Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Quell'estate al castello

213740
Solinas Donghi, Beatrice 8 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Abbiamo fatto un altro po' di passi nella nuova direzione che la galleria aveva preso, cioè, come si capí poi, tornando verso la prima grotta, ma dentro il muraglione invece che fuori. Stop di nuovo. - E adesso perché ti fermi? - C'è un muro, non si può proseguire. - Siamo arrivate in fondo, allora! - No, è aperto. Cioè, il muro mi arriva solo alla vita. Aspetta, ora ci guardo. Alzai il raggio della pila, muovendola con precauzione qua e là, mentre Ippolita per la curiosità dimenticava gli idem come sopra e si faceva avanti anche lei. Cosí abbiamo visto insieme e siamo rimaste senza fiato tutt'e due. Al di là di quel muretto la galleria si allargava formando come una stanza, una sala col soffitto a volta, tutta piena d'acqua. Acqua ferma come un olio, nera come il catrame; il cerchiolino di luce della pila ci

Però al trovatore e alla dama non abbiamo piú giocato, dopo quel primo giorno.

In quel preciso momento tutt'e due abbiamo capito che cosa poteva, anzi doveva succedere poi. Stavamo anche per dirlo a voce, aprendo la bocca assieme, quando... BOM! BOM! BOM! BOM! Niente paura, non è che fosse scoppiata la guerra mondiale. Era solo Remigio che suonava il gong per annunciare che il pranzo era pronto. Mi son dimenticata di dirlo prima che avevano quest'uso; era una cosa stilé ma anche molto pratica, perché gli risparmiava di venirci a cercare uno per uno in tutto il castello. - Uh, il gong! - strillò Ippolita e mi piantò lí per scappare in bagno a mettersi in ordine prima di scendere. In queste cose era precisa come un soldatino, l'avevano abituata cosí, e poi oggi aveva da darsi anche una bella rinfrescata alla faccia, se non voleva che gli zii capissero subito che c'era qualcosa. In quanto a me, scappavo già come una lepre verso camera mia. Avevo ancora troppa soggezione di loro per presentarmi a tavola senza aver fatto un po' di toeletta, non parliamo poi di farli aspettare, fosse pure un minutino solo. Dunque il discorso restò a metà e cosí lo lascio anch'io. La continuazione al prossimo capitolo.

. - Se le abbiamo cercate e non si sono trovate, vuol dire che qualcuno le ha fatte sparire. Proseguì spiegando che questa casa, ai tempi dello zio Pio, era un porto di mare, con tutte le visite che lui riceveva. Era rimasto in contatto con i suoi confratelli missionari, che oltre a scrivergli mucchi di lettere da tutti i paesi del mondo gli mandavano anche in continuo questo o quello, e mica solo per portare i saluti. C'era chi veniva a farsi dare un consiglio, chi voleva una raccomandazione o delle ripetizioni di latino. Il prozio (era un omettino secco secco; io me lo ricordavo piú che altro dalle fotografie) sbuffava, ma accontentava tutti. Per le ripetizioni poi c'era un viavai, pare che avesse un metodo suo per far entrare il latino in tutte le teste. Ebbene, diceva mamma, tra tante persone sconosciute poteva ben esserci stata quella disonesta. Le rincresceva di pensar male del prossimo, ma non c'era altra spiegazione. Ippolita si appassionò a questa storia. Si ha un bell'essere di famiglia ricca e passare l'estate in un castello, l'idea delle monete d'oro fa sempre un certo effetto. Incominciò a parlarne sovente, quando non c'erano nelle vicinanze Franco o Robi a prendere in giro. Per esempio avrebbe voluto sapere dove le tenesse le monete questo mio prozio. Messe via in una pentola, come nelle favole? - Ma no, non credo, - rispondevo io. - Nel doppio fondo di un cassetto, piuttosto. - Hanno il doppio fondo, i vostri cassetti? - Non lo so. Io non l'ho mai trovato. Dico cosí, perché altrimenti la mia nonna avrebbe visto le monete, quando metteva in ordine. - Ma scusa, se erano in un doppio fondo, come ha fatto il ladro a sapere che c'erano? La sua idea, lo capii un po' alla volta, era che le monete esistevano, ma forse non esisteva il ladro. Secondo lei poteva darsi che non si fossero trovate solo perché erano nascoste molto bene. E in questo caso, naturalmente, dovevano esserci ancora. A me veniva da ridere a figurarmi un tesoro nascosto tra la nostra roba solita di tutti i giorni, magari proprio nella camera che in tempo di vacanze passava a me e Isa (e quindi anche a Ippolita, adesso) ma che prima era stata dello zio Pio. Lei però ci sperava, credo anche per aver da pensare a qualcosa di piú allegro di tutto quel che aveva avuto da pensare in quegli ultimi tempi. Batteva sul muro con le nocche, toc toc. - Qui suona vuoto, non ti pare? Se fosse una nicchia murata, il nascondiglio? Oppure si metteva a girare intorno al seggiolone, un affare alto di legno scuro, col sedile imbottito, che pure quello era stato dello zio. - Ci hanno mai guardato, i tuoi, dentro l'imbottitura? Purtroppo però la nicchia nel muro, che c'era stata davvero, l'aveva murata mio papà appena due estati fa, dato che non serviva piú a niente (ai tempi andati, diceva mamma, ci tenevano i lumi). Dell'imbottitura non sapevo niente, allora siamo andate a domandare a mia nonna e lei si ricordava benissimo che, altro che guardarci dentro, l'avevano addirittura buttata all'aria, cosí che poi si era dovuta rifare. Dopo queste due delusioni ci fu una pausa. Giocavamo all'ometto nero coi miei fratelli, andavamo per funghi, senza trovarne (non era un'annata da funghi). Ma Ippolita si vede che continuava a pensarci. Di punto in bianco, un giorno, mi esce fuori con questa domanda: - Perché dovrebbero essere proprio monete d'oro? - Mah, dicono cosí. - Però hai detto che tua nonna non le ha mai viste. - Infatti; e nemmeno nessun altro. Giustappunto mio papà dice che non sono mai esistite. - Allora da dove è uscita fuori l'idea che ci fossero? Già, da dove? Non me lo ero mai domandato. Cercai una spiegazione. - Avran pensato che dovessero esserci per forza, quando si è visto che d'altro denaro ne aveva lasciato proprio poco. - Ah sí? proprio poco? - Be', cosa vuoi che possa guadagnare un ex missionario che dà ripetizioni di latino? - Allora vuol dire che il tesoro non può esserci! - Il mio prozio però diceva che c'era. Ed era una persona seria, mica un bugiardo, la nonna me l'ha detto tante volte. Ci siamo guardate. Stavamo toccando il nodo del mistero. Stava proprio qui, in questa stranezza del tesoro che non poteva esistere, eppure (per un altro verso) non poteva non esistere. Pensai che anche questo a modo suo era una specie di giallo e da quel momento anch'io cominciai a riprenderci un po' di passione. - Dicevo cosí, delle monete, - riprese Ippolita, - perché se il tesoro fosse invece - mettiamo - in banconote, sarebbe stato piú facile nasconderlo. Quelle stanno dappertutto; tra i fogli dei libri, oppure, non so, nelle lettere. Non riceveva tantissime lettere, il tuo prozio? - Pare di sí. - Idea! forse i suoi amici, confratelli, quello che erano, avevano l'abitudine di infilare del denaro nella busta. Questo spiegherebbe tutto, non ti pare? Non mi pareva, a dir la verità, ma intanto un brividino di eccitazione aveva cominciato a solleticarmi dentro, in quel punto dietro le costole dove non ho mai capito bene se ci stia la punta del cuore oppure il principio dello stomaco. Forse stavamo davvero facendo qualche passo avanti, ancora alla cieca, verso la spiegazione del vecchio mistero di famiglia. - Sarebbe interessante vederle, le lettere, - continuava Ippolita, dandosi un tono da detective. - Perché? Anche se, metti caso, le banconote c'erano davvero, non c'era mica motivo che zio Pio le lasciasse lí dentro. Se le sarebbe spese, o le avrebbe nascoste da un'altra parte. Lei avrebbe persino fatto i salti mortali, credo, pur di non abbandonare quell'idea che le piaceva tanto, perciò disse subito: - Non è detto. Anche le lettere potevano essere un buon nascondiglio - . Qui le scappò un sorriso: - Ma tanto è inutile discuterne; certo a quest'ora le avran buttate via. - Per quello puoi star tranquilla, la mia nonna non butta mai via niente. Mamma la sgrida per questo, ma qui è in casa sua e fa come vuole. Cosí la prossima mossa fu di tornare di nuovo a consultare la nonna. Lei non domandava di meglio: da tanto che era contenta e lusingata le vennero in mezzo alle guance come due roselline color del corallo, in tinta coi suoi orecchini all'antica. E dunque disse che sí, le lettere esistevano ancora. Quando era mancato il povero Pio le aveva messe via lei personalmente in un baule, su in solaio: nessun altro le aveva toccate e nemmeno ci aveva pensato, insomma non erano sembrate importami a nessuno. Erano ancora lassú, se ci faceva piacere vederle. Eccoci dunque ripartite in esplorazione, come ai bei tempi, però in su invece che in giù, verso il solaio polveroso invece che nei sotterranei del castello. Il mio solletico dietro le costole era sempre piú forte. Sentivo odore di avventura. Il baule era di ferro, di quelli che usavano una volta: per metter via la roba, io credo, piú che per viaggiare. Non era chiuso a chiave, bastava tirare su il coperchio. Nell'aprirsi fece uno gnau lamentoso. Mi ricordai del suono che aveva fatto la botola dello scheletro, quando Remigio l'aveva tirata su e si era visto che sotto non c'era niente. Qui c'erano le lettere, una quantità. Nessun topo era arrivato a rosicchiarle, lí dentro il metallo, però erano parecchio sbiadite. Sulle buste l'indirizzo era diventato marroncino, oppure lilla quando era stato scritto con l'inchiostro violetto. - Quante! - disse Ippolita, tutta felice. - Ce ne vorrà, a passarle tutte! Si lasciò andare senz'altro in ginocchio sulle assi polverose e cominciò a tirar su una lettera dopo l'altra, allargando con due dita ogni busta e guardando anche in mezzo ai fogli piegati, caso mai ci fosse la banconota. Allora mi ci misi anch'io, un po' piú al ral - lentatore perché non ero tanto convinta. Leggevo qualche parola, dove mi cadeva l'occhio e dove la calligrafia si capiva. Caro e Reverendo Amico, tutto con le maiuscole. Due righe di scrittura inclinata dove si dava la notizia di un'invasione di cavallette che aveva portato molto danno ai campi della Missione; la data di un certo giorno di un anno lontano. C'era un odore di scartoffie vecchie che mi metteva tristezza. Quello dell'avventura non lo sentivo piú. Ero sempre meno convinta, cosí dissi: - Mah! per me stiamo facendo un lavoro inutile. I missionari, se avevano dei soldi, li avranno spesi per le loro Missioni, ti pare? Perché dovevano mandarli proprio al prozio Pio? Lei rispose solo: - Sarà, ma lasciami finir di guardare. Lo sapevo com'era fatta: quando si appassionava per qualcosa non era tanto facile smuoverla. Io invece mi ero stufata. Pian piano mi allontanai, girellando qua e là a guardare negli angoli piú scuri se anche quest'anno c'erano i pipistrelli. Ne trovai due, piccolini, appesi a testa in giú dietro a una trave. Nel sonno muovevano continuamente il muso in una maniera molto buffa. Gli idem-come- sopra. Pensare che mi avevano fatto paura, nelle catacombe! Per cambiare, andai a guardar fuori dall'unico finestrino che c'era. Si vedeva la strada, il pergolato, la casa del vicino, l'orto con le prime macchie gialle, tutto un po' diverso, almeno mi pareva, di quando lo guardavo dalle finestre di gíú. Non era più la solita roba che vedevo tutti i giorni, ma un quadretto lucido, un po' rimpicciolito. Bello. Forse era cosí che lo vedeva Ippolita, dal suo punto dí vista di persona venuta di fuori: ecco perché le piaceva tanto. - Gina, - disse in quel momento, con una voce strana. Mi voltai. Era seduta sui talloni, con le mani aperte ai lati del corpo e cinque o sei di quelle lettere sparse in grembo. Le guardava senza nessuna espressione particolare, eppure mi sembrò di vedere, sospesa sulla sua testa, la lampadina accesa, con scritto IDEA!!, del detective che ha capito tutto. - Hai, hai trovato qualcosa? - Vieni un po' qua. Andai là. - Avevi ragione, sai. È un lavoro inutile guardar dentro a queste lettere. Bastava guardarle di fuori. - Come sarebbe, di fuori? - Le buste, polla che sei! Ti dicono niente le buste? Le guardai; e non mi dicevano niente. Un po' gialle di vecchiaia, con l'indirizzo sbiadito. Spiccavano, in confronto, i colori dei francobolli, tanto píú che c'erano rappresentati uccelli esotici e fiori strani e altre cose

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Poi abbiamo le grotte in fondo al parco. Anche quelle sono sotterranee, almeno in parte, e antiche. Appartenevano ai giardini della villa. Pensai che allora forse valeva la pena di esplorarle, prima o poi. Ero di nuovo molto su col morale. Prima di tutto ero arrivata bene o male alla fine del maledetto sufflé, e poi adesso sapevo di sicuro che il castello non era tutto finto. Qualcosa di vero c'era, c'erano grotte e antiche fondamenta e cantine e ripostigli, tutta roba che sarebbe stato molto divertente scoprire. Incominciavano a divertirmi anche gli andirivieni dignitosi di Remigio con i piatti e persino l'erre moscia della contessa e il fatto che dicesse «pavdòn» invece di scusa o prego, come un'artista buffa con l'occhialino in una pellicola che avevo visto quell'inverno. All'idea dell'artista buffa per poco non mi veniva la ridarella, ma per fortuna riuscii a mandarla giú e il resto del pranzo passò senza incidenti. Dopo mangiato Ippolita mi portò a prendere il fresco nel parco. Stavamo sotto gli abeti, o forse erano pini, non ho mica mai i capito la differenza, insomma certi alberi scuri scuri che facevano una bell'ombra, ma Ippolita si lamentava lo stesso del caldo. Era irrequieta; dopo un po' eccola che salta su e dice che vuole andare in camera a prendere il grammofono portatile (non si chiamava ancora giradischi, allora). Tornammo in su verso il castello. Sbucando nel piazzale tra le ortensie, feci caso per la prima volta a due figure dipinte sulla facciata, ai lati del balcone: qua un giovane con un chitarrone lungo lungo, dall'altra parte una signora con le trecce fino ai piedi e veli fluttuanti. Erano tutt'e due un bel po' sbiaditini dal sole e dalla pioggia, per questo non li avevo visti prima. - Chi sono quei due lí? - Due tizi finti-medioevali, il trovatore e la sua dama. Mi misi a cantare:

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Lí anzi successe ancora meno, non abbiamo neppure cantato né riso, però fu ugualmente avventuroso, in un altro modo. Erano i posti, che erano avventurosi; misteriosi, ecco. La prima grotta magari non tanto; a proposito, anche le grotte erano due, come le cantine. Stavano in fondo al parco. A reggere il fondo del parco, con gli alberi e tutto,

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Cosí abbiamo proseguito nella solita formazione di tutte le passeggiate, noi due insieme e la zia per conto suo, piú avanti o piú indietro non aveva importanza. Fu una passeggiata barbosa. Non potevamo parlare di quel che piú importava, caso mai ci sentisse, cosí non dicevamo niente. Si sentiva solo lo sguisc sguisc dei nostri stivali di gomma (la contessa aveva le galosce). Alla curva da dove si cominciava a vedere il paese, disse che adesso potevamo anche tornare indietro. Forse si era stufata di camminare nel bagnato con due tipe col muso lungo, in stivali di gomma che facevano sguisc. A me però mi venne in mente una cosa un po' strana, cioè che al paese in fondo non ci si arrivava quasi mai. Appena qualche volta per far compere, e la domenica per la messa, si sa. Ma Ippolita non frequentava nessuno, in paese: questo volevo dire. Erano gli zii, chiaro, che la tenevano isolata, perché cosí potevano fare e disfare, nasconderle le lettere, anche chiuderla a chiave per delle settimane, se volevano! e nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno si sarebbe sognato di mettere il becco! Ma c'ero io. Ippolita non era del tutto abbandonata. Io potevo e dovevo fare qualcosa per impedire questa marcia ingiustizia che le facevano: alla faccia degli zii conti e del loro contorno di complici e carcerieri! Era un pensiero molto coraggioso, cosí coraggioso che mi mise paura. Quando mi trovai di nuovo sola con la mia amica mi era quasi passata la voglia di dirglielo. Tanto parlò lei, subito: - Te lo ricordi cosa dicevamo, prima che suonasse il gong? - Ma sí. Parlavamo della busta crema. Insomma della lettera che tua madre ha scritto a tua zia. E a proposito, perché lo avrà fatto? Se dici che ce l'ha antipatica... - Le avrà domandato dove sono finite le sue lettere, no? Da quel che le scrivo io deve averlo capito per forza che non mi sono arrivate. - Scrollò forte la testa, come se le avessi fatto perdere il filo. - Cosa c'entra questo, adesso! Sta' a sentire: quando ha suonato il gong io dicevo che se avessi saputo che la mamma era abbastanza vicina - a Parigi, mica piú in America - sarei andata

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