Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

169027
De Amicis, Edmondo 2 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
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Valli dopo valli, monti dietro monti, e sempre quello stesso spettacolo d'un bel paese che gli uomini abbiano abbandonato per effetto d'una maledizione misteriosa. E avrebbe la sua bellezza e il suo incanto anche quello spettacolo se parlasse agli occhi soltanto; ma esso dice all'animo nostro una cosa troppo triste perché la nostra immagine vi si possa compiacere con quel vago senso di riposo e d'abbandono che suol provare nelle grandi soliditudini. E quella cosa è espressa in una parola antica e pur troppo sempre viva, che riassume mille mali nell'enunciato d'un problema formidabile: il latifondo, la gran piaga incancrenita della isola. Il latifondo, che vuol dire la campagna senza case coloniche e senz'alberi, e i contadini costretti a vivere nei grandi centri, dove son sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere esenti, e donde debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro; il latifondo che favorisce il furto campestre, l'abigeato, il malandrinaggio, il brigantaggio, e crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande proprietario assente e il lavoratore abbandonato a sé stesso; il latifondo, funesta espressione economica, che, come disse un illustre statista siciliano, filtrandosi, spiritualizzandosi per lungo abito di servaggio nelle menti, nel costume, nella vita intima, separò le classi, le fortune, gli animi, e mettendo in opposizione gl'interessi dei signori con quelli del popolo, e mantenendo questo nell'ignoranza, riduce la maggioranza lavoratrice in condizioni di minoranza legale di fronte ai suoi oppressori, prevalenti nelle Provincie, nei municipi, in tutte le rappresentanze pubbliche, e quindi padroni d'ogni cosa, tiranneggianti a loro beneplacito e perpetuatori della miseria. Voilà l'ennemi! come disse Gambetta. E i quarantasei anni trascorsi dopo l'unificazione d'Italia non l'hanno punto smosso dalle sue fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non fece per contro che favorirlo, poiché di quei beni s'impinguarono la borghesia e l'aristocrazia, creando un nuovo feudalismo terriero in aggiunta all'antico, abolito soltanto di nome nel 1812. Il tentativo di riforma fatto dal Crispi si spezzò contro un'opposizione minacciosa dei grandi interessati, veri sovrani dell'isola. Nessun'altro uomo di Stato ebbe poi il coraggio di ritentare la prova. Prima cura d'ogni Governo è di reggersi in piedi, e per reggersi hanno tutti bisogno d'essere sorretti dai potenti. E le cose non muteranno fin che non siano diventati potenti i deboli, fin che il numero non sia anche la forza. Ma quando sarà mai, se la forza non è possibile senza la concordia, e la concordia è tanto difficile nell'ignoranza, e riesce tanto facile ai padroni seminar la divisione fra i servi? Ma ecco uno spettacolo che rompe come per magìa il torso dei pensieri malinconici. Lontano, nel cielo sereno, un'enorme piramide azzurra s'inalza, solitaria, stendendo così largamente i suoi fianchi da parere che ricopra una provincia intera; una montagna che dà l'immagine d'un mondo; un prodigio di bellezza e di maestà, che vi fa aprire la bocca come per lanciare un grido d'ammirazione. Una nuvola bianca la corona; un manto candido veste la sua sommità e si rompe più sotto in una quantità di strisce simmetriche scintillanti che somigliano alle frangie di un immenso velo di trina ingemmato; in giro alle sue falde si stendono vaste macchie bianche, che paiono strati di neve, e grandi macchie oscure, che sembrano ombre dense proiettate da nuvole invisibili. E via via che il treno le si avvicina, la montagna par che si dilati e imbellisca: le macchie bianche sono città e villaggi, le macchie oscure sono boschi, aranceti e vigneti; da ogni parte sorgono ville, fioriscono giardini, s'aprono strade, corrono acque, sorride la fecondità, splende la vita. Che maravigliosa sorpresa e che gioia dopo quel lungo viaggio a traverso ai latifondi disabitati e alla triste regione zolfifera! - Ecco l'Etna! - mi dice un Catanese, mio compagno di viaggio -; ecco la nostra gran madre benefica e sovrana tremenda!

O cari fanciulli del popolo, operai, studenti, buoni amici sconosciuti d'ogni età e d'ogni ceto, ospiti affettuosi e giocondi, come egli ha ben capito e sentito la gentilezza del vostro intento, e che profonda gratitudine ve ne serberà in cuore fin che gli anni e l'infermità non gli abbiano spento l'ultimo barlume di memoria delle giornate luminose e felici che ha trascorse sotto la bellezza incantevole del vostro cielo e in mezzo alle vestigia gloriose della vostra storia!

Pagina 140

La fatica

169128
Mosso, Angelo 11 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Come i granduchi della Toscana abbiano fatto progredire le scienze. L'Universita di Pisa. - VI. Cenni biografici su Stenone. La santità dei suoi costumi. La sua morte. CAPITOLO TERZO. Di dove provenga la forza dei muscoli e del cervello. (Pag. 53 a 77). I. La legge della conservazione dell' energia. Ermanno Helmholtz e R. Mayer. - II. Le piante e gli animali. - III. Le varie dottrine sulla natura dell' anima. L' indirizzo moderno della fisiologia. - IV. La trasformazione dell'energia nella vita. - V. I processi chimici nell' attivita cerebrale. Esperienze su Bertino per mostrare gli effetti dell' anemia cerebrale. CAPITOLO QUARTO. Caratteri generali e particolari della fatica. (Pag. 78 a 106). I. La velocità di propagazione dell' eccitamento nervoso. Miografi. - II. Modificazioni delle contrazioni muscolari per effetto della fatica. - III. Esperienze di H. Kronecker e le leggi della fatica. - IV. Ergografo. - V. Varî tipi della fatica muscolare scritti coll'ergografo. Professor V. Aducco. Dottor Maggiora. Dottor Patrizi. Influenza dell'allenamento. - VI. Esame del modo col quale funziona l'ergografo. Trac- ciati della fatica muscolare scritti senza partecipazione della volontà, irritando direttamente i muscoli od i nervi nell'uomo. CAPITOLO QUINTO. Le sostanze che vengono prodotte nell' affaticarsi. (Fag. 107 a 133). I. Le scoperte di Lavoisier e di Spallanzani sulla respirazione. La fatica non dipende esclusivamente dalla mancanza di qualche cosa nel muscolo che ha lavorato. Esperienze colla lavatura dei muscoli. - II. L'affanno del respiro. Le rane possono muoversi anche quando si leva loro il sangue. Frequenza maggiore dei movimenti respiratori nelle anguille in seguito ai movimenti muscolari. Respirazione periodica. - III. Perchè la respirazione diventi più attiva in seguito al lavoro dei muscoli. Ch. Richet. Raffreddamento del corpo per l'attività maggiore della respirazione. - IV Mutamenti che si producono nella sostanza del muscolo che lavora. I veleni che hanno origine nel nostro corpo. - V Il sangue di un animale affaticato contiene delle sostanze nocive. Differenze tra gli uomini nella resistenza alla fatica intellettuale. La debolezza del cervello. - VI. I neurastenici. L'Aprosexia. La pazzia circolare. CAPITOLO SESTO. La contrattura e la rigidezza dei muscoli. (Pag. 134 a 155). I. La contrattura. Il torcicollo reumatico. Il crampo degli scrivani. La catalessi. - II. Esperienze nell'uomo sulla contrattura. Analisi di questo fenomeno. III. La debolezza della vista. Crampo di accomodamento. Cause della miopia nelle scuole. - IV Malattia di Thomsen. - V La rigidità cadaverica. W. Kühne. La rigidità del cuore. - VI. Paragone fra la contrazione normale dei muscoli e la rigidità cadaverica. Rossbach. La rigidità improvvisa nei soldati morti nelle battaglie del 1870. CAPITOLO SETTIMO. La legge dell'esaurimento. (Pag. 156 a 183). I. Il lavoro compiuto da un muscolo stanco gli nuoce di più che un lavoro maggiore compiuto in condizioni normali. - II. La fatica come sensazione interna. Diminuzione della sensibilità nella fatica. - III. Ricerchedel professor L. Pagliani sulla differenza di sviluppo tra i ragazzi poveri ed i ricchi. I coscritti di Caltanisetta sono riformati per deficiente statura in causa all' esaurimento prodotto dall' eccessivo lavoro. L'interno della Sicilia. - IV I carusi. Pasquale Villari e la questione sociale. Gli orrori delle solfare. - V. L'industria moderna. - VI. Il macchinismo. Il socialsmo. Miglioramenti nelle condizioni del proletario. Nobilitazion della fatica. CAPITOLO OTTAVO. L' attenzione e le sue condizioni fisiche. (Pag. 184 a 217). I. Differenza nella forza dell' attenzione fra le scimmie. L'attenzione secondo Fechner. - II. Mutamenti che succedono nel respiro dell' uomo per effetto dell' attenzione.- III.Periodi di attività maggiore o minore nelle funzioni del cervello. Questi periodi non dipendono dal respiro. Oscillazioni successive. Oscuramenti periodici della vista. - IV Ipnotismo ed estasi. Affreschi del Sodoma che rappresentano santa Caterina a Siena. - V. Natura dell'attenzione. Meccanismo col quale si desta questa funzione. - VI. Non dipende unicamente dall' afflusso più copioso di sangue al cervello. - VII. Materialità del processo organico dal quale dipende l' attenzione. Il nervosismo moderno ha prodotto le conferenze umoristiche e le opere buffe. Debolezza della memoria nella fatica. - VIII. Tempo della reazione fisiologica. La fatica allunga il tempo della percezione. S. Exner. - IX. Differenze tra i popoli settentrionali e i meridionali La razza latina e più agile. CAPITOLO NONO. La fatica intellettuale. (Pag. 218 a 250). I. La memoria. La natura della coscienza. Wundt. II. L'immaginazione. La scelta delle immagini. Münsterberg. - III. Insensibilità degli organi interni. perchè non possiamo misurare nè esprimere le sensazioni e i sentimenti. - IV Differenze fra i varii nomini riguardo al sistema nervoso e al cervello. - V. I fenomeni caratteristici della fatica intellettuale. - VI. Disturbi nelle funzioni digerenti. Effetti della fatica. Male di capo. Stanchezza degli occhi. - VII: Göthe. Il suo libro sui colori. Studi del Göthe sulla fatica degli occhi. - VIII. Le immagini successive, e le immagini della memoria. Fechner. - IX. Inizio delle allucinazioni nella fatica intellettuale. I fenomeni di eccitamento. - X. La debolezza del cervello. Cambiamenti nel carattere per effetto della fatica. Lo stato di depressione. CAPITOLO DECIMO. Le lezioni e gli esami (Pag. 251 a 304). I. Note sulle emozioni di chi parla in pubblico. II. Esperienze coll'ergografo fatte dal prof. Aducco prima e dopo la sua prolusione nell'Università di Siena. - III. Tracciati del dottor Maggiora. - IV. La fatica prodotta dagli stati psichici intellettuali, e la fatica prodotta dagli stati psichici emozionali. Aumento della temperatura del corpo nel far lezione. - V. Vari modi di far lezione. - VI. La disposizione. Gli appunti per far lezione. L'improvvisare. - VII. Le lezioni troppo lunghe. - VIII. Mutamenti che succedono nell' organismo di chi fa lezione. - IX. Gli insegnanti nelle scuole militari. - X. Gli esami e gli esaminatori. - XI. Esperienze fatte dal dottor Maggiora nel 1889. La diminuzione della forza muscolare durante la sessione degli esami. - XII. Edmondo De Amicis. Effetti della stanchezza intellettuale. - XIII. Nuova serie di esperienze fatta durante gli esami nel 1890 dal dott. Maggiora. - XIV. Perchè diminuisca la forza dei muscoli nella fatica del cervello. I salmoni. La morte per fame. - XV Tracciati della fatica scritti dal prof. Aducco durante gli esami. Come in alcuni per la fatica intellettuale si produca un periodo di eccitazione più lungo che in altri. In tutti si osserva una debolezza dei muscoli quando si prolunga la fatica intellettuale. Esperienze col cloroformio. CAPITOLO UNDECIMO. I metodi del lavoro intellettuale. (Pag. 305 a 329). I. Qualità mentali di Carlo Darwin. Suoi metodi di lavorare. - II. Le differenze che si osservano nelle funzioni del sistema nervoso al mattino ed alla sera. Variazioni diurne della forza muscolare. - III. Fisiologia della eccitazione cerebrale. Dottrina chimica della eccitazione per effetto del lavoro. - IV. Azione della febbre sull'attivita cerebrale. Come la debolezza possa divenire causa di eccitazione. Il risvegliarsi della mente che precede la morte. - V Il lavoro notturno. Azione delle tenebre e della luce. Giovanni Müller e Jac. Moleschott. Teoria dell' umore secondo Stricker. - VI. Varii metodi di comporre e di scrivere. - VII. Genio e fatica. Raffaello. Newton. Göthe. Legame del pensiero colla parola. Flaubert, Alfieri. Modo col quale Balzac scrisse i suoi libri. CAPITOLO DODICESIMO. Lo strapazzo del cervello. (Pag. 330 a 351). I. Giacomo Leopardi. Alessandro Humboldt. - II. Lo strapazzo del cervello nelle scuole. Axel Key. Dati statistici. Esperienze fatte. - III. I danni e i vantaggi del lavoro intellettuale. Beard e il nervosismo moderno. Rousseau. - IV Lo strapazzo del cervello negli artisti. Duprè. Statistica della pazzia. I politicanti americani. - V Cavour. Sella. Lettere e confidenze di ministri sullo strapazzo del cervello. Fenomeni della stanchezza intellettuale nei deputati. Esempi e studi dal vero.

Cerchiamo ora di conoscere alcune delle trasformazioni più importanti che succedono nei muscoli, e vedremo dopo se nei centri nervosi vi siano dei mutamenti che abbiano qualche rassomiglianza con quanto succede nei muscoli per effetto della loro funzione. Nel riposo i muscoli flessori delle dita hanno la prevalenza. Bisogna fare uno sforzo coi muscoli estensori, per vincere la flessione naturale delle dita nel riposo. Una contrazione troppo forte del muscolo, od un eccessivo lavoro, non permettono più al muscolo di rilasciarsi completamente, e a questo stato di tensione anormale del muscolo, venue dato il nome di contrattura. Quando uno afferra la sbarra del trapezio, e solleva alcune volte il peso del suo corpo colla forza delle braccia, oppure quando uno fa una buona remata, se dopo finito lo sforzo lascia cadere le braccia lungo il corpo, si accorgerà che le mani stanno impugnate. Uno degli esempi più comuni della contrattura, è il torcicollo reumatico. Quando per una causa qualunque il muscolo sternocleidomastoideo entra in contrazione persistente, non possiamo più tener bene dritto il collo. Il mento si volge dalla parte opposta e si alza leggermente, per cui la testa rimane piegata verso la spalla. Toccando, si sente che da questo lato vi è nel collo un muscolo teso che siamo incapaci di far rilasciare colla volontà. Vi sono delle persone molto eccitabili che dopo essersi affaticate nello scrivere, sentono un'estrema stanchezza nella mano. I movimenti delle dita riescono dolorosi e meno sicuri. La difficoltà cresce quando queste persone sanno di essere osservate, e mettono maggior attenzione nello scrivere. Il carattere si altera profondamente, e in alcune si fa quasi indecifrabile. Se si tratta di impiegati che debbono scrivere molto, la malattia fa dei progressi rapidissimi: dopo un' ora o due di lavoro devono smettere, perchè la mano trema e le dita sono quasi irrigidite. Appena cessano di scrivere, la mano ed il braccio non presentano più alcuna irregolarità nei loro movimenti, ma persiste il dolore. Tale malattia conosciuta col nome di crampo degli scrivani, è abbastanza frequente. Il sintomo più caratteristico è una grande stanchezza che si sente nella mano, ed una difficoltà nei movimenti, limitata al pollice, all'indice e al dito medio. In alcune persone basta lo scrivere poche righe per stancare la mano; esse debbono smettere non solo perchè la scrittura si cambia, e si fa inintelligibile, ma anche per il dolore, il formicolio e il senso di tensione che provano nei muscoli della mano. Il crampo dei muscoli quando si mostra nei suonatori di piano o di violino li obbliga pure al riposo. Generalmente queste sono persone ipocondriache, un po' isteriche o nervose, che abusano dell'attivita dei muscoli, e sono talmente eccitabili che basta un lavoro di pochi minuti per far produrre in esse la contrattura. Vi sono dei nuotatori abilissimi che non osano allontanarsi dalla spiaggia del mare, perchè temono i crampi alle polpe. Tutti abbiamo provato la molestia che danno questi crampi, quando compaiono improvvisamente la notte mentre dormiamo. Di solito si producono in seguito ad una contrazione dei muscoli, ma nelle persone molto nervose succedono anche mentre le gambe stanno immobili. Toccando la gamba si riconosce quale sia il muscolo che rimane contratto, e malgrado ogni sforzo della volontà, non possiamo rilasciarlo e il dolore può durare parecchio tempo. Nelle donne isteriche la contrattura è frequente: e il medico l'osserva anche in alcune malattie del midollo spinale. Questo prova che la contrattura è un fenomeno dipendente dal sistema nervoso, ma può anche essere locale. Vi sono delle persone isteriche nelle quali basta comprimere leggermente un muscolo, perchè entri in contrattura e non possano più rilasciarlo così che si può produrre un torcicollo artificiale, strisciando leggermente o anche solo col toccare il muscolo sternoeleidomastoideo. Nell' ipnotismo si vede bene qualche volta comparire nei muscoli uno stato che venne descritto col nome di flessibilità cerea. Le dita, le braccia, i muscoli del tronco e del collo, le gambe, mantengono senza, resistenza la posizione che loro vien data, come se la persona fosse fatta di cera. Questa condizione particolare dei muscoli è pure conosciuta col nome di catalessi, e comparisce più specialmente nell' ipnotismo, tanto che alcuni autori vollero chiamarlo catalessia sperintentale. Toccando i muscoli della faccia o anche quelli degli occhi, si producono delle contratture e delle smorfie che possono durare parecchie ore. Qualche volta la contrattura diviene una malattia grave, e vi sono delle isteriche nelle quali le estremità rimangono fisse in certe posizioni senza, che si possano più rilasciare. Solo per mezzo del cloroformio si rilasciano i muscoli, ma la contrattura, appena cessa l' azione dell' anestetico, torna a riprodursi. Certe donne che hanno un braccio piegato, e che malgrado ogni sforzo della volontà non possono distenderlo, quando si svegliano lo trovano in un'altra posizione, ma sempre contratto e rigido, perchè durante il loro sonno coll'uso del cloroformio gli fu variato di posizione, ed esse di nulla si accorsero. Questa è la contrattura spastica, come la si vede qualche volta anche nel sonnambulismo e può durare pochi minuti, alcune ore, e anche dei giorni. La patologia della contrattura fu studiata specialmente da Charcot, che scrisse delle pagine da grande maestro su questo argomento, nei suoi trattati delle malattie nervose, e ci ha riprodotte colla fotografia delle immagini raccapriccianti di questi ammalati.

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Questo non dipende da ciò che gli insetti più piccoli abbiano relativamente i muscoli più voluminosi, ma perchè questi hanno una energia muscolare maggiore. Una formica porta un peso ventitrè volte maggiore del suo corpo. In nessun animale la contrazione dei muscoli è tanto rapida e frequente quanto negli insetti. Noi ci accorgiamo della grande differenza che passa tra gli insetti, nel loro modo di volare, quando li sentiamo passar vicini all'orecchio. Le farfalle che battono lentamente le ali non fanno rumore; e vi sono anche gli uccelli che volano insidiosamente senza che si facciano sentire. Il ritmo dei battiti delle ali è una delle cose più importanti nello studio del moto, e ad esso i fisiologi hanno rivolto la loro attenzione, per conoscere quante volte un muscolo è capace di contrarsi e di rilasciarsi in un minuto secondo. Il suono acutissimo che mandano le zanzare è dovuto ai movimenti che fanno le ali volando. Si determinò la frequenza di queste contrazioni, paragonando i suoni che i vari insetti producono nel volo colle vibrazioni che producono le note musicali. Così sappiamo che le api comuni producono un suono come il la, ossia 440 vibrazioni al secondo. Poi vi sono delle differenze tra il maschio e la femmina. Nel Bombus terrestris il maschio, che è piccolo, produce un ronzio in la, mentre la femmina, che è più grossa, produce un'ottava superiore.LUBBOCK, Les sens et l'istinct chez les animaux, 1890; pag. 68. La mosca dà, un fa, ossia eseguisce 335 battiti per secondo. Marey ottenne la prova grafica di questi calcoli. Noi sappiamo che, quando si prende una mosca per le gambe, essa batte le ali egualmente. Marey avvicinava una mosca tenuta a questo modo fino al punto che le ali toccassero un cilindro affumicato che girava rapidissimamente. In questo modo ciascun colpo lasciava una traccia leggera, levando il fumo. Conoscendo la velocità colla quale gira la carta, perchè un diapason vibrante venne dopo avvicinato al cilindro, si vide che la mosca batte in ogni secondo 330 volte le ali. Le api, che furono meglio studiate, ci dànno un esempio convincentissimo che esse cambiano andatura come l' uomo, secondo le emozioni che le agitano. È una nota piu acuta che mandano quando si stuzzicano e volano concitate. L'ape tranquilla, che va in cerca di miele sui fiori, nel suo volo produce un la, e quando la sera arriva stanca all'alveare, il ronzìo che manda fa un suono più basso, cioè un sol; come noi che dopo una lunga marca camminiamo con passi più lenti.

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Io ritengo come molto probabile che le prime contrazioni che eseguisce un muscolo bene riposato, abbiano una natura differente dalle contrazioni che eseguisce un muscolo affaticato. La fisiologia del muscolo in riposo è per me affatto diversa da quella del muscolo stanco. Infatti non vediamo che, passato il fenomeno della contrattura, nel principio di una serie di contrazioni, quelle che vengono dopo, se non sopraggiunge troppo presto la fatica, si rassomiglieranno molto più fra di loro che non rassomiglino alle prime. Certo qui si tratta di fenomeni complessi. Il muscolo che lavora modifica rapidamente la sua eccitabilità. Sembra strano di ammettere che nel muscolo che incomincia a lavorare, dopo un lungo riposo, si produca subito una manifestazione di fatica obbedendo ad una eccitazione nervosa troppo forte; e che questa fatica perduri, mentre che le contrazioni aumentano di altezza, ma io non vedo altra interpretazione che sia più logica.

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Chiunque abbia fatto un’ ascensione sopra una montagna si sarà accorto che l'ultima parte della salita per toccare la vetta, costa uno sforzo assai maggiore che non abbiano costato altri passi più difficili, quando si era meno stanchi. Il nostro corpo non è fatto come una locomotiva che consuma la stessa quantità di carbone per ogni chilogrammetro di lavoro. In noi, quando il corpo è stanco, una quantità anche piccola di lavoro meccanico produce degli effetti disastrosi. La ragione l'ho già accennata nel precedente capitolo, ed è che le prime contrazioni, il muscolo le fa consumando sostanze differenti da quelle che consumerà in ultimo quando è stanco. Per servirmi di un esempio dirò che anche per il digiuno nel primo giorno si consumano dei materiali che abbiamo nel corpo, i quali sono diversi da quelli che spremeremo per così dire dai nostri tessuti negli ultimi giorni della inanizione. Ho detto che il nostro corpo risente un danno maggiore per il lavoro che fa quando è già stanco. Una delle ragioni di questo fatto è che un muscolo avendo consumata nel lavoro normale tutta l'energia della quale poteva disporre, si trova obbligato per un soprappiù di lavoro ad intaccare per così dire, altre provvigioni di forza che teneva in riserbo; ed a far questo occorre che il sistema nervoso lo aiuti con una maggiore intensità dell'azione nervosa. Ma quantunque lo sforzo nervoso sia più cospicuo, il muscolo stanco si contrae debolmente. Quando solleviamo un peso vi sono due parti che si affaticano: l'una è centrale, puramente nervosa, cioè la parte impulsiva della volontà, l'altra è periferica, ed è il lavoro chimico che si trasforma in lavoro meccanico dentro alle fibre muscolari. Kronecker aveva già detto che il peso non stanca ma che l'eccitamento stanca. Ho voluto provare se questa legge trovata nelle rane è pure vera per l'uomo. Adattai all' ergografo una vite, V (fig. 5. capitolo IV). Girando questa vite che passa dall'altra parte del montante I fra le due sbarre d' acciaio, nelle quail si move il corsoio N, si dà al peso un punto di appoggio più vicino alla mano: e il dito medio viene esonerato dal peso nel principio della sua contrazione. Se mentre il muscolo si contrae per fare un tracciato della fatica, noi giriamo avanti la vite V dell' ergografo, possiamo far sì che il dito lavorando, prenda il peso ad altezze successivamente minori. Scaricandolo a questo modo del peso, vediamo che nel principio quando il muscolo è riposato non si accorge della differenza. Il muscolo pare dunque indifferente al peso che solleva quando è nella pienezza delle sue forze. Una volta dato l'ordine al muscolo di contrarsi, questo produce il massimo del suo raccorciamento sia che il peso debba sollevarlo per tutta la contrazione, o solo durante una parte della medesima. In questa prima parte delle mie esperienze venne confermato quanto Kronecker aveva osservato nelle rane. Quando l' energia del muscolo è diminuita per effetto della fatica, il muscolo sente un beneficio se lo si scarica, dandogli un appoggio che lo liberi da una parte del peso. Chi dopo essersi affaticato solleva con stento 50 chilogrammi, troverà che uno di più è troppo pesante. Ma se non è stanco e ne solleva 80 o 100, uno o due di più oltre il cinquantesimo passano inavvertiti. Avremo occasione di esaminare meglio questo fatto, intanto possiamo, da quanto ho detto, paragonare i movimenti alle sensazioni. Vediamo ripetersi qui ciò che tutti abbiamo provato in un concerto, dove non ci accorgiamo se nell'orchestra vi sono 35 o 40 violini. Entrando in una sala sfarzosamente illuminata, non ci accorgiamo se le candele accese solo 90 o 100, ma quando non vi sono più che due candele accese, o due violini che suonano, ci accorgiamo subito se uno cessa di suonare o l'altra di splendere. Così noi intravediamo una prima legge della fatica e delle sensazioni, che cioè l'intensita loro non è del tutto proporzionale all'intensità della causa esteriore che le provoca.

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Nelle fabbriche, negli opifici, le macchine diventano sempre più poderose, e gli organi dei vari congegni prendono dimensioni sempre maggiori, va crescendo la velocità del loro moto e la produttività del loro esercizio; e per quanto abbiano già superato quel limite che poteva prima immaginarsi, continuano a crescere ancora. Le mazze più pesanti che si fossero adoperate fin dal principio del secolo, sono quelle che anche oggi battono sopra l'incudine dei fabbri, e il maglio di ferro attaccato al lungo manico pesa circa dieci chilogrammi. Solamente in qualche fucina si vedevano mossi dall' acqua dei magli di 5000 chilogrammi. Adesso nelle fucine di Terni un martello pesa centomila chilogrammi, ed ogni suo colpo corrisponde alla forza di diecimila uomini; ma esso cade dall'altezza di cinque metri, mentre che la mazza del fabbro cade appena dall' altezza di un metro e mezzo; di quello ogni colpo produce il lavoro di 500,000 chilogrammetri. Un uomo lavorando tutto il giorno nel sollevare un peso, produce colle due mani 73,000 chilogrammetri. Il martello di Terni produce dunque per ogni colpo più lavoro che in una giornata produrrebbero sei operai. Ma il martello che è mosso dal vapore supera in rapidità di colpi le braccia dell'uomo, perchè può fare anche 100 colpi al minuto, e se pensiamo che non si affatica e che lavora la notte, impassibile fino a che dura il carbone che lo alimenta, noi rimaniamo sbalorditi della potenza di queste macchine. Non solo nella forza e nella velocità, ma anche nella destrezza per i piccoli lavori, la macchina fece incredibili progressi. Un uomo può a macchina fare in un giorno tante calze, quante ne fa la migliore calzettaia in un mese; e le macchine a cucire fanno 1200 a 1500 punti al minuto, mentre un' abile cucitrice ne fa solo 50. È una impressione che sbalordisce quella che si prova visitando per la prima volta una grande officina. Da lontano l' aspetto uniforme del caseggiato, e il profilo monotono degli enormi camini, non lascia sospettare che sotto quelle mura annerite vi sia una attività così grande. Appena entrati ci sorprende lo sfoggio smisurato della forza. I forni che sfavillano in mezzo al fumo, le braccia gigantesche degli stantuffi che funzionano,la corsa vertiginosa dei volanti, la trasmissione della forza per mezzo degli assi e delle corregge e delle corde d'acciaio, i cilindri e le ruote che frullano, il frastuono dei congegni e delle leve che scattano, e tutti quegli scheletri fantastici di macchine, che sembrano vivi e si snodano e si fermano e rispondono obbedienti all'uomo, ci riempiono di ammirazione per l'industria moderna. Si comprende però subito che quelle macchine non sono fatte per alleggerire la fatica dell'uomo, come avevano sognato i poeti. La velocità con cui volano le ruote, il rullare dei martelli e la furia con cui tutto cammina, ci dicono che il tempo entra come un fattore prezioso nel movimento dell'industria, e che là dentro l' attività degli operai deve vincere le forze della natura. E dinanzi a quelle macchine che ruggiscono, si vedono degli uomini seminudi, grondanti di sudore, che seguono frettolosi dei pesi enormi, i quali girano intorno come se una mano misteriosa li sollevasse. Il sibilo del vapore, il cigolare delle carrucole, l'agitarsi delle articolazioni, il modo con cui sbuffano quegli automi giganti, ci avvertono che essi procedono inesorabili nel loro moto, che l'uomo è condannato a seguirli, che non vi è più riposo per lui, perchè ogni minuto di svago consuma il tempo che vale danaro, perchè annienta l'alimentazione e il moto di quei colossi. Ogni distrazione, ogni svista può trascinare quegli operai negli ingranaggi, fra i denti delle ruote che li stritolano; e l' immaginazione ricorre paurosa alle mutilazioni, agli omicidi che quei mostri fanno intorno per ogni piccola imprevidenza, per ogni esitazione di chi li governa.

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Ma non sarà mai che si trovi un organamento della società, nel quale gli uomini non abbiano a faticare, nel quale non si distinguano quelli che lavorano colle braccia da quelli che lavorano col cervello. Gli uomini sono già, nascendo, fisiologicamente diversi. Per quanto si risalga in alto nella leggenda e nella storia si trovano gli uomini che per vivere faticano, e gli uomini che per accrescersi il godimento della vita fanno faticare. Anche se una legge ci mettesse tutti nella medesima condizione, sarebbe presto infranta: perchè la legge non potrebbe mai vincere la natura; e gli uomini si dividerebbero subito secondo le attitudini particolari che hanno avuto nascendo. È una legge della natura che i deboli obbediscano ai forti, e i più forti siano guidati da coloro che sono più abili e più astuti. Chi nasce con più ingegno, e squisitezza di senso, sarà sempre colui che comanda: perchè l'oculatezza, la perseveranza, la prudenza, la temperanza, l'attitudine ad adattarsi e la svegliatezza della mente, non sono doni che la natura regali a tutti gli uomini, e chi nasce con essi saprà farsi obbedire. La scomparsa delle differenze sociali è sfortunatamente un sogno, più assai che non sia la fratellanza universale dei popoli. Però in mezzo all'agitazione che va crescendo, e che alcuni vorrebbero affrettare verso la rivoluzione sociale, bisogna ammettere che il benessere del proletario è cresciuto da per tutto, o che almeno in nessuna parte è peggiorato. In questo secolo la popolazione si è raddoppiata nell'EuropaNel 1810 la popolazione dell'Europa era calcolata a 180 milioni, nel 1886 a 347 milioni., e la vita dell'uomo è divenuta più lunga. Per il vitto, per l'istruzione e l' igiene, da per tutto è progresso. Il timore che aveva l'operaio che gli mancassero i mezzi di sussistenza, perchè le macchine lo avrebbero sostituito, non si è verificato. La richiesta del lavoro invece di scemare è cresciuta. E la macchina ha messo alla portata del popolo gran parte di ciò che prima era riservato al ricco. Le pretese maggiori che ora accampano gli operai, nascono da ciò: che essi hanno un ideale più elevato della loro esistenza, e che la civiltà ha loro creato dei bisogni, che prima ad essi erano affatto sconosciuti. Tutto oggi nobilita la fatica. La civiltà crescendo, crebbe il desiderio del lavoro, come il mezzo di soddisfare ai cresciuti bisogni, e mitigare le ingiustizie e la disparità della fortuna. Il mondo antico poggiava sulla schiavitù del lavoro, e nessuno dei grandi pensatori della Grecia e di Roma, si oppose mai a quella; perchè la fatica materiale dell' uomo era messa alla pari di quella delle bestie, e lo schiavo non era un cittadino, ma una cosa. Fu il cristianesimo che proclamò l' eguaglianza degli uomini, e ci fece intravvedere per la prima volta la comunanza dei beni. A mano a mano che crebbe il progresso civile, gli uomini si andarono uguagliando sempre più, fino a che la nobiltà ed i privilegi sono caduti. Ma l'umanità non si arresta nei suoi progressi, ed oggi siamo travagliati dal problema grave e pauroso di un' eguaglianza più radicale. Questa è la grande difficoltà, della quale si preoccupano tutti coloro cui stanno a cuore la libertà ,e la dignità umana. E non è più una questione di partito, non è più un' agitazione che si faccia con intenti sovversivi; è una convinzione profonda, è un sentimento sacro di moralità, che ci spinge a studiare i mezzi, perchè la proprietà si divida senza fare violenza, senza spargere il sangue, perchè chi dà il lavoro lo conceda in virtù di leggi umane, perchè chi lo riceve non diventi uno schiavo, perchè la razza umana non degeneri sotto l'usura della fatica.

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I colombi viaggiatori pare che abbiano una certa avversione per le Alpi. In alcuni viaggi fatti da Torino verso il Belgio furono così notevoli le perdite dei colombi, che si crede siansi smarriti nelle gole delle Alpi, e che siano stati preda degli uccelli rapaci, o che, girando le Alpi fino presso il mare, per la valle del Rodano, possano essere ritornati nel Belgio. Abbiamo detto pare che essi abbiano avversione alle Alpi, perchè in realtà sul Cenisio e a Fenestrelle abbiamo delle stazioni militari di colombi viaggiatori, e dalle informazioni pubblicate dal capitano Malagoli non risulta che le perdite di essi, nei loro viaggi, siano maggiori di quelle che sogliono essere per i colombi del piano.

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In leggero grado questi sogni ad occhi aperti credo che li abbiano provati tutti coloro che sono un po' nervosi e che hanno più che tanto affaticato il cervello. Più specialmente la sera, ma anche di giorno, quando siamo stanchi, mentre si legge, la mente comincia a distrarsi, e si vedono comparire delle immagini. Appena l'attenzione si ridesta le immagini scompaiono, ma lasciano una memoria del loro passaggio, e poi per un certo tempo ci lasciano ripigliare il lavoro. Sopravviene una nuova distrazione, e quella stessa figura od un' altra ricompare di nuovo, e la si vede distintamente; di rado è una persona nota od un paese veduto. Ma questo succede mentre siamo convinti che non dormiamo. Il mattino quando siamo freschi e riposati, è difficile che si presentino tali immagini. Un valente scrittore drammatico mi raccontava che quando egli scrive deve chiudersi nello studio, perchè egli è obbligato a far parlare continuamente ad alta voce i suoi personaggi. Egli li riceve come sul palcoscenico , stringe loro la mano, offre loro una seggiola, li segue in ogni piccolo gesto, e piange e ride con loro come se l'azione fosse vera. La voce dei suoi attori egli la sente sempre quando scrive, ma debole e fioca. Se questa poi la sente più forte e sonora, egli smette subito di scrivere, e va a passeggiare. Questo è uno dei sintomi che l'avvertono di essere stanco, ed egli lo conosce per lunga esperienza e sa che se non smettesse di lavorare a questo punto, non potrebbe più addormentarsi. Nel comporre uno dei suoi drammi, essendosi affaticato troppo, cadde in uno stato tale di orgasmo che egli sentiva non solo parlare i suoi attori quando li evocava nel pensiero per scrivere e correggere le scene, ma alcuni di questi non volevano più tacere. Egli non si impensierì molto di questo fatto, tanto era persuaso che dipendeva solo dalla stanchezza, fece un piccolo viaggio e questa allucinazione scomparve completamente. Tutte le indagini che fece sulla fatica si aggirano sul raffronto della fatica muscolare con la fatica del cervello, e m' accadrà poi di dover parlare estesamente di questo argomento. Accennerò intanto alcuni fenomeni che mi occorre mettere in rilievo per uno primo schizzo della fatica intellettuale. La fatica, il digiuno, e tutte le cause debilitanti possono renderci più sensibili. Dopo una lunga marcia diventiamo più eccitabili. Le più piccole molestie ci si fanno insopportabili, ed acquistiamo una impressionabilità maggiore. Jolly trovò che nei malati i quali soffrono di allucinazioni dell'udito, si riscontra oltre quella del cervello una sensibilità maggiore (od una iperestesia, come si dice) del nervo auditivo. Questo esempio valga per dimostrare che l'aumeuto di eccitabilità si produce non solo nei centri nervosi, ma anche dentro i nervi che fanno comunicare il cervello col mondo esterno. Nei due o tre anni di preparazione che mi è costato questo libro, per raccogliere delle notizie e dei fatti, interrogavo spesso i miei colleghi ed amici sui fenomeni della fatica. Mi rivolgevo generalmente ai medici, e alle persone che credevo avessero potuto eccedere nel lavoro, ed avvertire meglio in loro stessi certi fatti. Ora mi avvenne che fra i miei conoscenti, quattro mi dissero che la fatica intellettuale li eccitava. La domanda che io faceva loro era generalmente questa: "come ti accorgi di essere stanco ?" Quattro dei miei amici mi risposero che insieme ad altri fenomeni, essi provavano una maggiore eccitazione all'amore. Questa risposta franca e spontanea mi fa credere che tale fenomeno sia assai più frequente di ciò che non paia a primo aspetto. La ragione di questo apparirà nel seguente capitolo, dove misurando la forza muscolare prima e dopo un lavoro intellettuale vedremo che si riscontrano delle grandi differenze. In molte persone vi è un periodo di eccitamento che precede la stanchezza, il quale dura lungo tempo prima che si manifesti l'esaurimento. In altri invece lo strapazzo intellettuale è accompagnato da una rapida depressione della forza, ed e in loro brevissimo il periodo di eccitazione. Di questi si può dire con sicurezza che un lavoro intenso del cervello produrrà una depressione nella attività degli organi che servono all'amore.

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Se mi bastasse il tempo io vorrei scrivere un libro col titolo: Genio e fatica. lo non dico che il genio sia la pazienza, e nessuno, molto meno un fisiologo, può ammettere che i genii abbiano potuto semplicemente colla volontà e la perseveranza essere quello che furono, dico solo che la fatica è la base della creazione nelle scienze e nelle arti. Vi sono veramente degli uomini privilegiati. Come si conoscono dei prodigi di memoria, così vi sono degli ingegni di una fecondità meravigliosa: ma se guardiamo più da vicino questi ingegni, e li studiamo nella natura loro, possiamo persuaderci che essi pure non sono esenti dalla dura legge della fatica. Il processo del loro ingegno, il meccanismo della loro immaginazione, il fondo delle loro attività, è sempre il medesimo. Solo che opera con una prodigiosa rapidità e sicurezza e novità di risultati; per cui questi uomini stanno più in alto di tutti, e a chi li contempla di sotto, sembra che la loro altezza sia inarrivabile, e che un miracolo li abbia spinti fin lassù. Neppure Raffaello aveva, se così è lecito esprimersi, il dono soprannaturale del genio, che trova nella immaginazione la forma sublime del bello e lavora seguendo ciò che gli detta la voce arcana della coscienza. Questo tesoro della inspirazione non credo che la natura abbia concesso ad alcuno. Anche per Raffaello la fatica in la base della fama immortale, e lo disse prima di tutti Michelangelo che certo fu giudice competente: Raffaello non ebbe quest'arte da natura ma per lungo studio.CONDIVI, Vita di Michelangelo Buonarroti, pag. 82, I pregiudizii che corrono intorno alla forza del genio sono molti, e dipendono in grande parte dall'amore che abbiamo noi del meraviglioso e dal desiderio che hanno il maggior numero degli uomini celebri di nascondere la loro fatica, per parere dappiù di quello che sono. Alcuni errori biografici sono veramente singolari, come l'esempio celebre del pomo di Newton che veduto cadere, inspirò al grande filosofo l'idea della gravitazione universale. Ora Newton, come Galileo, come Darwin, fu precisainente uno dei pensatori più infaticabili. "Non perdo mai di vista il mio soggetto, diceva lui, aspetto che i primi albori aumentando a poco a poco, diventino una piena luce raggiante ". Un solo uomo mi parve un tempo facesse eccezione a questa regola, il Göthe: per la sterminata vastità del suo ingegno, e l'altezza della sua mente. Avevo letto la sua autobiografia, le sue lettere, la vita interessantissima che ne scrisse il Lewes, e non perchè il Lewes sia un fisiologo, ma, perchè è ammesso da tutti, devo dire che anche a me parve essere la migliore. Ma per quanti studi biografici io abbia letti intorno a Göthe, mi parve sempre più che fosse un uomo cui il lavoro non dovesse aver costato fatica. Più che tutto me lo faceva credere ciò che Schiller disse di lui con queste parole: "mentre noi altri dobbiamo raccogliere e provare tutto con fatica per produrre lentamente qualche cosa di tollerabile, egli non ha bisogno che di scuotere leggermente l'albero per far cadere i suoi bellissimi frutti maturi e pesanti " Während wir Andern mühselig sammeln und prüfen müssen, um etwas Leidliches langsam hervorzubringen, darf er nur leis an dem Bäume schütteln, um sich die schönsten Früchte, reif and schwer, zufallen zu lassen. - 21 Juli 1797. Ma però ebbi più tardi a ricredermi, quando nell'opera Zur Farbenlehre del Göthe, lessi nell'ultimo volume, questa, sua confessione: "I miei contemporanei fino dal primo apparire dei miei tentativi poetici si mostrarono abbastanza benevoli verso di me, o per lo meno riconobbero che io aveva talento poetico ed inclinazione. Eppure i miei rapporti coll' arte della poesia, erano meravigliosamente strani e del tutto pratici, in quanto che io, un soggetto che mi colpisse, un modello che mi eccitasse, un processo che mi attirasse, lo portavo così lungamente nell'interno del mio sentimento, fino a che ne risultasse qualche cosa che potesse considerarsi come un mio prodotto, e dopo che per anni lo avevo formato silenziosamente; finalmente tutto d’un tratto, e quasi istintivamente come se fosse maturo, lo mettevo sulla carta ".Opera citata, tag. 277. Flaubert lavorava quattordici ore al giorno, e tutti sanno che in questo scrittore la ricerca della perfezione dello stile era divenuta una malattia. Di lui si raccontano tanti aneddoti; fra gli altri che si alzava la notte per correggere una parola; che rimaneva immobile per delle ore colle mani nei capelli, chino sopra di un aggettivo. Lo stile lo tiranneggiava, era una passione per lui l'affaticarsi cercando insaziabile la legge misteriosa di una bella frase, e finalmente questa disperazione dell'anima finì per diventargli un ostacolo insuperabile al lavoro. Nella vita del Flaubert vi sono alcuni lati originali che interessano il fisiologo. Flaubert disse penser c'est parler e nessun altro scrittore forse lo ha superato nello studio dei rapporti fra il pensiero e la parola. Egli provava il ritmo dei suoi periodi sul registro della propria voce. Una frase cattiva, diceva, è un peso al torace e si trova fuori delle condizioni della vita se non va d' accordo colla fisiologia del linguaggio, se armoniosamente non si puo recitare ad alta voce .Journal des Goncourt, pag. 277. Stricker ha fatto degli studi fisiologici intorno a questo argomento, e dimostrò che mentre pensiamo ad una parola la pronunciamo silenziosamente e che possiamo sentire i movimenti della laringe, come se parlassimo senza dar suono alle parole. Tutti abbiamo visto le mille volte nella strada, delle persone che parlano ad alta voce, e passando loro vicino si chetano , e quando abbiamo fatto pochi passi innanzi riprendono a parlare. La presenza nostra li distrasse dal loro pensiero, e poscia subito vi ritornarono involontariamente e ricominciarono a parlare. Del legame indissolubile che unisce il pensiero colla parola, offrono begli esempi le biografie dei grandi scrittori, quelli specialmente che lasciarono nelle opere loro un'impronta più evidente delle forti passioni che agitavano il loro animo. Alfieri ritornato a venti anni dall'Olanda, col cuore pieno traboccante di malinconia e di amore, sentì la necessità di applicare la sua mente a qualche forte studio. Si mise a leggere Plutarco."Le vite di quei grandi, egli dice, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato ".Vita di Vittorio Alfieri, Capitolo VII. Balzava in piedi agitatissimo e fuori di sè, e lagrime di dolore e di rabbia gli scaturivano dagli occhi. Balzac Onorato, il celebre romanziere, che ebbe una tale fecondità, da non essere paragonabile che alla maravigliosa vivacità della sua, fantasia, produsse tanti libri, che non si crederebbe essergli potuto avanzare il tempo per correggerli tutti. Pure c' è qualche cosa in lui che fa stupire più della sua facilità ed è appunto la faticosa ed improba difficoltà del suo modo di lavorare. Ecco come egli componeva i suoi libri: meditava a lungo il suo argomento, poi ne buttava giù un abbozzo informe in poche pagine. Quest' abbozzo mandava alla stamperia; di là gli rimandavano in larghi fogli le prime bozze di stampa. Egli riempiva queste bozze di aggiunte e di correzioni per tutti i versi, cosicchè tali correzioni parevano un fuoco d'artificio venuto fuori da quel primo suo getto. Si rifacevano le bozze, e già nelle seconde era scomparso tutto il testo delle prime: egli lo rimaneggiava ancora, lo modificava, lo mutava instancabilmente e profondamente. Alcuni romanzi furono tirati sulla dodicesima prova di stampa, altri toccarono la ventesima. I compositori si disperavano quando avevano che fare con un suo manoscritto; gli editori si rifiutavano di sopportare le spese delle sue giunte e correzioni.

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Quanto maggiori saranno le cure perchè vivano tranquilli, perchè abbiano le qualità dei cibi che possono meglio desiderare, e trovino nella colombaia tutti gli agi e i piaceri di cui hanno voglia, tanto più ritorneranno facilmente alla loro abitazione quando verranno lanciati lontano. L'istinto che li guida è una specie di nostalgia, e la sicurezza che in nessun luogo potranno star così bene quanto a casa loro. Per farli uscire la prima volta dalla colombaia si aspetta una giornata piovigginosa, oppure si apre la finestra verso sera e si obbligano i piccioni ad uscire sul davanzale o sui tetti vicini. In questa prima ucita sono timidi, e guardano intorno con diffidenza. Allungano il collo e sembrano studiare il luogo circostante. Alcuni si lanciano timorosamente sul tetto delle case vicine, ma presto rienrano nella loro soffitta. Basta ripetere questo tentativo un'altra volta, e si troverà subito che qualche piccione più intelligente si libra nel'aria e fa dei gran giri, come un fanciullo che ha bisogno di correre e di giocare. Per addestrarli a conoscere la loro casa di lontano, feci portare i miei in un paniere chiuso, nel mezzo di una piazza, un chilometro distante dal laboratorio. I colombi liberi si sollevarono in alto, fecero un giro per l'aria e poi si diressero spediti verso la loro casa. Un altro giorno li portammo a Moncalieri, poi ad Asti, poi ad Alessandria, e così poco per volta li abituammo a percorrere tutta l'Italia superiore fino a Bologna e ad Ancona. Avremmo potuto addestrarli a percorrere uno spazio anche maggiore, ma la distanza di cinquecento chilometri era più che sufficiente per i miei studi sulla fatica. Del resto non conviene portarli troppo lontano, perchè ad ogni lanciata se ne perdono molti per istrada. Nel primo anno i colombi si orientano male. Riferisco qualche esperienza che ho fatto. Il giorno 8 luglio 1890, col primo treno delle 5 antimeridiane, portammo in Asti dieci piccioni, nati in marzo e che avevano perciò quattro mesi. Questi colombi non avevano mai viaggiato e conoscevano solo il tetto della colombaia e le case vicine. La sera li avevamo macchiati di rosso sulle ali per riconoscerli da lontano, e macchiammo di azzurro dieci altri vecchi, che avevano già fatto il viaggio tra Bologna e Torino. Alle ore 7 precise si aprirono i due cesti nella stazione di Asti, che è distante circa 50 chilometri da Torino. Appena usciti dalla cesta, i colombi vecchi presero la direzione della città, che trovasi quasi ad angolo retto colla direzione di Torino. I piccioni giovani li seguirono, ma si vide subito che restavano indietro. Fecero un giro sopra la città e poi scomparvero. Dopo un'ora e 15 minuti erano già arrivati al laboratorio tre dei vecchi. Alle 9.20 i colombi addestrati erano già arrivati tutti. A mezzogiorno nessuno dei giovani era ancora giunto; solo all'1.10 ne arrivarono due insieme, e più tardi ne arrivò un terzo. Si vedeva che erano molto stanchi, perchè si posarono sul tetto stando appollaiati sulle gambe, mentre i vecchi che avevano fatto il medesimo viaggio erano vispi, tubavano e continuando a volare facevano grandi giri nell'aria. Sopra dieci dunque non tornarono a casa che tre soli di quei piccioni giovani; questo prova che l'istinto loro non giova molto, se non sono addestrati. E non poteva essere molto difficile per essi di orientarsi, purchè si lasciassero guidare dalla vista delle Alpi e della collina di Superga, le quali si scorgono da Asti. Mandai un altro giorno dieci piccioni, di quattro mesi, ad Alessandria, che dista 90 chilometri da Torino, e non ne ritornò neppure uno a casa; benchè anche da Alessandria si vedano bene le Alpi che fanno come un anfiteatro che chiude il Piemonte, e dove dev'esser facile il ritrovare una città come Torino. Nei piccioni adulti bisogna però ammettere che vi è un istinto di orientamento. Non è vero che i piccioni sappiano percorrere solamente le linee dove furono addestrati. Sono noti i casi di piccioni che comperati nel Belgio e portati in Italia e nella Spagna in canestri chiusi, riuscirono a fuggire dalle mani degli allevatori e ritornarono a casa. Nel 1886 da Londra venne fatta una lanciata di nove colombi portati dagli Stati Uniti d'America; tre riuscirono ad attraversare l'Oceano, e ritornarono a casa. I colombi militari che fanno servizio fra Roma e la Sardegna, attraversano il mare in cinque ore circa, ed è certo uno dei risultati più brillanti, da far rivaleggiare le nostre colombaie militari con quelle dell'estero. Merita, ammirazione il coraggio di questi animali che si lasciano andare così pieni di fiducia alla guida del loro istinto sulle onde sterminate del mare, di cui certo non vedono la fine. Da Roma non è possibile vedere la Sardegna, perchè la distanza che separa Monte Mario da Monte Limbara è di 299 chilometri. Per vedere questi due punti bisognerebbe elevarsi sulla sua verticale ancora di 1510 metri circa.Le distanze chilometriche e i dati che qui riferisco li ebbi dalla Direzione del R. Istituto geografico militare di Firenze. Ora è certo che il piccione non si alza più di 500 o 600 metri. Quando i piccioni militari si dirigono da Roma verso la Sardegna, si affidano all' istinto dell' orientamento perchè essi non vedono nulla dinanzi a loro, altro che acqua. La leggenda e la storia dei colombi sono piene di poesia. Le città di Babilonia e di Gerusalemme furono già celebri per i loro colombi. In Roma questo animale fu sacro a Venere; e persino nella religione di Cristo la colomba fu presa come simbolo mistico di amore. Il colombo che ha scelto una compagna, non l'abbandona più per tutta la vita. Si dà loro per le nozze un cesto di vimini che è fatto quasi come un elmo, od una grande pera, ed essi lì dentro, come in casa loro, incominciano l'idillio della vita che hanno descritto i poeti. Nel vederli in quei loro nidi mi venivano spesso alla mente i versi bellissimi di Petronio, che ho scritto sulla porta della colombaia militare del mio laboratorio:

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Fisiologia del piacere

170554
Mantegazza, Paolo 10 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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  • UNICT
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Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

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Chi possiede ha maggiori doveri da esercitare; ma tutti gli uomini, perchè abbiano soltanto un'individualità morale, devono essere giusti e buoni, e devono quindi rendersi degni di gustare queste gioie sublimi. Queste gioie, per lo più, essendo calme e dignitose, si esprimono in pochissimi tratti, ed appena rendono lucido l'occhio od espandono la fisonomia a un sorriso di compiacenza. Nei gradi massimi un profondo sospiro può bastare ad esprimere la gioia più intensa. Le tracce della lotta e dei dolori sofferti servono spesso di sfondo al quadro della gioia. Quasi sempre l'uomo si compiace di aver fatto il proprio dovere, eleva il capo e fa tutti quei gesti energici che accompagnano l'esercizio di uno sforzo morale. In qualche raro caso il sentimento del giusto può essere ammalato per vizio della mente o del cuore, e l'uomo può compiacersi di un atto di giustizia, mentre commette forse un'azione riprovevole. Non altrimenti è di colui che ritiene giusto rubare per vendicare la ipotetica ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza.

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Tutti gli uomini sperano, ma non se ne trovano due soli che abbiano lo stesso capitale di speranza: l'uno è milionario e l'altro è pitocco; l'uno impiega i suoi fondi al cento per uno, e l'altro a stento ne ricava l'uno per cento. L'interesse della speranza è la gioia; ma come vi sono capitali che non dànno interesse, così vi è qualche speranza che non produce piaceri. Allora bisogna intaccare e divorare il capitale, misurandolo colle pretensioni della fame e coll'avarizia della miseria. Qualche volta, dopo aver consumato tutta la propria sostanza, bisogna vivere di elemosina, e in questo caso fortunatamente si trova molta generosità: tutti sono pronti a offrirvi il loro obolo e a mostrarsi caritatevoli. Quando poi non vi sentite di abbassarvi all'umiliazione dell'accattone, privatevi di qualcosa e andate a comperare un po' di speranza. Non mancano le botteghe dove la si vende; non mancano gli usurai che la pesano a libbre, ad once, a grani, e la vendono a tutti i prezzi, secondo il valore che hanno i fondi della fede pubblica. Quando l'uomo non può comperare un soldo di speranza, o quando non vuole abbassarsi al vile mercato, diventa suicida. L'uomo vivente senza speranza è un paradosso. Si può vivere senza godere, si può vivere in mezzo al dolore; ma per sopportare la vita bisogna avere fra mani una cambiale di gioia per l'avvenire, dovesse essere di un centesimo, dovesse essere falsa: una cambiale speranza. Essa costituisce il contravveleno dei più atroci dolori, il balsamo più soave delle piaghe morali. Quand'essa arriva a costituire un grande capitale può bastare a render amena la vita. Moltissimi individui si credono ricchi, perchè hanno nei loro scrigni fasci di valute, che potrebbero perdere tutto il loro valore col fallimento o la frode di un banchiere; così molti si credono felici perchè hanno fra mani mille cambiali per l'avvenire segnate dalla speranza. Essi muoiono sorridenti e beati senza che uno solo di quei biglietti di credito sia mai stato convertito in moneta sonante. È sotto quest'aspetto che alcuni economisti proclamano altamente che si debba in ogni caso impiegare i propri fondi su beni stabili e non sopra la carta; ma io trovo che quando non si può avere danaro sonante, è sempre meglio avere un credito, anche se inesigibile. Vi sono negozianti che lavorano sopra un capitale di credito, e vi possono essere anche uomini che vivono sopra un capitale di speranza. Quel che preme per giungere ai primi posti nel teatro della vita, è di avere qualche cosa fra mani onde abbagliare o ingannare il portiere, che fissa i posti alla folla che incalza per passare. In qualche caso ho veduto un petulante ciarlatano riescire a passare ai primi posti con un artifizio ingegnoso. Dopo avere sbuffato a lungo di impazienza e avere schiamazzato davanti alla porta per la quale doveva entrare nel teatro della vita, egli dava un pugno solenne sugli occhi del portiere, il quale, quasi accecato dal barbaglìo del colpo, credeva di vedere molt'oro, e curvandosi fino a toccare il suolo con la fronte, lasciava passare. L'oro porta sempre fra i primi posti. Se non volete credere a tanta imbecillità da parte del portiere, vi dirò che chi presiede alla distribuzione dei posti e alla gerarchia delle autorità è l'opinione pubblica, e allora mi crederete subito sulla parola.

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Altri, quantunque abbiano le migliori disposizioni, sono troppo agitati e turbinosi per arrestarsi a contemplare con piacere l'incessante moto del misterioso lavorio mentale, e godono soltanto delle grandi gioie delle scoperte, o dello scopo che raggiungono per mezzo del lavoro della mente. Essi godono dell'intelletto soltanto perchè li guida alla ricchezza o alla gloria, ma non si deliziano delle gioie del pensiero. Eppure vi ha tanta voluttà nel lavoro della mente, da allietare tutta la esistenza o da consolarci di tutte le miserie grandi e piccole che ci assillano sul nostro cammino: il piacere di pensare, anche indipendentemente da qualunque scopo, da qualunque premio, è uno dei più grandi della vita. Le sensazioni ci arrivano da ogni parte, e appena giunte in noi sono trasformate in idee. Qui un'idea, entrando nel campo della memoria, suscita per analogia un'altra idea; là una combinazione di giudizi fa scaturire uno sprazzo di luce o una scintilla. La luce che illumina a un tratto è tinta dei colori dell'iride che si riflettono su tutto. È la fantasia che, agitando il suo caleidoscopio, o abbandonandosi ad uno dei suoi giuochi di ottica, crea una nuova combinazione di colori. Ora è il rumore assordante dell'officina che tutta intera suda per generare una sola idea: ora è il silenzio più perfetto che arresta a un tratto l'attivo tempestar dei martelli e il rabbioso stridere delle ruote: la riflessione ha intercettata la luce, ha sospeso il lavoro; e gli operai, arrestati a un tratto e sospesi, rimangono silenziosi in mezzo alle tenebre non interrotte che dai sottili raggi e dalle scintille che escono dalle fenditure di un ardente fornello, dove forse si sta distillando una grande verità. Tutti questi mille accidenti si riflettono nello specchio della coscienza, dove l'io guarda e sorride. Non tutti quelli che pensano con voluttà esprimono nello stesso modo il piacere che pensano, ma tutti sentono che è una gioia indefinibile, che non si esaurisce mai e sempre si rinnova; gioia forse fredda e calma, ma che si può amare come una gioia del cuore. La massima differenza di questi piaceri è costituita dal grado di sensibilità e dalla forza del volere, più ancora che dal grado dell'intelligenza. Molti uomini di ingegno e fors'anche di genio sono trascinati dal pensiero, e, mirando alla meta, non guardano forse mai il sentiero che percorrono. Altre volte, impazienti e intolleranti delle piccole gioie, rimangono assorti nelle più sublimi speculazioni. Per godere del piacere primitivo del lavoro intellettuale bisogna arrivare alla pazienza di osservare quello che si compie, bisogna essere padroni e non servi del proprio pensiero; bisogna esser capaci della difficile impresa di mantenersi calmi in mezzo al movimento, tranquilli nel lavoro. Tra tutti gli intellettuali, quelli che in generale godono più degli altri del piacere di pensare, sono i filosofi e i letterati, quelli che ne godono meno, gli eruditi, che però sono quasi sempre rivenditori dei prodotti altrui e non dei propri. L'influenza di queste gioie è assai benefica. Esse ci rendono felici, o ci fanno capaci di aspirare alla felicità, ed elevandoci al disopra degli altri uomini, ci rendono quasi sempre degni dei piaceri caldi della gloria e dell'ambizione. Chi arriva a provare in vera voluttà del pensare, trova insipido e pallido ogni altro piacere intellettuale, e spesso trascura anche le gioie più o meno pericolose del sentimento. Quando si gode del piacere puro e semplice del pensare, si può esprimerlo col brillar degli occhi e con una maggiore animazione del volto: ma si può anche assorbirlo a poco a poco senza lasciarne trapelare una sola stilla.

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Moltissimi purtroppo non hanno torto di rassegnarsi, giacchè, quantunque abbiano tutta la buona intenzione di esser felici, non ne vengono mai a capo, e mille dolori ineluttabili li tormentano senza posa distruggendo fino nel loro germe i piaceri da loro seminati. Alcuni altri però dovrebbero accusare se stessi del non poter essere felici, perchè sono sempre colpevoli di un peccato d'ignoranza. Essi credono che la felicità sia misurata dal numero e dalla intensità dei piaceri, pensando che il danaro sia la sovrana quintessenza che li riunisce tutti in sè, e cercano avidamente di possedere e di godere meravigliandosi altamente come la sospirata felicità non si affretti a correre loro incontro. Dopo aver forse consumato la parte più bella della vita per raggiungere la difficile meta, si accorgono di essersi ingannati, e non essendo più in tempo per tornare indietro e cambiare strada, maledicono l'esistenza, o si rassegnano a tollerare la vita come un peso. Alcune volte la felicità non dura che pochi istanti ed è prodotta da un solo piacere, che, arrivando ai suoi gradi massimi impensatamente e di forza, ci rende beati. In quel momento fortunato dimentichiamo gli affanni e le cure, e concentrandoci sul delirio passeggero di una sensazione deliziosa, si grida, traendo un profondo sospiro: «Sono felice!» Quasi tutti gli uomini nella loro vita hanno veduto risplendere sul loro orizzonte qualcuna di queste scintille, le quali si possono godere anche mancando delle cognizioni più elementari della scienza del piacere. Queste felicità meteoriche possono in qualche caso esser date da tutti i piaceri, ma il più sovente sono scintille che scattano dai crateri sempre fumanti delle passioni più calde e più violente. L'amor fisico e l'amor morale, i palpiti dell'amicizia, i lampi di gloria, le voluttà della musica, possono procurare alcuni istanti di una felicità scintillante. È impossibile però determinare precisamente quale sia il piacere più intenso, concesso all'uomo dalla natura. Vi sono alcuni elementi che mancano affatto ad alcuni fra i più grandi piaceri, e che formano invece la prima delizia di altri; e d'altronde la diversità dell'organismo spesso ci rende più adatti a provare un genere di piaceri piuttosto che un altro. La gloria, l'amore, la musica, il delirio della mente che crea, sono certamente le sorgenti delle gioie più vive, ma essi si contendono il primato; e siccome hanno quasi tutti gli stessi diritti, il giudizio pende ancora incerto. I deliri dell'amplesso sono alla portata di tutti, e quindi vengono da molti incoronati e messi al primo posto nel regno dei piaceri; ma chi ha provato lo spasimo di un sentimento generoso o la sacra frenesia della mente che crea, non vuol prostituire la corona, consacrandola alle labili gioie dell'amore fisico. La seconda specie di felicità è quella che si diffonde come un'armonia calma e soave su tutta la vita, facendo benedire all'uomo la provvidenza e la fortuna. Per acquistare questo secondo tesoro non è necessario un gran numero di piaceri, nè il concorso di alcuna fra le gioie più vive. Qui l'influenza massima è esercitata dalla sensibilità prudente dell'individuo, cioè dalla riunione difficilissima di due fra gli elementi più contrari del mondo morale: la squisitezza del sentire e la temperanza del desiderio, la veemenza della fantasia e l'economia della prudenza.

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Sebbene questa asserzione non sia scientificamente provata, pure si verifica molte volte che questi individui abbiano organi genitali sviluppatissimi; per cui è probabile che i loro piaceri siano più intensi, qualora però essi siano dotati d'una più intensa sensibilità. La facoltà di generare non è concessa che alle età più vigorose della vita, quando l'organismo sviluppa forze molto superiori a quelle che basterebbero a conservare l'individuo, ne consegue perciò che i piaceri venerei debbono essere propri dell'età feconda, e quindi più vivi nel periodo della massima forza. Nei primi tempi della pubertà e nei primi anni della giovinezza i piaceri sono in generale più intensi, ma assai meno delicati; mentre negli anni seguenti, fin verso il quarantesimo, l'esperienza e il bisogno di ravvivare con un certo artificio sensazioni intiepidite dall'abitudine, rendono i piacerj più squisiti. Nel mezzo di questa età, quando l'ardore dei desideri giovanili si associa ad un certo stadio di lussuria, questi piaceri sono della massima potenza. Questo avviene in generale fra il ventesimo ed il trentesimo anno.

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Fortunatamente i casi di onanismo spinto agli estremi gradi, od anche soltanto alla massima tolleranza dell'organismo, sono rari, sebbene alcuni autori, che scrissero sopra questo argomento, abbiano da essi esagerate le conseguenze di questo vizio, falsando in questo modo la verità. E ciò con grandissimo discapito dei colpevoli, i quali, leggendo questi libri possono aver trovato di non avere alcun sintomo della terribile tabe dorsale, e, deridendo l'autore che li aveva voluti spaventare con lo spauracchio di mali tremendi, possono aver continuato nelle loro pessime abitudini. La verità si deve rispettare e adorare come una religione, e per amore di essa si deve riconoscere che la più parte degli uomini dediti ai piaceri dell'onanismo non commettono mai tali eccessi da esser condotti a malattie gravi o mortali. Non per questo però le loro colpe vanno impunite, e la natura li condanna a discendere d'un grado dalla scala intellettuale nella quale li aveva posti. O giovani, voi siete nell'età in cui le facoltà del senso, del sentimento e dell'intelletto sono in tutta la loro potenza d'azione, e vi aprono orizzonti infiniti di gioie. La vostra fantasia vi abbellisce gli oggetti che vi circondano, e vi fa battere il cuore alla magnifica fantasmagoria dei sogni dell'avvenire. L'amore, l'amicizia, la gloria, la scienza, vi fanno trepidare di speranza, e sospirare al pensiero che la vostra vita sarà troppo breve per poter abbracciare e comprendere il mondo che vi circonda. Eppure voi sacrificate tutto questo a un miserabile piacere di pochi istanti, che vi lascia avviliti, stupidi e impotenti di tutto. La lucida intelligenza si oscura, la tenace e pronta memoria della vostra età si fiacca, l'immaginazione non riflette, più nel lucido suo specchio i fulgidi colori delle vostre fantasie, la volontà si spunta; una molesta inquietudine vi tormenta e vi fa penare lunghe ore in uno stato di indifferenza e di ozio intellettuale, che dovreste aborrire più che la morte. Anche il vostro corpo è compagno di dolore al sentimento e all'intelletto: le digestioni si fanno difficili; si provano dolorose sensazioni; spesso si ha la nausea; la pelle, specchio della salute generale, impallidisce; e la fisonomia acquista un tal carattere sbattuto e squallido, che quasi sempre svela la colpa all'occhio di un acuto osservatore. Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.

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Questo argomento, come il precedente, è però debolissimo, giacchè molte volte nel coito il pentimento e il timore delle conseguenze sono assai più gravi, senza che per questo si abbiano i disturbi fisici e morali che seguono l'onanismo. La facilità di ripetere gli atti lascivi dell'onanismo non vale a spiegare gli effetti di un'unica polluzione manuale, messi a confronto con quelli di una polluzione naturale. L'ipotesi dello sviluppo della elettricità nel contatto dei due sessi è puramente gratuita, sebbene non si possa negare interamente. Un'opinione probabile su questo argomento e che nell'onanismo e nella copula gli effetti sono pari quanto alla perdita materiale dello sperma, ma che nel primo l'organismo deve esercitare uno sforzo sproporzionato per ottenere il delirio del piacere, non trovandosi mai nell'orgasmo naturale, il quale non può aversi che nel contatto dei due sessi. Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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Sebbene però si abbiano infiniti piaceri dalla simmetria, esiste anche un bello irregolare, un'estetica del disordine; ciò che prova come nell'intricato meccanismo delle umane facoltà, dove infiniti elementi si confondono e si intrecciano, si possono avere effetti identici dalle cause più disparate.

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La piccolezza estrema degli oggetti suscita pure in noi l'idea dell'infinito, mostrandoci in qual modo i confini del microcosmo non abbiano limiti come gli spazi imponderabili del cielo. I piaceri che si provano in questo campo formano l'attrattiva principale delle ricerche microscopiche. È poi veramente singolare il fatto che ci porta molte volte ad amare alcuni oggetti per la sola ragione che sono piccoli. Pare che noi associamo ad essi l'idea della debolezza, e che ci sentiamo ispirati ad averne compassione e a proteggerli, anche quando essi non hanno vita. Altre volte essi ci ridestano il desiderio di possederli; per cui, prendendoli fra le mani e guardandoli con attenzione, atteggiamo il volto all'interessamento e alla simpatia. Questo genere singolare di piaceri non si prova in tutta la sua intensità, che quando l'oggetto è ben definito e costituisce un vero individuo. Difatti, il frammento angoloso di una roccia, per quanto piccolo, non produce in noi il piacere che gustiamo nel contemplare un ciottolino liscio e rotondetto; come pure la barba di una penna d'oca non ci interessa quanto un piccolo fagiuolo. A questi piaceri, per se stessi minimi, si collega spesso l'attrattiva speciale di alcune Il moto concorre ai piaceri morali della vista con molti elementi. Innanzi tutto, essendo uno dei sintomi essenziali di ogni specie di vita, ci ridesta la simpatia che abbiamo per ogni essere vivente. Quando il movimento intenso è prodotto dall'industria umana, noi ce ne rallegriamo, compiacendoci della nostra potenza. Quando invece il movimento è naturale, ci ridesta quasi sempre sentimenti più umili e delicati, a meno che non si sia riusciti colle nostre ricerche a scoprire un moto che non si rilevava spontaneo ai nostri occhi. I movimenti naturali producono due classi di piaceri ben distinti a seconda che siano alterni o continui. In generale i primi ci commuovono ad una affettuosa malinconia, mentre i secondi ci fanno gustare i piaceri grandiosi e tristi che si hanno dalle immagini dell'infinito. L'onda, che fremente si rompe sulla spiaggia e poi si allontana per tornare in alterna vicenda, ci interessa e ci consola, perchè ci rappresenta il moto della vita: il giorno dopo la notte, il riposo dopo la fatica, il riso dopo il pianto, il ritorno dopo la partenza. Invece lo scorrere lento e non interrotto delle acque d'un fiume ci tiene assorti in cupa contemplazione, che riesce piacevole solo per la grandezza delle idee che ci desta. L'acqua che scorre ai nostri piedi, scherza e si muove, ma passa e non ritorna; il vortice che molina e si scioglie è seguito da un altro che lo incalza e poi sparisce; la foglia che cade dall'albero è trascinata via e non ritorna; e sempre instancabile, continua, un'onda segue l'altra e il moto mai non riposa. Questo spettacolo ci offre nei suoi elementi una formula assoluta dell'eternità, un esempio del sempre. Il suicida che s'affaccia ad un fiume per precipitarvisi, ritornerebbe più facilmente addietro, se invece dell'onda inesorabile che passa e non ritorna, vedesse il lieto alternarsi delle onde sulla viva d'un lago. Anche la luce nei suoi diversi gradi di intensità può avere un valore morale. Quando è intensa ci ridesta alla vita; quando è debole e incerta ci ispira alla malinconia e alla calma. La luce di una mediocre intensità, ma tremula, ha una attrattiva speciale, e se ne ha un esempio magnifico nella calma voluttà che ci prodiga l'astro della notte. I colori hanno un valore morale di una certa importanza nei piaceri della vista. Noi chiamiamo allegri il rosso, il bleu e il giallo, che sono i tre colori fondamentali, mentre diciamo tristi il nero, il grigio o il cinereo, puro e verginale il bianco. Questo fatto, che si riscontra in tutte le lingue, dimostra più d'ogni altra cosa la natura intellettuale delle sensazioni della vista. Quasi tutti hanno una speciale simpatia per qualche colore: io, ad esempio, amo con trasporto l'azzurro. Nei paesi caldi si preferiscono i colori più vivi, mentre, là dove il sole sorride di rado, anche gli uomini amano meglio le tinte meno tenui e più cupe. Molte nazioni negre hanno una vera passione per i colori più sgargianti. Alcuni colori poi producono immensi piaceri per le memorie che vi si riferiscono; e l'esule può, in lontani paesi, piangere di gioia alla vista della bandiera tricolore. Gli esseri viventi ci interessano molte volte al solo vederli, per l'affinità naturale che abbiamo con essi; e il piacere riesce in generale tanto maggiore quanto più essi ci assomigliano. I vegetali, per quanto siano lontani da noi per ogni principio di affinità, e per quanto la loro vista sia fredda e priva di movimento spontaneo, pure ci interessano assai più dei minerali per la parte che prendono ai piaceri della vista. Il prigioniero, che tra le connessure delle pietre del carcere scorge una tenera pianticina di lichene, prova un piacere molto superiore che se avesse trovato un minerale pregiato. Le parti di una pianta che in generale ci interessano maggiormente sono i fiori, perchè appunto in essi la vita si mostra in tutto il lusso delle sue forme e dei suoi colori. La bellezza delle forme e la varietà dei colori, infatti, hanno gran parte nel piacere che ci dànno i fiori, ma non ne costituiscono l'elemento principale. Talvolta il fiorellino più modesto ci interessa assai più di un magnifico fiore smagliante, perchè una simpatia misteriosa ci lega a questi esseri delicati, a queste tenere creature del mondo vegetale. Gli animali possono piacere, quando non siano schifosi o non ci incutano paura. Tutti però in qualche circostanza possono concorrere alle gioie della vista. Il rospo si ammira nelle vetrine dei musei, come la tigre ci piace meglio quando è chiusa fra le sbarre di un serraglio. Alcuni animali ci interessano per la loro piccolezza, e il piacere che si prova contemplando una formica che passeggia sulla nostra mano, scomparirebbe del tutto, se quell'insetto avesse la proporzione di un coniglio. Altri animali rallegrano la vista col brio dei colori, colla vivacità dei movimenti, colla stranezza delle forme: alcuni di essi ispirano l'affetto, altri la curiosità. Le fiere ci dilettano per la loro potenza muscolare. L'uomo è l'animale che ci interessa più di tutti gli altri ed è naturale, sia perchè ci riguarda direttamente, sia perchè è l'essere superiore nella scala della creazione. Più d'una volta mi sono sorpreso in atto di ammirare la bellezza delle forme e la nobiltà dell'incesso che lo caratterizzano. La vista dell'uomo poi ci risveglia subito quell'affetto indistinto, che è il fondamento e la ragione prima della società. Il piacere che proviamo in questo caso sale poi di grado, a seconda dei vincoli che ci legano alla persona che vediamo. Fra lo sguardo affettuoso di una madre che divora cogli occhi il bambino che tiene fra le braccia, e l'occhiata distratta che gettiamo a chi passa per via accanto a noi, sta un mondo intero di sensazioni e di piaceri, che si riferiscono al sentimento. L'incontrarsi degli occhi è sorgente di gioie immense. Quando abbiamo dinnanzi a noi un uomo, possiamo contemplarlo e analizzarlo da capo a fondo; ma se egli si allontana senza averci guardato, noi restiamo stranieri l'uno all'altro, e la sensazione e le idee che egli ci ha destate si chiudono nei limiti del nostro io. Ma se ad un tratto i nostri occhi si incontrano, noi ci troviamo in rapporto intimo di fratellanza, e ci mandiamo mentalmente il saluto dell'uomo all'uomo. Questa corrispondenza misteriosa degli occhi non può farsi che fra esseri della stessa specie: e quando anche il nostro sguardo s'incontrasse con quello del cane che ci ama o del cavallo che ci porta, il piacere sarebbe languido e puramente sensuale. L'uomo, invece, col balenar dell'occhio, parla all'uomo e lo intende, e le due coscienze sembrano affacciarsi l'una all'altra. Una sensazione della vista può essere piacevole per le memorie che ridesta in noi. L'esule che, tornando in patria, dall'alto d'un colle scorge una semplice macchia bianca, ch'egli intuisce essere la sua casa paterna, la contempla con un vero delirio di gioia, senza che l'immagine sia per se stessa interessante. Egli contempla un oggetto che gli è caro e di cui adora anche l'immagine, e rimane sospeso fra la sensazione e il mondo di memorie che sta dietro ad essa, ma che ancora non si schiude; ed egli guarda e riguarda e si arresta, piangendo di gioia, sopra un'immagine che è pur sempre la stessa, ma che per lui diventa sempre più interessante, quanto più egli la contempla. Sotto questo aspetto, il valore morale degli oggetti può crescere a dismisura il piacere che ci danno colle loro immagini. La vista di una quercia può far delirare di gioia l'Europeo, che da lunghi anni non vede che palme e felci. Una donna che fila può far piangere lagrime soavi ad un soldato, cui rammenta la sua vecchia madre e i racconti del focolare domestico. Io non posso vedere senza compiacenza il cortile di una casa dove cresca dell'erba, perchè è sull'erba di un cortile che io ho tentato i primi passi, ho trascorso le ore più care della mia infanzia cacciando insetti e giuocando coi ciottoli, e dove ho gustato le sensazioni più vergini. La passione dominante rende piacevole la vista degli oggetti che vi si riferiscono, e produce in questo modo una infinità di piaceri diversi. Il sibarita guarda con gioia la polvere veneranda di una bottiglia a cui sta per dare l'assalto, mentre il bibliofilo palpita di piacere vedendo, ad un tratto, nei palchetti di una libreria un libro che ancora non possiede. In questo modo anche gli oggetti più indifferenti o anche ripugnanti possono essere fonti di gioia. Il malacologo ritorna a casa festoso dalla passeggiata, per una nuova lumaca che è riuscito a prendere; mentre l'anatomico rimane collo scalpello sospeso, nell'atto di una compiacenza superiore, sopra un cadavere ributtante, perchè egli ha sotto gli occhi un caso di inaspettata importanza.

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