Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 4 occorrenze

Occorre però precisare una cosa: sebbene abbiano lo stesso soggetto, i due dipinti hanno, per così dire, uno statuto molto diverso, e questo, almeno in teoria, rende assai meno calzante e pertinente il confronto. Quella di Gentile, infatti, è una pala d’altare di grandi dimensioni, con tutto ciò che questo comporta in fatto di ufficialità, solennità e connessa esibizione di ricchezza, mentre la tavoletta di Masaccio non è altro che uno scomparto di predella. Com’è noto, le predelle, quando sono previste, costituiscono un’appendice di una pala d’altare: una sorta di gradino posto a conclusione della pala nel suo margine inferiore, di norma scompartito in vari riquadri, in cui sono quasi rappresentate figure di santi o, più frequentemente, scene con episodi della vita dei personaggi sacri che figurano, da protagonisti, nella pala stessa. Per la loro collocazione e la loro dimensione, le figurazioni della predella hanno in genere un carattere molto diverso da quelle che compaiono nella pala e di cui rappresentano, per così dire, una sorta di nota a piè di pagina. Di solito gli artisti in questa zona del dipinto ricorrono ad un linguaggio più vivacemente narrativo e compendiario, rivolgendosi in modo più diretto e colloquiale al pubblico, mentre il linguaggio della pala è sempre più aulico e compassato, più ufficiale ed iconico. Per usare una similitudine estratta dalla nostra esperienza di tutti i giorni, diciamo che il linguaggio figurativo di una pala, di norma, sta a quello di una predella come l’abito da cerimonia sta ad un abbigliamento casual, più informale e disinibito. La pala si offre alla contemplazione e alla preghiera, la predella instaura con i fedeli un dialogo più fitto e ravvicinato, in cui prevale la dimensione del racconto.

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Sono passati solo un paio d’anni o poco più dall’esecuzione del Trittico di San Giovenale del ’22, e non c’è dubbio che le due Madonne abbiano una comune ascendenza, ma quella degli Uffizi è caratterizzata da un linguaggio ormai maturo ed omogeneo, senza quelle smagliature ed acerbità espressive che caratterizzano ancora le figure del trittico giovanile. Non mi sembra invece necessario risalire all’autografia di Masaccio per la mano in scorcio di Sant’Anna, perché Masolino, come del resto già Gentile da Fabriano nella sua Adorazione dei Magi, non ignorano l’uso dello scorcio prospettico, ma a differenza di Masaccio e degli altri innovatori fiorentini non applicano sistematicamente le regole della prospettiva, ma si limitano a farne uno sfoggio occasionale in certi dettagli.

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Ma vediamo ora come i due artisti, Ghiberti e Brunelleschi, abbiano ricavato da questo tema due composizioni molto diverse, pur adattandole entrambi alla cornice mistilinea e polilobata prescritta dal concorso. Ghiberti, benché coetaneo di Brunelleschi, appare artista più maturo sul piano delle capacità tecniche, tanto da esser stato capace, diversamente dal suo concorrente, di fondere la propria formella in un unico pezzo. Egli, inoltre, dimostra maggiore abilità nell’organizzare la scena in modo chiaro ed accattivante, alternando parti più lisce e levigate, su cui la luce scorre e risplende, a parti più accidentate, come la quinta rocciosa, che frantuma la luce, incanalandola nel buio dei solchi più profondi e facendola brillare sulle creste e sulle sporgenze più acuminate. La quinta rocciosa di Ghiberti ha, inoltre, un importante ruolo nello spartire nettamente, ma in modo quanto mai verosimile, la composizione: sulla destra il sacrificio, sulla sinistra, l’asino al pascolo e i due accompagnatori che conversano fra loro, indifferenti e ignari al dramma che si sta compiendo a poca distanza. Nella formella ghibertiana le rocce fungono dunque, oltre che da piano d’appoggio per lo svolgimento di tutta la scena, anche da elemento di suddivisione dell’episodio biblico in due azioni, una principale ed una secondaria. Nella prima agiscono i protagonisti del dramma, nella seconda le comparse, che rimangono estranee all’azione drammatica perché non in grado di elevarsi ad una dimensione eroica, la dimensione del sacro.

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A questo punto, dopo aver constatato come Signorelli e Della Gatta, per evitare confusioni e fraintendimenti spazio-temporali, abbiano ben distinto queste due scene in primo piano, utilizzando a tal fine una ben precisa regìa di pose e di sguardi che le rende estranea l’una all’altra, non resta che inoltrare il nostro sguardo verso lo sfondo per cogliere, in alto a sinistra, l’ultimo atto della narrazione: il compianto sul corpo di Mosè, che giace a terra senza vita, steso sul lenzuolo che gli servirà da sudario (tav. 9f).

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