Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

189082
Pitigrilli (Dino Segre) 5 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
  • paraletteratura-galateo
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Nessuno ne soffrirà. 12°: Studia il tuo uditorio; è facile avere fra il pubblico dei cornuti, delle signore che non si sa bene quale attività abbiano esercitato prima di salire con la fronte ricinta di fiori d'arancio all'altare, e dei commercianti arricchiti attraverso una rete di fallimenti e di concordati. Se ci sono dei farmacisti o degli avvocati puoi coraggiosamente raccontare storie di venditori di mollica di pane in pillole o di menzogne su carta da bollo; non se ne offenderanno; le più crudeli sono essi i primi a metterle in circolazione; stai attento però con gli ufficiali, gli ebrei, i masticalapis delle pubbliche amministrazioni. Questi ultimi, quanto più sono inutili e ingombranti, tanto più si ritengono necessari e insostituibili; il più goffo trascinatore di sciabola del Principato di Monaco o della Repubblica d'Andorra si ritiene un eroe e crede di essere eletto dal destino per portare alla vittoria il suo esercito di otto uomini e un vecchio cannone. Gli ebrei vedono antisemitismo dappertutto. Si racconta che due ebrei uscendo dal caffé surriscaldato, una notte di inverno, lasciano la porta aperta. Dall'interno qualcuno grida: «Eh, voi due, chiudete la porta». Allora un ebreo dice all'altro: «Li senti gli antisemiti?». Oltre a questa ragione ce n'è un'altra: gli ebrei amano il denaro, gli affari vantaggiosi, e se possono fregare qualcuno non dànno il suo indirizzo a un altro, esattamente come fanno i cattolici, i mussulmani, i cinesi, i monaci buddisti, il Re del salame di maiale in polvere e gli antisemiti. 13°: Mentre racconti una storia, approfittane per imparare ad ascoltare alla tua volta. Lo vedi come dànno fastidio coloro che aggiungono un commento, insinuano una frase per brillare di luce propria, invidiosi dell'attenzione con cui gli altri ti ascoltano? Da colui che tamburella sulla tua poltrona al cinematografo, impara a non tamburellare tu sulla poltrona del vicino. Non compromettere gli effetti oratori dell'altro se ti dà fastidio che l'altro comprometta i tuoi. In tre parole, ascolta in silenzio. E ridi, soprattutto se la sapevi già; c'è stato un momento in cui non la sapevi ancora. E non dire «è vecchia»; tutte sono vecchie; anche quella che hai appena sentito il giorno prima. 14°: Se hai ottenuto un largo successo d'ilarità non comportarti come i cattivi attori che fanno alzare il sipario prima che l'acclamazione sia spenta, per scroccare un secondo applauso. Oltrepassa. E poichè, come ho raccomandato, la storiella non va mai presentata con solennità, ma infilata in tono minore, riprendi la conversazione come se si fosse trattato di un semplice inciso. 15° : Evitare le storie di carattere digestivo, in tutte le fasi della digestione, soprattutto le ultime. Il genere rabelaisiano va scartato. E' un genere preferito dai vecchi inintelligenti, che non hanno altre risorse emotive. Una storia di questo genere, quando tutti hanno bevuto, inizia la serie delle storie ripugnanti, e fa ridere gli ubriachi, ma tu devi tener presente che ci sono anche di quelli che hanno bevuto acqua. 16°: C'è poi un settore di storielle... Non so se mi spiego. In questo settore bisogna avere la mano delicatissima; deve esalare un vago profumo di peccato, obbedire a una tecnica squisita dei sottintesi, l'arte del dire e non dire. La parola volgare va esclusa. Se è indispensabile, non scusarti col dire che siete tutti maggiorenni, che le signore «tanto non capiscono». Capiscono così bene, che ne sono esse il più attivo veicolo di diffusione. Secondo Tristan Bernard si chiamano storielle oscene quelle che si raccontano agli antipasti invece di aspettare a raccontarle dopo il cognac e il caffé. E' bene riservarle per il momento in cui circola la scatola degli avana e le signore si alzano per andare di là a parlare delle pettinature e delle gonne o per raccontarsi a vicenda l'ultima storiella che il marito non conosce ancora, che non si sa da chi hanno imparato, ma della quale il marito si farà bello al prossimo pranzo, quando circolerà la scatola degli avana, e le signore «andranno di là» a parlare delle gonne di Fath e delle pettinature di Antoine.

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Si può rimproverare a un ragazzo la deficienza in istoria, sebbene non tutti abbiano il dovere di appassionarsi ai massacri di Tamerlano, alle scarrozzate a trazione bovina dei Rois Fainéants, ai guai che derivarono dalle disfunzioni ovariche di Elisabetta I d'Inghilterra e dalla fistola anale del Cardinale di Richelieu. Si può rimproverare a un ragazzo la sua impenetrabilità alla matematica, sebbene da Re Davide ad Anatole France tanta gente abbia fatto carriera senz'essere riuscita a imparare un'addizione. Si può deplorare in un ragazzo la grafia illeggibile, sebbene Carlo Magno sapesse appena fare la firma e Napoleone non decifrasse i propri scritti. Si può rimproverare la scarsa applicazione, sebbene essa sia imputabile alla carenza di acido ascorbico e sia correggibile con qualche dozzina di carote grattugiate, assai più benefiche dei pedagogici scapaccioni paterni. Ma rimproverare un ragazzo per la sua ipocrisia è come rimproverare un pesce perchè fa dei bagni troppo prolungati o un maiale perchè mangia gli avanzi e i rifiuti, invece delle brioches e delle peches Melba. La scuola dell'ipocrisia è la casa. Non si può pretendere la sincerità dal ragazzo quando la madre, al telefono, in presenza sua, per rispondere che il marito non è in casa, inventa particolari a catena: «E' uscito in questo momento; forse è ancora giù per le scale; se telefonava cinque minuti fa... ma che dico? un minuto, fa... sono venuti degli amici a prenderlo in automobile; è invitato a un pranzo a Frascati; deve incontrarsi col direttore delle dogane, per una partita di turaccioli giunti dalla Spagna, e che sono fermi in stazione; ah, questa burocrazia!» E il marito è di là, e sta fumando la pipa, in pigiama. Non si può esigere la sincerità dal figlio, quando la madre, al telefono - oh, quale incremento ha dato alla menzogna l'invenzione di Meucci (o di Graham Bell che sia) quando la madre, per sostenere la menzogna di una passeggera indisposizione, fa una voce fiacca, o rauca, o afona, e accusa un colpo d'aria attraverso il vetro di un tassì (che non ha preso), o una salsa tartara (che non ha mangiato) o le danze fino alle tre del mattino all'Ambasciata dell'Unione Sudafricana, dove non conosce nemmeno l'ascensorista. Non si può pretendere la lealtà dal ragazzo quando per giustificare ai suoi occhi le nostre menzogne, ricorriamo alla «riserva mentale»: - Ho risposto che papà non c'era. Infatti non c'era. Era sul balcone. Sarebbe più pulito prendere il ragazzo fra le ginocchia e insegnargli sistematicamente la tecnica e l'impiego della bugia, come si insegna alla lavagna la superficie del quadrato o il volume della piramide. Lo si metterebbe di fronte a uno dei due problemi della vita: la difesa (l'altro problema è l'attacco). Ma lasciare che assorba l'ipocrisia per contatto è la più grave immoralità dell'educazione. Un'arma lecita in questa nostra lotta per l'esistenza e la bugia. La bugia è una spada. L'ipocrisia è una spada precedentemente intinta nel veleno o nell'immondizia. Quando uno dei due coniugi dice all'altro: «rispondi che non sono in casa», quello che va al telefono deve eseguire l'ordine con la semplice formula: «non è in casa». Il «non c'è» telefonico è divenuto una formula-standard consacrata nel codice internazionale del vivere civile, ed equivale al «chiami in un momento meno inopportuno», o addirittura «non chiami mai più». Educato così, il bambino dirà semplicemente: - Il bicchiere non l'ho rotto io. Ma se ode la madre arrampicarsi e tuffarsi e rotolarsi srotolarsi fra particolari inventati, dirà: - Il bicchiere era sulla tavola; vicino c'era un giornale; iI vento ha aperto la finestra, il battente della finestra ha mosso il giornale e il giornale ha spinto il bicchiere. E il giorno dopo il padre dirà al maestro: - E' un ipocrita.

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L'irresponsabile che si assume il carico tremendo di invitare degli amici a mangiare in casa sua, tenga presente che nelle sale chirurgiche, negli ospedali di bambini e nelle «nurseries», il personale sanitario si applica alla bocca una maschera di garza per trattenere le gocce di saliva; e poichè non si è ancora imposto per legge al personale di cucina tale maschera profilattica, i cuochi e le cuoche abbiano il riguardo di ridurre al minimo possibile l'occasione di emettere bacilli sulla Béchamelle, sulla salsa tartara e sulla mayonnaise riduzione, questa, che è effettuabile con un solo sistema, abolire la mayonnaise, la salsa tartara e la béchamelle e le complicazioni affini. Questo ideale igienico si raggiunge componendo un menu di estrema semplicità; legumi che si lavano dopo essere stati sbucciati, riso che si risciacqua prima di essere posto nella casseruola, pollo come esce dallo spiedo del rosticciere, pesce intero, con olio e limone, frutta come fu staccata dall'albero, eliminando cioè tutto ciò che «non si sa che cosa sia», tutto ciò che «non si sa come è fatto». Secondo: pensare che quella certa frittata di cui è ghiotto lo zio Camillo, non ha l'obbligo di piacere a tutti gli invitati. Terzo: che i ravioli, specialità della bisnonna novantacinquenne che si è alzata prima del levar del sole per prepararli con le sue mani, costituisce un patetico fattore sentimentale per te, suo pronipote, ma non solletica l'appetito dell'estraneo alla famiglia che deve mangiarli. Quarto: che i tuoi gusti sono tuoi e non degli altri; perciò non meravigliarti se le rane fritte, i cappelletti di Bologna, gli indecifrabili maccheroni alla calabrese rivoltano lo stomaco a qualcuno. Quinto: che il folclore nel mondo commestibile è un piacere tipicamente locale e che lo straniero, sottomettendosi alle leggi del Paese che lo ospita, non si impegna ad acccettarlo. Non offenderti perciò, se sei argentina, quando lo straniero non apprezza le tue «empanadas», e se sei cinese non meravigliarti se il tuo invitato dice «no grazie» davanti agli «ailerons de requin», cioè le pinne di pescecane o le bistecche di cane chow-chow, o le ova putrefatte, che la leggenda e scrittori di libri di viaggi che non sono mai scesi dalla propria mansarda attribuiscono alla cucina cinese. Un russo che abbia del tatto, un ungherese che mantenga uno stile, non offriranno mai a un francese il borsch né il goulasch, ma gli faranno preparare un menu secondo la cucina francese. In Svizzera preparano un piatto squisito : la «fondue suisse», mescolanza di Emmenthal, Gruyère e vino bianco secco, che si mette in mezzo alla tavola bollente, su una fiamma ad alcool, e dove tutti i commensali intingono il pane e la forchetta, in una promiscuità, che nella scala delle usanze schifose non ha altro equivalente che la pratica sudamericana di succhiare a turno, nella stessa cannuccia il decotto di « yerba mate ». Per fare uno strappo a questo scambio di saliva e di bacilli, non si serva in recipienti collettivi né il «mate» sudamericano, né l'elvetica «fondue», né la piemontese «bagna cauda». Sesto: il locale più indicato per invitare a pranzo al riparo da tutti gli imprevisti, il locale dove l'ospite si trova veramente «come in casa sua», è il restaurant. Al restaurant non è costretto a mangiare ciò che l'anfitrione gli ha destinato: può raccomandare che la carne sia arrostita o sanguinante, esigere un altro contorno, lasciare l'aragosta al primo boccone senza oltraggiare la suscettibilità di nessuno, può invertire l'ordine tradizionale delle portate, e il suo «no grazie» invece di essere un'offesa, si converte in un'economia per il fesso che paga. In più c'è il vantaggio che quando si è finito di mangiare non è una villania andarsene, ma una necessità, un impegno commerciale, per cedere il posto ad altri clienti. E c'è l'inestimabile vantaggio che dopo il caffé e i liquori non si ha il dovere di invitare il pianista a «farci sentire qualche cosa». Rimane il tempo di finire la sera in un teatro o in un variété, per medicarsi la gola e gli orecchi delle sciocchezze dette e udite durante il pasto; o, se non si crede di averne ancora dette e udite abbastanza, si può andare in casa di quello fra i commensali che ha delle poltrone comode, del whisky ragguardevole una intelligente biblioteca. Ma se proprio sei decisa a invitare in casa tua - articolo settimo - abbi almeno la precauzione di radunare persone che già si conoscano e abbiano un minimo di affinità mentale. Il vecchio sistema di alternare un signore e una signora è infondato, a meno che la tua non sia una casa di appuntamenti o un'agenzia matrimoniale. Due uomini politici cóllocali a grande distanza, per evitare che improvvisino un meeting: due cacciatori cóllocali vicini, in modo che si smaltiscano a vicenda le loro eroiche fanfaronate, senza che l'uno affligga l'uditorio con le virtù del suo setter, e l'altro con la precisione del suo fucile o la furberia dei coccodrilli del lago Tanganika. Se c'è un poeta, sistemalo fra due donne belle e analfabete (non scarseggiano mai), così gli impedirai di toccare il più impopolare di tutti gli argomenti: la letteratura.

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Non abbiano le mani attaccaticce, sudaticce, umidicce. Se le lavino spesso; non abbiano la frenesia di tendere la mano; non è necessario. Sopprimano gli occhiali affumicati verdi. Non diffondano le notizie tristi; se in un disastro ferroviario sono stati, secondo un giornale del mattino, venticinque morti, non dicano che in un giornale della sera sono saliti a trentatré. Prendano le cose alla leggera (take it easy); affrontino le circostanze sorridendo (keep smiling). Le musiche in gran voga dopo qualche tempo si fanno la fama di portare iella, ma questo accade alle canzoni tristi, alle gnole. Non accadrà mai al Tamburmaggiore della Banda d'Affori, né a Funiculì-Funiculà.

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Il giorno che aprirò un'ombrelleria, una cappelleria, una confetteria, non cercherò delle commesse che abbiano spiccate competenze in paracqua, in cappelli, in caramelle, ma che siano psicologhe e sappiano sorridere. Doppia qualità estremamente eccezionale. La maggior parte delle commesse (escludo quelle di Parigi, di Torino, di Roma, di Vienna e della Svizzera francese), sapranno che differenza c'è fra un ombrello di seta e uno di cotone e conosceranno il prezzo delle brioches, ma ignorano che cos'è un cliente. Lo dirò io: Il cliente è un signore che ha opinioni o non ne ha. Se ha opinioni sue è un errore dirgli: «questa cravatta è bella; questo colore le sta bene, è l'ultima che mi rimane, è un modello unico, ne ho venduta una a Luigi Cimara». Se non ha opinioni, bisogna iniettargli l'illusione di averne una, ben radicata, e non lasciar trasparire la nostra intolleranza di commessi esperti, di fronte alla sua indecisione e alla sua perplessità. In più, sia che comperi, sia che non comperi, è conveniente sorridergli, ringraziarlo e accompagnarlo alla porta. Chi non sa comportarsi così, faccia la guardia carceraria o il Ricevitore del Registro, ma non il commesso, anche se è laureato in Scienze Economiche. Le associazioni corporative americane distribuiscono ai commercianti degli Stali Uniti un documento di valore universale. Ne estraggo alcuni assiomi: «Il cliente è la persona più importante del negozio. «Il cliente non dipende da voi. Siete voi che dipendete dal cliente. «Il cliente non è un disturbo; egli è la ragione di essere del vostro lavoro. Occupandovi di lui, voi non gli fate un favore. E' lui che fa un favore a voi, offrendovene l'occasione. «Il cliente non è una gelida statistica; è un essere di carne e di sangue, dalle emozioni e dai sentimenti analoghi ai vostri, con pregiudizi e antipatie, anche se manca di certe «vitamine» che voi giudicate importanti. «Il cliente non è un signore col quale si discuta e si gareggi di astuzia; nessuno è mai riuscito vittorioso in una discussione con un cliente, anche se ha creduto il contrario». In omaggio a questo principio, in certi grandi alberghi internazionali brilla un cartello con questo aforisma: «Il cliente ha sempre ragione», e in certi magazzini degli Stati Uniti si è messo in scena un piccolo dramma, meritevole di essere riassunto: il cliente o la cliente insodisfatta chiama il capo reparto, il quale risponde: - Mi pare che lei abbia ragione. Nell'interesse della casa, la prego di favorire all'ufficio reclami. Proiettata su un ascensore, la persona carica di fulmini di scintille viene introdotta nello studio di un signore che ascolta le lagnanze, prende degli appunti, offre delle sigarette, un whisky, un gelato e un té a seconda dell'ora, della stagione e del sesso, e preme un campanello: - Chiamatemi il signor Smith. Il signor Smith si presenta con un pallore di sonnambulo, e il severo funzionario riassume il fatto esposto dalla signora, e conclude : - Poichè quel commesso è alle vostre dipendenze e voi siete responsabile del personale, consideratevi licenziato. Passate alla cassa a ritirare ciò che vi spetta, perchè da questo momento non fate più parte della Casa. Il cliente esce, elettrizzato per aver stravinto. Il rimorso di aver messo sulla strada un padre di famiglia gli impedirà di tornare almeno per qualche tempo a fare delle lagnanze e delle proteste. Ma se il giorno dopo o dopodomani, o il prossimo lunedì si presentasse all'ufficio reclami, per nuove lagnanze, ritroverebbe il severo funzionario deciso a dargli ragione, a convocare il responsabile signor Smith, a licenziarlo sui due piedi, perchè il signor Smith pagato dalla casa per recitare la parte del capro espiatorio che, consacrando il principio che il cliente ha sempre ragione, si presta a farsi mettere sul lastrico mezza dozzina di volte il giorno.

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