Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184478
Giuseppe Bortone 13 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Talora, la signorilità si porta con sé dalla nascita; beninteso che, per « nascita », non si vuol già significare la dose maggiore o minore di nobiltà, o un titolo che rimonti, piú o meno, alle Crociate: come ci possono esser titolati che agiscano poco correttamente, cosí ci possono esser persone di umili origini che abbiano un ammirabile grado di signorilità. Certo che la buona educazione è frutto di lavoro lungo e difficile: comincia da quando si muovono i primi passi incerti e dura tutta la vita; né è mai perfetta, perché, se si vivesse di piú, si avrebbe sempre da imparare. Senza dubbio, quando comincia la formazione di se stessi, dell'uomo sociale, si sente il fastidio del passaggio dalla naturalezza alla convenzione, dalla spontaneità all'artifizio ; ma poi, a mano a mano, quella che può sembrare ipocrisia penetra cosí addentro alle nostre abitudini da diventare spontaneità. Senza dire che anche le convenzioni, quando vengano applicate con intelligenza e con misura, servono a rendere piú tollerabile questa esistenza da serraglio che è, anche nel secolo ventesimo, la nostra ». Le forme poi non hanno valore per se stesse, ma in quanto sono la espressione genuina di convinzioni e di sentimenti. Né la buona educazione è merce di esportazione: il vero signore non si regola, fra sé o da solo o in casa, in un modo e, in presenza d'altri, in modo differente. Egli è signore dovunque e sempre; e il primo giudizio - e quello che piú teme e a cui maggiormente tiene - è il proprio. Un grande uomo di Stato, inglese, richiesto di una definizione del vero gentleman, rispose: «È colui il quale, pur quand'è in casa propria, e solo, si serve delle pinzette per prendere le zolline di zucchero ». C'è, dunque, l'apparenza, la contraffazione, l'ostentazione, l'esibizionismo della signorilità, e c'è la signorilità autentica, quella che ha come caratteristiche sue speciali la sincerità, la dignità, la naturalezza. La « vera » buona educazione suppone sempre una convinzione, un sentimento. Diversamente, è istrionismo, o, peggio, una specie di truffa sociale. Ricordo che, quando ero in un certo ufficio, avevo un superiore immediato borioso e truculento. Costui entrava sempre senza bussare né chiedere permesso. Un giorno - cosa strabiliante! - picchiò discretamente all'uscio e, con voce melliflua, chiese di entrare. Pare incredibile: lo aveva fatto, perché accompagnava nel mio ufficio il Ministro! Non stimavo troppo quel mio superiore; ma, da quel giorno, mi parve addirittura spregevole. Perciò, punto assoluto di partenza è la sincerità. Proposito del vero gentiluomo è sforzarsi ogni giorno, ogni ora, di migliorare se stesso; far l'abito costante della cortesia, e tale che, come una rivestitura di cristallo, riveli la serietà del pensiero e la finezza dei sentimenti. La Regina Madre d'Inghilterra, Maria, apprese dalla istitutrice delle due nipotine che la primogenita, Elisabetta, quella che sarà forse, un giorno, regina, le aveva risposto vivacemente: « So bene ciò che debbo fare; ricordatevi che sono una principessa ». La nonna chiamò a sé la nipotina e le disse: « Senza dubbio, voi siete una principessa; ma bisogna insegnarvi a diventare una signora! ».

Le signore portano i guanti, e non li tolgono, nelle visite di prammatica ; non li tolgono, se li portano, a passeggio, né in chiesa: nelle visite normali, e sempre che li abbiano, possono toglierli dopo un poco ; debbono, se viene offerto qualcosa. E i gioielli? Altro argomento che riguarda noi uomini soltanto indirettamente; ossia per quel piccolo fastidio che ci viene, ogni tanto dal ricevere i conti del gioielliere. Perché noi altri uomini ci contentiamo del minimo: d'un bel paio di bottoni ai polsini; di una sottile catena d'oro sul panciotto chiaro ; eccezionalmente, di uno spillino, con perla o brillante, sulla cravatta lunga; di un solo anello, che sia prezioso per il valore o che sia di squisita fattura. Di pessimo gusto quelle catenine ai polsi, con amuleti e ciondoletti d'ogni sorta, che vennero di moda súbito dopo l'altra guerra. L'orologio al polso, per quanto comodo, non si porta quando s'indossa la marsina, né quando si balla. E non è bello vederlo adoperato dalle signore. Se esse hanno, ahimé, un ufficio, pazienza; ma le altre, specialmente le piú giovani, che bisogno hanno di seguire, minuto per minuto, la fuga del tempo, come gli uomini d'affari? E se non son piú giovani, intendono forse, col guardare spesso l'orologio, arrestare l'attimo fuggente? Relativamente alle signore, è bene tengano presente che non è elegante ornarsi come alcuni simulacri di Sante taumaturgiche. Pochi gioielli, ma eccellenti! E l'eccellenza dipende sí dal valore oggettivo e reale, ma dipende, sopra tutto, dalla finezza e dalla rarità. Una ricca collana di antica ambra rossa val bene un grosso brillante, che si può vedere in tutte le vetrine e che tutti possono, press'a poco, valutare! I gioielli non si portano in viaggio ; con la massima sobrietà, a passeggio ; essi sono un simpatico complemento, quasi la rifinitura, delle grandi toelette. Di giorno, stanno meglio le perle e le pietre preziose di colore: di sera, meglio le pietre chiare. I colori subiscono il capriccio della moda; ma, a mio giudizio, nessuno sostituisce degnamente la magnifica tinta calda del rubino. Una signora che voglia veramente esser tale non usa gioielli falsi: se ne creano tanti oggi che si può quasi dire esser questo uno dei segni del tempo; salvo che anche il gioiello falso non abbia, come ho detto, una sua particolare nota di rarità e di finezza.

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Non si pretende che tutti abbiano, come l'imperatrice Giuseppina, cinquecento camicie e che se la cambino tre volte al giorno...; ma come si può concepire una persona che trascuri le leggi della pulizia? Questa è, in un certo senso, istinto - e ce ne dànno l'esempio molti animali - ed è, d'altra parte, figlia dell'abitudine: in ogni caso, a nessuno dovrebbe esser lecito di venire a contatto con gli altri uomini, trascurandola nella sua persona; onde giustamente si disse che la pulizia è la tessera di persona civile. Però, anche una legge specifica sulla pulizia personale rimarrebbe senza effetti fino a quando ciascuno non fosse convinto che egli ha dei doveri verso la propria salute e verso quella degli altri; fino a quando non fossero persuasi tutti che la pulizia è una cosa eccellente per se medesima, ancor piú che per la migliore o peggiore impressione che si può produrre su coloro che si avvicinano. Ed essa non si riferisce soltanto al fisico - corpo e vestiario - ma è anche una dote squisitamente spirituale; perché rappresenta il senso del decoro, della dignità, del rispetto, oltre che per gli altri, per se stessi. Si osservò giustamente, che il grado di civiltà dei popoli - e, di conseguenza, dei singoli - si può misurare dalla quantità d'acqua e di sapone che consumano. L'una e l'altro, quando ci sia il senso della pulizia, non possono mancare a chicchessia: « Sono povero, diceva Renzo, ma abituato alla pulizia »; e ammiriamo piú volentieri e piú cordialmente una povertà pulita che una dubbia eleganza. In Toscana, abbiamo un eccellente qualificativo per le person pulite: « giovevole ». Se le persone non amanti della pulizia pensassero che, dalla poca pulizia, possono derivare molte malattie e la morte; se pensassero almeno che le altre provano per loro quel senso di disgusto che esse provano per quelle che vedono sudice; se pensassero anche che, per un improvviso malore o per un incidente qualsiasi, potranno rimanere seminude sulla strada o essere svestite in un ospedale, probabilmente avrebbero maggior simpatia per l'acqua, per il sapone e per il bucato...

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Cureranno che non si vada a tavola piú tardi dell'ora fissata; che ci sia abbondanza di tutto; sí che i commensali possano servirsi senza preoccupazioni; nel distribuire i posti, tenuto conto delle precedenze, faranno in modo che sieno avvicendati uomini e signore, e che capitino accanto persone che abbiano tra loro simpatia: ciò gioverà anche a tener animata la conversazione ; non vengono a discussione fra loro, né rimproverano i figliuoli; non fanno atti d'impazienza con i domestici; non decantano i loro vini o altre cose di famiglia, né celebrano i pregi della loro cucina; non fanno capire che il pranzo è costato fatica o spesa; non si adombrano per qualche piccola disgrazia che lasci lí per lí tracce sulla biancheria ; anzi, la signora interviene prontamente a rassicurare il maldestro; non insistono con i commensali perché si mangi o si beva di piú; tanto meno ricorrendo a quel volgare mezzuccio: « Ho capito: non piace! »; mangiano in modo da non essere i primi o gli ultimi a finire. Salvo che non sieno a regime speciale, debbono almeno assaggiar tutto. Per tutti i commensali. La sedia né troppo lontana, né troppo vicina alla tavola; i gomiti stretti ai fianchi, il busto eretto; nessun dondolio sulla sedia; non si allungano le gambe sotto la tavola; né si puntano i gomiti sopra; non si fissa il tovagliolo nel colletto o fra i bottoni del panciotto; non si spiega completamente, e si tiene sulle ginocchia; non si puliscono col tovagliolo piatti e bicchieri, né si esaminano i bicchieri contro luce; non si divorano con gli occhi le portate a mano a mano che vengono dalla cucina; non si scelgono i pezzi migliori, servendosi, né si osserva il modo di servirsi degli altri; non si fanno complimenti, né si rifiuta di servirsi per primi, quando la padrona di casa ha cosí disposto; non bisogna distrarci, o distrarre, mentre ci serviamo; né si attaccano discorsi con chi serve a tavola; non si trascurano i vicini, specialmente se signore, ma li si serve con garbo e premura; non si mangia troppo in fretta o troppo lentamente; non va la bocca verso la posata, ma la posata verso la bocca; non si riempie il proprio piatto per poi lasciarlo a mezzo; non si soffia sui cibi per farli raffreddare; non si versa il vino nella minestra, né si fanno altre mescolanze poco usate; non si solleva la scodella per portar via il poco rimasto sul fondo; chi voglia farlo deve sollevarla dalla parte che gli è piú vicina verso il centro della tavola; non si apre la bocca masticando, né si parla a bocca piena; non si fa rumore con i denti masticando ; non si fanno i bocconi troppo grossi ; non si tracanna il bicchiere tutto d'un fiato e fino in fondo ; né si beve mentre si ha il boccone in bocca; o senza essersi prima pulito la bocca; che va anche ripulita subito dopo aver bevuto; non si mette il ghiaccio nei bicchieri; né si tengono questi a lungo fra le mani, perché il vino rosso sviluppi il suo aroma; non si taglia il pane col coltello, ma si spezza con le mani ; né si porta alla bocca tutto il pezzo di pane; né si toglie la mollica, e tanto meno la si plasma con le dita; non s'introduce la propria posata nel piatto di portata; non si taglia prima in pezzi tutta la carne o l'altro che s'ha davanti; non si intinge il pane nel sugo o nella salsa rimasti nel piatto; non si riprendono a spolpare le ossa già lasciate ; non si sposta verso destra o verso sinistra il piatto vuoto; non si raccatta una posata caduta e tanto meno la si rimette sulla tavola; non si taglia il pesce col coltello, salvo che non si tratti di pesce affumicato o marinato ; se c'è la spatola, tanto meglio ; diversamente, s'adopera la forchetta e un pezzetto di pane; non si tiene sulle ginocchia, ma sulla tavola, la sinistra, quando è inoperosa; in nessun caso si porta il coltello alla bocca; non si fanno commenti su cose che non piacciano o che non si possano mangiare; non si attira l'attenzione su qualche cosa di estraneo che si possa trovare nei cibi; non si usano gli stecchini che nei casi indispensabili: è sconveniente gingillarsi con lo stecchino o, peggio, alzarsi da tavola con lo stecchino in bocca; non si porgono i patti al servitore; non si parla d'affari o di cose tristi; né si fanno discorsi lunghi con commensali che sieno all'altro capo della tavola; non si fanno tragedie di parole per piccole disgrazie; non si adoperano per il naso fazzoletti poco puliti; né si caccia la testa sotto la tavola o da uno dei lati per soffiarsi; né lo si fa rumorosamente; né si spiega dopo il fazzoletto ; non si starnutisce fragorosamente, o in modo da far « piovere » nei piatti dei vicini; non si tirano nòccioli, bucce o altro ; meno che mai pezzi di pane: e ciò anche nelle riunioni allegre, dove è pur consentita qualche libertà; non si ravviano i capelli col pettine o con le mani, né le signore mettono fuori il loro armamentario da toeletta; non si decantano pranzi fatti altrove; non si chiedono cose che i padroni di casa non hanno fatto mettere a tavola, adattandosi ad imitarli; non si fuma senza che i padroni di casa lo abbiano autorizzato ; in ogni caso, mai prima che si sia finito di mangiare; se si hanno sigari o sigarette di qualità migliore di quelli offerti dai padroni di casa, si evita di servirsene o di offrirli; nessuno si leva da tavola prima che lo abbia fatto la padrona di casa; non si piega il tovagliolo, ma lo si lascia con garbo alla sinistra del posto occupato; non si porta via alcun che dalla tavola, tranne la propria minuta, se c'era, o, al piú al piú, qualche fiore che si aveva davanti. La moda dei brindisi è, fortunatamente, tramontata; ma, se si dovesse farne, cercare di essere semplici e brevi, né dimenticare la padrona di casa, o qualche cara persona di famiglia assente. Non si toccano i bicchieri, ma si sollevano all'altezza del proprio viso, allungando il braccio dalla parte del festeggiato. Se il brindisi fatto da una signora, essa non invita i commensali a bere. La posata. La forchetta si tiene con la destra, quando si tratta di vivande per le quali non è necessario adoperare il coltello; quindi, per maccheroni, risotto, verdure, frittate, sformati, uova - anche sode polpette, ecc. Si tiene con la sinistra quando, con la destra, si debba adoperare il coltello per tagliare. In tal caso, si prende con la forchetta il pezzo tagliato, con la punta del coltello si adatta su per benino del contorno o della gelatina o della salsa, e si porta alla bocca in modo che le rebbie della forchetta sieno rivolte all'ingiú. Quando occorresse interrompere, forchetta e coltello si mettono nel piatto a contatto di punte non sulla tavola o sull'orlo del piatto. Quando si è finito, se la posata vien cambiata, la si lascia nel piatto parallelamente; se si deve tenerla per la portata successiva si mette sul poggiaposate con i rebbi in giú. Si lascia anche nel piatto, quando si è mangiato il pesce o delle uova; perché, in tali casi, dev'essere senz'altro cambiata. Il cucchiaio si adopera per le vivande liquide o semiliquide e per alcune specie di dolci. Si può portare alla bocca o per la punta o per il margine laterale, dalla parte piú vicina al manico. Se una distinzione si vuol fare, è piú comodo adoperarlo dalla parte della punta quando, nel liquido, c'è qualcosa di solido. In questo caso, né si introduce troppo nella bocca, né si attira il contenuto succhiandolo, né si consuma la cucchiaiata a parecchie riprese. La posata non si prende dalla parte piú bassa: la forchetta si adopera col manico nel pugno; il cucchiaio, prendendolo col pollice e coll'indice e appoggiandolo sul medio ripiegato; il coltello si adopera anch'esso col manico nel pugno. Usa anche tenere il coltello e la forchetta fra le prime due dita, come si terrebbe una penna; ma io trovo questo modo poco comodo; tanto piú che non si può far forza col coltello, né si deve allungar l'indice sul dorso della lama. Nei casi in cui si tiene la forchetta con la destra, ci si può aiutare con un pezzetto di pane nella sinistra. Il formaggio si taglia col coltello ed il pezzo si adatta su un pezzo di pane. Delle mani bisogna servirsi il meno possibile: si può adoperarle per i piccoli volatili; ma è bene non darne l'esempio; se mai, farlo con garbo. Neanche le ossa, o le lische, si prendono con le dita; ma si depongono sulla forchetta e poi sull'orlo del piatto. Per mangiare le uova dette al guscio, servite nel portaovo, se non v'è lo speciale strumentino ad anello per romperle, se ne schiaccia la punta col cucchiaino - mai col coltello - vi si mette il sale e col cucchiaino se ne porta alla bocca il contenuto. Non si solleva il guscio per ripulirlo fino in fondo. Si può accompagnare col pane, ma questo non si intinge nell'uovo. Il guscio si mette accanto al portaovo e lo si schiaccia discretamente col coltello. Il bicchiere si prende dalla parte piú bassa. Non si va incontro con esso a chi ci mesce da bere, né si alza per significare « basta ». Si sa che il bicchiere proprio o di altri non si riempie fino all'orlo. Talora, l'alzare il bicchiere è giustificato dalla preoccupazione che la goccia attaccata alla bottiglia scivoli sulla tovaglia e ne macchi il candore: cosa quest'ultima da evitarsi con cura anche se sembri che la padrona di casa non ci badi o non ci tenga. Come si deve aver cura di non versare l'olio, di non incrociare la posata... Pregiudizi senza dubbio; ma è colpa nostra se alcuni ci credono ancora? Quando è servita qualche vivanda che non si sa come si mangi, o vien dato qualche cosa che non si sa come adoperare, è prudente attendere e seguire l'esempio degli altri. Piú d'una volta si è veduto accostare alle labbra la piccola coppa dell'acqua e una fettina di limone, che vien portata su di un tovagliolino col piatto delle frutta, e che serve per lavarsi le dita: tovagliolino e coppa si mettono a sinistra. Si ricorda, a questo proposito, un episodio accaduto alla Corte di Vienna: in un pranzo offerto a una Delegazione bosniaca, quando furono portate in tavola le coppe d'argento con l'acqua tiepida e profumata, il capo della Delegazione si alzò e, dopo aver brindato, bevve il contenuto della coppa, immediatamente imitato dagli altri deputati. Fra l'imbarazzo dei commensali, Francesco Giuseppe rispose al brindisi e bevve anche lui di quell'acqua, mentre l'etichetta obbligava tutti i commensali a fare altrettanto. Le ostriche si staccano con la forchetta dal guscio e si portano con questo alla bocca. Le foglie dell'insalata non si tagliano, ma si portano alla bocca come vengono servite, salvo che, si capisce, non vengano servite intere. I carciofi si possono mangiare con le mani; però, nei pranzi eleganti, non si suol portare in tavola che la parte piú centrale e piú tenera, la quale si mangia con la forchetta. Agli asparagi, presi con la pinza speciale dal piatto comune, si taglia la parte verde e si porta alla bocca con la forchetta, se serviti come contorno: se come portata, si possono prendere dal proprio piatto con le mani. Quanto ai piselli, se si vogliono mangiare all'inglese, ossia dopo averli schiacciati, ciò va fatto col coltello contro la forchetta, non col cucchiaio o col coltello o con la forchetta contro il piatto. Per la frutta, che viene servita in ultimo, si adopera la forchetta e il coltello. È un po' di fatica quando, come spesso accade, il coltellino non è affilato. Non si sbuccia intera ma si taglia prima a quarti: mele, pere. Le pesche si sbucciano dopo averle tagliate in due. Le albicocche non si sbucciano; si bagnano soltanto nella coppa che si ha alla sinistra del proprio piatto, senza tenervele molto, perché si suppone sieno state già lavate. Né pure le prugne si sbucciano: si portano alla bocca intere quelle secche; si tagliano a fettine quelle fresche, senza portare alla bocca il nocciolo. Alle banane si incide la corteccia da cima a fondo, denudandone la polpa, che si mangia a piccoli pezzi, dopo averla tagliata con la forchetta. Ai fichi freschi, tenuti con la sinistra per il picciolo, si porta via una fettina della parte superiore, dov'era il fiore e dove si possono essere fermati gli insetti; poi, si tagliano in quattro spicchi senza separarli presso il picciolo; se ne stacca col coltello la polpa e si porta alla bocca con la forchetta. Agli aranci e ai mandarini, tenuti con la mano sinistra, non con la forchetta, si incide a spicchi la buccia; indi la si leva, se ne separano gli spicchi e si tagliano a metà per trarne i semi: non si sbucciano in tondo, né a spirale. In America, usa tagliarli in due, senza sbucciarli, nel senso orizzontale, ed estrarne con un cucchiaino la polpa e il sugo. Le ciliege si portano alla bocca una per volta - non a ciocche - prendendole dalla coppa, e se ne lascia poi cadere il nocciolo sul cucchiaino o, se questo non c'è, sulla forchettina. Meglio cosí che lasciarli cadere nella mano socchiusa. Le fragole, se sono grosse, e servite col gambo, si prendono a una a una con le mani, si passano nello zucchero, che si è avuto cura di mettere nel nostro piatto, e si portano alla bocca. Se son piccole, si mangiano col cucchiaino. Le frutta col guscio legnoso - noci, nocciole, mandorle - si schiacciano, non con i denti o con le dita, ma con lo speciale strumento, se ne cava il contenuto e si porta alla bocca con le mani. Per il popone, si libera la polpa dalla buccia e la si porta alla bocca con la forchetta, dopo averla tagliata in pezzi con l'aiuto del coltello. L'uva si porta alla bocca chicco per chicco, e, per chi non usa ingoiarli, si fanno ricadere nel cucchiaino vinaccioli e buccia, e si depongono all'angolo del piatto. Il gelato si prende con la spatola dal piatto comune, badando a non farlo scivolare, e si mangia con lo speciale cucchiaino piatto, accompagnandolo, se ci sono, con i biscotti. Il caffè è servito a tavola nei pranzi di famiglia; in sala, nei pranzi eleganti: io trovo preferibile servirlo sempre in sala, sia per «occupare» quel po' di tempo che rimane ancora, sia per dar modo di sparecchiare. Se è servito nella stanza da pranzo, la padrona di casa mesce nelle tazze, portate in giro dal cameriere; se, in sala, è servito in giro dalla padrona di casa, aiutata da qualche figliola o amica; i liquori son serviti dal padrone di casa. Quando si va in sala per il caffè, si attende a fumare qui. Il segnale di ritorno in sala è dato dalla padrona di casa, la quale prende il braccio del suo cavaliere ed esce per prima: seguono gli altri, senza darsi il braccio: ultimo il padrone di casa. Quindi, tener presente che, per il ritorno in sala, si segue l'ordine contrario a quello tenuto per uscirne. Quanto tempo si rimane in una casa dove si è stati invitati? Normalmente non piú di un'ora; ma è prudente e delicato regolarsi secondo il numero delle persone, il tono della conversazione, l'età e le abitudini dei padroni di casa. Usava fare la cosí detta « visita di digestione », fra gli otto e i quindici giorni. A me pare una bella usanza, che meriti d'esser conservata. Per gli uomini, è sufficiente che portino la loro carta di visita. Quando si tratti, invece che di un pranzo piuttosto elegante, di una colazione e, in genere, di un pasto alla buona, è preferibile adoperare la biancheria a grossi quadri in colore. Ora se ne produce della eccellente, per qualità e per disegni: a me piace molto, perché dà un senso di letizia, sopra tutto se anche i boccali e i piatti sono a tinte vivaci. Fuori d'Italia - in Francia specialmente usano anche dei graziosi tovagliolini di velina e dei mensali di carta, che si rinnovano, si capisce, volta per volta, e che son da preferirsi senz'altro alla tela cerata, che ricorda l'osteria. Quest'apparecchiatura, molto sbrigativa e comoda, è usata largamente in campagna - dove non si può andare tanto per il sottile, né si può pretendere troppo - e per le cene fredde, al ritorno dal teatro e dal ballo. In queste, ciascuno dei commensali si serve da sé, e il piatto si cambia soltanto per il dolce. Conchiudendo, dirò che ora non usano piú, come un tempo, le interminabili sfilate di portate: si preferisce la qualità alla quantità, la finezza all'abbondanza. Perciò: che non manchi mai, possibilmente, una tazza di brodo ristretto: si profitti della grande risorsa offerta dagli antipasti e dai tramezzi, tornati trionfalmente, e giustamente, in onore; tanto piú che, per questi, si può anche non lavorare in cucina, trovandosi preparato in scatole tutto quel che si può desiderare; sempre graditi la galantina con la gelatina, i soffiati, gli sformati, i volanti ripieni, i pasticci di carne, gli arrosti di cacciagione, le trote, le varie ed eccellenti qualità di formaggi, la macedonia frutta... piú o meno di queste deliziose cosine, a seconda della stagione, dell'ora, della circostanza; almeno due qualità di vino speciale; e poi, un profumato caffè bollente; e una sigaretta squisita... e sempre, da cima a fondo, la piú gustosa delle vivande - una gioviale cordialità: - di grazia, che si potrebbe offrire e desiderare di piú e di meglio? E si tenga, infine, presente che la prova migliore della buona educazione non sta nell'offrire un pranzo, abbondante e succulento quanto si voglia, ma nel mescolarsi sapientemente con gli altri. La cortesia, ripeto, nel suo vero senso, riguarda appunto quelle regole che, nel gioco della vita, rendono piú facile e piú semplice l'accomunarsi con i propri simili.

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Dato che il far visite rappresenta un aspetto mondano della vita, va da sé che non vi sono strettamente obbligate le signore che abbiano qualche impiego o esercitino qualche professione, e le madri di famiglia che abbiano una prole numerosa senza altrettanto numeroso personale di servizio. Se la persona cui si va a far visita, pur essendo in casa, fa dire d'esser fuori, passar su alla cosa, ma non tornare che in seguito a insistenti inviti. Quando si va in visita, non si gira qua e là ispezionando quel che c'è nel salotto, né si guardano carte scritte che possano eventualmente trovarsi su un tavolo, né si esamina se c'è polvere sui mobili, e né pur si chiede alla padrona di casa di soddisfare la propria curiosità circa questo o quell'oggetto, salvo che non si sappia, o si capisca, che ciò le fa piacere. Quali le ore piú indicate per le visite? Esse variano da caso a caso, da famiglia a famiglia, da popolo a popolo. In Italia, non usa far visite nelle ore antimeridiane; meno che mai nelle prime. Come regola generale, le visite che possono rientrare fra quelle cosí dette mondane si fanno nei giorni e nelle ore che già si conoscono per indicazioni ricevute: per le altre, lasciarsi guidare da un grande senso di delicatezza verso le persone che s'intende visitare. In ogni caso, evitare le visite, anche necessarie, nelle ore che precedono immediatamente quelle dei pasti. Se si hanno bambini, o la felicità della signora è rappresentata da un cagnolino, bisogna lasciarli a casa. Se si avesse la malaugurata idea di trascinarseli dietro, complimenti a parole non mancherebbero, ma ci sarebbe anche una vera fioritura di tacite ansie, e, forse, di cordiali imprecazioni. E si capisce: tutto quel ninnolame, tutti quei tappeti sono stati messi lí per suscitare l'ammirazione, e magari l'invidia della visitatrice, non per sollecitare la curiosità pericolosa del suo bimbo o qualche volgare bisogno del suo canino. Del resto, le signore ci pensano da sé a non portarsi dietro i bimbi; non foss'altro per evitare il pericolo di essere da loro smentite circa qualche affermazione. È bene, invece, che, ogni tanto, conduca seco la signorina; sia perché essa s'impratichisca degli usi di società, sia perché possa esser presentata, facilitando cosí quel - chi sa? - « fatale » incontro che dovrà condurla all'altare. Le signore lasciano in anticamera l'ombrello da acqua, l'impermeabile, le soprascarpe; portano in sala la pelliccia e la borsetta: gli uomini depongono il cappello, il soprabito, l'ombrello, il bastone. Anche i pacchetti si lasciano. Gli uomini non entrano in sala con le mani inguantate: tengono i guanti in mano, se hanno preferito non lasciarli in anticamera, o se, per distrazione, entrano con le mani inguantate, debbono liberarsene appena seduti. Un inchino, entrando, e si va direttamente a salutare la signora di casa; poi, se c'è, il padrone di casa; indi, si salutano a mano a mano i presenti, senza distinzione di sesso o di età, mentre la signora di casa procede alle eventuali presentazioni. La propria consorte si saluta per ultima, ma prima degli uomini, e senza troppe effusioni. La signora stessa può alzarsi e correre incontro a un'amica: per ricevere gli omaggi di un visitatore, rimane seduta, come, del resto, tutte le signore, quando son salutate da un uomo; salvo che questo non sia tale, per l'età, o per altro, che meriti un particolarissimo riguardo. Ogni volta che entri un nuovo visitatore, gli uomini debbono alzarsi. Se, nella sala, ci sono poltrone e sedie, gli uomini e, in genere, i piú giovani lasciano i posti piú comodi alle signore e alle persone piú anziane. La propria sedia non si offre; salvo che non sia per lasciar ad altri il posto occupato piú vicino alla padrona di casa. Tanto questa, poi, quanto le sue amiche, se son persone di gusto, non si « addobberanno » come per una esposizione o, addirittura, per una gara. Molte signore - e potrei dire la maggior parte! - invitano, o vanno a far visita, esclusivamente per far pompa del recente acquisto: il che determina, quasi sempre, invidie, gelosie e una corsa pazza alle spese, specialmente per alcune che, mancando di buon gusto e del senso della misura, par che vogliano portare in giro la cassaforte di un avo - o di un suocero! - che ebbe, negli affari, piú buon senso che non abbiano ora loro nell'addobbarsi. Tutte, in altri termini, dovrebbero badare a che non fosse troppo forte, e quasi stridente, la linea di separazione; le differenze di fortuna non si debbono far sentire, nelle manifestazioni esteriori, a tal punto da privare le piú modeste del gusto di uscire e di mescolarsi alle riunioni indispensabili alla vita di società. Se la signora offre qualche cosa, una signorina presente può aiutarla a porgere in giro il vassoio o a mescere. Non si porge con la sinistra, salvo che si abbia la destra impegnata per mescere o per altro. Servirsi con discrezione, senza guardarsi intorno, quasi per contare i presenti o per vedere se altri ci osserva; né cacciarsi in tasca o nella borsetta dei contentini per il bimbo lasciato a casa imbronciato. Ma usa « offrire » ancora? In alcune famiglie, si; in altre no. Certo non è bello interrompere d'un tratto una lunga consuetudine; tanto piú che lo sgranocchiare e il bere qualcosa in compagnia giova a rendere piú sorridenti i visi, piú animata la conversazione e, forse, meno maldicenti le lingue. Usava, e usa ancora, offrire il tè. È una bevanda poco adatta al nostro clima e... al nostro palato. Si cominciò ad offrirlo per snobismo; si continua, forse, perché costa poco; certamente, perché si crede un indice di signorilità e di distinzione manipolare questa beva da esotica. Tant'è che anche le donne di servizio - quando la signora è assente - l'offrono alle loro amiche, talora addirittura vestite col meglio della signora medesima e scimmiottandola nella voce e nei gesti! Esprimerò qui il mio vivo rammarico per la poca diffusione in Italia di tante «preziose » nozioni di erboristeria: ci sono innumerevoli e comunissime erbe aromatiche con cui si posson fare delle squisite e salutarissime tisane: basta mettersene al corrente, e vincere la difficoltà della scelta. Meglio ancora: c'è, forse, qualche nostra regione la quale non abbia un suo tipo particolare di vino liquoroso? Ce n'è per tutti i gusti, dalle malvasie ai moscati, dall'ambra al rubino, dai vini santi ai vini... indiavolati: tutta una serie interminabile di squisiti succhi d'uva, in cui par di vedere e sentire imprigionati fasci di raggi del nostro eterno sole. E non mi si parli, per carità, degli astemi: è gente che fa la schizzinosa soltanto di fronte ai tipi di vino ordinario, di vino comune. E mandate alla malora chi vi dice che offrire una coppa di spumante non è signorile: dove si va a cacciare la « signorilità! ». Del resto, chi teme di sembrar «volgare» se ne astenga, e si contenti, col suo calice di acqua fra le mani di star a guardare. A ogni modo checché sia, va offerto con cordialità e con una certa eleganza; e si può servire o in un'unica tavola grande o in tavolinetti separati. L'apparecchiatura richiede gusto, affinché gli ospiti rimangano con un ricordo gradito della visita. Le signore addolorate, perché avevano, come usa dire, i servizi scompagnati, possono ora allietarsi di una moda che si va diffondendo anche in Italia: quella di servire in piatti, bicchieri e tazze d'ogni forma, d'ogni colore, d'ogni capacità; e l'eleganza è in misura proporzionale della varietà; proprio come per le pellicce fatte di ritagli. Moda senza dubbio comoda e che avrà certamente fortuna, perché farà ricomparire sulle tavole recipienti riposti da decenni. Però stieno attente le signore nel fare le parti, e nel mescere; perché alcune visitatrici non si farebbero scrupolo di scendere, talvolta, al livello dei bambini e di guardare con la coda dell'occhio, invidioso, le piú fortunate di loro cui fossero toccati recipienti piú capaci. Largamente introdotto l'uso dei tovagliolini di carta: immagino ad iniziativa delle padrone di casa, le quali hanno preferito rinunziare a una nota di finezza piuttosto che vedere i loro lini striati, talora indelebilmente dal rosso delle labbra. In una prima visita, non usa offrire, anche perché le prime visite non debbono prolungarsi piú di una diecina i minuti. Se mai, vedendone l'opportunità, può offrire una sigaretta. Invece, si dà « da rinfrescarsi », come eccellentemente si dice in Toscana, anche nelle prime visite, quando queste sieno fatte in campagna. Non congedarsi subito dopo; ma né pure aspettare ad aver digerito. Non dimenticar mai che le visite piú gradite son sempre le piú brevi! Per andarsene, non si guarda l'orologio. La signora farà qualche dolce insistenza, ma non bisogna lasciarsi allettare. Né occorre attendere che sopraggiungano altre visite. Di una coppia prende l'iniziativa la signora: fra madre e figlia, la madre. Congedandosi, si saluta per prima la padrona di casa. La signora accompagnerà fino all'uscio di casa, se non ci sono altri: fino all'uscio di sala, se non è sola. Può esser sostituita in questo ufficio dalla figlia. Non accompagna un visitatore fuori della sala: lo può fare soltanto nel caso che téma non trovi la via d'uscita, o l'interruttore, per quanto, anche in questo caso, sia meglio suonare e farlo guidare dal servitore. Tanto la visitata quanto la visitatrice eviteranno di fermarsi a discorrere sull'uscio. Una padrona di casa d'animo fine eviterà abilmente che le visitatrici rimaste si abbandonino a un esercizio, non sempre benevolo, delle loro lingue nei riguardi della visitatrice che si è allontanata. Non facendolo, rischia anche di far prolungare la visita al di là della discrezione, perché qualche signora vorrà andarsene per ultima, sperando cosí di sottrarsi alla sorte comune. Senza dire di una scenetta gustosissima cui si può assistere nel caso, per es., che la visitatrice uscita rientri perché ha dimenticato un guanto: tutti le fanno festa perché ha procurato a tutti la gioia di farsi rivedere... Debbo dirlo? Assistendo a qualcuna di queste riunioni, mi sono persuaso che non sempre la logica vi domina. E mi son persuaso altresí che, molto spesso, l'amicizia fra le donne non è che una gelosia, una inimicizia larvata, che scoppiano alla prima, alla piú piccola occasione; per la qual cosa si regolano benissimo quelle signore che, a queste fiere di vanità, di pettegolezzi e di maldicenze, antepongono una salutarissima passeggiata in campagna. Probabilmente, la maggior parte delle nostre signore rinunzierebbe alle visite se, da noi, l'ora del tè fosse, come nel Giappone, un'ora di raccoglimento. «Il silenzio raccolto è interrotto soltanto dal gorgoglio dell'acqua che bolle. I Giapponesi hanno compreso la grande significazione del silenzio: sanno tutti i misteri ch'esso racchiude e rivela: sanno che nel silenzio l'uomo può scoprire aspetti insoliti della natura, e profondità insospettate della sua anima. La cerimonia del tè è basata sul silenzio e sulle sue rivelazioni improvvise: essa si svolge in una atmosfera di raccoglimento e di pace ». Vale come visita fatta il proprio biglietto ; meglio se lasciato a mano al servitore che se messo nella cassetta della corrispondenza. Da noi non usa piú, in tal caso, ripiegare la carta di visita in un angolo. Però il biglietto si può lasciare se apre la porta una persona di servizio o un bimbo: se, invece, viene alla porta una persona adulta di famiglia, è doveroso entrare. Non è necessario lasciarlo per le mancate visite amichevoli. I coniugi lasciano il biglietto intestato ad ambedue: una signora lascia il biglietto col proprio nome e il cognome del marito. Se la carta di visita si lascia a persone che sieno in albergo, vi si scrive in cima, a sinistra, il nome e il cognome del destinatario.

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Strano questo improvviso femminile furore « giochereccio »: per spiegarselo, bisognerebbe pensare che, oggi, nella maggior parte dei salotti, le donne non sappiano piú parlare di letteratura e d'arte; che temano di parlar della moda; che abbiano capito non esser troppo signorile parlar di donne di servizio; che vogliano fingere di rifuggire dal pettegolezzo; che credano, infine, una nota particolare di distinzione, una nota ultramoderna, quella di invitare le amiche al gioco. Se l'invito è per il gioco vero e proprio, sala da gioco diventa il salotto: se è, invece, un trattenimento accessorio, si prepara una saletta accanto a quella in cui si conversa o si balla. Quindi, alcuni tavolini, coperti di tappeto verde, carte nuove, gettoni, marchette, carta e matite, scatole con sigarette, fiammiferi, portacenere. Nella stanza dove si gioca non dovrebbero esservi specchi sospesi, per evitare che i giocatori possano, anche involontariamente, vedere le carte degli avversari. Sarebbe bene che fossero evitati i giochi d'interesse; per lo meno, che fossero evitati i giochi forti. La padrona di casa dovrebbe fissare un massimo. Né ella dovrebbe prendervi parte, per poter attendere alle mansioni nelle varie sale. Se si accorge che qualcuno non gioca correttamente, o se si accende una disputa fra i giocatori, prima che questa degeneri, propone che si faccia un po' di musica, o fa portare qualche rinfresco-distrazione. Chi non sa giocare non deve mettersi con chi sa; e se qualcuno vi càpita o vi vuol partecipare di proposito, i piú esperti non andranno in collera, né lo rimprovereranno per gli errori: potranno, però, smettere cortesemente di giocare, a partita finita. Il mazzo delle carte deve essere collocato da chi le fa in mezzo al tavolo, perché ciascuno dei giocatori possa scozzarle. Non si prende il mazzo di mano a chi deve farle, per scozzarle, come se si dubitasse della sua onestà. Chi fa le carte mette il mazzo davanti a chi deve tagliare; e questo mette la parte che solleva presso colui che le fa. Non si deve pregare di giocare chi non ha voglia: certamente costui o non ha denaro, o ha paura di perdere. I debiti di gioco si pagano entro le ventiquattr'ore. Nelle case private, non si gioca sulla parola. Se si prende a prestito del denaro dai padroni di casa, bisogna restituirlo non piú tardi del giorno dopo. È volgare mettersi davanti, come molti fanno, degli amuleti; come non è corretto far capire e credere che qualcuno degli spettatori porti iettatura. È bene prestabilire l'ora in cui si smetterà di giocare. Se qualcuno s'accorge che un giocatore tenta d'ingannare, arriva in fondo alla partita e smette, senza far commenti o dare chiarimenti. Il vincitore deve evitare ogni espressione o gesto che dimostri avidità di guadagno, o che possa urtare il perditore; non si rallegra troppo per un colpo ben riuscito; non conta il denaro che ha davanti; non si ritira dal tavolo subito dopo una vincita; non darà parte della vincita ai ragazzi di casa, i quali non dovrebbero assistere al gioco. Il perditore non si dimostrerà avvilito o addolorato ; non perderà mai la calma e il rispetto per gli altri; non getterà le carte o batterà il pugno sul tavolo ; non pretenderà la rivincita; non si distrarrà e costringerà a ricordare che ha perduto e deve pagare; non insisterà perché si aumenti la posta; non proporrà che sia protratta l'ora fissata per il termine del gioco. È poco simpatico il partecipare al gioco quasi di mala voglia, come se si fosse annoiati, o non si prendesse interesse alla partita, o si giocasse per condiscendenza. Le signore non permetteranno che si abbiano eccessivi riguardi per loro « come giocatrici »: se pèrdono, debbono pagare come tutti gli altri; ed è un offenderle tentare o proporre di restituir loro quel che hanno perduto. Non meno corretto e delicato dev'essere il contegno di chi assiste al gioco: quindi, non si debbono suggerir mosse; non dare giudizi su mosse sbagliate; non scommettere sull'esito della partita. In una parola, ricordare costantemente che quando si gioca, è in ballo la conferma della qualifica di gentiluomo e di signore, o... della qualifica contraria. Non ben giudicati i «giochi di beneficenza», nei quali i giocatori, prima della partita, versano una certa somma che andrà a beneficio di qualche istituzione.

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Ci auguriamo di tutto cuore che le molte iniziative per la sicurezza della strada abbiano effetti concreti, che valgano a scongiurare quel macello umano le cui statistiche, in America specialmente, fanno rabbrividire..

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, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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C'è, frattanto, da augurarsi che tutte le nostre biblioteche abbiano un catalogo per materie. Attendere i volumi chiesti senza impazienze e rispettando il turno. Avuti i libri, tenerli con cura piú che se fossero propri; se si prendono a prestito, non trattenerli piú del necessario, né alterarne in qualsiasi modo le condizioni in cui si sono ricevuti.

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E, però, obbligatorio per gl'inferiori parlando ai loro superiori diretti e a quelli, in genere, con cui abbiano relazioni di semplice conoscenza: Signor Direttore, Signor Capo, Signor Ministro; è bello metterlo davanti agli alti gradi dell'Armata: Signor Ammiraglio, Signor Generale: come davanti al titolo nobiliare, rivolgendosi a signore: Signora Contessa, Signora Marchesa o a titolati anziani: Signor Duca: si tralascia senz'altro, parlando a titolati piú o meno coetanei, specialmente in un salotto.

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Debbo confessare che ho incontrato poche persone le quali abbiano dedicato qualche cura all'educazione della voce. Questa, se è preziosa - in ogni senso! - per i cantanti, non è da trascurarsi da tutti gli altri: dalle donne specialmente. Quanti riescono poco simpatici soltanto a sentirli parlare, perché hanno o un tono aspro di voce, o un tono sgradevole, o sempre uguale, senza modulazioni, senza dolcezza. La medesima cosa, detta da uno, ci può far ridere; detta da un altro, ci può commuovere. Né è indice di accortezza trascurare un mezzo cosí cospicuo e cosí efficace, messo dalla natura a disposizione dell'uomo. Ciascuno di noi ha potuto constatare che anche le bestie dànno inflessioni diverse alla loro voce, secondo che carezzino la prole, o abbiano paura, o desiderino qualche cosa, o vogliano atterrire un avversario. Il tono sempre uguale stanca; il tono stridulo o chioccio lacera i timpani e riesce sgradito; come, d'altra parte, riesce stucchevole il tono languido e molle. In una parola, nella voce, si deve sentire, deve vibrare il sentimento che ci anima mentre si parla; sí che essa non si fermi all'orecchio, ma quasi arrivi calda e carezzevole, col sentimento che si vuol esprimere, al cuore di chi ci ascolta. Il tono della voce è il primo segno, e uno dei piú sicuri, di una reale distinzione. E se ci accorgiamo che, in esso, c'è qualcosa di difettoso, bisogna affrettarsi a correggerlo, esercitandosi, osservandosi, ascoltandosi, fino a che non si è raggiunta una perfetta corrispondenza fra i moti interiori e la rappresentazione che di essi facciamo per mezzo della voce. E bisogna anche che il tono di voce sia adattato all'ambiente, alle persone. Non si dice qualche parola, durante uno spettacolo, con lo stesso tono con cui si parla in un salotto; né ci si rivolge a persone anziane - le quali hanno, per lo piú, il timpano un po' calcificato - come a giovani; una signora non parla mai forte. Vi sono, poi, di quelli che sogliono accompagnare, e quasi colorire, ciò che dicono con i gesti: cosa che accade, sopra tutto, nel Meridionale. Non è vietato farlo; ma a condizione che sia fatto con la massima sobrietà: il gesto teatrale, o tribunizio, non è, certo, adatto a una conversazione amichevole. Si deve, invece, evitare di interrompere chi parla, specie se è una signora; di toccare i nostri interlocutori nei momenti di enfasi e quasi perché ci stieno ad ascoltar meglio; di infiorare il nostro discorso di « capisci » e di « capite », come se avessimo di fronte degli idioti; di parlare una lingua che non tutti conoscono, o il dialetto; o anche soltanto di usare parole straniere non necessarie. Meno che mai un uomo si permetterà di invitare in disparte una signora, o di parlarle all'orecchio. Pessima abitudine, non poco diffusa, è quella di avvalorare tutto ciò che si dice - e, spesso, quel che si dice non ha alcun che di straordinario o d'incredibile - con tanto di parola d'onore! o di giuro su questo e su quell'altro: è un darsi da se stessi la patente di bugiardi; perché i bugiardi soltanto, per esser creduti, sentono il bisogno di appellarsi frequentemente all'onore, che è cosa sacra, e al giuramento, che è cosa piú sacra ancora. Infine, conversando, non si deve vagare con lo sguardo di qua e di là quasi sfuggendo quello dell'interlocutore. Se si parla con parecchi, ci si rivolge un po' a tutti, con lo sguardo diritto ; tenendo presente che altro è guardare negli occhi e altro è « fissare insistentemente»; la qual ultima cosa, fra uomo e donna, è in sommo grado sconveniente. Se, dalla conversazione, si passa alla discussione, bisogna evitare il tono vivacemente polemico ; di far dell'ironia a carico dell'avversario o degli argomenti da lui addotti. In casa propria, si interviene a tempo e abilmente perché la discussione non degeneri; se in casa d'altri, guardarsi dal varcare i limiti del rispetto dovuto all'ambiente che ci ospita e alle persone con cui ci troviamo. Se è doverosa la cortesia con l'avversario anche, come si suol dire, sul terreno, deve esser tanto piú doverosa - ed è anche piú facile, mi pare! - in un campo meno pericoloso. Anche le parole possono ferire, come la spada; e, per questo appunto, prima che la foga della discussione ci faccia giungere a riuscire sgarbati, dobbiamo preferire, quando se ne vedano il bisogno o l'opportunità, una dignitosa ritirata. In una parola : Non dire se non ciò che si deve, ecco il tatto ; dirlo come si deve, ecco lo spirito; dirlo quando si deve, ecco il giudizio.

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Ma ora anche i ragazzi pare che abbiano da pensare ad altro! Delle ricorrenze alcune sono di carattere religioso - Natale, Pasqua, onomastico - altre di carattere civile - Capodanno, genetliaco, nozze d'argento e d'oro ; - quindi, si capisce che variano da popolo a popolo, da regione a regione, e quasi da famiglia a famiglia. In realtà, non si comprende perché si debbano far voti di salute, di prosperità, di bene, di gioia, soltanto in alcuni giorni dell'anno. Ma se coloro ai quali li esprimiamo son persone a noi vicine e a cui siamo legati da affetto, espressi o non espressi quei voti, son vivi e fervidi sempre; e lo sanno quelle persone proprio come lo sappiamo noi! Di modo che gli augúri servono, in fondo, a null'altro che a ricordarci a qualcuno, ovvero a far sapere a qualcuno che, in quella speciale circostanza, ci siamo particolarmente ricordati di lui. Perciò, poco male se, avendo tempo e denaro da sprecare, si continua a lanciare augúri in tutte le direzioni. Dal momento che c'è ancora la vana ipocrisia delle visite cosí dette ufficiali, possono benissimo sopravvivere anche gli augúri; tanto piú che, in fondo, essi sono pur sempre « una forza di bene » che si invia. Però, se si è liberi di farli o di non farli, si è in dovere di ringraziare almeno coloro che hanno avuto un pensiero gentile per noi. Può dispensarsene soltanto chi è troppo in alto: e chi, a costo di riuscire scortese, vuole interrompere una tradizione che non gli va a genio. È prudente non fare augúri per il genetliaco a signore e a signorine cui si sa che gli anni cominciano a pesare... Il mezzo piú sbrigativo è, oggi, la cartolina illustrata, ma è un mezzo che suppone familiarità; meglio è adoperare, come ho detto, la carta di visita, con una concisa espressione cordialmente amichevole o devota, secondo la persona cui si scrive e la natura della relazione con lei.

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Darli a tanta povera gente che non sa di che coprirsi; o, se le condizioni economiche non lo permettono, rivenderli; o, meglio ancora, modificarli e adattarli, sí che, inservibili per la vita sociale, abbiano una nota di eleganza per la vita intima della casa. In altre parole, l'eleganza - come la bontà, la gentilezza, la condiscendenza - non deve essere soltanto « merce d'esportazione », ma anche, e specialmente, deve essere una nota di cui si faccia pompa in casa, nella famiglia. Dopo tutto, la « felicità del focolare » è costituita da tante piccole tenui sfumature, e non ne sarebbe certo un valido coefficiente la «sciatteria » di colei che, come ho accennato, non senza ragione, né in un senso soltanto, è detta « la regina della casa ». Una particolare delicatezza deve mettere nelle relazioni con i parenti di lui: la maggior parte delle mogli suole abilmente scasare questi, per sostituirli con i propri. Non è ben fatto; senza dire che ciò suscita malcontento nel marito, pur se, per quieto vivere, celato, e suscita rancori nella parentela. Riguardi particolarissimi per la suocera, per questa povera creatura che, dopo aver custodito gelosamente un figlio, per anni ed anni, come un tesoro prezioso, se lo vede portar via da una che, di fronte al suo geloso cuore materno, è la «prima venuta ». Bisogna comprenderla e compatirla; inducendola, col proprio squisito saper fare, nella convinzione che non soltanto la « sopraggiunta » non ha invaso il posto della madre nel cuore del figlio, ma che la madre, d'ora in poi, invece di un figlio, ne avrà due. E se le tocca vivere con lei, sia remissiva, con un sensino di comprensione e di compatimento per qualche attaccamento a cose e ad usanze oltrepassate: la dolcezza e la tenerezza vinceranno la gelosia materna; e, senza mettere il figlio nella dolorosa alternativa di scegliere fra la madre e la moglie, le faranno ottenere molto piú che l'alterigia e il dispetto. Ma il cómpito nel quale deve far di tutto per non venir meno alle speranze che la famiglia, la patria, la società hanno riposte in lei è l'educazione dei figli. Poiché, in questa, essa, per quanto non sembri, ha una parte prevalente, è necessario si adoperi in ogni modo per evitare falsi indirizzi; perché l'educazione sia completa e sana, guardando al loro avvenire piú che al loro presente; ricordando che, in loro, ogni soddisfazione, ogni vittoria nella vita sarà associata al ricordo della educazione materna. Per questo appunto, non le si raccomanda mai abbastanza di essere, sí, affettuosa, ma di saper anche esser ferma; di non intervenire inopportunamente, ossia, di non render vana la parte severa, e talora inesorabile, che spetta particolarmente all'uomo nella formazione del carattere. Giacché, purtroppo, vi sono delle madri le quali, mentre sono appena condiscendenti col marito, agiscono con i figli come se fossero le loro donne di servizio, facendosi in quattro per risparmiar loro il piú piccolo fastidio. Meno male quando son piccini; ma è grave - e deplorevole - che, anche quando hanno venti anni, vadano a cercar per loro il fazzolettino, e lo sistemino nel taschino della giacca, e mettano i bottoni ai polsini, e facciano il nodo alla cravatta; o, peggio ancora, accomodino la piega di qua, il ricciolino di là, uno spillo a destra, un fiochettino a sinistra..., quando, addirittura, non aiutino a lavarsi collo ed orecchi, a sistemarsi le unghie, a farsi la scriminatura e finanche, a incipriarsi e a truccarsi. Dovrebbero comprendere queste madri che non cosí si formano i figli per la vita, e che, se vogliono risparmiare delusioni ai figli e rimorsi a se stesse, debbono sforzarsi di comprimere ogni eccesso nei loro slanci di tenerezza e di abnegazione. Infine, porti nella vita domestica intelligenza quanto basta: ma molta delicatezza e moltissimo cuore; ricordando che l'esperienza dei secoli ha dimostrato che la sicurezza, la tranquillità, la pace delle famiglie dipendono molto piú dalla moglie che dal marito. Tutto questo costituisce la « signorilità femminile » nella casa: signorilità, aggiungo, che non viene sminuita dal frequentare la cucina - segreto prezioso per le donne!; - e, quando si è signore in casa, lo si è da per tutto!

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Passa l'amore. Novelle

241371
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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- Può darsi; ma può anche darsi che li abbiano comprati. Hanno danari più di me e di te. Ti piacciono? - Sono troppo belli per una contadina come me. - Proviamoli.... Ti staranno bene.... Lasciami fare. - Quando sarò lavata e pettinata.... Don Pietro, con le mani che gli tremavano, le aveva già tolto di capo il fazzoletto, e preso e aperto uno degli orecchini tentava d'introdurre il gambo nel forellino del lobo dell'orecchio che egli teneva fermo delicatamente con due dita. La crescente commozione prodòttagli a ogni lieve movimento della Trisuzza dall'involontario contatto con la calda e fine pelle del collo e delle guancie di essa, gli impediva di imbroccare il forellino. La Trisuzza, paziente, sorrideva, senza nessun sospetto per quel fremere delle mani, per quel respiro accelerato che le soffiava lievi tepide ondate di fiato su la nuca, per quegli occhi luccicanti, accesi di desiderio osservati levando la testa verso don Pietro che si spazientiva di non riuscire. - voscenza permetta, - disse Trisuzza. E fece sùbito da sè, rizzando la testa, rossa in viso dalla vanità che le gonfiava il cuore per l'inatteso ricco ornamento. Il povero sant'uomo si sentì preso da vertigine alla vista di quel collo, di quelle braccia, di quel seno ansante, e chiudendo gli occhi, quasi non vedendo lui nessun altri avrebbe visto, neppure la Trisuzza, si chinò rapidamente e la baciò sotto la gola. - Zitta! come a una figlia! Come a una figlia! - balbettò. La Trisuzza aveva su le labbra un sorriso di stupore, niente più.

Pagina 69

Documenti umani

244705
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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"Io so la vostra risposta, io so la derisione di cui mi fate oggetto, per lo smarrimento in cui credete che il rimorso e l'età abbiano gettato la mia mente.... Siete voi, ciechi, stolti, miserabili, che mi fate pietà; è per voi, per riscattarvi, che io vorrei dare il poco sangue che ancora mi resta, che io vorrei salire un calvario e spirar sulla croce, se dall'alto d'una croce la mia parola fosse ascoltata. "Nessuno mi ascolta. La solitudine ed il silenzio mi circondano, il vento dell'oblìo disperde le mie parole, come il turbine del tempo disperde via l'un dopo l'altro i giorni irrevocabili...."

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245261
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Osservandolo bene gli pare che non sia ancora in eta di parlare, sebbene i suoi occhi abbiano qualche cosa di strano, fissi e coscienti; sembrano quelli di un santo o almeno di un uomo saggio. Antiche superstizioni sfiorano la mente, se non il cuore, del nostro Davide. Egli ricorda di aver letto o sentito raccontare certe leggende nelle quali si afferma che Gesù ama spesso tornare nel mondo a vagabondare sotto spoglia umana per provare il cuore degli uomini. Perchè vi sono cuori abbandonati a sè stessi come terre incolte: basta smuoverli e seminarli perchè diano frutto. Ma Davide pensa che il suo cuore è duro perchè deve essere duro: e se il bambino misterioso è Colui che tutto vede ne sa il perchè: inutile quindi fingere un turbamento che non si sente. Infine, poi, l'uomo veramente frustato dalla sventura non può più amare neppure lo stesso Dio.

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L'indomani

246112
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Mi pare che tutti gli altri abbiano a portarmi via qualcosa del mio Alberto, perchè tu sei mio, non è vero? - Oramai, se anche non volessi, è cosa fatta. - E quel signor Merelli è lui pure tutto di sua moglie? - chiese Marta insidiosamente. - Oh! capirai, non posso saperlo... - Non mi piacerebbe per marito. - Ne sono ben lieto. - È grossolano. - Un pochino. - E troppo pingue. - Converrai che di questo non ne ha colpa. Sua moglie, che te ne pare? - Una buona donna, con poco spirito se vuoi, oh! ma ha sofferto tanto. - Ti ha raccontato?... - Si, il suo primo parto... - Ah! solamente ciò? - Sicuro - fece Marta, dandosi l'importanza di una matrona iniziata a segreti misteri. Tacquero fino a casa. Sulla soglia trovarono il dottorone, impettito. Egli, che era già stato presentato a Marta, la salutò chiedendole che cosa l'era parso dei coniugi Merelli. - Ma... gentili. - E la servetta? Il dottorone lanciò questa domanda con tale malizia negli occhi, che Marta stupì. - Andiamo - fece Alberto prendendo il, dottore sotto braccio - vieni a desinare con noi. - Non posso. Ho a casa una galantina di lepre con certi tartufi che sono una meraviglia. La mia serva non ha l'abilità della Ninetta... ma per la galantina! Si baciò la punta delle dita, sempre con gli occhi birichini, e fatta una scappellata alla signora, e detto che s'era fermato apposta per augurarle il buon pranzo, se ne andò, lento lento, col corpaccione male assettato nell'abito nero, coi calzoni color lumaca troppo corti, il cappello a tuba posto in bilico sopra l'orecchio. Marta si spogliò in fretta; doveva preparare una salsa di cui ella sola conosceva la ricetta e che, nel suo ardore di neofita, giudicava più accetta ad Alberto, se fatta da lei. Comparve a tavola tutta rossa, impaziente di conoscere l'esito. Quando Alberto ebbe dichiarato che la salsa era gustosa, allora si calmò; mangiò e bevve di buonissimo umore; fece l'enumerazione dei piatti che preferiva, combinandoli con quelli preferiti da Alberto, vedendo con soddisfazione che si incontravano nel gusto. - E, dimmi - esclamò improvvisamente - che cosa intendeva il dottore con le sue allusioni alla serva dei Merelli? Alberto era l'uomo meno adatto del mondo a nascondere checchessia; rispose, un po' imbarazzato, che il dottore scherzava volentieri. - Non è ciò - interruppe Marta a cui si schiarivano le idee meravigliosamente - se non ci fosse nulla di positivo, lo scherzo non avrebbe avuto ragione d'essere. - Ebbene, disse Alberto, pensando che, in fin dei conti, la cosa non lo riguardava affatto e che Marta l'avrebbe saputa egualmente - Merelli fa all'amore colla Ninetta. - Così? - esclamò Marta sgranando gli occhi. - Come, così? - In presenza della moglie... - Ma!... - Con tanti bambini? - I bambini non c'entrano, - Ma è un orrore! - Certo non lo approvo. - Tu non avresti questo coraggio, eh? - Non mi sono mai piaciute le serve. - Ah! - tornò a fare Marta con un sospiro di sollievo, mentre l'onesto faccione dell'Appollonia le attraversava il pensiero. E dopo un po' di tempo mormorava ancora: - È un'infamia, è un'infamia. Ma perchè sei amico di quell'uomo? - Oh! bella, dovrei levargli il saluto in causa del suo gusto per le serve? È una debolezza in lui, non può correggersi. Ninetta non è la prima. - Ma sua moglie? Poverina, voglio avvertirla... - Non ci mancherebbe altro! - Almeno consigliarla a tener serve vecchie.... - Non ci stanno in quella casa, con tutti quei bambini, rifletti. - Oh! povera donna, povera donna! - Senti - continuò Alberto prendendo le mani di sua moglie per calmarla - secondo ogni probabilità, la signora Merelli non sospetta niente; e se lo sospetta, forse non ci pensa; può anche darsi che lo sospetti, che ci pensi, ma che non gliene importi un cavolo. In tal caso tocca a noi farci cattivo sangue? Marta stette zitta un momento. - È impossibile - scattò poi - che ella resti indifferente! - E perchè impossibile? - dopo dieci anni di matrimonio... - Alberto, che cosa dici? L'amore fra marito e moglie non deve essere eterno? - Cara mia, se tutte le cose che dovrebbero essere, fossero! - Tu dunque fra dieci anni non mi amerai più? E amoreggerai?... L'Appollonia tornò a passare nella mente di Marta portandovi un raggio così giulivo che, nel bel mezzo della sua indignazione, dovette sorridere; di che accorgendosi Alberto, disse: - Ma sì, farò all'amore coll'Appollonia. Ella rideva, adesso; avendo posata la fronte sulla spalla di suo marito, eccitata da un ordine nuovo di idee che le si erano parate dinanzi. - Però, senti, non capisco come una persona educata, un uomo che ha studiato, infine che non è un villano del tutto, possa perdersi con le serve. - Anche un uomo educato non trova sempre delle duchesse, mia cara Marta, e poi, se ti dico che è il suo debole! Vuoi uscire a fare due passi in giardino? - No. Ella tornava al suo argomento, appassionandovisi con una voluttà rabbiosa e crudele. - Ma non pensa alle conseguenze, al disonore della ragazza, a... - Che cosa vuoi che pensi!... Finiamola, se non ti dispiace, coi Merelli. Alberto si era levato in piedi, non dissimulando una certa seccatura, e passeggiava innanzi e indietro fermandosi ogni tanto a guardar fuori dalla finestra. Marta sentì una stretta al cuore. Non cambiò positura, non si mosse. Aveva ancora davanti il piatto sul quale stavano alla rinfusa dei picciuoli di ciliegia; li prendeva a due a due, allacciandoli insieme per vedere quale si rompeva; a conti fatti, i picciuoli rotti erano in gran maggioranza. Li riunì con cura in un monticello. - Hai detto all'Appollonia che non faccia più tanto rumore, alla mattina, co' suoi zoccoli? - Sì, gliel'ho detto. - E tu sarai così buona da cucirmi, domani, quei bottoni alla mia casacca di velluto? - Sono già cuciti. - Oh! che tesoro di donnina. Ella sperava ancora che l'avrebbe guardata in faccia; ma Alberto si fermò dietro la sedia di sua moglie, accarezzandole il collo colla punta dell'indice. - Addio, vado fuori un po'. Chinossi, baciandola sulle guancie, sonoramente. Marta rispose: addio - e si strinse nelle spalle, sembrandole che la stanza diventasse fredda.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247769
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Ha un intuito felice questo editore, come appare dai volumi editi Vuol fornire letture eleganti e di fine gusto, e vuole lettori, che abbiano l'una e l'altra qualità; lettori, che non chiedano al libro solo il modo di passare il tempo, ma di passarlo con quel godimento, che oggi chiamano spirituale, per cui non escano dalla lettura digiuni del nutrimento, che é proprio loro, l'intelligenza e il sentimento. E scritti di tal natura pochi oggi in Italia possono darne come il Fogazzaro, forse nessuno meglio di lui; ingegno, cui la natura ha dato, e non avaramente, così la potenza di dar colpo a fantasmi, come forma scienziale a concetti reconditi. La provincia di Teramo, 18 giugno 1899.

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Saper vivere. Norme di buona creanza

248846
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Così non sia di te, amico lettore, quando tu sia giunto alla fine delle mie pagine: possa tu ritrovarvi, ogni volta che tu voglia consultarlo, la parola giusta e sincera che ti guidi in una piccola difficoltà della tua vita, possa tu leggere, nelle sue righe, il motto schietto e preciso, a cui si leghi un tuo pensiero e un tuo atto: e che, almeno, il malinconico maestro di saper vivere, a cui la piccola scienza costò degli anni e delle fatiche, senta che le sue parole abbiano efficacia di bene! MATILDE SERAO

La Germania, dove la gioventù maschile è così austera e la gioventù feminile così semplice e seria, ha già provveduto a questo, fondando dei ginnasi feminili, dei licei feminili, per tutte coloro il cui spirito agitato e malcontento domanda alla scienza un pane dell'anima e del corpo, che, spesso, la scienza non può dare: e se, fra noi, troppo ci vorrebbe, troppo costerebbe, troppo sarebbe difficile, di fondare molti di questi ginnasi e di questi licei, almeno che i ginnasi maschili abbiano, fra le tante sezioni una sezione tutta feminile, quando se ne sente il bisogno: una sezione feminile in cui le studentesse siano sole, non unite a studenti, non esposti a dileggi e a tentazioni. Imparino il latino e il greco, le giovanette, se sperano che giovi alla loro felicità: ma che quando si giunga a un passo scabroso della letteratura italiana, latina, greca, siano sole col professore e non in una folla di studenti, che se la ridono, mentre esse arrossiscono!

Pagina 228

Una notte d'estate

249452
Anton Giulio Barrili 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 69

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