Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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  • Pagina 1 di 1

Giovanna la nonna del corsaro nero

204926
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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"Speriamo almeno che abbiano le scarpe pulite!" si augurò il capitano. "Farò disporre una buona guardia anche sotto la vostra finestra" disse il governatore, ritirandosi. "Buona notte, Altezza..." "Me l'avete già data non so quante volte... Comincio ad avere l'impressione che portiate jettatura!" rispose il Viceré. "È meglio che ve ne andiate.,." Il governatore si sprofondò in un umile inchino e rinculò fino alla porta dalla quale uscì richiudendola dietro di sé. Tranquillizzato dal fatto che sia la porta che la finestra erano ben guardate, il Viceré prese ad aggirarsi per la camera abbastanza soddisfatto. "Effettivamente, questa stanza fa molto meno paura dell'altra" disse allegramente. Andò verso la finestra per accertarsi che avessero collocato le sentinelle sotto di essa e si trovò faccia 11. Giovanna a faccia con Giovanna che avanzò verso di lui con la spada nuda in mano. Don Miguel allibì. "Ancora la vecchia?" esclamò con voce soffocata. "Non tanto vecchia!" sogghignò Giovanna, mentre anche Battista e Jolanda uscivano dai loro nascondigli. "Sono ancora abbastanza giovane per farvi a pezzetti, maledetto Trencabar!" "Non... non trovate che sono abbastanza piccolo per essere ancora frazionato?" balbettò il Viceré, indietreggiando. Ripensò a ciò che gli aveva detto Giovanna ed esclamò: "Trencabar, avete detto? Ma io non sono il conte di Trencabar!" "Come, non siete il conte di Trencabar? E chi diavolo siete, allora?" "Don Miguel duca di Saragozza, y Beltramar, y Sevija Sevija Olé, y Guadalupa, Grande di Spagna e Viceré delle Colonie Spagnole del Nuovo Mondo!" "Non potete essere tutta questa gente" rispose Giovanna. "Ve lo giuro!" la assicurò don Miguel, afferrando un cofanetto, aprendolo ed estraendone frettolosamente delle carte che mostrò a Giovanna. "Ecco qua... Queste sono le mie credenziali... Questo il mio anello con il sigillo... E questo è il mio ritratto ad olio insieme con Sua Maestà Cristianissima il Re di Spagna..." "Ebbene," disse Giovanna, lanciando una rapida occhiata alle carte "se siete il Viceré, tanto meglio! Vi prenderò prigioniero e chiederò che mi sia consegnato Trencabar al vostro posto..." "Se è Trencabar che volete, non occorre una operazione così complicata" le fece osservare il Viceré. E con uno scoppio di odio nella voce: "Ve lo consegnerò io stesso questo maledetto Trencabar?" "Voi mi consegnerete il governatore di Maracaibo?" domandò Giovanna. "Con il massimo piacere!" sogghignò il Viceré. "Voi non potete immaginare quanto mi sia antipatico! E poi se la merita una buona lezione dopo l'orribile notte che mi ha fatto passare!" "Se mí consegnate Trencabar, non domando altro!" disse Giovanna. "Affare fatto!" esclamò il Viceré. "È nella sua camera... Venite con me..." Si avvicinò al pannello che copriva la porta segreta e lo fece scorrere. "Meglio andarci da qui..." consigliò rivolto ai tre. "Fuori ci sono le guardie e non vorrei per nessuna cosa al mondo che vi fermassero..." Il governatore di Maracaibo si era appena messo a letto nella sua stanza, e stava per soffiare sulla candela, quando il pannello scorse nella parete e don Miguel fece il suo ingresso nella camera. Il governatore lo guardò allarmato. "Cosa succede, Altezza? Non mi verrete a raccontare che avete visto ancora la vecchia..." "Non solo l'ho vista," rispose il Viceré con aria pienamente soddisfatta "ma adesso la faccio vedere anche a voi... Eccola qua..." Si trasse da parte e Giovanna entrò avanzando verso il governatore. "Sì, conte di Trencabar, sono proprio io" disse con voce terribile."Seguitemi?" "Non vorrete assassinarmi" protestò il governatore. "Oh, no, vi farò impiccare, semplicemente..." "Un momento!" esclamò il Viceré. "Non sapevo che voleste impiccarlo, signora... Se lo avessi saputo non ve lo avrei consegnato..." "Ah, siete stato voi! Bella roba!" esclamò il governatore, disgustato. "In fondo," seguitò il Viceré "il conte di Trencabar è un gentiluomo e come tale gli spetterebbe la mannaia..." "Pure i miei nipoti erano gentiluomini eppure sono stati impiccati e i loro corpi utilizzati come semaforo..." "Bisogna anche tener conto delle esigenze del traffico, signora" disse il Viceré. "No, no, niente condanne a morte! Io, invece, proporrei un bel duello..." "E sia!" esclamò Giovanna. E rivolta al governatore: "Prendete una spada e difendetevi..." "Tanto," disse il Viceré strizzando l'occhio a Giovanna"un duello con voi equivale a una condanna a morte... Quindi per voi è lo stesso..." "Non tanto lo stesso!" ghignò il governatore di Maracaibo, riprendendosi e avvicinandosi ad una panoplia di armi. "Intendete dire che conoscete qualche colpo segreto?" domandò Giovanna. "Tanto segreto che non so nemmeno io come si usi" rispose Trencabar, tranquillamente. Quindi, ponendo la mano sull'impugnatura del pugnale che serviva da leva: "Meglio quindi usare questa..." "L'arma corta?" "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar abbassando bruscamente la leva e facendo così cadere la saracinesca di ferro fra lui e gli altri. "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar... Giovanna ruggì scagliandosi contro l'improvvisa barriera che si era frapposta fra lei e il suo nemico. "Traditore!" gridò. "Fellone! Mi ha giocato ancora una volta..." E rivolta al Viceré, a Battista e a Jolanda: "Voi aiutatemi a sollevare quest'accidente di saracinesca!" "Presto, seguitemi!" gridò il conte di Trencabar scendendo lo scalone a precipizio e rivolgendosi al capitano Squacqueras che era di guardia davanti alla porta dove l'aveva collocato poco prima il Viceré. "Giovanna la nonna del Corsaro Nero è nella mia camera!" "In questo caso" rispose il capitano "io vado nella mia!" "A che fare?" "A gettarmi un po'sul letto... Io sono come Francesco!... Dormo sempre alla vigilia di una battaglia per dar prova del mio sangue freddo..." E scappò di corsa verso il salone. "A me, soldati!" comandò il conte di Trencabar, rivolto alle guardie. Giovanna, aiutata dal maggiordomo, dal Viceré che ormai era passato completamente dalla sua parte e da Jolanda, si stava spezzando le unghie nel tentativo di sollevare la saracinesca. Ad un tratto esclamò con accento di trionfo: "Si solleva, si solleva!" La cortina di ferro, effettivamente, si stava sollevando, ma da sola, per rientrare nel soffitto. Alzandosi, però, scoprì una lunga fila di guardie schierate con gli archibugi puntati su Giovanna e i suoi. "Arrendetevi!" gridò Trencabar che stava dietro i soldati. Giovanna, che per sollevare la cortina di ferro aveva posato ín terra la spada, allargò le braccia. "Purtroppo," disse "non posso far resistenza..." "Impadronitevi di costoro, conduceteli fuori e fucilateli contro il muro di cinta" comandò Trencabar, rivolto al sergente Manuel. "Non vi sembra di esagerare?" domandò il Viceré, mentre i soldati circondavano i tre. "Bisogna dare un esempio!" rispose Trencabar. "Ve lo darò anch'io un esempio" disse freddamente Giovanna. "Vi farò vedere come sanno morire dei Ventimiglia..." E uscì dalla camera a testa alta, circondata dai soldati e seguita da Jolanda e dal maggiordomo. Il Viceré la seguì con lo sguardo, quindi scosse la testa. "Avrei preferito vedere come sa morire un Trencabar!" disse. "Andate, andate, conte, questa notte non avete fatto altro che darmi delle disillusioni!"

Pagina 157

I ragazzi della via Pal

208271
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Così passarono alcuni minuti, minuti che ai ragazzi sembrarono ore, tanto che si sentivano frasi come queste: — Che abbiano cambiato idea? — Che si siano spaventati? — Preparano qualche sorpresa! — Non verranno! Qualche minuto dopo le quattordici l'aiutante di campo caracollò lungo le posizioni dando ordine di cessare ogni schiamazzo e di mettersi tutti sull'attenti perchè il generalissimo intendeva passare l'ultima rivista alle truppe. E mentre l'aiutante di campo faceva questo annuncio ecco in fondo comparire Boka, muto, severo. Passò davanti prima all'armata di via Maria: tutto in ordine. I due battaglioni di copertura stavano irrigiditi a destra ed a sinistra della grande porta. I comandanti si fecero avanti. — Sta bene — disse Boka —. Sapete il vostro dovere? — Sappiamo. Fingere la fuga. — E poi attaccare alle spalle! — Sì, signor generale! Visitò quindi la capanna. Aperse la porta, mise la chiave nella toppa dal di fuori: provò anche se funzionava la serratura. Poi visitò le tre fortezze della fronte. Due o tre ragazzi stavano in ciascuna fortezza. Le bombe di sabbia erano pronte, in piramide. La fortezza numero tre aveva il triplo delle bombe delle altre, perchè era la fortezza principale. Tre artiglieri si misero sull'attenti quando il generalissimo comparve. Nelle fortezze 4, 5 e 6 v'erano bombe di riserva. — Queste non le toccate — disse Boka — perchè la sabbia di riserva serve per far fuoco se faccio passare qui gli artiglieri delle altre fortezze. — Sì, signor generale. Nella fortezza 5 l'agitazione era così forte che quando il generale vi giunse l'artigliere troppo zelante gli gridò in faccia: — Va al tuo posto che qui c'è da fare! Il compagno gli diede una gomitata e Boka lo redarguì: — Non riconosci il tuo generale, asino? Ed aggiunse: — Un soldato così, sarebbe meglio fucilarlo! L'artigliere si spaventò a morte perchè non pensava che era improbabile venisse fucilato davvero. Nè ci aveva pensato Boka il quale questa volta - e gli accadeva di rado - aveva detto una sciocchezza. Continuando giunse alla trincea. Dentro la fossa erano accovacciati due battaglioni; e Ghereb era tra essi, felice. Boka si mise sullo spalto della trincea. — Ragazzi... — gridò entusiasmato — da voi dipende l'esito della battaglia. Se riuscite a trattenere il nemico fino a che sia finita l'azione di via Maria, la giornata è nostra! Pensateci bene! Un urlo rispose dalla trincea... — Silenzio! — ordinò il generalissimo. E andò nel centro del campo. Ciele lo stava aspettando con la tromba in mano. — Aiutante di campo! — Comandi! — Noi dobbiamo metterci in un punto dal quale possiamo vedere tutta la battaglia. Di solito i generali seguono i combattimenti dall'alto di una collina. Noi possiamo arrampicarci in cima alla casupola. E vi si recarono. II sole brillava sulla trombetta di Ciele e questo dava un aspetto oltremodo marziale all'aiutante di campo. Gli artiglieri delle fortezze se lo indicarono l'un l'altro: — Lo vedi? Ed allora Boka cavò di tasca il binoccolo da teatro che era già stato adoperato durante l'azione dell'Orto Botanico. Se lo appese ad armacollo con una cinghia ed in questo momento non differiva dal grande Napoleone se non per qualche particolare di secondaria importanza. Egli era un comandante d'esercito: questo è certo. Ed aspettava. Per l'esattezza storica bisogna avvertire che dopo sei minuti precisi risuonò lo squillo di una trombetta dalla parte di via Pal. A questo suono i battaglioni cominciarono ad agitarsi. - Vengono! Ma non era che una trombetta estranea. Alcuni momenti dopo le due sentinelle balzarono dallo steccato e si diressero correndo verso la casupola in cima alla quale era il generalissimo. Si soffermarono, salutarono e dissero: — II nemico! — Ai vostri posti! — gridò Boka — Ora si decide il destino del nostro regno! Le due sentinelle corsero ai loro posti, uno dentro la trincea, l'altro fra le truppe di via Maria. Boka puntò il binoccolo e disse piano a Colnai: — Pronto con la tromba! Poi Boka abbassò il binoccolo; era infiammato in volto e disse con voce tremante: — Suona! E il segnale di tromba squillò. Alle porte, alle frontiere del regno, le Camicie Rosse sostarono. Sulle punte inargentate delle loro lancie risplendeva il sole: e le camicie ed i berretti rossi li facevano sembrare diavoletti. Anche le loro trombe suonarono all'assalto e l'aria fu piena di squilli di tromba eccitanti. Colnai soffiava senza tregua, senza cessare. Boka cercò col binoccolo Franco Ats. — Eccolo! E' con quelli di via Pal. Anche Sèbeni è con lui. Ha la nostra bandiera. L'armata di via Pal dovrà sostenere un urto violento. Quei di via Maria erano capitanati dal maggiore dei Pastor. Sventolavano una bandiera rossa. E le trombe squillavano senza tregua. Le Camicie Rosse sostavano sulle porte in ordine serrato. — Preparano qualcosa — disse Boka. Di colpo le trombe delle Camicie Rosse tacquero. L'esercito di via Maria eruppe in un tremendo grido di guerra: — Uja op! Uja op! E si precipitarono attraverso la porta. I nostri fecero mostra di opporsi un istante ma subito dopo scapparono come prescriveva l'ordine di battaglia. — Bravi! — gridò Boka. Poi di colpo guardò verso via Pal. L'armata di Franco Ats non era entrata. Se ne stava immobile davanti alla porticina, aperta. — Che è questo? — Un'insidia! — disse tremante Ciele. E di nuovo guardarono a destra. I nostri correvano e i nemici li inseguivano urlando. Boka che aveva guardato finora intimidito e pensoso la passività dell'armata di Franco Ats, d'un tratto fece quello che non si ricorda avesse mai fatto: buttò per aria il suo berretto e si mise a danzare come impazzito sul tetto della capanna. — Siamo salvi! — gridava. Balzò su Ciele, lo abbracciò, lo baciò. Poi si mise a ballare con lui. L'aiutante non ne capiva nulla. Gli chiese preoccupato: — Che c'è? Che c'è? Boka indicò verso la direzione di Franco Ats. — Non vedi? — Sì. — Ebbene, non capisci? — No! — Che sciocco! Siamo salvi! Abbiamo vinto! Non capisci? — No! — Non vedi che stanno fermi? — Lo vedo! — Non entrano! Aspettano! — Lo vedo! — Ma perchè aspettano? Aspettano che l'armata di Pastor abbia sgomberato il fronte di via Pal. Ed essi attaccano dopo. L'ho capito non appena ho veduto che non attaccavano contemporaneamente! La nostra fortuna è ch'essi abbiano ideato un piano di battaglia eguale al nostro. Hanno pensato di cacciare con l'armata Pastor metà del nostro esercito fuori dalla via Maria e allora l'altra metà sarebbe stata attaccata su due fronti. Ma noi non beviamo! Vieni! E si mise a strisciare giù. — Dove? — Vieni con me. Non c'è più nulla da guardare. Quelli non si muoveranno. Andiamo ad aiutare l'armata di via Maria. L'armata di via Maria eseguiva mirabilmente i propri compiti. Correva su e giù davanti alla segheria, attorno ai gelsi. E per fare i furbi gridavano: — Ahimè! Ahimè! — Siamo perduti! — Siamo finiti! Le Camicie Rosse li inseguivano urlando. Boka stava osservando se riuscissero a farli cadere in trappola. D'un tratto i nostri erano scomparsi dietro la segheria. Metà dell'armata era corsa nella rimessa, l'altra metà nella casupola. Pastor gridò l'ordine: — Inseguiteli! Catturateli! — E i rossi corsero loro dietro. — Tromba! — ordinò Boka. E la tromba segnalò alle fortezze ch'era giunto il momento d'iniziare il bombardamento. E l'urlo di guerra dei ragazzi giunse dalla prime tre fortezze impegnate. Si udirono tonfi sordi: le bombe di sabbia volavano. Boka era rosso in viso e tremava tutto. — Aiutante! — gridò. — Presente! — Corri alla trincea e dì che aspettino. Attacchino soltanto quando io faccio suonare l'assalto. E anche le fortezze di via Pal aspettino! L'aiutante si precipitò giù, ma giunto in prossimità della trincea si mise bocconi e 14 proseguì strisciando perchè il nemico non lo potesse scorgere: comunicò l'ordine sussurrandolo al più vicino e tornò com'era venuto. — Fatto! — comunicò. Dietro la segheria l'aria fremeva di urla. Le Camicie Rosse credevano d'aver vinto. Le tre fortezze bombardavano con intensità e questo impediva loro di dare la scalata alle cataste di legname. Nella fortezza d'angolo, numero tre, Barabas in maniche di Camicia combatteva da leone. Prendeva sempre di mira il maggiore dei Pastor; ed una dopo l'altra le bombe di sabbia scoppiavano sulla sua testa. E ad ogni colpo Barabas esclamava: — Per te, figlio mio! — La sabbia si spargeva sul viso e nella bocca del Pastor che sbuffava furiosamente. — Aspetta che vengo io! — urlò fuori di sè. — Vieni pure! — rispose Barabas. Mirò e tirò. II collo della Camicia Rossa si gonfiò di sabbia. Un grande urrà rispose da tutte le fortezze! — Mangia sabbia! — gridò invasato Barabas; e gettò bombe con entrambe le mani verso il Pastor. E anche gli altri due non dormivano. La fortezza d'angolo lavorava furiosamente. La fanteria era rannicchiata silenziosamente nella rimessa in attesa dell'ordine di marciare all'assalto. Le Camicie Rosse erano già ai piedi delle fortezze e stavano combattendo una dura battaglia. Pastor rinnovò l'ordine: — Su! Scaliamo le fortezze! — Bum! — esclamò Barabas colpendo il capo sul naso. — Bum! — ripeterono le altre fortezze scaraventando una grandinata di sabbia sulla testa dei più arditi avversari. Boka afferrò il braccio di Ciele. — La sabbia comincia ad esaurirsi. Lo vedo di qui. Anche Barabas lavora con un braccio solo sebbene nella fortezza d'angolo le munizioni fossero state triplicate... Il fuoco infatti sembrava rallentare. — E che cosa accadrà? — chiese Colnai. Boka oramai era più calmo. — Vinceremo! Intanto la fortezza numero due aveva sospeso il fuoco. La sabbia doveva essere finita. — Questo è il momento! — gridò Boka — Corri alla rimessa. Bisogna marciare all'assalto! Alla casupola si recò egli stesso: spalancò la porta e gridò: — All'assalto! I due battaglioni si precipitarono fuori contemporaneamente: uno dalla rimessa, l'altro dalla capanna. Giunsero al momento giusto: Pastor stava già arrampicandosi sulla seconda fortezza. Si aggrapparono a lui, lo tirarono giù. Le Camicie Rosse cominciarono a scompligiarsi. Credevano che la truppa fuggita si fosse ritirata dietro le cataste di legname e che queste servissero ad impedire l'avanzata degli inseguitori verso i fuggitivi; ed ecco erano attaccati alle spalle da coloro che poco prima erano scappati. I corrispondenti di guerra più seri dicono che il maggior pericolo della guerra sia lo scompiglio. I generali temono meno cento bocche di cannone che non il minimo turbamento che in pochi minuti provoca un trambusto generale. E se un piccolo scompiglio turba una vera armata con fucili e cannoni, che non poteva fare di alcuni piccoli fanti vestiti di camicia rossa? Non riuscivano a capire. Dapprima non avevano nemmeno compreso che questi erano gli stessi fuggiti poco prima davanti a loro. La credettero una nuova armata di rinforzo. Soltanto dopo averne riconosciuti alcuni compresero di trovarsi di fronte agli stessi. — Da che inferno son venuti fuori? — gridò Pastor mentre due forti braccia lo afferravano per le gambe e lo tiravano giù. Ora anche Boka combatteva. Si era scelta una Camicia Rossa e combatteva. Lottando lo sospingeva verso la capanna. La Camicia Rossa vedendo di non riuscire a spuntarla contro Boka gli diede lo sgambetto. Dalle fortezze partirono grida di protesta: — Vergogna! — Ha dato lo sgambetto! Boka era caduto in seguito allo sgambetto, ma era subito rimbalzato in piedi. — Hai dato lo sgambetto! Questo non è nelle regole! Fece un cenno a Ciele ed in pochi momenti sospinsero la Camicia Rossa dentro la capanna che Boka rinchiuse a chiave. — Ha fatto lo stupido — disse —. Se avesse combattuto lealmente non sarei riuscito a vincerlo. In questo modo è stato lecito attaccarlo in due. E corse di nuovo sulla linea del fuoco dove oramai si lottava a coppie. La poca sabbia rimasta nelle fortezze 1 e 2 veniva adoperata dagli artiglieri per spargerla sul nemico impegnato. Ma le fortezze di via Pal tacevano. Aspettavano. Ciele già aveva affrontato un avversario quando Boka gli ordinò: — Non lottare! Porta l'ordine alle guarnigioni delle fortezze 1 e 2 di portarsi nelle fortezze 4 e 5. Ciele s'infiltrò tra i combattenti e corse a portare gli ordini. Presto dalle due fortezze scomparvero le bandiere perchè i ragazzi le avevano portate con sè nella nuova linea di combattimento. Un grido di vittoria seguiva all'altro. Ma il più forte risuonò quando Pastor, il terribile ed invincibile Pastor fu sollevato di peso da Cionacos e portato verso la capanna. Dopo un istante Pastor percoteva furiosamente il muro della capanna, ma dall'interno! Un urlo tremendo si levò allora: le Camicie Rosse sentivano d'essere perdute. E persero completamente la testa quando il loro capo scomparve di mezzo. Speravano soltanto in Franco Ats che riuscisse a mutare le sorti della battaglia. Una Camicia Rossa dopo l'altra veniva portata nella capanna, tra gridi di vittoria sempre rinnovati, i quali giungevano fino all'armata immobile sulla soglia della porticina di via Pal. Franco Ats che camminava su e giù davanti alla frontiera, disse con sorriso fiero: — Sentite? Presto avremo il segnale! Le Camicie Rosse erano rimaste d'accordo che quando Pastor avesse finita la propria operazione in via Maria avrebbe dato un segnale di tromba e allora Pastor e Franco Ats avrebbero attaccato contemporaneamente. Ma in quel momento il piccolo Vendauer, trombettiere del gruppo Pastor, stava bussando con tutte le forze contro la porta della capanna e la sua tromba piena di sabbia giaceva nella fortezza numero 3 tra il bottino di guerra... Mentre questo accadeva tra la segheria e la capanna, Franco Ats incoraggiava calmo i suoi uomini. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

Ma quando Ghereb ha detto che tra di noi non c'è nessuno che abbia del coraggio, allora ho pensato: aspetta che to lo mostrerò io se tra quelli della via Pal ce n'è che abbiano del coraggio, se non altri Nemeciech, soldato semplice! Eccomi qui, ho sentito tutto, ho preso lo stendardo; eccomi: fate di me quello che volete, picchiatemi, strappatemi lo stendardo perchè da solo non lo consegnerò mai! Su, coraggio! Io sono solo e voi siete dieci! Arrossì, così dicendo, e stese le braccia. In una mano stringeva la piccola bandiera. Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

Ma ti do la mia parola di non essere venuto qui perchè le Camicie Rosse mi abbiano preso in odio. Il motivo è un altro. — E sarebbe? — Non te lo posso dire. Forse verrai a saperlo. Ma guai a me se lo saprai... Il presidente lo guardò a lungo. — Non capisco — disse. — Non lo posso spiegare — balbettò Ghereb. E s'avviò verso la porticina. Qui si fermò di nuovo e disse: — Se ti pregassi di riprendermi...? — Sarebbe inutile. — E allora non ti prego nemmeno! Corse fuori sbattendo la porticina. Boka esitò per un istante: era stato, per la prima volta in vita sua, crudele verso qualcuno. E già si moveva per gridargli: «Torna: ma d'ora in poi comportati bene!» quando ricordò la risata beffarda con la quale Ghereb gli era scappato pochi giorni prima sulla via Pal... — No... — disse — non lo richiamerò. E' un ragazzo cattivo! Si voltò per andare verso le cataste di legname, ma dovette fermarsi sorpreso: in cima alle cataste stavano ritti tutti i ragazzi, tutti, anche quelli che non erano di guarnigione alle fortezze, e tutti erano stati a guardare quel che dovesse accadere tra Boka e Ghereb. E quando Ghereb si fu allontanato e Boka s'avviò verso i cubi di legname, l'agitazione contenuta eruppe e tutta l'armata come un sol uomo si mise a gridare evviva. — Evviva! esclamarono le fresche voci dei ragazzi sulle cataste di legname; e i berretti volavano per aria. — Evviva il presidente! Un tremendo fischio spaccò l'aria, un fischio tagliente quale nemmeno una locomotiva sa produrre, un fischio sonoro e vittorioso. Naturalmente era Cionacos che, guardandosi attorno, disse: — Mai nella vita avevo fischiato così di gusto! Boka se ne stava in mezzo al campo e salutava commosso e felice l'armata. Pensava di nuovo al grande Napoleone che doveva essere amato così dalla sua vecchia guardia. Tutti avevano visto la scena e tutti avevano capito. Non si era sentito quello che i due s'erano detto, ma dai gesti tutti avevano compreso. Boka non aveva stretto la mano a Ghereb, ripeteva il gesto di rifiuto; poi avevan visto Ghereb piangere ed avviarsi. All'ultimo, quando di sulla porticina, s'era voltato un'ultima volta verso Boka, tutti avevano tremato. Lesik aveva mormorato: — Ahi... Ora gli perdona! Ma quando Ghereb se ne fu veramente andato e Boka rimase crollando la testa, il loro entusiasmo proruppe fragoroso. E l'«evviva» salutò il presidente quando questi si volse verso loro. Era piaciuto a tutti che il presidente non si fosse dimostrato bambino, ma vero uomo. Avrebbero voluto baciarlo ed abbacciarlo; ma era tempo di guerra! Non si poteva far altro che gridare, e questo lo facevano a pieni polmoni ed a squarciagola. — Sei un ragazzo in gamba, babbino nostro... — 11 disse Cionacos, fiero; ma si spaventò e corresse subito: — Non babbino, scusi, signor presidente! Ed allora ebbe inizio la manovra. Volavano comandi sonori, le truppe galoppavano tra le cataste, attaccavano le fortezze e le bombe piovevano a destra e a sinistra. Tutto andava a meraviglia. Ognuno eseguiva gli ordini avuti con impegno. E questo moltiplicava l'entusiasmo. — Vinceremo! — era il grido generale. — Li scacceremo! — Cattureremo dei prigionieri! — Prenderemo Franco Ats! Il solo Boka rimase serio. — Non lasciatevi montar la testa dalla superbia — disse —. Il buon umore potrà trovar posto a Battaglia finita. E ora chi vuole, può tornare a casa. Ma vi ripeto: chi domani alla stessa ora non ci sarà, è un traditore! Con questo Ia manovra era finita; ma nessuno aveva voglia di rincasare. Si divisero in gruppi per discutere l'affare Ghereb. Barabas strillava: — Società dello Stucco! Società dello Stucco! — Che vuoi? — gli chiesero i ragazzi. — L'assemblea straordinaria! Colnai si rammentò allora dell'assemblea promessa e davanti alla quale avrebbe dovuto discolparsi dell'accusa d'aver fatto disseccare lo stucco sociale. S'arrese con tristezza. — Ebbene — disse —, facciamo l'assemblea. Invito i signori soci a volersi riunire in disparte. E i signori soci col maligno Barabas in testa, uscirono dalle cataste per tenere la loro riunione presso lo steccato. — Sentiamo! Sentiamo! — gridava Barabas. E Colnai disse ufficiosamente: — La seduta è aperta! Dò corso all'interpellanza del signor Barabas! — Ehm! Ehm! — fece Barabas rischiarandosi la gola — Spettabile assemblea! Il signor presidente è stato fortunato perchè, causa la manovra, quasi veniva rimandata quest'assemblea che deve cacciare il presidente... Interruzioni sorsero dal partito presidenziale. — Per me, potete urlare finchè volete — continuò I'oratore —, so bene quel che dico. Il presidente ha potuto, in grazie alla manovra, rinviare un poco la questione ma ora non la può rinviare più. Perchè ora... S'interruppe. Qualcuno aveva bussato forte alla porticina dello steccato, ed eran momenti questi nei quali ogni bussare allarmava i ragazzi. Non si poteva mai sapere se non fosse il nemico! — Chi è — chiese l'oratore. E tutti furono attenti. Il bussare venne ripetuto con forza ed impazienza. — Bussano alla porticina — disse Colnai con voce tremante; e spiò tra le fessure dello steccato. Poi si rivolse con viso stupìto verso i ragazzi: — E' un signore! — Un signore? — Sì. Un signore con la barba. — Allora apri. La porta si aprì ed entrò un signore ben vestito con un cappotto nero con largo bavero. Aveva una gran barba nera e portava gli occhiali. Si fermò sulla soglia e gridò: — Siete voi i ragazzi della via Pal? — Siamo noi — risposero. L'uomo dagli occhiali si decise allora ad avanzare e li guardò più bonariamente. — Io sono il padre di Ghereb — disse, mentre chiudeva la porticina dietro a sè. A queste parole si fece silenzio: la cosa diventava seria, se anche il padre di Ghereb interveniva! Lesik diede una gomitata a Richter: — Corri a chiamare Boka! Richter corse verso la segheria dove Boka stava appunto raccontando ai ragazzi le gesta di Ghereb. Intanto il signore dalla barba si rivolse alla Società dello Stucco. — Perchè avete espulso mio figlio? Colnai si fece avanti: — Perchè ci ha tradito con le Camicie Rosse! — Cosa sono queste Camicie Rosse? — Sono degli altri ragazzi che vanno a giuocare all'Orto Botanico, ma che ora vogliono prenderci questo campo perchè essi non hanno posto per giuocare alle palle. Questi sono i nostri nemici. — L'uomo dalla barba corrugò la fronte: — Mio figlio è venuto a casa poco fa, piangendo. L'ho interrogato a lungo per sapere cosa avesse, ma non voleva confessare. Finalmente, dopo che io l'ho sgridato severamente, s'è deciso a parlare; ha detto che voi lo accusate di tradimento. Allora io gli ho detto: «Metto il cappello e vado da quei ragazzi. Parlerò loro e saprò quel che ci sia di vero. Se la cosa non è vera, pretenderò che ti chiedano scusa. Ma se la cosa è vera, avrai a che fare con me, perchè tuo padre è stato per tutta la vita una persona onesta e non può tollerare che suo figlio sia il traditore dei propri compagni». Questo gli ho detto. Ed ora sono qui e vi prego di dirmi lealmente ed in coscienza: mio figlio vi ha tradito, sì o no? Su! Si fece un gran silenzio. — Dunque? disse il padre di Ghereb. Non abbiate paura di me. Ditemi la verità. Io devo sapere se avete accusato ingiustamente mio figlio o se merita di essere punito! Nessuno rispose. Nessuno voleva amareggiare quell'uomo col cappotto che sembrava buono ed era così premuroso del carattere di suo figlio. Il signore si rivolse a Colnai: — Tu hai detto che vi aveva traditi. Devi provarmelo. Quando vi ha traditi? In che modo? Colnai balbettava: — L'ho... sentito dire... — Questo conta poco. Chi sa qualcosa di certo? Chi l'ha visto? Chi sa? In questo momento dalle fortezze sbucarono Boka e Nemeciech: Richter li guidava. Colnai respirò liberato: — Scusi — disse —. Ecco, c'è quel biondino... quel Nemeciech... quello l'ha visto. E sa tutto. Aspettarono fin che i due ragazzi furono nelle vicinanze, ma Nemeciech si dirigeva verso la porticina. Colnai gridò loro: — Boka! Venite un po' qui! — Ora non si può — rispose Boka —. Vogliate aspettare. Nemeciech si sente molto male. Ha un attacco di tosse. Bisogna che lo accompagni a casa. L'uomo dal cappotto quando udì il nome di Nemeciech gli chiese: — Sei tu Nemeciech? — Sì... — disse sottovoce il biondino; e si accostò all'uomo barbuto. Questi gli disse severo: — Io sono il padre di Ghereb e sono venuto per sapere se mio figlio è o non è un traditore. I suoi compagni dicono che tu lo sai perchè l'hai veduto. Rispondimi allora in coscienza: è vero o non è vero? Il viso di Nemeciech ardeva di febbre. La malattia lo aveva ghermito. Le tempie gli martellavano; la mano bruciava. E tutt'intorno il mondo gli appariva così strano! Quello zio con la barba che parla con una voce severa come il professore Raz parla agli alunni negligenti... tutti quei ragazzi... la guerra... le sue inquietudini... tutto... e quella domanda che faceva capire che se Ghereb era veramente traditore sarebbero accaduti grossi guai... — Rispondimi! — incalzava l'uomo con la barba — Parla! Rispondi! E' un traditore? E il biondino rispose coraggioso, col viso fiammeggiante di febbre, con gli occhi brillanti di febbre, ma sottovoce come se il colpevole fosse stato lui, rispose: — No! Non è traditore... II padre allora si rivolse minaccioso verso gli altri: — Allora avete mentito voi? La Società dello Stucco era sbalordita. Nessuno fiatava! — Avete detto una bugia, allora? — disse ghignando l'uomo dalla barba. Sapevo bene che mio figlio era un ragazzo onesto! Nemeciech si reggeva appena. Chiese modesto: — Posso andarmene? L'uomo con gli occhiali gli rise sul naso: — Puoi andartene, piccolo «sa-tutto»! E Nemeciech barcollò sulla strada a fianco di Boka. Tutto si confondeva davanti ai suoi occhi. Non distingueva più nulla. Un miscuglio ballava davanti al suo sguardo dove c'erano l'uomo nero, la strada, le cataste di legname e parole strane gli ronzavano all'orecchio «su, alle fortezze», «mio figlio è un traditore?» E l'uomo nero che rideva beffardo allargò una bocca che era la porta della scuola e dalla porta usciva il professore Raz e Nemeciech si tolse il berretto. — Chi saluti? — gli chiese Boka — Non c'è nessuno. — Saluto il professor Raz — disse piano il biondino. E Boka si mise a piangere. Sorresse, trascinò con sè frettolosamente il piccolo amico per la strada che si rabbuiava. Intanto, nel campo, Colnai così parlava all'uomo con gli occhiali: — Scusi, signore, ma quel Nemeciech è il bugiardo. Noi lo abbiamo proclamato traditore ed espulso dalla nostra società. Il padre era felice ed approvava: — Si capisce subito. Ha un viso ipocrita. Ha la coscienza sporca. E tornò lieto a casa per perdonare al figlio. Sull'angolo del viale Ulloi intravide ancora Boka e Nemeciech il quale barcollava lungo il muro, dall'altra parte della strada. Anche Nemeciech stava piangendo, triste, desolato di tutta la desolazione del suo cuore di soldato senza grado, e in questo pianto febbrile ripeteva sempre queste parole sole: — Hanno scritto a lettere minuscole il mio nome... a lettere minuscole il mio nome onesto...

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Lo stralisco

208593
Piumini, Roberto 1 occorrenze
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. — A volte mi sembra, Filippo, che nemmeno i sapienti teologi, o i filosofi, abbiano avuto parole per parlarne compiutamente... — Io, invece, ne sono certo, Diamante, — disse il pittore, spingendo lo sguardo oltre la caligine fino alla dolce ingobbatura del monte Albano. — E anzi credo che non abbiano parole per farne nemmeno uno schizzo decente: come quando si sente raccontare una pittura da un carrettiere: «E lí, sai, c'è uno che fa cosí, e un altro che fa così...» Uno stormo strillante di rondini graffiò il silenzio del cielo sulle loro teste. Scendevano dall'aria del monte, insieme, come una svelta banda di predoni sulle farfalle del grano. Quasi fosse un segnale, i frati si alzarono, e in silenzio si incamminarono per la stradicciola polverosa che portava a Prato. Un cagnetto del borgo che, un'ora prima, si era allegramente associato alla passeggiata, e li aveva osservati da lontano mentre conversavano, sdraiato al fresco di una quercia, si alzò e li precedette scodinzolando, felice del ritorno.

Pagina 176

L'idioma gentile

209282
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano profondi e finissimi il senso e l'arte dell'armonia, abbiano faticato a comporre tanti versi squisitamente armoniosi, quando noi li pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le graziose strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all'u un suono barbaro che trapassa l'orecchio come lo stridore d'un chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l'armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d'aver orecchio musicale! C'è da riderne, e da averne vergogna. * - Come ho da fare? - domanderai. - Ho da toscaneggiare? - Così chiamano, per canzonatura, il pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovare contenti, come se non si potesse pronunziar l'italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c'è bisogno di toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di. questi libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl'italiani delle regioni subalpine. Avvèzzati prima d'ogni cosa a pronunziare l'a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c'è chi dice:

Pagina 74

Il libro della terza classe elementare

210569
Deledda, Grazia 3 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Sentirete a quale floridezza e potenza abbiano portato l'Italia il nostro Re, Vittorio Emanuele III, e Benito Mussolini, il Duce del Fascismo.

Si abbiano due scatole contenenti l'una 9 e l'altra 7 pennini. Riunendo in un solo mucchietto i pennini delle due scatole si hanno in tutto 16 pennini. Si dice perciò che 16 è la somma di 9 e 7. Così se si hanno tre bustine di aghi, in una delle quali non ne siano rimasti che 4, in un'altra 6 e nella ultima 10, riunendo insieme gli aghi delle tre bustine si hanno in tutto 20 aghi; si dice perciò che la somma di 4, 6 e 10 è 20. Insomma, se più gruppi contenenti certi numeri di oggetti si riuniscono insieme a formarne uno solo, il numero degli oggetti del gruppo complessivo si dice la somma di quei numeri. 12. Per indicare le somme di numeri dati si fa uso del segno + (leggi: più); così 9 + 7 (leggi: nove più sette) è la somma di 9 e 7; 4 + 6 + 10 (leggi: quattro più sei più dieci) è la somma di 4, 6, e 10; ecc. Col segno = si indica la frase è eguale a; dunque per esprimere che la somma di 9 e 7 è 16, e che quella di 4, 6 e 10 è 20, possiamo scrivere 9 + 7 =16, 4 + 6 + 10 = 20. 13. L'operazione, mediante la quale dati due o più numeri si cerca la loro somma, si dice addizione. E per un' addizione, gli addendi sono i numeri ai quali essa viene applicata, il totale è la somma cui essa conduce. Aggiungere un numero ad un altro, oppure sommareTaluno dice anche addizionare; brutto francesismo che è bene evitare. due o più numeri dati, significa trovarne la somma. 14. Le addizioni di numeri ad una sola cifra si è già appreso in 1ª e 2ª elementare a compierle mentalmente; mostriamo ora su esempi come le altre possano essere ricondotte ad esse. ESEMPIO I. - Siano da sommare i numeri 124 e 362. Dispostili in colonna, come qui a fianco, poniamo a destra di 124 il segno + (per indicare che l'operazione da eseguire è un'addizione) e tiriamo al di sotto di essi il tratto orizzontale che serve a separare gli addendi dal totale. Sommo i numeri che si trovano nella colonna delle unità: 4 più 2 è 6. Ho così 6 unità del totale. Scrivo 6 al di sotto del tratto, in colonna con 4 e 2. 124 + 362 _____ 486 Sommo i numeri che si trovano nella colonna delle decine: 2 più 6 è 8. Ho così 8 diecine del totale. Scrivo 8 al di sotto del tratto, in colonna con 2 e 6. Sommo infine i numeri che si trovano nella colonna delle centinaia: 1 più 3 è 4. Ottengo così 4 centinaia per il totale. Scrivo 4 al di sotto del tratto, in colonna con 1 e 3; ed ho che la somma richiesta è 486. In pratica l'operazione si eseguisce dicendo: 4 più 2, 6; scrivo 6. 2 più 6, 8; scrivo 8. 1 più 3, 4 ; scrivo 4. ESEMPIO II - Sia da eseguire l'addizione dei numeri 69, 178 e 396. Disposti in colonna gli addendi, posti a destra dei primi due i segni + e tirato al di sotto di essi il tratto orizzontale, sommo in primo luogo i numeri che si trovano nella colonna delle unità ed ottengo 23. Ho così 23 unità del totale, che equivalgono a 2 diecine e 3 unità. Scrivo 3 al di sotto del tratto, in colonna con 9, 8 e 6; 3 è la cifra delle unità del totale. Sommo i numeri che si trovano nella colonna delle diecine ed ottengo 22. Ho così 22 diecine del totale, che, sommate con le 2 diecine ottenute precedentemente, dànno in tutto 24 diecine del totale. Esse equivalgono a 2 centinaia e 4 diecine. Scrivo 4, al di sotto del tratto, in colonna con 6, 7 e 9; 4 è la cifra delle diecine del totale. Sommo i numeri che si trovano nella colonna delle centinaia ed ottengo 4. Ho così 4 centinaia del totale; ma ne avevo già trovate 2, dunque il totale ha 4 + 2, cioè 6, centinaia. Scrivo 6 al di sotto del tratto, in colonna con 1 e 3 ed ho il totale 643. In pratica si dice rapidamente: 9 più 8, 17; 17 più 6, 23; scrivo 3 e riporto 2. 2 più 6, 8; 8 più 7, 15; 15 più 9, 24 scrivo 4 e riporto 2. 2 più 1, 3; 3 più 3, 6; scrivo 6. ESEMPIO III. - Siano da sommare i numeri 724, 152 e 24. Fatti i soliti preparativi, si dirà: 4 più 2, 6; 6 più 4, 10 ;scrivo 0 e riporto 1. 1 più 2, 3; 3 più 5, 8; 8 più 2, 10; scrivo 0 e riporto 1. 1 più 7, 8 ; 8 più 1, 9. Scrivo 9 ed ho che il totale è 900. 15. Si osservi che: Nell'eseguire l'addizione di due o più numeri dati, gli addendi possono esser considerati nell'ordine che si vuole; così, per es., si ottiene 643 come somma dei numeri dell' Esempio II anche se essi si dispongono come qui a fianco. Si approfitta di questa osservazione per verificare l'esattezza del totale ottenuto in un'addizione, o, come si dice, per far la prova. E cioè si sommano gli addendi in un ordine diverso da quello già adoperato se non si son commessi errori, il totale della nuova addizione sarà eguale a quello dell'addizione primitiva. 16. Quando si abbia da eseguire un'addizione con molti addendi, giova distribuir questi in più gruppi parziali, ed eseguire le addizioni dei numeri dei singoli gruppi. La somma dei totali di quest'ultime addizioni sarà il totale dell'addizione proposta. Così, per es., se si hanno da sommare i numeri 215, 306, 87, 124, 31 e 197 si troveranno, per es., separatamente le somme 215 + 306 + 87 e 124 + 31 + 197. Queste sono 608 e 352; e dunque 215 +306 + 87 + 124 + 31 + 197 = 608 + 352 = 960

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Sopra una fruttiera si abbiano 10 ciliege, di cui 6 siano provviste di picciòlo e 4 ne siano prive. L'esser 4 le ciliege senza picciòlo sta a significare che 4 è la differenza fra il numero delle ciliege, cioè 10, e quello dei picciòli, cioè 6. Ora si immagini di porre sulla fruttiera un certo altro numero di ciliege, per es., 5, tutte dotate di picciòlo. Il numero delle ciliege diventerà 10 + 5, cioè 15, quello dei picciòli 6 + 5, cioè 11; ma quelle senza picciòlo saranno ancora 4 e dunque la differenza fra 15 e 11 sarà ancora 4. Si riconosce così che: Aggiungendo un medesimo numero a due altri la differenza non muta. In maniera simile, immaginiamo invece di portar via dalla fruttiera un certo numero di ciliege dotate di picciòlo, ci si può persuadere che: Sottraendo un medesimo numero dal diminuendo e dal diminutore la differenza non muta. 19. Le sottrazioni in cui il diminutore è un numero ad una sola cifra si eseguiscono mentalmente; le altre si riconducono ad esse nel modo che ora spiegheremo su esempi. ESEMPIO I. - Si abbia da sottrarre 265 da 988. Disponiamo i numeri in colonna, col diminuendo sopra il diminutore, mettiamo a destra del primo il segno - (per indicare che l'operazione da compiere è una sottrazione) e tiriamo il tratto al di sotto del quale scriveremo il resto. Nella colonna delle unità ne compariscono 8 per il diminuendo e 5 per il diminutore: 8 meno 5 è 3; 3 sarà la cifra delle unità del resto. Nella colonna delle diecine se ne hanno 8 per il diminuendo e 6 per il diminutore; 8 meno 6 è 2; 2 sarà la cifra delle diecine del resto. Infine sottraendo dalle 9 centinaia del diminuendo le 2 del diminutore si ha che quelle del resto sono 7. Si conclude che il resto è 723. In pratica si opera dicendo: 8 meno 5, 3; scrivo 3. 8 meno 6, 2; scrivo 2. 9 meno 2. 7; scrivo 7. ESEMPIO II. - Trovare la differenza di 683 e 247. Disposte le cose come nell'esempio precedente, si vede che, nella colonna delle unità, dalle unità del diminuendo non si possono sottrarre quell del diminutore, perchè 3 è minore di 7. Ebbene, alle 3 unità del diminuendo ne aggiungo altre 10; esse diventano così 13; e per non far mutare la differenza aggiungo 10 unità, o, ciò che fa lo stesso, 1 diecina al diminutore; cosicchè la cifra delle diecine del diminutore, da 4 che era, diventerà 5. Fatte queste modificazioni dirò: 13 meno 7, 6, scrivo 6. 8 meno 5, 3, scrivo 3. 6 meno 2, 4, scrivo 4. Il resto è 436. In pratica si eseguisce l'operazione dicendo: 3 meno 7, non si può, aggiungo 10 al 3 ed ho 13; 13 meno 7, 6, scrivo 6 e riporto 1. 4 più 1 di riporto 5; 8 meno 5, 3, scrivo 3. 6 meno 2, 1, scrivo 4. ESEMPIO III. - Trovare la differenza di 529 e 384. Disposte le cose come qui a fianco, ho che nella colonna delle unità ne compariscono 9 per il diminuendo e 4 per il diminutore; 9 meno 4 è 5; 5 sarà la cifra delle unità del resto. Nella colonna delle diecine dalle 2 diecine del diminuendo non si possono sottrarre le 8 del diminutore. Ebbene, alle 2 diecine del diminuendo ne aggiungo altre 10; esse diventano così 12; e per non far mutare la differenza aggiungo 10 diecine, o, ciò che fa lo stesso, 1 centinaio al diminutore; cosicchè in questo la cifra delle centinaia, da 3 che era, diventerà 4. Fatte queste modificazioni dirò: 12 meno 8, 4, scrivo 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. Il resto è 145. In pratica l'operazione si compie dicendo: 9 meno 4, 5, scrivo 5; 2 meno 8 non si può, aggiungo 10 al 2 ed ho 12; 12 meno 8, 4; scrivo 4 e riporto 1. 3 più 1 di riporto, 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. ESEMPIO IV. - Sottrarre 298 da 651. Adoperando il linguaggio della pratica si dirà: 1 meno 8 non si può, aggiungo 10 ad 1 ed ho 11; 11 meno 8, 3, scrivo 3 e riporto 1. 9 più 1 di riporto 10, 5 meno 10 non si può, aggiungo 10 al 5 ed ho 15; 15 meno 10, 5, scrivo 5 e riporto 1. 2 più 1 di riporto 3; 6 meno 3, 3, scrivo 3. Il resto è 353. ESEMPIO V. - Sottrarre 345 da 506. Qui diremo: 6 meno 5, 1, scrivo 1. 0 meno 4 non si può, aggiungo 10 a 0 ed ho 10; 10 meno 4, 6, scrivo 6 e riporto 1. 3 più 1 di riporto, 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. Il resto è 161. 20. Eseguita una sottrazione, se ne verifica l'esattezza, o, come si dice, se ne fa la prova, sommando il sottraendo e il resto. Se non si sono commessi errori, il totale dell'addizione sarà eguale al diminuendo.

Pagina 388

La freccia d'argento

212216
Reding, Josef 4 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Possibile che i crociati abbiano lasciato incustodita la loro sede? E se nell'interno ci fosse nascosto qualcuno dei ragazzi? Ede si punta su un gomito, cerca tastoni qualche pietra e la scaglia contro la casa. Laggiù in fondo si sente il rumore sordo dei tonfi. Poi, di nuovo, silenzio di tomba. Ed-mastica-gomma è ormai sicuro del fatto suo. Si alza da terra e si dirige verso il capannone. A calci cerca, ma invano, di sfondare la porta; e così pure non cedono le nuove imposte di robusto legno di quercia. Con una pietra acuminata Ede le tempesta di colpi, sempre senza risultato. Allora, esasperato, si arrampica come uno scimmione lungo il tubo di scarico della grondaia e si stende bocconi sul tetto. Anche qui non c'è alcuna breccia che gli permetta di penetrare nell'interno. Con cautela, Ede si appresta a indietreggiare strisciando. Il tetto, fatto di assi imputridite e di vecchio cartone incatramato, scricchiola e crepita sotto il suo peso. È proprio questo tetto fradicio che dà a Ede la soluzione del problema. Con dita tremanti egli strappa un lembo del cartone incatramato, reso friabile dal sole e dalla pioggia; col temperino fruga in una fessura tra due assi imputridite e la allarga; poi vi introduce la mano e dà uno strappo: uno scricchiolio, e infine uno schianto! Crac! Le vecchie assi hanno ceduto e si sono spezzate sollevandosi. La via è libera! Il raggio della lampadina tascabile di Ede si insinua nell'interno, attraverso lo squarcio nero, e fruga il locale degli attrezzi. Ecco la meta di Ede: la Freccia d'argento!... Sghignazzando, Ed-mastica-gomma si introduce a fatica nel pertugio; stringendo fra i denti la lampadina, si lascia cadere nell'interno. * * *

Così berciano i crociati: sembrano tanti indiani assetati di sangue che abbiano dissepolta l'ascia di guerra. - Non scherzo, ragazzi! Io penso seriamente a una spedizione punitiva. Occhio per occhio, dente per dente! Non capisco perché dovremmo esser sempre noi i babbei... Facciamo un piano e andiamo all'attacco domani notte! Prima Stucchino e io prendiamo... - Ma bene, Alo! Io rimango di stucco! Siete tali e quali i tanto denigrati ragazzi della banda del Nord. Dov'è andata a finire la solidarietà fra ragazzi? E dove la fairness 1 fairness: parola inglese che si pronuncia fernes e che significa correttezza, lealtà. sportiva? - D'accordo per il «fernet» sportivo, o come lo vuol chiamare! Ma se gli avversari usano l'astuzia e l'inganno? Se quei vigliacchi non rispettano né leggi, né regole? Dobbiamo star qui ad aspettare che a quei signori della banda del Nord faccia comodo di venirci di nuovo a trovare e fracassare la nostra Freccia d'argento? - Naturalmente non dovete stare ad aspettare che quelli vi rompano la testa. Però non si potrebbe cercare prima di far loro vedere ciò che noi intendiamo per lealtà e correttezza? Chissà che nella banda del Nord non ci sia qualche bravo ragazzo che per un motivo qualsiasi è capitato in quella strana combriccola ed ora non riesce più a uscirne! Forse tra loro vi sono ragazzi duramente provati dalla vita, come il nostro Hai! Non metterebbe conto, anche soltanto per loro, di tentare? Chi si sente di scagliare la prima pietra? I crociati si fanno pensierosi, e la loro eccitazione si placa. Da questo punto di vista non avevano ancora considerato la banda del Nord. E se giudicano spassionatamente e senza rancore, devono riconoscere che il cappellano ha ragione. Alo è il primo ad ammetterlo. - Credo che anche questa volta lei abbia ragione, signor cap- pellano! Siamo stati troppo impulsivi e sconsiderati. Però dobbiamo pur difenderci dagli attacchi di quella banda! Che laggiù nella cantina diroccata si mediti un'altra birbonata, è poco ma sicuro. Ed- mastica-gomma l'ha detto chiaro. Quei gangsters ritorneranno senz'altro e ci fracasseranno tutto! - Mi viene un'idea... - dice il cappellano con un sorrisetto. - Siamo tutti orecchi! - Andiamo a scovare il leone nella sua tana! Io... - Non vorrà mica andare in quel covo di delinquenti, signor cappellano! Quelli non rispettano nessuno! Sono capaci di saltarle addosso tutti quanti e conciarla per le feste, come han fatto col nostro Stucchino! Quelli... - scatta Alo eccitatissimo. - Se penso allo sguardo bieco del perticone, sento che è capace di tutto, perfino di un delitto, di un assassinio! - Be', facciamo metà della metà! Io ti capisco, Alo. Però, tu lo sai, sono stato per anni cappellano alle carceri: una certa praticaccia ce l'ho dei «delinquenti», come tu, troppo impulsivo, hai chiamato quelli della banda del Nord. Saprò cavarmela anche con questa gente e con Ed-mastica-gomma. Domani sera vado a parlamentare nel quartier generale della banda malfamata. Vediamo che cosa ne vien fuori. Dove hanno il loro nascondiglio, Alo? - Nelle rovine del macello. In una cantina. - Benissimo! Allora per oggi leviamo la seduta. Domani sarà una giornata faticosa per tutti. E voi dovete montare la guardia. Però, mi raccomando, un po' più marziali voi due, Mikro e Makro!... Buona notte, ragazzi! - Buona notte, signor cappellano! - Senti, non lasceremo che il cappellano vada solo da quei manigoldi! - dice Stucchino ad Alo, dopo un momento di riflessione. - Certamente no! - approva Alo. Il suo viso esprime decisione e rabbia. - Domani sera ci apposteremo nei pressi della cantina, in modo da non esser visti, tu, Winnetou 4, Hai ed io! Non si sa mai!

Pagina 49

Non vedendo nessuno, pensa che ancora una volta le abbiano giocato un tiro birbone. - I soliti scherzi! - sibila fra i denti, e richiude la porta con un tonfo. Faccia pure, tanto noi siamo ormai sgattaiolati dentro e stiamo osservando tranquillamente il pianterreno. Attenzione! Attenzione! Di là, nel suo studio, l'avvocato ricomincia a sbraitare. Be', potrebbe almeno abbassare un po' il volume del suo altoparlante! Andiamo a vedere che cosa succede. Benissimo! La porta è aperta. Ecco, la nostra macchina è già avviata. Primo quadro: lo studio dell'avvocato Ramthor. Personaggi: l'avvocato, sua moglie, la loro figlioletta Carin e il giardiniere Waldemar. Tutti tacciono, perché parla lui, il dottor Ramthor. Sentiamo un po' che cosa dice. Innestiamo quindi anche la registrazione sonora. -... Ve lo dico e ripeto per la quarta volta. Con le mie stesse mani ho preso questo libro, La struttura psicopàtica del cleptòmane recidivo, e l'ho rimesso nello scaffale, esattamente al posto dove si trovava prima. Patapumfete... il libro è caduto all'indietro! Notate bene: all'indietro! Non sarebbe caduto all'indietro, se ci fosse stata ancora la parete posteriore! Una parete di compensato dello spessore di tre millimetri, lunga tre metri ed alta due. E dov'è andata a finire questa parete? Vo...glio an...da...re a fon...do del...la que...stio...ne! La voce del signor avvocato diventa stridula e fa una stecca. Qui tira aria di tempesta! È meglio che lasciamo lo studio e la casa e ce ne andiamo altrove a caccia di novità. Non è necessario però andar troppo lontano: dal solaio del gran casamento di piazza Wieland giungono degli strilli al nostro orecchio, come dianzi da casa Ramthor. Questa volta però è un coro a più voci. Salire inosservati in solaio è per noi una bazzecola, ché siamo agili come scoiattoli. Ancora una volta mettiamo in azione la nostra macchina da presa. Un solaio ingombro di vecchie lettiere arrugginite, un grammofono antidiluviano a tromba, cataste di vasi da fiori, vecchi mastelli da marmellata, paralumi... e una carrozzina da bambini di dimensioni eccezionali. Torno torno, in un gruppo pittoresco, sono radunati il facchino Kroppke, il macchinista delle ferrovie Spandig e alcune donne. Attenzione! Anche il sonoro è in azione. - Ma certo, Spandig, lei può prendere senz'altro la carrozzina dei gemelli. Tanto a me non serve più. I miei due ragazzi hanno ormai tredici anni. - Era il facchino Kroppke che parlava, con la sua voce di basso profondo. - Ih, ih, ih! Ma guarda! Tredici anni! Proprio l'età ingrata! - Naturalmente quella era una delle donne. - Grazie infinite, Kroppke! Due eredi in una volta sola non me li aspettavo davvero, e alla nostra vecchia carrozzina non so come avrei potuto attaccare un rimorchio. Questa è robustissima e durerà chissà per quante generazioni ancora? È a prova di bomba! - Chi parlava era il macchinista Spandig. - Oh, giusto? Il suo Klaus, quello scavezzacollo, ce la fa senz'altro a metterla in pezzi! Quello fracassa tutto! - Naturalmente era ancora una delle donne. - Be', io allora me la prendo e vado! - E questo era Spandig. - Ma non ci sono le ruote! - Era Spandig di nuovo. - Guarda, guarda, che stranezza! Mancano le ruote! - Questo era il coro delle donne al completo. - Perdindirindina! Dove sono andate a finire le ruote?! - Era il facchino Kroppke che urlava, ed era fuori di sé. ... Anche qui l'aria si fa incandescente, e perciò ci affrettiamo ad andare qualche isolato più in là. Ci rechiamo a far visita a un signore che dovrebbe essere la calma in persona: il cappellano Holk. Egli è il direttore spirituale dei ragazzi della tribù di San Michele e basta guardarlo per capire che deve tener testa a dieci dozzine di ragazzi, perché nella sua chioma bionda ci sono all'incirca dieci dozzine di capelli bianchi: un capello bianco per ogni ragazzo. Per il cappellano Holk tutti si butterebbero nel fuoco, e altrettanto farebbe lui per i suoi monelli. Però in questo momento il cappellano non si butta nel fuoco, ma cerca i suoi occhialoni da motociclista, perché fra pochi minuti deve andare in periferia, da un malato grave. Ma il reverendo non riesce a trovare i suoi occhiali. Cerca, cerca! Cerca sotto il breviario, dietro il telefono, dietro la Santa Cecilia (la statua, s'intende), dietro l'armonio e dietro lo scaffale dei libri... Non ci sono? Il cappellano comincia a perdere le staffe. Tu però non ti stupisci, perché sai fin dall'inizio del capitolo che, per lo più, i cittadini di C. sono fuori dei gangheri. Anche senza gli occhialoni, il cappellano Holk schiaccia l'avviamento e inforca la sua motocicletta.

Pagina 6

Non che abbiano paura di passare una nottata qui soli, tutt'altro! Sarebbe anzi quel che fa per loro: un'avventura emozionante! Ma se domattina papà Kroppke dovesse andare al lavoro senza le sue solite pagnotte, che gragnuola di colpi pioverebbe sulle retrovie! Quando papà Kroppke comincia a menar le mani... Dio ce ne scampi e liberi! Dunque Mikro e Makro si buttano con tutta la loro forza contro la porta, e così svelti che Ede non ha nemmeno il tempo di dare un giro di chiave. Uno strattone... e di fuori risuona un urlo selvaggio. - L'amico si è pizzicato le zampe! - esclama Makro. - E ora, dietro! Quando riescono a spalancare la porta, quell'ombra che a gran balzi si allontana nella notte non si distingue ormai più. - Che affare sporco! - sbuffa Mikro, aspirando l'aria tra i denti per il dolore: nel buttarsi contro la porta si è ammaccato una spalla. - Razza di mascalzone! Chi sarà stato quel vigliacco? Ora Mikro e Makro sono ben contenti che il babbo li abbia costretti a fare quella maratona per via del pane, e in fretta e furia tirano a sorte chi debba rimanere qui la notte a far la guardia. Chissà che a quell'individuo non venga in mente di calarsi di nuovo dal foro del tetto! - Ambarabàm ciccì coccò, tre civette sul comò... Ambarabàm ciccì coccò! Tocca a Makro. Mikro allora afferra la rete con le pagnotte e a gambe levate corre verso casa.

Pagina 63

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215159
Garelli, Felice 1 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
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Fuggi dunque la compagnia dei giovanetti cattivi; scegliti a compagni dei fanciulli buoni, giudiziosi; e come tu avrai sempre a lodarti di loro, fa che essi abbiano sempre a lodarsi di te.

Pagina 22

Il Plutarco femminile

218377
Pietro Fanfano 8 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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"Apparentemente la dice bene, riprese la direttrice; ma, se ella, e tutte le altre signorine vorranno ricordarsi a che vergognosa condizione si era ridotto l'impero romano e l'Italia; se penseranno che Amalasunta pose tutto l'ingegno e lo studio a ingentilire i barbari suoi Ostrogoti, e a ricondurre in vita la morta civiltà mi penso che tutte si troveranno d' accordo ad approvare che le nostre conversazioni abbiano avuto principio da questa buona e sventurata regina, la quale pu� bene noverarsi tra coloro che diedero la vita per la civiltà italiana." Tutte le ragazze assentirono; allora la direttrice volta al maestro: Mi pare, disse, che lei, signor maestro, avesse fatto cenno come chi vuol dire qualche cosa; e che la vispa Eglina col suo pronto Io, le abbia levato la parola di bocca. E vero? È vero, rispose il maestro. Volevo anch'io rallegrarmi colla signora Elisina, accertandola che anche un letterato già fatto non si vergognerebbe di avere scritto quella vita di Amalasunta: ma volevo anche aggiungere che in essa vita mi hanno un pochino dato nel naso, non dirò tre errori, ma tre inesattezze, le quali non avrei voluto sentir dette da lei, che è tanto diligente e tanto studiosa della proprietà." La signora Elisina, a cui la lode non era dispiaciuta (mala cosa! siam tutti fatti ad un modo), non le dispiacque per altro nemmeno la benigna censura del maestro; anzi con volto lietissimo gli domand� quali fossero i tre errori, a cui il maestro rispose: "Ella ha detto che il dominio degli Ostrogoti cominciò nel IV secolo, cioè nel 493; ma questo è il quinto secolo, non il quarto. Senza dubbio l'ha tratta in errore quella voce quattrocento: se per altro penserà che un secolo e di 100 anni e conter� gli anni ad uno ad uno, vedrà che quando arriva a cento il primo secolo è già compiuto; e quando la comincia a dire cento uno, cento due, e così di seguito, siamo gia nel secondo secolo, benchè la dica cento per prima voce: detto di uno è detto degli altri secoli. Mi ha inteso bene? Sì, signore: la cosa è semplicissima, e bastava pensarci un pochino a non farsi canzonare. "La creda che in questo cascano anche di coloro che la pretendono a maestri. Altra cosa che mi ha fatto mal suono è quell' azzardoso, detto di Teodòto. Le voci azzardare, azzardo, azzardoso, non c' è dubbio che sieno state scritte da qualche valente autore; ma questo non fa che non sieno tutte francesi, e non bisognevoli alla nostra lingua, che ne ha parecchie delle buone a significare l' idea medesima: nel caso di Teodòto poteva dirsi, per esempio, audace, avventato, arrischiato o simili. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è quel Teodòto che aveva antipatia alla civiltà qui mi pare eh' ella abbia peccato d' improprietà l' antipatia è passione che nasce spontanea e per prima impressione, e sempre può sostituirsi con la voce aversione scritta con una sola v, perchè viene da averso verbo latino, il quale significa aver orrore o ripugnanza, come appunto fa chi ha antipatia, ecc. Ma Teodòto contrariava la civiltà per suoi fini e per animo perverso, dunque la sua era aversione, era contrarietà, era odiosità, se s' ha a dir così,e non antipatia. E dopo essere stato cheto un pochino, continuò "La vede che queste sono macchie ben leggiere; ma ho voluto notargliele, perchè si avezzi, e lei e queste signorine, a fuggire anche l'ombra dell' errore." La Elisina ringraziò aramente il maestro della lezioncina datale; e la direttrice fece alzare la seconda di età, e a lei assegnò la lezione per la seguente domenica; e poi si partirono tutte liete e festose.

A fuggirlo pertanto studino prima di tutto la grammatica; pongano mente ai tanti modi di congiunzione che essa ci insegna: ai gerundj, ai participj passati, che sono come tanti cavalcavia da proposizione a proposizione, e servono mirabilmente e render sonoro e ben disposto il periodo: ma sopra tutto leggano i buoni scrittori, per veder col fatto come essi abbiano saputo giovarsi di tali ajuti, e con qual arte si governino, per dare a ciascuna idea il luogo che le si conviene secondo l'ordinato procedere nel discorso. Non prima aveva finito il maestro il suo ammaestramento, che la direttrice prese ella a dire: ha detto la signora Olimpia che la Morata partecipò alle nuove dottrine religioso de' Protestanti; e di questo la debbo biasimar forte, non perch' io sia intollerante, ma perchè il mutare religione mi pare troppo brutta cosa; e perchè mossa generalmente, non da un sentimento vero, ma da secondi fini, spesso vili o tristi. La Olimpia lo avrà fatto per avventura, per cagioni e ragioni non al tutto biasimevoli; ma bisogna pure che io noti qui, come i suoi pregi sarebbero stati più onorati e più belli, se non gli avesse oscurati con l'apostasia, la quale in fin de' conti è odiata da tutti, perchè i seguaci della religione che abbandoni ti voglion male o ti dispregiano per la tua tristizia; i seguaci della religione nuova ti disprezzano anch'essi per la viltà dell' abbandono; nè si fidano di te, reputandoti sempre pronto a ripudiare la nuova, come ripudiasti la vecchia.

Pagina 106

La musica, se non è nata in Italia, in Italia ha avuto perfezione: Inglesi, Francesi e Tedeschi hanno travasato nelle lor lingue molta parte del linguaggio musicale nostro, senza che per ciò le loro lingue ne abbiano scapitato nulla. Ma in iscuola torneremo su questa materia basti per oggi l' averla sfiorata."

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Ecco perchè non ci sono donne che abbiano composte istorie da potersi veramente dir tali il che per altro non significa che non ce ne possa essere nel tempo avvenire; e che una di queste non possa essere anche la signora Elisina, sol che voglia barattare le cure gentili e benigne proprie delle donne, con le gravissime e laboriosissime degli uomini, anzi lasciando quasi di esser donna e facendosi uomo." Qui le altre alunne fecero una bella risata; e la signora Elisina, ridendo insieme con esse, protestò di voler rimaner donna coni' era: e così di un piacevole ragionamento in un altro venne l' ora del doversi partire, e partirono.

Pagina 217

To: Non cercheremo, se altre nazioni abbiano improvsatori (divitias miseras!) (ricchezze meschine); il che udiamo da taluno affermarsi. Ma, quantunque certissimi che più d' uno, o due, o tre milioni di abitanti d' Italia ci griderà contro, noi siam fermi a tenere (come sappiamo tenersi dai prudenti Italiani) che niuno onore fa alla nostra nazione l'avere e l'ascoltare improvvisatori... Delirò tanto il secolo XVIII E nel XIX, l' anno di grazia 1858, siam per avventura rinsaviti? Se tu lo credi!, da credere poesia le ciance degli improvvisanti, e non Si vergognò a dar loro la corona del Petrarca e del Tasso... Non è poi stoltissima, e miseranda cosa incoronarsi una Corilla dove fu carcerato e torturato il Galileo? Si tronchi il parlare di questa indegnità, che pur la vergogna intollerabile e l'ira giustissima, suggerirebbero troppo gravi parole. Volete ancora il contentino? ed eccovelo. Mossa domanda che cosa dee far questa turba che, non arrischiandosi d' esser funambola, si fa improvvisatrice; e detto che forzarla a qualche più util mestiere sarebbe forse giusto ma duro, conchiude che potrebbe essa riuscir utile a qualcosa (volendo pur pane da' versi), se imparasse a mente del Tasso, dell' Ariosto, del Metastasio; studiasse di pronunziar bene, e andasse recitando per l' Italia: almeno così metterebbe negli orecchi al volgo povero e al volgo ricco, alquanto di suono italiano: e negli animi popolari entrerebbero sensi italiani, e nutrirebbevisi facoltà di concepire, e forse anche di esprimere, pensieri italiani. Così (e con queste parole finisce il Giordani quel suo bello scritto), così, con guadagno di miglior piacere e con qualche profitto, verrebbe Italia liberandosi da un gran, fastidio e LUDIBRIO degli improvvisatori." "Queste parole ad altri le scotteranno un pochino, e lor saranno, per dirlo con Dante sapor di forte agrume; ma si può egli, chi si metta la mano al petto, farci contradizione che che buona sia? Si intende per altro che valgano, finchè si parla degl' improvvisatori bighelloni e giramondo, i quali avendo ingegno e studio, voglion venderlo così a ritaglio e far il saltimbanco, piuttosto che educarlo a cose grandi e forti: chè una quantità d' improvvisatori apprezziamo noi, e ce ne tenghiamo; e questi sono ciechi da bettole, e tutti coloro che, idioti assolutamente e senz'ombra di lettere, cantano improvviso e compongono versi i quali, salvo la rozza scorza di fuori, fanno vergogna, per le vive immagini e per i pensieri o gaj o gentili, a quegli di certi poeti che vanno per la maggiore. Questi sì che sono da tenersi in pregio e da vantarsene una nazione, come coloro che sono improvvisatori per non poter essere altro, e danno chiaro argomento di che cosa sia capace, naturalmente e senza verun ajuto d' arte e di studio l' ingegno del popolo italiano. Nati dal popolo minuto, sono i poeti; del popolo minuto: spogli di ogni presunzione, di ogni ciarlataneria; cantano a gente pari loro, si scelgono teatro da pari loro, e senza saper di dir cos ebelle, tali le dicono che porgono diletto e maraviglia a chiunque gli ascolta. Dei così fatti abbonda la nostra Toscana, ecc." Tali parole sembrarono a tutte ragionevoli; si volle fare onorevole limitazione per la Corilla, la quale, anche nelle poesie non improvvisate, si era mostrata valente poetessa.

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Perchè non ci sono donne che abbiano scritto!storie famose? pagina 220, 221. EDUCAZIONE femminile. Quale è ottima, pag. 8. De figliuoli in generale. Precetti nobilissimi di Bernardo Tasso, pag. 121, 122. ELLA E LEI perchè si dice anche parlando ad un uomo pag. 166. ENIMMI. Vedi INDOVINELLI. EPOCA per Tempo è falso, pag. 163. EZZELINO. Burla fatta da esso agli accattoni del suo Stato, pag. 190, 191. FAMA. Molti acquistano fama anche senza merito vero; e perchè, pag. 203, 201. Ma dura poco, ivi. FANATIZZARE, FARE FANATISMO. Modi ripresi, pag. 225 e 226. FATTI. Molti fatti gravissimi si giudicano male senza conoscerne le vere cagioni, pag. 103. FELCETTI. Villa presso Pistoja pag. 128 e 129. FLOTTA per Armata. Non bella voce, pag. 23. FONTAINE (La). Sua strana natura, pag. 150. Sua semplicità raccontata, 151. FRANCIA. È la regina della moda, e bisogna rassegnarsi a pigliar da essa anche lo voci di varie foggie variabilissime, pagina 266 e 267. FUSSE per FOSSE. Idiotismo, pag. 89. GERUNDJ sono efficace ajuto allo stile, saputi usare, pag. 108. GIUOCHI d' ingegno descritti Domanda e risposta. Uccellin volò volò, pag. 130 e 131. GLI per A lei, è solecismo, pag. 23, 108, 167. GLIELA, GLIELO, GLIELE si dicono tanto nel mascolino quanto nel femminino pagina 46. IMPROVVISATORI e IMPROVVISATRICI. Se meritano lode o biasimo pag. 238, 242. INDOVINELLI, ENIMMI ecc. Se sieno esercizio utile o no per i giovani? pag. 245 e seg. Esempj di Enimmi o di Indovinelli, pag. 246 e 249. INTRAPRESA. Voce falsa, pagina 94. KAISER. Che cosa vuol dire? pag. 176. LA DI LEI, IL DI LEI. Modi leziosi, pag. 85. LEGGEREZZA. pag. 50 LINGUA. Come dee chiamarsi, Italiana, Toscana o Fiorentina? pag. 85. Non si altera per l'uso di poche voci nuove; ma per altre cagioni, pag. 113. Mescolare, scrivendo, voci e modi antiquati con modi e voci nuove è difetto: ed esempj di ciò, pag. 163. Lo scrivere sconciamente dei più degli scienziati italiani, è gran vituperili della nazione, pag. 198, 199. LINGUAGGIO musicale. La Francia, la Germania e l'Inghilterra lo hanno preso da noi, pag. 113. LO. Lo si dice, lo si fa ecc. Modi strani, pag. 22. LO per Tale. Ripreso, pagina 31 e 45. LUI E LEI per Egli e Ella. Quando si pu� usare, pagina 31. LUISA O LUIGIA. Come è meglio detto? pag. 173 MAESTRO. Quale sia da pregiarsi, pag. 7. MARITO. Come dee condursi la buona moglie col cattivo marito, pag. 53, MEDICO. Arguta risposta di uno di essi, pag. 169. METTERE AD ESECUZIONE. Non troppo elegante, pagina 23. MODA. Con quali regole dee seguitarsi dalle donne, pagina 65 e seg. Considerata come industria è fonte di ricchezza ad una nazione, pag. 266. Il linguaggio della moda è così variabile, che non si può pretendere di ridurlo a pura italianit�, pag. 266. MODESTIA. Il suo eccesso non è lodevole, pag. 100. MODI troppo famigliari o plebei, disdicevoli in grave scrittura; e come si hanno a usare, pag. 48 e seg. MOGLIE. Come dee portarsi col marito cattivo, pag. 53. MUSICA. Nobiltà ed eccellenza di tale arte, pag. 276. NOBILI. I nobili ed i ricchi son tenuti più che gli altri a usare gli uffici di civiltà, pag. 70. NOBILTÀ. Se sia da menarne vanto; e quale sia nobiltà vera, pag. 79 NOME. La conformità di nome con persona famosa può invogliare a cercar fama, pag. 87. NOMI di ufficio si usano mascolini anche parlandosi di donne, pag. 46. NOMI proprj della donna, famigliarmente, si usano con l'articolo. Ma parlando di donne celebri, si può lasciare, pag. 70,71. NOVELLA del Damerino ghiotto, pag. 134, 135. NOVELLA dell'avaro Mignatta, pag. 156, 157. NUORA. Falsità del proverbio Suocera e nuova, ecc. e come la nuora dee portarsi con la suocera, pag. 75, 76. ONDE per Affine di. Ripreso, pag. 86. ONORE. Ho l' Onore di essere, ecc. Modo falso, pagina 86. PAPPÀ e MAMMÀ Vociaccie riprese, pag. 86. PAROLE. Debbono essere adattate ai tempi de' quali si parla, pag. 23. Parole e modi pedanteschi ripresi, pag. 21. Sono da adoperare quelle dell' uso, pag. 22. PEDANTERIA. Che cosa è pag. 19. Peccato più comportabile della licenza, e del neologismo, pag. 23. PERITANZA. Buona cosa, ma l' eccesso è vizioso, pag. 42. PIANO per Proposta, Disegno. Voce falsa, pag. 112. PLAGIO. È cosa, vile farsi bello delle opere altrui, pag. 92. POETA. I veri poeti sono rarissimi; e sono incomportabili i mediocri, pag. 203. Come alcuni di essi acquistano fama, pag. 210. POETA CESAREO. Che cosa vuol dire, e perchè detto così, pag. 175, 176. POETESSE. Se è vero che sieno insopportabili a trattarle; e che abbiano modi svenevoli, pag. 202, 203. Loro difesa, pag. 203. Quelle che sono veramente svenevoli sono derise da'savj, p. 205. POPOLARITÀ nello scrivere. Come si acquista, pag. 32. POPOLO. L'uso del popolo non fa autorità per i solecismi, pag. 233. PRADON, poeta francese; sua stana avventura, pag. 146 e 151. PROGETTO per Proposta, Disegno. Ripreso, pag.96, 112. PROVERBI, Origine del motto: Va come dicea la Cia, 163. QUI e QUIVI. Uso vero di tali particelle, pag. 71. RACINE, Sua pronta risposta a Luigi XIV, pag. 150. RAPPORTO. Avere rapporti con alcune. Modo falso, 45. RICCHI. Vedi Nobili. RIMARCABILE per Notevole, è brutta voce, pag. 226. ROMANZI. La lettura de romanzi è pericolosa alle fanciulle, e perchè, pag. 208. Ritratto di una lettrice di romanzi, pag. 209. Quali romanzi si possono leggere? pag. 210. ROSSI. Nobile famiglia pistojese, pag. 118. Sua villa di Felceti, pag. 128. Cavalier Girolamo de' Rossi, p. 129. SCRITTORE. Chi ama far bene, non è mai contento del proprio lavoro, pag. 19. SCRITTORI ANTICHI. Bisogna studiargli, ma non copiargli, pag. 27, 28. SECOLO. Modo di nominargli secondo il loro numero ordinativo, pag. 11. SGOBBARE. Che significa, ed a chi sta bene? pag. 225. SI FECE, SI DISSE, ecc., per Facemmo e Dicemmo. È ben usato? pag. 31, 33. SOLECISMI. Per essi il popolo non fa autorità pag. 33. SORPRENDENTE per Mirabile. Ripreso, pag. 226. SPOSA. Avvertimenti a una sposa novella, pag. 74,75. STILE. Difetti dello stile, pagine 88, 89. Lo stile è l'uomo; e poco può far di buono chi non è favorito dalla natura, pag. 89. Lo stile spezzato è difettoso; e accorgimenti da fuggirlo, pag. 108, 109. STORICO. Gli storici è difficile che sieno spassionati, pag. 102. STUDIO. Senza studio non si può far cosa buona, p.93. SUOCERA. Vedi NUORA. SVILUPPARSI per Fiorire, Pigliar vigore, ecc. Voce ripresa, pag. 108. TALENTO per Ingegno. Voce falsa, pag. 105. TASSO (Bernardo). Precetti di educazione, pag. 121, 136 TOELETTE, è barbarismo, pagina 23. Voce francese abusata in Italia; e quanto sia stolto l' uso che i Francesi stessi ne fanno in diversi significati: e se la lingua italiana abbia voci belle e buone in suo scambio, pag. 256 e seguenti. USO, Fa legge in opera di lingua; ma non si scambi con l' abuso, pag. 28, 49. VANITÀ femminile. Biasimata, pag. 41. Vanità di andar attorno per istampa, in cerca di lodi, pag. 147. VEDOVA, Lo stato delle vedove è pieno di pericoli e di difficoltà. Come debbono governarsi, pag. 138, 189. VERECONDIA. Buona cosa; ma l'eccesso è vizioso, pag. 41. VIRTÚ. Da valutarsi molto più che la bellezza, pag. 37. Qual è la più difficile virtù nella donna? pag. 133. VOCI e MODI ERRATI. Come governarsi per accettarli o fuggirli, pag. 96, 97. VOCI NUOVE. Non bisogna esser troppo scrupolosi ad accettarle quando significano cose nuove, pag. 112.

Pagina 291

Invece di insuperbire, pensa che hai il gravissimo obbligo di mostrarti degna di abitar quella casa; e di portarti in modo che il suocero e la suocera non abbiano mai a pentirsi di avertici accolta. Con la servitù, e con tutti i sottoposti, porgiti sempre benigna ed affabile; chè se la superbia o l'arroganza sono brutti vizj in ciascuno, nelle persone che salgono di grado sono anche peggiori, e fanno dire alla gente che non c'è razza peggiore di chi si rinobilisce, o per usare la frase popolare un po' sconcia, ma efficace, de' pidocchi riuniti. Fuggi a più potere la conversazione delle donne vane e mormoratrici; e pensa sempre che, siccome le male lingue sono infinite, e mai non istanno in ozio, pensa che un atto o una parola poco misurata, benchè innocente, pu� dar materia ai maligni di comporre favole sul conto tuo, per intaccare il tuo buon nome. Delle conversazioni, delle mode e degli spassi di ogni genere, cerca solamente quel tanto che piacerà a tuo marito. Si dice che la moglie è soggetta al marito, ed è vero e dev'essere; ma questa non è vera e propria soggezione, è un amorevole scambio di concessioni: perchè quando il marito vede la moglie seguitare con allegro animo ogni suo onesto desiderio, studiarsi di non dargli dispiaceri, ed essere amante del suo onore; credi, Luisina mia, che allora il marito diventa più soggetto alla moglie che ella non è a lui; e non ch'egli secondi i suoi desiderii onesti, si studia anche d' indovinare quelli che tace. Il tuo sposo è buono, ed è fiore di gentilezza; ma un solo Dio senza difetti; e potrebbe benissimo averne anch' egli: in questo caso, bambina mia, mi raccomando che tu gli sappia compatire, nè tu pretenda di correggerli, o te ne mostri meno amorosa verso di lui; la tua bontà, credilo, gli correggerà da sè a poco a poco: ed egli sarà più indulgente verso i tuoi. Non mostrare vani sospetti della fede di tuo marito: non pretendere d' ingerirti troppo delle facende sue, mostrandoti o troppo curiosa, o sospettosa: ed allora credilo, sarà il primo egli stesso a dirti ogni minima cosa, ed ogni più intimo suo pensiero. Il padre e la madre del tuo marito ama e rispetta come il babbo e la mamma tua. Il proverbio che dice: Suocera e nuora Tempesta e gragnuola non vuol significare altro che il mal costume della gente di animo guasto e corrotto, priva di ogni buon principio d' educazione. La donna che ama il marito, e che desidera di essere amata da lui, come può malvolere la madre di esso senza dargli il più amaro dispiacere? E se la moglie dà continui dispiaceri al marito, come potrà egli volerle bene? E cessata la lettura, continuò: "Che dicono queste signorine dei consigli dati alla Luisina dalla. sua mamma?"Fanfani, Una bambola, cap. 20. Le signorine dissero tutte d'accordo: Bene, ottimamente! e, dopo alquanti ragionamenti sopra questa materia, andarono ciascuna alle loro case; continuandogli parecchie di esse con la persona che soleva accompagnarle e ricondurle da scuola.

Pagina 72

Qui si udì come qualche suono di riso tra le fanciulle; e la direttrice non fu tarda a continuare: "Non vo' mica dire con questo che anche loro abbiano a filare la lana; ma vo' dire che a niuna donna, anche nobilissima, si disdicono i lavori muliebri, e che anzi meritano lodi altissime quelle che non se ne vergognano, e volentieri gli esercitano."

Pagina 77

C'era una volta...

218537
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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Pochi autori, aspettando dietro le quinte la sentenza del pubblico, credo abbiano tremato al pari di me nel vedermi davanti quelle vispe ed intelligenti testoline che pendevano dalle mie labbra, mentre io tentavo di balbettare per loro il linguaggio così semplice, così efficace, così drammatico, che è l' eccellenza naturale della forma artistica delle fiabe. Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non solamente come un libro destinato ai bambini; ma anche come opera d' arte. Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che Io han prodotto. Senza di esse non mi sarebbe passato mai pel capo di mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell' arte moderna. Rivedendo le bozze di stampa ho sentito un po' dì rimorso. Non commettevo forse un' indegnità chiamando il pubblico a parte di quella mia deliziosa allucinazione che io non posso mai rammentare senza commozione e senza rimpianto? Allora ben mi stia, se le Fate che vennero ad aleggiare tra le bianche pareti del mio studio mentre il sole di gennaio lo scaldava col tepore dei suoi raggi, mentre i passeri picchiavano famigliarmente col becco all'imposta chiusa della finestra e i miei cari diavoletti non osavan rifiatare avvertendo la presenza delle Dee; ben mi stia, se le Fate, per dispetto, abbandoneranno ora il mio libro alla severa giustizia della critica! Roma, 22 giugno 1882. LUIGI CAPUANA. Avvertenza. — Ho usato i vocaboli Reuccio e Reginotta secondo il significato che essi hanno nel dialetto siciliano e unicamente nel linguaggio delle fiabe, cioè invece di principe reale e di principessa reale. Reuccio trovasi nelle lettere del Sassetti per Re di piccola potenza.

Pagina Prefazione

Al tempo dei tempi

219472
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la

C'era due volte il barone Lamberto

219698
Gianni Rodari 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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. — Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo a servire dei rinfreschi. — Ma cosa le salta in mente? — Dove va? Venga qua! — Fermate l'impostore! Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole sposare? — Come ha detto, scusi? — Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso, mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi. Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per sempre felici e contenti. La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si permettono di scherzarci sopra: — A quando i confetti? — Viva la signora baronessa! — Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi, non ho ancora detto la mia opinione. — Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo sarà il piú bel giorno della mia vita. — Invece dico di no. Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino maleducazione, rispondere di no a un signore cosí perbene!» — È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse», oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche speranza. Mi dica almeno «ni». — Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri. — E il primo qual è? — domanda il signor Armando. — Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una spiegazione. — Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto. — Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per assoluta mancanza di spazio). — L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto... Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí, di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione. Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono: cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio. Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette». Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello, che i direttori di banca si chinano a raccogliere per mettersi in vista. — Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti? — A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua. — Certo. — E senza nemmeno essere dottori, — prosegue Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo mantenuto in vita questo gran signore con la nostra voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere perché. A proposito, un disco o un nastro registrato, non avrebbero ottenuto lo stesso effetto? — No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto qualche esperimento, ma non funzionava. — Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo, senza nemmeno sospettarlo... — Già, — esclama il signor Armando, sorpreso, avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio. — Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito, — avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo avessimo chiesto? — Si capisce, — ammette il barone, — anche due. — Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito, — allora, in un certo senso, siamo stati... truffati. — Macché truffati! — esplode il direttore della banca di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti che roba! — La manodopera, — commenta il direttore della banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose. — Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú. — Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno di voi come prima, a qualunque prezzo. — No, signor barone! — grida dal fondo delle scale uno dei segretari. — Questo no! — Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto, lei! Faccia silenzio! Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per schiacciarlo con il loro peso. — Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino dire... Venga su, lei, parli apertamente. — Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo, — lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo veruno e non accenna minimamente ad invecchiare. — È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor barone! — È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo, i ventiquattro direttori di banca. Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta decisiva. — Anselmo, — dice il barone, — controlliamo. Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso, dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La circolazione dei reticolociti è in aumento. — Interessante, — mormora il barone, — interessante. Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai? — Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato, signor barone! La sua vita di prima, quella che era appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di nessuno! Di nessuno! — Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne direste di Osvaldo? — Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il piccolo segretario. — Perché? — Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi... e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato. — Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente. Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una promozione. Dunque, mi pare che a questo punto possiamo sciogliere l'assemblea. — E noi? — domanda la signora Merlo. — Siamo licenziati? — domanda il signor Armando. — Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor Bergamini. I ventiquattro direttori di banca protestano in coro: — Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire? Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno... — Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque. — Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro segretari. — Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per battere il ferro finché è caldo. Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi. Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio. Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità. Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il quale passa maestosamente una nuvola bianca. — D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone. — Le sue camomille sono piú profumate delle rose di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui, vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli qualche cosa... — Piú che giusto, — approva il direttore della banca di Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro o d'argento. — Un servizio da caffè, — propone un altro direttore. — Un orologio a cucú. — Un portachiavi a forma di isola di San Giulio. — Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina. — Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete pronti? E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni, Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto... Lamberto... Lamberto... «Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati. Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti. Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta. — Lamberto Lamberto Lamberto... Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati che stiano litigando a colpi di scioglilingua. — Lambertolambertolambertolam... Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati, il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire, ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe partecipare ai Giochi Universitari, un attor giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea a quella della maturità classica. E non si ferma, perché Delfina e compagni non si fermano, non cessano di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice: — Lambertolambertolambertolamberto... Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo, attraversando all'indietro l'età della crescita. — Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo, atterrito. I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma non trovano parole da far uscire. Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà: i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà quindici anni... — Lambertolambertolambertolamber... — Basta, per carità! Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca la faccia... Adesso avrà, sí e no, tredici anni... E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma torna quasi subito, portando un bel vestitino con i calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito? Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento..., anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga... Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi... È il segretario di nome Renato che si dispera. — Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor barone. Ahimè, la mia carriera è finita! — Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera. — Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato. — In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di verificarla. — Ma è vero o no che il barone stava bene senza che piú nessuno pronunciasse il suo nome? — Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche vedere che cosa sarebbe successo introducendo nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e distinto? — Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi? — No, naturalmente. — Perché? — Perché no. — Ah, capisco... Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda i presenti come se non li avesse mai visti. Vede Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino. — Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma? — Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre attaccarsi a me per stare in piedi? Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in quel momento il direttore generale della banca di Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone... Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere il pubblico. Gireremo un film pubblicitario per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla». Le va l'idea? Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde: — Manco per niente! Il mio tutore sarà Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio studiare... Voglio fare... La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride apertamente, allegramente. Si mette perfino a saltellare intorno per la stanza. — Voglio diventare un artista del circo equestre. È sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una vita per realizzarlo. — Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa. — La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, — sentenzia il direttore della banca di Singapore. — Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, — gli risponde Lamberto. — Bravo! — grida la signora Merlo. I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e mostrare la lingua al signore di Singapore. — Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio, il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò foche, cani, pulci e dromedari... Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del regalo che ha pensato per lui. Proprio in quel momento il signor Giacomini, che per non restare con le mani in mano aveva lanciato l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti. — Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo, — che questo era un lago morto? Anselmo, prepari la padella per il fritto. E chi parla male del Cusio l'avrà da fare con me.

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