Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il grandioso convegno di Ala

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Contro gli altri partiti non sollevano proteste, né contro la tattica liberale, che non rappresentò certo gl’interessi rurali, né contro i socialisti, per quanto spesse volte abbiano votato in senso contrario agli interessi e al sentire dei contadini. Tutto l’attacco, tutta la rabbia è contro i popolari, contro le loro istituzioni! Possibile che noi non abbiamo fatto niente di bene e che gli altri non facciano nulla di male? E qui l’oratore riepilogando la politica dietale dal periodo dell’astensione in qua dimostra che chi ha chiamato i contadini ad occuparsi di politica, chi ha rotto il giogo di pochi ed ha aperto la strada alla democrazia rurale furono i popolari, i quali insegnarono ai contadini ad organizzarsi economicamente e poi politicamente. A questo movimento d’emancipazione e scisma creato dall’iseriani cozza di fianco. Malgrado tutte le frasi di libertà e indipendenza, la politica raccomandata dal Contadino (vedere la questione di Fiemme come non unico esempio) è quella vecchia dei signori. Il partito popolare sopporterà l’urto più agevolmente di quello che non sperano gli avversari. Ci rincresce di dover combattere su tre lati; ma anche se i leghisti ci attaccano alle spalle, so che voi saprete battervi da valorosi. Per che cosa combattiamo noi? Non per un mandato più o meno; che se non fosse questione che di mandati, dal nostro canto facile sarebbe l’intesa. Ma è questione di principio. I leghisti, voglia o non voglia, sono gli anticlericali della campagna che vi trasportano l’anticlericalismo cittadino, e come gli anticlericali lo furono in città, così nella campagna i leghisti sono i precursori del socialismo. Esiste quindi un pericolo evidente di carattere sociale e anche d’ordine religioso. Qualcuno non lo vede, qualcuno sarà in buona fede, ma anche il socialismo è incominciato a Trento colle citazioni di S. Paolo. Bisogna quindi che ci battiamo con tutta la forza per la difesa dei nostri principi. L’oratore accenna infine all’aspra campagna personale che si fa contro tutti i capi del movimento nel «Contadino». È un continuo tentativo d’intimidazione e di demolizione. Ma quando abbiamo preteso, chiamandovi cattolici nella vita pubblica di presentare le nostre persone come modelli da imitare? In chiesa recentemente abbiamo cantato il Miserere. Vengano i signori leghisti, e noi siamo pronti a rimetterci in ginocchio assieme a dire Miserere di noi o signore, secondo la tua grande misericordia. Ma quando si rialzeranno chi darà loro il diritto di coprirci di contumelie e di accuse? Chi siete voi che volete coprirci di pietre? Discutiamo di principi non di persone. L’oratore termina con un caldo inno alla democrazia cristiana e al rinnovato sforzo che tutti compiamo per la sua vittoria. Un uragano d’applausi scoppia nella grande assemblea.

Il primo Congresso Cattolico Trentino

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Nessuno s’accorse dopo l’entrata del socialismo, che negli studenti — le eccezioni non contano — siano penetrate nuove idee, abbiano fatto scuola nuovi ideali, e soprattutto che questi ideali siano stati messi a programma d’una società o scritti su di una nuova bandiera. Tutto si ridusse ad un po’ di radicalismo dalle tinte più vivaci; in questo o quel congresso si udirono delle frasi più forti e più arrischiate. Che era stato? I socialisti avevano cambiato al vecchio fonografo liberale il cilindro, ve n’avevano sostituito uno nuovo e si sonava allegramente; erano le medesime frasi, gli stessi motivi, ma più ben intonati, più forti secondo le nuove invenzioni. Di queste frasi parecchie suonavano accusa contro di noi; le più parevano fatte apposta per crearci attorno pregiudizi ancor maggiori e così s’aggiunse al passato il presente. Il nostro programma, le nostre idee giungono quasi sempre indirettamente agli orecchi degli studenti che escono di ginnasio, quasi mai a quelli dei genitori. Gioverà oggi che parliamo in questa Trento, centro intellettuale — almeno per gli studenti — ripetere quello che siamo e quello che vogliamo. L’Associazione universitaria ha scritto sulla propria bandiera: Pro Fide, Scientia et Patria. Permettete, o signori, che oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astrattismi ed esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici italiani, democratici! Ruskin disse una volta: «Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla Patria ed alla società». Con la nostra formula noi vogliamo quello che desiderava Ruskin. Cattolici! Siamo al punto fatale della divisione. Non risusciterò, signori, antiche polemiche, né ripiglierò i classici argomenti che svolsero i trentini in quei giorni, in cui si dovette rompere un infausto letargo e riscuotere il paese a quella vita, di cui oggi appunto ci rallegriamo. Ma è strano che di tutti quei rumori non sia arrivata nei circoli universitari tanta eco, da giustificare e motivare il nome che abbiamo dato alle nostre società. Giovani, negli anni nei quali con tutta l’anima si cerca ovunque il vero e l’ideale, venuti alle università, che furono per tutto il secolo XIX le officine di nuovi rivolgimenti intellettuali e sociali ostili al cattolicismo, avrebbero dovuto accorgersi che, alle soglie dell’aula magna, vengono a toccarsi cogli estremi confini due mondi avversi: mondi di idee e di convinzioni, ma che fuori nel turbine sociale corrispondono a due grandi soluzioni pratiche e radicali della vita presente ed avvenire. Questo contrasto, questa lotta suprema essi avrebbero dovuto affrontare e coraggiosamente superare in sé stessi e consacrare gli entusiasmi e le forze giovani all’una causa o all’altra. Si preferirono invece — pochi eccettuati — alle soluzioni radicali le soluzioni intermedie. Le idee «moderne» fecero un vile compromesso con quel po’ di cattolicismo che doveva restare per amor delle tradizioni familiari, ridotto naturalmente ad una somma più o meno grande di messe basse per non disgustare le ferie alla mamma. E quel tanto di cattolicismo che non si adattava al compromesso venne chiamato clericalismo, e a noi, che decisamente avevamo preso le parti di uno dei combattenti e ci eravamo dichiarati per una soluzione radicale, si gridò: fanatici, e turbatori della pace. Signori, anche Cristo un giorno ha detto: Non vengo a portar pace, ma spada. Ma regnava una pace in cui il bene era confuso col male, col vantaggio del peggio. Il Trentino e un paese, negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano. Mentre la fede dei lavoratori di questa dura terra trentina restò salda malgrado la marea, che ascendeva quasi difesa da baluardi naturali, non ne rimasero illese le nostre città, i nostri borghi. Lo spirito invadente del paganesimo, qualunque nome portasse penetrò in questa società colta, ove coltura divenne più o meno sinonimo di scetticismo. O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri,la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono inspirati ad ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicismo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose. I nostri contadini comprendono che fra loro e i signori c’é una grande diversità di convinzioni, benché non sappiano misurare la profondità dell‘abisso; e quando muovono alla chiesa e vedono il dottore o l'avvocato seduti alla porta del pizzicagnolo o dell’oste del paese osservarli con un cert’atto di superiorità e disprezzo, brontolano qualcosa che esprime il voto di un popolo intero più che non avvenga in cento comizi. E se domandate loro dell'origine di questi mali, vi rispondono: Ma, sono stati all’università! Conosco un buon uomo intelligente che aveva posto le più belle speranze su di un nipote che in ginnasio non aveva mai fatto parlar male di sé. A suo tempo, espresse allo zio il proponimento di andare all’università, e lo zio, pur continuandogli la sua benevolenza, incominciò a dargli del lei. E al nipote meravigliato motivava la mancata confidenza così: Mio caro, lei ora va all’università, quando ritornerà non penserà più come me ed è meglio ci avvezziamo ora a trattarci con deferenza. Nessuno vorrà negare che i nostri popolani nell’indicare la origine del male, non colpiscano nel segno. Sì, dall’università ci venne il paganesimo intellettuale, se non sempre la crisi morale. Ebbene, o signori, volevate voi che giovani convinti della loro fede ed entusiasti della sacra poesia della religione paterna, saliti là dove più distintamente s’ode il rumore della battaglia suprema, se ne stessero indifferenti osservatori? No, noi abbiamo ascoltato la voce del dovere, ci siamo stretti in un fascio, abbiamo spiegato la nostra bandiera e abbiamo offerto alla causa cattolica il nostro tributo di forze giovanili. Noi, ricordandoci delle parole di Montalembert, non abbiamo nemmeno supposto di non accettare le condizioni di un’epoca militante. Non bastava conservare il cristianesimo in sé stessi, conveniva combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti. Contribuire ora e più tardi al ritorno delle classi colte trentine all’antica fede della città del Concilio, e distruggere così l’abisso fatale aperto fra il popolo e la colta borghesia, ricondurre quell’armonia necessaria ad un popolo tendente ad alti destini, ecco quello a cui noi tendiamo e che esprimiamo mettendo a capo del nostro programma la parola cattolici. E a questo scopo ci soccorre la fede che solleva i cuori e la scienza che arma la mente. A chi nega la conciliazione dell‘una con l'altra, risponda Pasteur. Disse una volta ad un cotale che gli domandava se fra i risultati delle sue esperienze e la Bibbia avesse mai trovato contraddizione: Signore, io passai la vita nello studio, e giunto alla fine credo quanto crede un povero contadino della Bretagna. Se vivessi ancora penso che le mie esperienze mi condurrebbero a quella fede che anima la più povera vecchiarella brettone! Signore! signori! I polacchi dicono che per loro polonismo e cattolicismo è la medesima cosa. Polacco significa già cattolico. Parlando di noi trentini potremo dire a più ragione: Cattolici significa già italiani. E avremo una parola di meno nella formula. Ma viviamo, o amici, in un paese di confine, ove valse fin'ora per buon italiano chi giurò spesso d’esserlo, ove una borghesia di petrefatti ricantò nei caffè e nelle accademie ideali vecchi, tramontati già, se non mai sorti, per le masse popolari, belli se commuovono un popolo intero, quando seguirli venga stimato virtù; spogli di splendore, abbrutiti quando non facciano conto della realtà delle cose e dell’anima popolare e vengano rappresentati senza uomini o partiti come passione senza il riconoscimento delle leggi morali e dell‘ordine civile! Questi uomini e questi partiti o giovani, che ne ereditarono il fonografo, ripetono ancora oggi in buona o mala fede una terribile accusa contro i cattolici: mancar essi di patriottismo ed amore alla propria nazione. Ricorderò sempre, o signori, con sdegno la risposta che a me e ad un mio collega diede uno studente radicale in Vienna, quando eravamo accorsi come tutti ad interessarci d’una questione comune: Voi cattolici — lo sapete — non vi teniamo come italiani. Ah! Viva Dio, avremo dovuto rispondergli, i cattolici sono italiani da secoli, da quando sorse la nazione intorno alla cattedra di San Pietro; voi siete — se lo siete — italiani da dieci-dodici lustri. I cattolici hanno dietro quasi due periodi storici che furono guelfi, voi, forse, il ghibellinismo di cinquanta anni. Ma ci parve meglio ridergli in faccia. E così dovrei far oggi e passar oltre e dire: Guardate che cosa hanno fatto i cattolici trentini per la difesa della loro lingua e dei loro costumi, e vi basti. Se oggi sviluppo alquanto il nostro pensiero, non è per rispondere a certi giovanotti che di questi giorni proprio vanno, a rovina della patria e a vantaggio di un partito, ripetendo antiche menzogne, né per ottenere la patente di buon italiano da certi signorini che poi dichiarerebbero, magari dal podio del teatro sociale, di non crederci; ma io penso alle madri ed alle famiglie, ove la calunnia poté trovare credenza. A loro gioverà gridare di nuovo: No, questi giovani che si propongono d’essere anzitutto cattolici, non dimenticano socialmente di essere anche buoni italiani. Difendendo la fede e i costumi dei padri, compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l‘Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemoratori delle glorie altrui ripetono doversi sacrificar tutto e idee e convinzioni. Questo concetto trapelò anche da noi in molte occasioni e quando si dice che davanti al monumento a Dante devono sparire tutte le misere divisioni di partito, che cosa si vuole insegnare altro alla gioventù se non altro che la Nazione va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Signori, non è vero! Noi ci inchiniamo solo innanzi a un Vero supremo indipendente e immutato dal tempo e dalle idee umane e al servizio di questo noi coordiniamo e famiglia e patria e nazione. Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo fino là dove finisce il cattolicismo. Pratica: non furono i cattolici che ordinarono i fatti di Wreschen, ma furono coloro che senz’altro ritegno di giustizia e moralità gridano: la nazione soprattutto. No, Iddio, il Vero innanzi tutto! Nella pratica della vita questo principio non ci ha impedito di accorrere ogni qualvolta lo richiedesse l’onore di tutti gli italiani: e noi giovani anche per l’avvenire non perderemo nella nostra propaganda democratica cristiana; rammenteremo sempre che vogliamo creare non soltanto buoni cattolici, ma anche buoni italiani, amanti della lingua loro e dei loro costumi, fieri di appartenere a quella Nazione che fu nella storia la prediletta della Provvidenza. Un’altra parte del nostro programma è espresso nella parola «democratici». Signore e signori! Se le esigenze del Congresso e la ristrettezza del tempo lo permettessero, io vorrei parlare a lungo su questo argomento. E non perderei tempo! A quei signorini universitari che se ne stanno anche durante gli anni dello slancio e dell’altruismo epicureamente lontani dal popolo e s’avvezzano per tempo al caffè donde c’è venuta una borghesia parassitaria, vorrei ripetere oggi questa parola. Anche in questo riguardo il periodo universitario e fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti. O che da giovani ci si avvezza a ridurre il mondo ai giornali che si leggono e ai membri della propria classe, e allora il giovane, divenuto dottore, avvocato, non discenderà fra le grandi masse popolari come fratello ai fratelli, ma come rappresentante di quella borghesia che si attirò nei tempi nostri tanti odi e maledizioni. O che si vede già da giovani oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune. Non è mancanza di modestia, o signori, se noi, studenti cattolici, ci mettiamo senz’altro fra i democratici. Io credo che nessuna associazione universitaria ha tanti membri che si siano, come molti dei nostri, buttati all’istruzione popolare ed abbiano affrontato con coraggio, quando i loro studi lo permisero, il problema di creare nel popolo trentino democratici cristiani. Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori dell’uomo, in tutta la vita pubblica. Signore! signori! Con questo programma che abbraccia tutta la vita, abbiamo alzato l’anno scorso, all’autora del secolo XX la nostra bandiera. Questa bandiera l’abbiamo portata in mezzo alla gioventù studiosa, chiamando a raccolta e continuando a combattere. Noi vogliamo creare caratteri, vogliamo chiarezza d’idee. La nostra società è sorta come un’accusa contro i compromessi morali e religiosi. Noi rompiamo questa massa incolore, fortemente, ma lealmente! Numquam incerti, semper aperti! Non tema qualche buono che con ciò creiamo dissidi incancellabili. Vogliamo la guerra, ma per la pace. Quando gli studenti si troveranno di fronte con ideali chiari, con propositi precisi, sarà più facile intendersi. Ma fino a che regna la nebbia e il mare batte furioso, noi — la cavalleria leggera dell’esercito cattolico — stiamo sull’attenti, e al primo rumore che precorre l’assalto, gridiamo rivolti a tutti: Alle dighe; e vi ci lanciamo per i primi!

La propaganda socialista

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Dopo aver ammesso che il capitalismo imperialista fu senza dubbio una delle cause principali, l’oratore si domanda se i socialisti abbiano proprio diritto di proclamarsi completamente estranei alla guerra. Il manifesto di Marx è vecchio del ’48. Ma i suoi seguaci abbandonarono la sua strada. I suoi più fidi, i socialisti tedeschi nell’agosto del 1914, votarono al parlamento germanico le spese di guerra, tutti, compreso il Liebknecht. Solo più tardi la frazione degli indipendenti, nelle votazioni successive, si dichiarò contraria, ma la maggioranza, tra cui i capi autorevoli, rimasero fedeli alla causa della guerra, fino alla sconfitta. In Austria i socialisti si divisero, uno dei capi più ammirati, il Dasynsky, col suo gruppo votò non solo per le spese della guerra ancora nel giugno 1917, ma organizzò addirittura le legioni polacche contro la Russia mentre va rilevato che nessun deputato trentino votò mai in favore delle spese o dei prestiti di guerra. L’Arbeiterzeitung stessa, organo del partito internazionale austriaco di cui facevano parte anche i socialisti italiani soggetti all’Austria, scrisse in favore della guerra contro la Russia. Che dire poi dei socialisti sull’altra sponda? Proprio il capo del Bureau socialista internazionale il Vandervelde fu membro del gabinetto di guerra del suo paese e grande propugnatore della guerra a fondo; in Francia furono ministri durante la guerra i socialisti Guesde, Sembat e Thomas quest’ultimo addirittura delle munizioni: in Italia basti ricordare Bissolati, Canepa, Bonomi. Nella stessa Russia i capi socialisti Plechanow, Burzew e Kropotkin (proprio quello ch’è citato stabilmente nella testata dell’«Internazionale») furono ferventi sostenitori della guerra. È vero che tutti costoro partecipando alla guerra si giustificarono con ragioni riguardanti la difesa della loro patria o la civiltà, ma ciò vale anche per i cattolici. Se l’«Internazionale» accusa i cattolici, deve condannare anche i socialisti, se assolve questi, non può accusare i primi. I socialisti trentini non hanno diritto oggi di riesumare Carlo Marx, fondatore dell’Internazionale, per rifarsi una verginità innanzi alla guerra e di richiamarsi a quella internazionale che fece all’atto pratico completo fallimento. In quanto ai preti bisogna distinguere un atto di culto, qual’è quello della benedizione delle bandiere, dall’eccitamento all’odio e alla guerra. Chi ha scritto pagine più feroci contro il nemico di Hervé? E di contro a questi fatti quali atti di propaganda pacifista sanno i socialisti apporre che equivalgano agli appelli, alle proposte, alle iniziative del capo della Chiesa cattolica? E qui si potrebbero ricordare tutti gli atti pontifici in favore della pace. Già nel settembre 1914 Benedetto XV scriveva: «Bastino le rovine che già sono state prodotte, basti il sangue che è già stato sparso; si affrettino dunque ad accogliere nell’anima sentimenti di pace...». Tali appelli il papa ripeté al 1° novembre e nel Natale dei 1914 esclamava: «Deh cadano al suolo le armi fratricide, cadano alfine queste armi troppo macchiate di sangue: e le mani di coloro che hanno dovuto impugnarle tomino ai lavori dell’industria e del commercio, tornino alle opere della civiltà e della pace!». E qual grido fu più commovente, quale appello più forte di quello che il papa dirigeva ai potenti nel primo anniversario della guerra? Rievocate quelle parole che noi, profughi o combattenti per forza, per una causa straniera, leggemmo allora piangendo. «Nel nome Santo di Dio, nel nome del celeste nostro Padre e Signore, per il sangue benedetto di Gesù, prezzo dell’umano riscatto, scongiuriamo voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa... Voi portate innanzi a Dio ed innanzi agli uomini la tremenda responsabilità della pace e della guerra: ascoltate la nostra preghiera, la paterna voce del vicario dell’eterno e supremo giudice, al quale dovrete render conto…». Questo scongiuro fece tale impressione che l’Austria ne proibì la ristampa nel «Bollettino diocesano». I socialisti allora, dall’Avanti all’Arbeiter Zeitung, riproducevano il documento a caratteri di scatola. Ora vorrebbero che tutto ciò fosse dimenticato. Il mondo dovrebbe affidarsi per l’avvenire unicamente alla nuova internazionale che Lenin sta ricostruendo col ferro e col fuoco. Quale è il mezzo con cui essi vorrebbero distruggere il militarismo se non con un altro militarismo alla Trotzky o alla Bela Kun? La dittatura del proletariato, la guerra civile, la violenza insomma dovrà trionfare delle vecchie violenze? Non la lotta di classe, spinta fino alle sue ultime conseguenze, può bandire le guerre future, ma la riorganizzazione della società in base ad una rinnovata coscienza cristiana. La fratellanza di Cristo e solo questa ha la forza di attuare la prima. L’oratore termina applauditissimo ricordando la statua del Redentore che domina la scalea del palazzo della pace all’«Aia», posta come sulla soglia del nuovo mondo che deve venire.

L'assemblea costitutiva del Partito popolare

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Per concludere: nessuna meraviglia perciò che i popolari abbiano issato per i primi, in quest’ora storica per il nostro paese, la bandiera delle rivendicazioni democratiche: era nel loro programma, e solo ci è grande conforto che questo corrisponda così bene all’esigenze psicologiche e agl’interessi più urgenti del nostro paese a questa svolta della sua storia. Aggiungeremo di più. Poiché il programma autonomista, sostanziato di postulati concreti, lanciato in mezzo alla nazione, ove, come abbiamo visto, raccoglie il suffragio delle energie più sane e capaci di rinnovare l’Italia, è programma di dignità e di fierezza, esso contiene anche una forza educativa del costume politico. Solo se salverà le sue autonomie, il Trentino e i trentini avranno politicamente una personalità propria e poiché saranno forti di una maggiore libertà e di una maggiore sicurezza dei loro diritti potranno dimostrare agli altri con qual virtù si possa servire la patria, quando si e forti di una forza propria (applausi). Rifacciamoci ora di nuovo al momento della nostra liberazione politica. Con quale ansia, amici miei, abbiamo atteso la grande giornata! Quando venne finalmente, le aspre lotte per la nostra esistenza nazionale, il diuturno contrasto per dimostrare la legittimità delle nostre aspirazioni, avevano inciso nelle nostre menti un concetto altissimo di quello ch’è per l’individuo la nazione e di quanto dovesse valutarsi per noi il ricongiungimento colla madre patria. Il fatto che s’invocava non era il cambiamento di dogana, il mutamento di governo: era a traverso l’unione politica, l'unione morale colla nostra nazione. Quest’unione morale abbiamo quindi esaltato perché ci chiama ad un sentimento comune di grandezza, ci fa partecipi di un patrimonio glorioso del passato, ci associa alle conquiste civili dell’avvenire e, facendo di ciascuno di noi un figlio della grande nazione italiana, irradia su noi una luce nuova che eleva il nostro spirito e moltiplica i nostri impulsi di progresso. Nessun pericolo quindi per noi di svalutare l’opera di unificazione nazionale.

Una conferenza dell'on. Degasperi a Merano. Il contraddittorio coi socialisti

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Quando i tedeschi hanno chiesto l’autonomia, la maggioranza dei trentini ha risposto che non intende opporsi a che i tedeschi sul terreno delle autonomie locali, che i trentini reclamano anche per sé, abbiano un’amministrazione separata. I trentini non hanno mai consigliato una politica repressiva e mentre durante la guerra i tirolesi inveirono contro i nostri deputati confinati - basti ricordare l’on. Conci tenuto lontano dalla Giunta e costretto ad abbandonare perfino il convegno d’Innsbruck ove si dovevano discutere provvedimenti contro la fame — questi stessi deputati non ebbero difficoltà ad intervenire in favore di un deputato dietale, tirolese. Questo il contegno nostro, conclude l’oratore, che ci dà diritto di deplorare il contegno di certa stampa. Certo che noi non potremo mai permettere che agl’italiani dell’Alto Adige venga ostacolato il loro libero sviluppo, in nome di una dottrina di Monroe che si vuole applicata a tutto il territorio sopra Salorno. Infine un’enorme differenza — rileva il dr. Degasperi — esiste ancora in favore dei tedeschi al confronto di quella ch’era la situazione nostra rispetto allo Stato. Noi eravamo in Austria sudditi, essi in Italia sono cittadini. Sopra noi regnava l’inquisizione del pensiero, ché non ci era lecito esprimere nemmeno la nostra simpatia verso la nostra nazione e ci si educava all’ipocrisia, esigendo da noi dichiarazioni di patriottismo. I tedeschi, invece, hanno potuto liberamente proclamarsi repubblicani, criticare nei loro giornali il trattato di S. Germain, proclamare le loro riserve e proteste di diritto statale. Ai tedeschi resta libero di usare di tutte le armi della libertà politica e della democrazia; e se quest’uso non è pieno in questo periodo di transizione, come non è nemmeno per i trentini, presto verrà il tempo in cui potranno eleggere i loro rappresentanti. Si mettano francamente e apertamente su questo terreno, lascino le diatribe infeconde e nel pieno esercizio delle libertà politiche impareranno ad apprezzare le garanzie civiche che offre lo Stato italiano e ad amare l’Italia, che non conoscono ancora. Questo in sunto quanto espose in forma piana e senza pretese nella prima parte della sua conferenza l’on. Degasperi.

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 2 occorrenze

Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 2 occorrenze

Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.

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