Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La Stampa

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AA. VV. 5 occorrenze

Pensiamo invece che abbiano pagato il calendario che li ha opposti al Parma e all'Atalanta, le due squadre più in forma del momento insieme all'Inter, mentre loro non sono al meglio. Riaffiorano i problemi strutturali. Un gol segnato in tre partite (su autorete a Piacenza) riporta alle difficoltà offensive di inizio stagione: un momento di straordinaria vitalità le aveva congelate, è bastato perdere un po' di brillantezza e la Juventus fatica a buttar dentro il pallone perché ha bravi attaccanti ma nessun vero bomber e contro l'Atalanta antica di Mondonico ne sarebbe servito almeno uno. L'uscita di Boksic per un'entrataccia di Rustico (durissima in tv molto più di quanto si fosse visto sul campo) ha complicato le cose e vedremo come vi ovvierà Lippi fino al ritorno del croato. Ieri l'ha fatto in confusione: l'entrata-uscita di Vieri non è stata esemplare, si capisce che tra i due sia scoppiato qualcosa. L'Inter e la Sampdoria a due punti inquietano i bianconeri più di quanto non lo facesse un magnifico Vicenza (due gol annullati per fuorigioco a Milano, l'arbitro ha visto bene, si vede sempre bene con gli outsider). Hodgson si è risollevato mentre stavano per cacciarlo, Ancelotti era con un piede fuori Parma e ha vinto tre partite, Eriksson non è mai andato bene come da quando è certo che a fine stagione si leverà di torno: l'importante è sentirsi provvisori. Domenica all'Olimpico nella notturna con la Lazio la Juve potrebbe perdere persino lo scudetto d'inverno. Pareva «impossibilissimo», direbbe Matarrese, un vecchio amico. In curva a Torino si sono visti striscioni contro il sindaco e il direttore di un giornale: curiose certe spontanee attenzioni negli ultra. Ma da ieri lo scudetto è di nuovo nei pensieri. Se è più difficile perdere una guerra che vincerla, come diceva Malaparte, la Juve torni alle cose facili.

Sullo stesso John John, che con il suo matrimonio di pochi mesi fa ha fatto piangere tante giovani fanciulle, ci sono migliaia di occhi puntati pronti a cogliere ogni screzio con la sua Carolyn (e infatti negli ultimi giorni si dice che i due abbiano litigato durante il Capodanno trascorso a Bozeman, nel Montana). Ma Jackie no. Sulla donna che era riuscita a soddisfare l'inconscia «voglia di monarchia» degli americani, i quali secondo i sociologi - invece di essere grati alla storia per aver loro risparmiato una casa reale passano il tempo a sentirne la mancanza, nessuno aveva finora «osato» scherzare. Ci prova Gip Hoppe, un autore nato e cresciuto a Boston, cioè nel «reame» dei Kennedy, con risultati che - stando alle critiche ricevute in provincia, dove lo spettacolo ha fatto il suo rodaggio - sono piuttosto lusinghieri. Perfino il momento dell'assassinio di Dallas, dicono quelli che hanno visto la commedia, riesce ad essere spassoso, centrato com'è su Abraham Zapruder, quello che per caso filmò la scena, tutto intento a vantare i meriti della sua super-8. Le «grandi figure» della famiglia, comunque, hanno un ruolo secondario - passano sul palcoscenico ogni tanto, come velocissime meteore - perché al centro della vicenda ci sono le figure femminili, e fra loro ovviamente Jackie. A un certo punto, quando viene introdotta come promessa sposa di John, le sorelle di lui, rappresentate come viziose e annoiate aristocratiche, la sottopongono a una specie di esame. «Jacqueline, fa rima con queen (regina)», dice Eunice per incoraggiarla; mentre Pat, molto più sbrigativa, le chiede: «Tu preferisci calciare o tenere?» (un'espressione mediata dal foot-ball che riferita al sesso vuol dire grosso modo: ti piace essere attiva o passiva?). Jackie, un po' frastornata, risponde che lei più che altro preferirebbe prendere un bel bagno caldo.

È significativo che i sette leader sindacali perseguiti da mandato di cattura abbiano cercato scampo in una tenda eretta dietro l'abside della cattedrale benché nessuno di loro sia cattolico: finora il loro «santuario» non è stato violato. Dal pulpito, il cardinale ha lanciato un appello al dialogo rivolgendosi a governo, imprenditori, lavoratori. Dal governo, cui rimprovera di aver fatto passare la legge «in modo irregolare», sollecita dialogo e compromesso per una «alternativa che ridia fiducia al popolo», abbandonando rigidità e intransigenza. Agli imprenditori chiede «concessioni e condivisione della sofferenza, nella consapevolezza che far crescere la qualità della vita dei lavoratori rafforza la competitità internazionale del Paese». Anche agli operai chiede la rinuncia all'intransigenza, ammonendo che scioperi generali portano non solo a paralisi della produzione, ma a «distruzione dell'ordine sociale». Perciò, necessità di dialogo e compromesso, dei quali «la democrazia è il frutto», con il monito che «se coloro che hanno il potere rifiutano il dialogo, la democrazia diventa un albero che cresce sul sangue».

Hussein ha saputo alzare la bandiera della pace e piange le lacrime vere, forse le più sentite di tutte, al funerale di Rabin; ha saputo tuttavia usare nei confronti della nuova Israele di Netanyahu toni più pacati di quanto non abbiano fatto gli altri vicini arabi di Israele, pur mostrando la sua disapprovazione al momento opportuno. Mai pero, ha agitato venti di guerra come ha fatto l'Egitto, per non parlare della Siria. E nello stesso tempo, quella cupola d'oro della moschea di Al Aqsa che brilla nel cielo di Gerusalemme, appartiene moralmente sì, in parte ai palestinesi di Arafat, ma in parte il re distende ancora sopra la sua mano protettrice, che ò tuttora più gradita a Israele di quella palestinese. Inoltre, la Giordania è sempre l'ultima cartina di tornasole della situazione mediorientale. Finché il re mantiene un volto sereno, è questo è vero sia per Arafat che per Netanyahu, nulla ò perduto in Medio Oriente. Il re è una sponda potente per l'una e l'altra parte del conflitto, ricco del potere contrattuale e morale che gli dà l'equilibrio, e anche del potere pratico sugli affari del Medio Oriente e sul fiume di denaro che va a finire nella conservazione dei beni religiosi musulmani, che certo l'autonomia palestinese non è in grado di affrontare. E ancora più al fondo, non bisogna mai dimenticare che il 70 per cento dei sudditi di Re Hussein sono palestinesi; e che Israele, seguita a sognare di nascosto che la vera patria palestinese sia alla fin fine una confederazione che comprenda anche una Giordania forte e il controllo della situazione. È per questo dunque che Dennis Ross, ormai distrutto dai defatiganti colloqui senza costrutto di questi giorni ormai punteggiati da scoppi troppo pericolosi, come l'attentato di Noam Friedman a Hebron, e le bombe di Tei Aviv ha chiesto al re, prima del gesto definitivo di andarsene, di essere luì a usare il suo potere, il suo volto forte e pulito per affrontare i due nemici ormai in realtà divisi da un piccolo gap che nessuno dei due, per questioni di principio, voleva superare per primo. Infatti l'accordo di Hebron (era ormai noto a tutti), era stato già concluso da settimane e lo sgombero è pronto in ogni particolare. In realtà quello su cui si discuteva era ormai il seguito sulla vicenda, ovvero come proseguire nello sgombero del West Bank anche nelle zone B e C, ovvero fuori delle città. Netanyahu aveva proposto di concludere l'evacuazione nel '99, cosa che aveva fatto sobbalzare Arafat il quale opponendo un rigido rifiuto si era impuntato sul settembre del '97. Dennis Ross in queste ore cercava di mediare puntando al '98, e questo pare che sia il punto che re Hussein ha discusso per dodici ore consecutive prima con Arafat e poi nella notte piena delle luci di Tel Aviv dopo la sua drammatica discesa con l'elicottero nell'ufficio di Netanyahu. Il suo viso è apparso alla conclusione dell'incontro, durante la conferenza stampa, soddisfatto quanto quello del primo ministro d'Israele, e consapevole della sua forza: se ce l'ha fatta davvero (col permesso di Mubarak con cui ha parlato ripetutamente per telefono) avrà portato a casa innanzitutto la grande soddisfazione di essere rimasto fedele alla pace anche in tempi duri come questi, in cui tutti i leader hanno compiuto i loro tradimenti.

Si spiega così come alcuni consumi opulenti - produzioni limitate o d'importazione - abbiano tenuto, mentre le grandi fabbriche dal mobilio all'abbigliamento, dagli elettrodomestici alle scarpe - girino a basso ritmo e l'economia nel suo complesso rimanga depressa; si spiega come la crisi della domanda intenta spinga verso l'alto il cambio, rendendo più difficile che le esportazioni possano sostituirla; si spiega così l'abbondante liquidità che stava nascosta, pigra e svogliata, ma pronta a tentare una speculazione sui titoli azionari senza con questo penalizzare gli impieghi di titoli di Stato; si spiega così un ritmo di investimenti ancora discreto, ma prevalentemente alimentato da una strategia di difesa dei margini operativi su mercati che si vanno restringendo. L'aspetto più negativo della situazione attuale dell'economia italiana è che anche i suoi dati positivi - la bilancia commerciale, la forza della lira, i mercati finanziari, forse lo stesso raffreddamento dei prezzi e l'arretramento dei tassi d'interesse - sono effetto della stagnazione e come tali non possono essere volti, da soli, a sostenere un processo di crescita più deciso. Oltre due secoli fa lo si era capito. Al contrario oggi, pur con una esperienza infinitamente più ampia e con una evidenza dei fatti esplicita quant'altre mai, si continuano ad invocare misure e politiche di contenimento del reddito distribuito, e, quindi, di restringimento della dimensione dei mercati. Per una ripresa si fa conto su un aumento delle esportazioni. Ma se, in un'area integrata come l'Europa, tutti fanno affidamento sulle esportazioni, chi mai potrà importare nella misura necessaria per sostenere lo sviluppo di tutti?

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