Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIPIEMONTE

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Plico del fotografo: trattato teorico-pratico di fotografia

517465
Venanzio Giuseppe Sella 13 occorrenze
  • 1863
  • Tipografia G.B. Paravia e Comp.
  • Torino
  • Fotografia
  • UNIPIEMONTE
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Nasce da tutto questo che, quando il rapporto della grandezza dell'immagine con quello dell’oggetto deve essere un po’ grosso, è necessario il far uso di lenti che abbiano una gran distanza focale.

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Le lenti che abbiano una forte aberrazione sferica non danno un foco precisamente in una sola superficie, e si chiamano come dissimo, a foco profondo, ma queste lenti, quando vengono usate con larga apertura, non possono produrre una immagine perfettamente nitida in alcun punto, non avendo esse alcun punto ove si trovi il loro vero foco; si direbbe che esse sono lenti senza foco.

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In questo caso gli oggetti rappresentati appariscono nello stereoscopio con un rilievo più grande di quello che abbiano realmente gli oggetti, per cui sembra che questi oggetti siano più vicini del vero. Vi fu una lunga discussione nei giornali fotografici, e nelle adunanze delle varie Società fotografiche, circa alla distanza, che più conviene adottare da una stazione all’altra nel prendere le vedute stereografiche, e si finì generalmente per convenire: 1° Che per oggetti vicini si deve operare colla distanza di 12 centimetri circa dal centro di una lente al centro dell’altra, onde poter produrre simultaneamente due immagini abbastanza grandi con una camera a duplice oggettivo; una tale disposizione è specialmente utile per fare i ritratti stereoscopici; 2° Che per oggetti lontani si può crescere la distanza sino a due o tre metri, ed anche di più, operando con due camere distinte, o con una camera sola che si porta da una stazione all’altra, ma conservando agli assi della camera il loro parallelismo. Relativamente a queste distanze ed a questo parallelismo i fotografi non si attengono sempre a tali prescrizioni, trovando che la trasfigurazione che viene dalla distanza e dalla convergenza degli assi è poco sensibile, perchè il rapporto della distanza degli oggetti a quello della distanza delle camere oscure è comunemente assai piccolo e trascurabile. La distanza delle due stazioni deve essere piccola se si vuole un rilievo poco diverso dal naturale, maggiore se si vuole un maggior rilievo. Allorquando esaminansi delle stereografie in uno stereoscopio, e si trova, che alcune di esse presentano un rilievo troppo esagerato, si può conchiudere, che la distanza delle due camere era troppo grande.

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Sottraendo, neutralizzando, in qualche maniera distruggendo questa forza, quelle riprendono incolumi la loro primitiva esistenza, senza che abbiano subìto la benchè menoma modificazione.

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Quando i segni alfabetici non sono accompagnati da numeri, s’intende sempre che abbiano per numero l’unità. Così FeO, SO3 indica la combinazione di 1 equivalente di ferro e di 1 equivalente di ossigeno (protossido di ferro) unita chimicamente ad 1 equivalente di acido solforico.

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RUNGE, 1847, München. di acidi, ossia di corpi più elettro-negativi dell’acqua, li quali abbiano perciò maggiore affinità chimica per la potassa.

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Questa soluzione si fa evaporare in capsule di porcellana sino a che abbiano cessato di svilupparsi vapori acidi. Dopo si scioglie, si filtra, e si aggiunge, a goccie, una soluzione di carbonato di soda, sino a che si forma un precipitato di carbonato di ossido di rame, onde saturare tutto l’acido nitrico, si aggiunge qualche goccia di acido muriatico per far nuovamente sciogliere il precipitato. Dopo si aggiunge alla soluzione una soluzione filtrata e ben limpida di solfato di ferro, agitando il miscuglio. L’oro si depone in forma di polvere bruna, si lava questa polvere con acido muriatico, e poi con acqua distillata sino a che essa non produca più alcun coloramento con una soluzione di prussiato di potassa giallo. L’oro puro, che così si ottenne, si tratta con acqua regia, si fa evaporare a siccità, a calore lento, ed il sale ottenuto sarà cloruro d’oro puro. Se si riscalda troppo a lungo ed al calore di 150°C una parte del cloro si evapora, non rimane che un cloruro d’oro di color giallo AuCl che si decompone in oro e bicloruro d’oro quando si scioglie nell’acqua. Quest’ultimo cloruro non conviene al fotografo.

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L’operazione è facile ed otterrà senza fatica maggiore esattezza di quella che abbiano i vetri graduati del commercio. Si faccia così. Col mezzo di un diamante a scrivere, oppure anche col mezzo di una pietra dura tagliente, come sarebbe p. e. un pezzo di selce, o di corindone, si tiri una linea verticale sul bicchiere o tubo a graduare. Si ponga questo bicchiere in una tavola piana orizzontale, si versi nel bicchiere 10 grammi di acqua, e col diamante si faccia un segno orizzontale sulla linea verticale, dove arriva il liquido, scrivendo 10 presso il segno. Si versi nel bicchiere altri 10 grammi di acqua, e si faccia un secondo segno nel punto della linea verticale che è coincidente colla superficie dell’acqua, e si scriva 20. Si continui sino ad avere il numero di divisioni che si vuole. In questo bicchiere così graduato una divisione rappresenta il volume di 10 centimetri cubi, epperciò se si suddivide in 10 parti eguali, questa divisione, ogni suddivisione rappresenterà il volume di un centimetro cubo, ossia di un gramma di acqua. I diamanti a scrivere sul vetro sono diversamente montati da quelli a tagliare il vetro. Essi sono estremamente utili, e si trovano in vendita presso i negozianti di oggetti di vetro.

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Altri riduttori possono servire, p. e. l’acido pirogallico, il prolosolfato di ferro; basta che essi abbiano proprietà analoghe a quelle dell’acido gallico. Ma il nitrato d’argento sin ora è il solo corpo riducibile che sia adoperato con successo.

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Il tubo o è di latta o è di cartone ed è composto di due parti, di cui l’una scorre nell’altra come un cannocchiale, esso si allunga o si restringe, e si può fare in modo che gli oggetti veduti per mezzo di esso abbiano lo stesso campo di quello che hanno nel vetro appannato della camera oscura, epperciò sarà facile determinare esattamente la posizione della camera oscura, che deve essere approssimativamente quella dell’osservatore che tiene il tubo. Un tubo del diametro di 45 millim., con apertura rettangolare di 34×37 mm., della lunghezza di 32 mm. pel primo tubo, e di 40 mm. pel secondo tubo, può servire pei casi ordinari.

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Ciò non si può ottenere in altra guisa che trattando la prova con sostanze che abbiano la facoltà di sciogliere il cloruro di argento rimasto intatto, o quanto meno di modificarlo così fattamente da renderlo inattaccabile dai raggi luminosi, insensibile alla loro azione riducente.

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Se nel sensibilizzare la carta si fece uso di nitrato d'argento leggermente acido, vi è rischio che nel momento in cui si porta la prova nel bagno fissatore, l'iposolfito d'argento, che si produce, si decomponga parzialmente sulla carta stessa, e così abbiano origine sui bianchi del disegno delle macchie brune indelebili di solfuro d'argento. Se l'iposolfito di soda è egli pure acido e piuttosto dilungato, questo rischio è maggiore, e se è neutro e concentrato sarà minore. Ma se si rende l'iposolfito fissatore leggermente alcalino, oppure se si trasforma preventivamente in cloruro il nitrato d'argento, trattando la prova con apposita soluzione, si ripara a questo pericolo di macchiare le prove; facendo agire sulla prova i liquidi coloratori prima di fissarla coll’iposolfito, ed operando come vedremo a suo luogo, non vi sarà alcuna probabilità di macchiare l'immagine, quando anche il nitrato d'argento fosse con reazione acida molto pronunciata.

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L'artista che si occupa di fotografia è in questa materia difficile ad accontentare, ed ha bisogno di saper modificare a piacimento le tinte e far voltare l'immagine da un colorito all'altro secondo le circostanze, effettuando sulla prova delle combinazioni o delle sovrapposizioni di altre materie, le quali abbiano per risultato di produrre la voluta trasformazione.

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