Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nuovo galateo

190276
Melchiorre Gioja 4 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
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In mezzo alla varietà degli usi relativamente alle donne, la ragione approva che gli uomini le abbiano seco e ne' passeggi e ne' pranzi e al teatro e alla conversazione; imperocchè se esse sole non danno vita a tutti i piaceri sociali, esse sole gli accrescono e ingentiliscono.

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Altri credono che l'onore dell'anticamera richiegga che la servitù vi si arresti sempre ad ora avanzata, benchè non ne abbiano più bisogno; ed altri si mostrano persuasi che

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Se il re dimanda loro quanti figli abbiano, essi rispondono: due o tre cani, tre o quattro cagne, secondo il caso. A Siam è un delitto capitale lo sparare un'arma da fuoco alla distanza in cui possa essere intesa dal re. Nel circuito del palazzo reale fa d'uopo passare rapidamente ed in profondissimo silenzio. Non si sente giammai il minimo rumore alla distanza d'un miglio dal palazzo ove il Kan dei Tartari fa la sua residenza. Nissuno può passare a cavallo o in cocchio davanti la porta del palazzo imperiale della China; il rispetto o sia l'uso del paese vuole che si discenda a terra e si cammini a gambe levate. Questa legge del silenzio ha periscopo di non turbare con rumori inopportuni la quiete del re; l'uso seguente di non offenderne la vista con immagini deformi: i ciechi, gli storpi, i mendicanti, quelli che hanno il naso o le orecchie tagliate, od una cicatrice e deformità visibile, non possono avvicinarsi al palazzo imperiale a Pekin. Non solo non si vede giammai il re del Malabar, ma a qualunque distanza si sia dalla sua persona, non é permesso sedere in un luogo ove possa giungere il suo sguardo. Dacché egli esce dal palazzo, parecchi ufficiali lo precedono molto avanti, e gridano a perdita di fiato che il principe s'avvicina, e quelli che non hanno diritto di comparire alla sua presenza, devono tosto ritirarsi. Alla China non basta di darsi alle gambe all'avvicinarsi dell'imperatore, ma si è obbligati sotto pena di morte a stangarsi in casa. Quando il re della Corea esce, le porte e le finestre delle strade vicine devono essere chiuse, ed è vietato sotto pena di morte l'aprirle. Il re d'Achem nell'isola di Sumatra ammette bensì i suoi sudditi all'udienza, ma parla loro e riceve le loro suppliche senza lasciarsi vedere. Nel palazzo d'Arrakan, allorchè il re comparisce, ciascuno tiene le mani giunte sulla fronte e sugli occhi, e la testa bassa, per dimostrare che sono indegni di contemplare Sua Maestà. I Grandi di Tunquin non possono comparire alla corte che a piedi nudi. I mandarini del palazzo, i principi del sangue si prosternano avanti lo scanno, il trono, l'abito, il cinto, in somma qualunque cosa di cui fa uso l'imperatore chinese. Gli stessi ambasciatori esteri sono obbligati a queste cerimonie: un inviato moscovita avendo ricusato di sottomettervisi, partì senza poter ottenere udienza. I fratelli di S. M. non gli parlano fuorché in ginocchio, Ne'primi giorni del nuovo anno giungono a Pekin dalle province dell'Impero più di mille mandarini per complimentare l'imperatore; essi vengono distribuiti nelle differenti corti dal palazzo, secondo la loro dignità; tutti insieme fanno tre genuflessioni, ed abbassano tre volte la testa verso l'interno del palazzo; un officiale del tribunale delle cerimonie dice ad alta voce: in ginocchio; e il suo ordine é eseguito: egli dice poscia: Battete la testa contro terra; e tutti battono la testa contro terra: lo stesso ufficiale dice: Alzatevi; e ciascuno si alza. - È cosa ambita e raramente concessa l'essere ammesso all'onore di dar del naso per terra. Mario Equicola nella storia di Mantova accusa Giovanni Galeazzo Visconti, duca di Milano, di avere corrotti i costumi italiani, e per es., d'udir i suoi sudditi facendoli star ginocchione davanti a lui e di farsi baciar la mano; il che in Italia, ei soggiunge, era prima tenuto atto servile. Schiller dice dell'imperatore Rodolfo II, il quale era dominato dalla passione pe'cavalli « L'accesso » a lui era chiuso a chiunque; ed era necessario » vestirsi da mozzo di stalla per avvicinarsi alla sua » persona ». Bernier racconta che l'imperatore del Mogol non pronuncia una sola parola senza che i grandi della corte non alzino le mani al cielo e non esclamino - Maraviglie!Maraviglie! I titoli fastosi che assumono i re asiatici possono scandalizzare gli Europei, cui l'abitudine non fa un dovere di rispettarli, ma non lasciano d'essere men veri. Il re d'Ava, per., es., si chiama Dio; e allorché egli scrive ad un sovrano straniero, si intitola re de're, al quale tutti gli altri devono obbedire, come amico e parente di tutti gli Dei del cielo e della terra; colui che, per l'affezione che questi hanno per esso, é la causa della conservazione di tutti gli animali e della successione regolare delle stagioni; fratello del sole, prossimo parente della luna e delle stelle, padrone assoluto del flusso e riflusso del mare, re dell'elefante bianco e dei ventiquattro parasoli . I re d'Ava portano questi parasoli come contrassegni della loro dignità. Questi e mille altri simili usi, infinitamente diversi da' nostri, tendono a confondere nella mente del popolo l'idea del principe coll'idea della divinità.

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Qualunque potere, qualunque autorità abbiano gli altri sopra di noi, non ci possiamo giammai persuadere che abbiano il dritto di sprezzarci. Noi perdiamo de'gradi di stima o restiamo esposti al disprezzo, I.° Quando alcuno svela agli altri le nostre imperfezioni; 2.° Quando ci attribuisce delle imperfezioni di cui siamo esenti; 3.° Quando ci nega le perfezioni che possediamo; 4.° Quando ci pospone ad altri che hanno perfezioni minori delle nostre. Qualunque atto o detto che volontariamerite e illegittimamente ci toglie l'altrui stima o ci espone allo sprezzo, si chiama ingiuria. Si vede dunque che l'ingiuria debb' esser calcolata sopra due elementi principali: 1.° Gravità; il che dipende dalla qualità delle imperfezioni, vizi o delitti che ci vengono attribuiti, o delle perfezioni che ci si negano ingiustamente; 2.° Pubblicità; il che dipende dal numero e dalla qualità delle persone alla presenza delle quali veniamo ingiuriati: circostanza che giunge al grado massimo, quando l'ingiuria consiste in iscritti o stampe visibili a tutti. Supposte queste nozioni preliminari, e rientrando nell'argomento dell'inurbanità, possiamo, riguardandola dal lato dell'amor proprio, a due classi ridurla. La prima contiene quegli atti o detti che ci attribuiscono imperfezioni, vere o false che sieno; e li chiameremo atti assolutamente inurbani. La seconda contiene quegli atti o detti che ci negano le nostre perfezioni, o le fanno supporre in minor grado di quel che sono; e li chiameremo atti relativamente inurbani.

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Nuovo galateo. Tomo II

194919
Melchiorre Gioia 3 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
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.* Noi ridiamo ricordando le nostre passate follie, ove non abbiano annessa l'idea del disonore, perché questa ricordanza dà risalto al sentimento della nostra attuale saggezza, e, quasi dissi, le accresce pregio. 2.° Noi ridiamo all'udire le altrui goffaggini: il che forse deriva dall'amor proprio, il quale gioisce nello scoprire in altri de' difetti de' quali egli si crede esente. 3.° Noi ridiamo alle sventure de' nostri nemici, allorchè non sono sì forti da interessare la nostra compassione; poiché le accennate sventure adescano piacevolmente il sentimento dell'inimicizia e della vendetta. 4.° I beffardi ridono nello schernire questo o quello; giacché il loro orgoglio coglie tanti gradi di piacere, quanti gradi di depressione ed avvilimento fa subire agli altri co' suoi motteggi. 5.° Noi ridiamo nello scoprire somiglianza tra oggetti che credevamo non ne serbassero alcuna, come ridiamo in generale sentendo ingegnosi tratti di spirito; 1.° perchè il facile esercizio della nostra intelligenza nel rapido passaggio da un'idea ad un'altra, i cui rapporti lontani non erano ben noti e distinti, é per sé stesso piacevole com'è piacevole un moderato passeggio, il respirare aria nuova, la comparsa d'un lume nell'oscurità e simili; 2.° perché quella cognizione diviene argomento della sagacità nostra, la quale ha saputo cogliere un elemento che, restio all'analisi, al comun guardo ascondevasi. III. Acciò la sorpresa e il piacere cagionino riso, vogliono essere prodotti da lievi contrasti o da finissime analogie; ecco qualche fatto: I.° Alla vista, per es., d'un bel quadro, all'udire una bella musica, noi proviamo sorpresa e piacere, ma non ridiamo; dite lo stesso allorchè al vostro occhio si presenta l'arcobaleno od altro simile grandioso ed innocente fenomeno. 2.° Vi cagionerà sorpresa e piacere senza farvi ridere la vista d'un animale selvaggio non mai veduto prima, per es., la grossa scimia chiamata ourang-oatang. Ma se la scimia vi si presenta con berretto da cardinale in testa, voi non potrete comprimere il riso: v'é qui un contrasto. Osservate bene che non tutti i contrasti fanno ridere, ma solamcnte i contrasti lievi, e son quelli che escludono la compassione e l'orrore. Se un uomo millantandosi di poter saltare un fosso vi cade in mezzo come un animale, voi ridete sgangheratamente, ma se, cadendo, si rompe una gamba od altro, voi non ridete più; qui il riso é compresso dalla compassione. Dire con Aristotile che il riso è prodotto da una deformità senza dolore, è ristringere di troppo, secondo che io ne giudico, il campo del ridicolo; poiché spesso noi ridiamo saporitamente senza che alcuna ombra di deformità al nostro spirito si appresenti. Infatti ci fa ridere la scoperta di finissima analogia non prima supposta (p. 162, nota 1), l'unione di qualità che sogliono essere disgiunte (p. 253, nota I), la disgiunzione di qualità che vanno ordinariamente unite insieme. Il Castiglione racconta come un dottore vedendo uno che per giustizia era frustato intorno alla piazza, e avendone compassione perchè 'l meschino, benchè le spalle fieramente gli sanguinassero, andava così lentamente, come se avesse passeggiato a piacere per passar tempo, gli disse: Cammina, poveretto, ed esci presto di questo affanno. Allora il buon uomo, rivolto, guardandolo quasi per maraviglia, stette un poco senza parlare, poi disse: Quando sarai frustato tu, anderai a modo tuo; ch'io adesso voglio andar al mio. Vediamo in questo caso disgiunte due qualità che sogliono essere unite; cioè, sotto l'azione delle percosse non scorgiamo né i segni del dolore, né lo sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque da un lato una forte sorpresa, dall'altro un sospetto che quel paziente o non soffrisse, il che fa tacere il sentimento penoso della compassione, o riuscisse a dominare il dolore, il che dà luogo ad ammirazione scevra d'invidia. Io non saprei come innestare sulle azioni e sul discorso di quest'uomo l'idea della deformità, mentre vi veggo chiarissimo un bel contrasto con quanto succede comunemente.

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Se i fanciulli sono talvolta sensuali, lo sono per la ragione stessa per cui lo sono i vecchi; ma a meno che non abbiano una complessione debole o flemmatica, essi non si mostrano sensuali che per intervalli. I divertimenti, i trastulli, i giuochi, pe' quali o la loro forza sperimentano, o la loro destrezza, prevalgono tosto sulla ghiottoneria. All'opposto nella vecchiaia si diviene più costantemente sensuali, perchè é minore la suscettibilità di altre sensazioni; perciò i vecchi che dimenticano non di rado le donne, non dimenticano sempre il vino, perchè nella vecchiaia resta la facoltà d'ubbriacarsi, che alle altre facoltà distrutte supplisce. Allorché i piaceri de' sensi si maritano e si confondono coi piaceri del cuore e dello spirito; allorché essi non ne sono, per così dire, che l'ombra o il riverbero, la loro influenza é uno de' dolci incanti della vita: ben lungi dall'estinguere l'attività dell'animo, l'alimentano e l'accrescono. Ma se qualche gusto sensuale ci cattiva in modo isolato; s'egli acquista la forza d'un vero bisogno; allora egli soffoca ogni altro sentimento e ci abbassa al grado degli animali, i quali in nulla più si distinguono dall' uomo morale fuorché in questa cieca ed assoluta dipendenza da un istinto dominatore. L' esperienza dimostra che gli uomini dotati delle più felici disposizioni, di talenti distinti ed anche di virtù stimabili, s'abbrutiscono del tutto, se troppo imprudentemente all'impeto delle loro inclinazioni sensuali si abbandonano; ed altri non arrivano giammai al grado di perfezione intellettuale e morale al quale sembrano chiamati dalla sensibile superiorità de' doni che dalla natura avevano ricevuto. Osservate Antonio, pensate all'eminenza del suo genio come guerriero, come oratore, come politico, e ricordatevi la vergogna e l'infelicità del suo destino. Antonio sarebbe forse stato uguale a Cesare, certamente vincitore d' Ottavio, se meno dall'impeto del suo temperamento si fosse lasciato dominare e da' suoi gusti sensuali. Tra tutte le sensualità quelle che più istupidiscono lo spirito, sono l'ubbriachezza e la ghiottoneria. Combinando gli antecedenti riflessi colle idee esposte nel capo 1.°, non resteremo sorpresi, se, rimontando il corso de' secoli, ritroveremo l'ubbriachezza e la ghiottoneria dominanti presso tutti i popoli barbari e semi-barbari, principalmente ne' climi freddi, uniti ai sozzi e feroci vizi che le accompagnano. 1.° (Secolo XVIII) Nelle isole occidentali della Scozia si riguardava come atto di coraggio il bere finché si fosse ubbriaco. Gli abitanti occupavano 24 e talvolta 48 ore a bere. Alle porte di queste orgie si trovavano due uomini muniti di barella, i quali l'uno dopo l'altro trasportavano gli ubbriachi alle loro case. In Edimburgo (almeno sino al 1779) davasi tutti gli anni un concerto per soscrizioni nel giorno di Santa Cecilia. Le più belle dame della città vi erano con speciale biglietto invitate. Dopo il concerto i soscrittori si univano in una taverna e cenavano insieme. Collocavasi sulla tavola una cassetta la quale portava il nome d'Inferno. Si presentavano i biglietti delle dame che avevano assistito al concerto, e l'una dopo l'altra si proclamavano. I biglietti di quelle che non trovavano alcun campione pronto a bere per salvarle, venivano gettati nella cassetta; e quegli che beveva di più (purchè potesse terminare quella bravura bevendo in un solo fiato un gran bicchiere che chiamavasi S.Cecilia, e che d'ordinario rovesciava ubbriaco sul suolo il bevitore più potente) era autorizzato ad andare il giorno appresso dalla sua dama, presentarle il suo biglietto, gloriandosi d'avere avuto l'onore d'ubbriacarsi per salvarla. Ciò che é più strano si è, che quand'anco ella non avesse avuto relazione alcuna con lui, egli era sempre ben accolto, gentilmente ringraziato, ed invitato a rinnovare le sue visite a suo piacere. Ho conosciuto delle dame, dice Odier che racconta il fatto, in onor delle quali uno di questi bravi avea bevuto 17 in 18 bottiglie di punch (giacché non il vino, ma il punch serviva a questo stravizzo), e le quali altamente se ne gloriavano. Le Grand d'Aussy che scriveva verso la metà del secolo XVIII, ricordando l'antico costume vigente in Francia di costringere i commensali a bere, e le leggi che lo condannarono, aggiunge: « II tempo non ha potuto guarirci di questa riprensibile » stravaganza. La si trova tuttora in molte » parti del regno ed in più d'una classe. Fu anche » un tempo in cui, quando taluno assisteva ad un » pranzo di bevitori, e ricusava di bere come essi, » il costume voleva che gli si tagliasse il cappuccio » a segno d'insulto». Anche dopo la metà del suddetto secolo i Francesi cantavano a mensa una canzone, ciascun ritornello della quale in ciascuna strofa, citando Ipocrate, dichiarava

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Prima di Franklin, aveva detto monsignor della Casa: » Bisogna che tu ti avvezzi ad usare » le parole gentili e modeste, e dolci sì, che » niuno amaro sapore abbiano; e innanzi dirai: Io » non seppi dire, che Voi non m'intendete, e pensiamo » un poco se così è come noi diciamo; piuttosto » che dire: Voi errate, o E' non è vero, » o Voi non lo sapete; perciocché cortesie e amabile » usanza è lo scolpare altrui, eziandio in quello » che tu intendi d'incolparlo ; anzi si dee far comune » l'errore proprio dell'amico, e prenderne » prima una parte per sè, e poi biasimarlo e riprenderlo. » Noi errammo la via; e Noi non ci ricordammo » ieri di così fare; come che lo smemorato » sia pur colui solo e non tu: e quello che Restagnone » disse ai suoi compagni non istette bene: » Voi, se le vostre parole non mentono; perché » non si deve recare in dubbio la fede altrui: anzi » se alcuno ti promise alcuna cosa , e non te la » attende, non istà bene che tu dica: Voi mi mancaste » della vostra fede; salvo se tu non fossi costretto » da alcuna necessità, per salvezza del tuo » onore, a così dire: ma se egli ti avrà ingannato, » dirai: Voi non vi ricordaste di così fare: » se egli non se ne ricordò, dirai piuttosto: Voi » non poteste; o non vi ritornò a mente, che Voi » dimenticaste, o voi non vi curaste d'attenermi » la promessa: perciocché queste si fatte parole hanno » alcuna puntura e alcun veneno di doglianza » e di villania; sicché coloro che costumano di spesse » volte dire cotali motti , sono riputati persone » aspre e ruvide; e così è fuggito il loro consorzio » come si fugge di rimescolarsi tra pruni e tra triboli». » Poiché gli scopi della conversazione sono d'istruirsi » o d'istruire gli altri, di piacere o di persuadere, » è cosa desiderabile che gli uomini intelligenti » e ben intenzionati non diminuiscano il potere » che hanno d'essere utili, affettando d'esprimersi » in modo positivo e presuntuoso che non lascia » di spiacere a quelli che ascoltano, e non è » proprio che ad eccitare delle opposizioni e prevenire » gli effetti pei quali fu concesso all'uomo il » dono della favella. » Se volete istruire, ricordatevi che un tono affermativo » e dogmatico, proponendo la vostra proposizione, » é sempre causa per cui si cerca di contraddirvi, » e per cui non siete ascoltato con attenzione. » Da un altro lato se, desiderando d'essere » istruito e di profittare delle cognizioni degli altri, » voi vi esprimete come persona fortemente ostinata » nel suo modo di pensare, gli uomini modesti e » sensibili che non amano la disputa vi lasceranno » tranquillamente in possesso de' vostri errori. Seguendo » un metodo orgoglioso, rare volte potete sperare » di piacere ai vostri uditori, di conciliarvi la » loro benevolenza, e di convincer quelli cui voi eravate » vago di far aggredire i vostri pensieri . L'abate Polignac sapeva presentare le sue idee con aria sì modesta e gentile, che il pontefice Alessandro VIII gli diceva: Voi sembrate sempre essere del mio parere, ma alla fine de' conti è sempre, il vostro che prevale. Luigi XIV, dopo d'avere ascoltato il suddetto abate sulla negoziazione intrapresa a Roma per le celebri proposizioni del Clero Gallicano, disse: Mi sono intrattenuto con un uomo, e giovine uomo, il quale mi ha sempre contraddetto, e mi è sempre piaciuto. La ragione non ha giammai maggiore impero che quando ella si presenta non come una legge che si deve eseguire, ma come un'opinione che può meritare d'essere esaminata; perciò ne'crocchi di Filadelfia pagavasi un'ammenda tutte le volte che facevasi uso d'un'espressione decisiva e dogmatica. Gli uomini più intrepidi nella loro certezza erano obbligati d'impiegare le formole del dubbio e prendere nel loro linguaggio l'abitudine della modestia; la quale quand'anche s'arrestasse alle sole parole, avrebbe già il vantaggio di non offendere l'Altrui amor proprio; ma che, per l'influenza delle parole sulle idee, dee finalmente estendersi sulle stesse opinioni. Le persone gentili, sapendo che l'altrui vanità soffre allorché si vede convinta, sogliono terminare la contesa con una lepidezza affine di mostrare che non furono irritate dall'opposizione, che non vollero offendere il loro antagonista, che non si vantano della vittoria.

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