Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 6 occorrenze

Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

La regione

399733
Sturzo, Luigi 1 occorrenze
  • 1921
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 194-231.
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In primo luogo, l'organizzazione e la rappresentanza (diretta o indiretta) di quanto nel campo della cooperazione, delle assicurazioni sociali, della previdenza, della beneficenza, del lavoro, dell'agricoltura viene creato come organo tecnico o arbitramentale o di propulsione o di propaganda attualmente presso le prefetture e le intendenze di finanza o come organi autonomi di enti centrali, da passarsi, come abbiamo detto, alle regioni, dovrebbero trovare nelle provincie un mezzo di decentramento locale adatto a funzioni amministrative permanenti e a dare naturale sviluppo a quanto corrisponde agli interessi collettivi, senza le preoccupazioni politiche o burocratiche, di prefetture o di intendenze. E anche quando, nei vari corpi tecnici e consultivi da creare, occorra la rappresentanza del governo o di enti statali o semistatali, l'ente provincia è molto più adatto della prefettura a dare a tale corpo carattere amministrativo non politico.

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 6 occorrenze

Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

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