toccava l'acqua, permettendo una facile ascensione. Il conte l'afferrò e si issò fino sul ponte della fregata, gridando: - Si dorme qui? - No, signor di Ventimiglia, anzi si veglia attentamente e vi si aspettava - rispose una voce. Un uomo era improvvisamente apparso dinanzi al conte, smascherando una lanterna che fino allora aveva tenuta coperta con un pezzo di velaccio. Era un bel giovane di non ancora trent'anni, dai lineamenti piuttosto duri, con baffi e barba nerissimi, di statura alta e slanciata. - Voi, luogotenente! - esclamò il conte stupito. - Vi aspettavo da parecchie ore, capitano - rispose il giovane. Vi avevo già veduto col cannocchiale e mi ero immaginato che non avreste tardato a raggiungere la vostra nave. E poi ero stato avvertito dal pescatore d'una certa marchesa di Montelimar che eravate già giunto nei dintorni del capo Tiburon e anche che gli spagnuoli ci hanno preparato un agguato. - Ed è purtroppo vero, signor Verra! - rispose il conte. - Aspettano che noi salpiamo le âncore per darci addosso attraverso il Capo. - E noi siamo pronti a riceverli! - rispose il luogotenente. - I vostri uomini sono tutti ai loro posti di combattimento e le artiglierie non chiedono che di sparare. - Bene! - disse il conte. - È uscito nessun galeone da San Domingo? - Ne è passato uno dinanzi a noi, quattro o cinque ore or sono. Martin mi ha assicurato che doveva essere la Santa Maria. - Dove andava? - Verso ponente. - Sapremo raggiungerla. Sono troppo pesanti quei galeoni per competere con le fregate e soprattutto con la nostra. Prima di domani mattina noi l'abborderemo e avremo nelle nostre mani il segretario dell'ex governatore di Maracaibo. - Devo far salpare le âncore e spingere le vele, conte? - Un momento ancora, luogotenente - rispose il signor di Ventimiglia, il quale rispondeva a scatti. Si curvò sulla murata e gridò ai negri della scialuppa: - Tornate subito al padiglione dei bagni, se vi preme la vita. Portate alla marchesa vostra padrona e al bucaniere i miei ultimi saluti ... Martin! Il meticcio, che stava seduto su un barile chiacchierando con Mendoza e col terribile guascone, fu pronto ad accorrere. - La mia divisa rossa - disse il conte. - Il figlio del Corsaro Rosso non si batte sotto le vesti d'un pescatore. La mia spada di combattimento e la mia corazza. Signor Verra, fate spiegare le vele e date ordine agli artiglieri di non fare risparmio di mitraglia. Vedremo se sapranno arrestarmi attraverso il capo Tiburon e se la Santa Maria riuscirà a fuggire alla nostra caccia. Fate presto! Mentre il fischietto di Mendoza chiamava i marinai agli argani per salpare le âncore ed i gabbieri per spiegare completamente le vele, ed il luogotenente dava le ultime disposizioni per il combattimento imminente, il corsaro scese nel quadro di poppa seguito dal guascone e da Martin. Quando ricomparve era tutto vestito di rosso, come era comparso negli splendidi saloni della marchesa di Montelimar, con una nuova spada al fianco e le pistole di grosso calibro alla cintola. Salí sul ponte di comando, situato sul davanti dell'altissimo quadro, ed imboccato il portavoce, gridò: - Alla vela! Tutti al posto di combattimento! Il figlio e nipote dei tre grandi corsari vi guida e vi guarda!

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