Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Cipí

206540
Lodi, Mario 6 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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Cipí e la passeretta, senza stancarsi, decisero di rivolgersi alle nuvole e appena le videro, le rincorsero e le supplicarono cosí: — O bianche nuvolette che girate il mondo e sapete molte cose, aiutateci; il signore della notte mangia i nostri amici, ma i passeri non vogliono crederlo perché non abbiamo prove. Dateci voi una prova! Le nuvolette risposero: — Noi vi aiuteremmo volentieri perché sappiamo molte cose di quel signore cattivo e conosciamo il pianto di tante madri, ma per darvi quel che volete dovremmo fermarci e questo non ci è possibile perché il vento ci spinge via con- tinuamente. Forse lui potrebbe accontentarvi: non abbiate timore se fischia, se scompiglia le piume o urla nei camini; un piacere non lo rifiuta mai. Addio! — E scomparvero all'orizzonte. Ed ecco che un giorno il vento, ansante per avere spinto sin lí dalla montagna una pigra nuvola nera, riprese fiato sopra il tetto e Cipí e Passerì gli gridarono: — O buon vento, aiutaci a svelare il mistero del signore della notte ai nostri amici che non ci credono, abbi pietà di tante mamme che piangono! Il vento si asciugò il sudore, scrollò il capo e brontolò: — Quel mascalzone se la merita davvero una lezione! — Ci aiuti dunque? — chiesero trepidanti Cipí e la passeretta. — Ora non posso perché ho molto da fare ma appena finito il mio lavoro vi prometto che vi aiuterò —. Poi si buttò nel cortile per vedere se era pulito e poiché da tanto tempo il custode non lo scopava, buttò in aria la polvere, i pezzi di carta e le foglie secche, brontolando. E se ne andò spingendo la nuvola nera. — Com'è buono il vento! — sussurrò Passerì felice al suo compagno. — Chissà però fin quando dovremo aspettare. — Ci vuole pazienza, — rispose Passerì, — chi è nel giusto deve saper attendere.

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Ora che abbiamo la prova e che abbiamo individuato il nostro nemico, dobbiamo trovare il modo di cacciarlo via. — Cacciamolo subito! — disse uno. — Ricordate che il mostro ha un becco uncinato e artigli potenti contro i quali nulla possono il nostro piccolo becco e la nostra forza, — avvisò Cipí. — Ma noi siamo tanti! — esclamò Chiccolaggiú con gli occhi stravolti. — Spargeremo dell'altro sangue! — ammonì Passerì. — Compagni, un'idea! — esclamò Cipí. — Sentiamo! — dissero i passeri stringendosi attorno a lui. — Il mostro ha bisogno di mangiare perché, come avete visto, non è vero che si nutre di ombre di comignoli; ebbene, noi dobbiamo fare un patto: nessuno deve piú incantarsi alle sue parole e nessuno degli altri passeri deve venire sul nostro tetto di notte, e se vorrà venire noi lo cacceremo a beccate! Cosí, preso dalla fame, il mostro se ne dovrà andare, se non vorrà morire nel buco. — È giusto! — disse Cippicippi, — ma bisogna essere tutti d'accordo. — Chi accetta la proposta venga con me, - disse Cipí volando sul grande albero. Tutti lo seguirono. Sul grande albero si stabilirono i turni delle sentinelle e cosí per una, due, tre, cinque, dieci notti, quando il signore della notte mandava fuori le stelline a dire: — Venite con noi nel regno della felicità, venite... venite... — nessuno l'ascoltava e guai a chi si avvicinava. La dodicesima notte, sfinito dalla fame e pieno di vergogna, il mostro dovette cedere: usci dal buco, prese il volo, spari silenzioso nella notte e da quella volta non lo videro mai piú.

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Abbiamo trovato la fila dei chicchi gialli! Fatti il gozzo intanto che ce n'è! Allora anche lui si mise a raspare, a estrarre i buoni chicchi gialli e a mangiarli. E intanto raccontava ai compagni la sua avventura: — Che paura poco fa...! Guardate qui! — e mostrò il didietro spennato. — Cipí ha perduto la coda! — Chi è stato? — dicevano. — È stato quell'antipatico animale coi baffi, — spiegò Cipí, — fingeva di dormire, pareva morto, io mi sono avvicinato per vedere se aveva gli artigli e lui, zaff!, mi saltò addosso e mi strappò la coda. In quel momento i passeri smisero di ascoltare, spiccarono un volo basso e andarono in fondo al campo. — Dove andate? — disse Cipí, guardandosi attorno incuriosito. I passeri non si vedevano piú, ora: ma si vedeva avanzare in mezzo al campo un uomo col tubo luccicante fra le mani. Cipí si uni ai compagni e disse loro: — Perché avete tanta paura? È ancora lontano, lui non sa volare... per prenderci deve venire molto vicino... A quelle parole soltanto alcuni passeri e una passeretta restarono accanto a Cipí, gli altri frullarono via, impauriti dai passi dell'uomo che s'avvicinava sempre piú. — Che fifoni! Io... — raccontava Cipí sbirciando con un occhio l'uomo e con l'altro i chicchi, — ... io quello l'ho visto da vicino, in fondo al buco nero. Ero ancora piccolo allora, ma ce l'ho fatta lo stesso, perché lui non è svelto come noi! — Si è fermato! — osservò la passeretta. — Punta il tubo luccicante verso noi! - esclamò un passero pieno di paura. — Dio mio, cosa fa? — gridò la passeretta correndo vicino a Cipí. Ma Cipí non ebbe il tempo di rispondere, perché all'improvviso scoppiò un formidabile tuono che fece scappare tutti gli uccelli. Nello stesso istante Cipí si trovò stordito dentro un nuvolo di polvere e quando si rialzò vide accanto a sé la compagna con un'ala spezzata. — Cipí, aiutami, non posso piú volare... - piangeva. Lí vicino un passero era steso nel solco, con le ali aperte e tremanti; aprì con sforzo il becco dal quale usciva un filo di sangue e con un soffio di voce sussurrò: — Cipí... — ma non poté aggiungere altro, perché in quel momento stralunò gli occhi, il suo corpo ebbe un brivido e restò là stecchito. Intanto l'uomo si avvicinava correndo; allora Cipí spiccò il volo gridando alla compagna ferita: — Forza, scappa, non farti prendere! In fondo al campo c'è un cespuglio, andiamo là! La passeretta con grande sforzo si trascinò fin là e si nascose in un cespuglio fitto, accanto a Cipí. L'uomo in quel momento raccolse l'uccellino morto, mentre Cipí, che dal cespuglio lo osservava, pensava: «Per colpa mia... è morto per colpa mia...» E per la prima volta nella sua vita sentì nel cuore un profondo rimorso e scoppiò in pianto.

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Noi abbiamo fame, non possiamo aspettare! — gli risposero. — Anch'io ho fame, — gridò Cipí, — ma non dobbiamo perdere il lume della ragione. Vediamo prima se c'è pericolo! — Vedete là, — disse Beccodolce con l'acquolina in bocca, — è grano scelto... ce n'è per tutti! Sul pavimento del porticato infatti, sotto una gabbia per pulcini sollevata da una cordicella, c'erano manciate di chicchi dorati che parevano dire: beccatemi. Beccodolce osservò: — La gabbia è alzata, ci si passa...! — Io vado! — esclamò l'ultimo nato di Piumaleggera. Cipí si oppose: — Un momento compagni! Ieri, gabbia e cordicella c'erano? — Ieri non c'era niente, — spiegò Beccodolce che veniva spesso in quel cortile. — Stiamo attenti allora! Meglio la fame che la morte! — disse Cipí preoccupato. E Passerì: — Quella cordicella dove va? — Nella tana dell'uomo, — osservò Beccodolce. In quel momento Cipí gridò: — Attenti! C'è lui! Spaventati, i passeri lasciarono la pianta e volarono sulla gronda. E da lí videro la testa dell'uomo, che affacciatosi alla finestra, si era subito ritirato. — Amici, qui c'è pericolo, andiamo via! - disse Cipí. — Noi abbiamo fame! — piangevano i giovani passeri. Passeri aggiunse: — Se noi andiamo là sotto a beccare il grano, lui tira la cordicella e noi restiamo intrappolati. — Ma io ho fame! Ho tanta fame! — Siate forti! Venite con noi in cerca d'altro cibo! — gridarono Cipí, Passeri e Beccodolce, ai passerotti affamati. - Io muoio di fame... io ci vado! — piangeva uno. — Io non ne posso più! — si lamentava un altro. Tre passerotti cedettero: spiccarono il volo, si calarono vicino alla gabbia, s'infilarono sotto e beccarono. Alla finestra era riapparsa la testa del nemico e nello stesso tempo la cordicella oscillò. — Scappate! — gridò Cipí ai tre passeri. Ma essi, invece di scappare, dissero agli altri: — Ah, com'è buono! Venite anche voi! Allora quasi tutti i passeri si avvicinarono alla gabbia. — Vedete? Non succede niente! — disse uno dei tre, — provate anche voi! A uno a uno i passeri presero coraggio e cominciarono ad entrare. — Dio mio, — gemeva Passeri, — ora si fanno prendere. E Cipí gridava: — Entrate uno alla volta, non tutti assieme! Attenti! Ma i passeri, spinti dalla fame, non capivano piú nulla: entravano e beccavano avidamente i bei chicchi saporiti. A un certo punto, trac! La corda scattò e la gabbia si abbatté sul pavimento facendone prigionieri una dozzina. Subito usci sghignazzando l'uomo, che ad uno ad uno li catturò e li ammazzò. Beccodolce e le altre mamme gridavano disperate, ma ormai non c'era piú nulla da fare. — Bisogna cercare dappertutto senza stancarsi, — disse Cipí, — bisogna andare dove non c'è pericolo e resistere di piú alla fame! Poi, insieme con Passeri e con i superstiti parti in esplorazione.

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Passerí disse: — Noi passeri del tetto abbiamo sempre avuto fiducia del signore della notte e ci sembra impossibile che sia un assassino. Io e te l'abbiamo visto, ma gli altri che cosa hanno visto? Niente! Fin che non avranno prove, non crederanno! — Ma gliel'ho detto io che l'ho visto! - brontolò Cipí. — È troppo poco per far cambiare idea agli altri... quando anche loro vedranno, crederanno. — Però potevano fare a meno di dire che sono un bugiardo! Io ho detto la verità per il bene di tutti! — Sii calmo, Cipí, vedrai che la verità presto o tardi viene sempre a galla... piuttosto diamoci da fare per cercare delle prove! — Viva le cose giuste! Via gli imbroglioni dal nostro tetto! — esclamò Cipí. E cominciò subito a insegnare ai suoi figlioli le storie vere della sua vita che li facevano restare a becco aperto. Narrava che cosa accade a chi precipita nel buco nero della torre fumante e a chi fugge dal tetto quando c'è la guerra dei nuvoloni, narrava che l'animale baffuto finge di dormire ed ha gli artigli affilati (e mostrava il didietro ancora graffiato); insegnava a stare alla larga dall'uomo, specie quando ha fra le mani la canna lucente (e mostrava le cicatrici di Passerí); diceva che le stelle del cielo non vengono a giocare sul tetto coi passeretti (e mostrava il buco dicendo: là c'è l'orco dal becco uncinato che ammazza chi si incanta!). Però raccontava anche le storie belle delle cose del mondo: i vestiti colorati che gli alberi mettono in primavera, il festival delle api, la vita e la morte di Margherí e le altre incantevoli storie della vita. Poi li portò a visitare i posti dove gli altri passeri facevano i nidi e cosí parlava con tutti: con quelli degli altri tetti, con quelli del giardino, con quelli della torre, e a tutti chiedeva: — Scappano di casa i vostri passeretti? — Scappare? Cosa vuoi dire? — gli rispondevano. — Qui da voi c'è un signore della notte? — Chi è? — domandavano. — Felici voi che non lo conoscete! — gridava Cipí. Un giorno capitò sui tetti di un castello antico. — Scappano di casa qui? — Ahimè, siamo disperate! — gridarono alcune mamme. — Tutti i giorni se non è uno, sono due che se ne vanno. — Tutti i giorni? Vorrete dire tutte le notti! — precisò Cipí. — È vero, spariscono di notte. Ma tu come lo sai? — Ditemi continuò Cipí— c'è vicino a voi un signore della notte? — Ne abbiamo due, — risposero le mamme, perché la nostra famiglia è grande ed uno non basterebbe a consolare le povere madri disperate! Cipí si arrabbiò, ma poi, ricordando le parole di Passeri. (bisogna portare le prove), si calmò. Intanto le mamme lo supplicavano: — Se sai dove sono andati i nostri figli, dillo! Non farci stare in pena! — I vostri figli vanno a finire nella pancia dei signori della notte! — gridò e le lasciò là con tanto d'occhi per la sorpresa. Mentre tornavano una voce li chiamò: — Ehi, voi! Cipí e i figlioli si voltarono e si trovarono accanto un passero arrabbiato che disse a Cipí: — Io sono del castello antico. Mi hanno detto che sei venuto là a dir male di chi ci protegge! — Anch'io prima credevo che i signori della notte fossero amici, e poi ho scoperto che uccidono i passeretti che credono nell'incantesimo! — rispose Cipí. Quel passero allora si buttò con impeto su Cipí e con un colpo di becco gli strappò alcune piume: — Toh, bugiardo! — gridò. — E guai se lo dici ancora! Cipí, attaccato all'improvviso sbandò, ma subito riprese il volo diritto e rispose: — E la verità! Ma quello, picchiando come una furia gli diede un'altra beccata e stavolta gli fece sanguinare il capo. — Smettila... torna a casa se no... — ammonì Cipí. — Provati! — urlò minaccioso quell'uccello slanciandosi col becco aperto su Cipí. Ma questa volta Cipí non si lasciò sorprendere: con una finta evitò l'attacco, si alzò di scatto, piombò come una saetta sull'avversario e lo beccò: — Vattene! — gli gridò. Quello, irato, si gettò a becco aperto su Cipí. Ma ancora una volta Cipí riuscí a schivarlo, ad alzarsi, a piombare in picchiata e a dargli un'altra beccata sul dorso. E cosí cominciò una furibonda lotta che i tre piccoli seguivano da lontano, timorosi di vedere da un momento all'altro il papà cadere morto. Poco dopo invece si vide il passero prepotente, con le piume scompigliate, fuggire gridando: — Basta! Basta! Mi arrendo! Cipí lo lasciò andare e quello se ne fuggí scornato e rabbioso verso il castello antico. I figlioli fecero festa a Cipí e a casa raccontarono a Passerì la splendida vittoria di papà. Ma Cipí era molto triste. Disse: — Poveretto... ora odierà me e non capirà piú chi è il suo nemico... Una passera chiacchierona che aveva visto la lotta da lontano, andò da Cippicippi e dalle altre mamme a raccontare l'accaduto e diceva: — Quel Cipí non mi piace. Oltre che bugiardo s'è fatto anche prepotente. Ha picchiato uno del castello antico che non gli aveva fatto niente, poverino! Da quando gli è venuta la mania contro il signore della notte è proprio diventato cattivo! Le idee moderne lo hanno rovinato!

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Lo stralisco

208394
Piumini, Roberto 12 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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— Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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«Sí, abbiamo mangiato il nostro signore, — dicevano, parlando insieme come un coro di vestali. — Ora puoi tornare a Venezia, se lo desideri. Laggiú è già tempo della festa di Maggio». «E voi? Non verrete con me?» «Noi dobbiamo, in verità, masticare e masticare, — rispondevano in coro. — Finché mastichiamo, lui non rinasce». E una gli porse un orecchio esangue. «Mangia, se vuoi, il tuo viaggio è lungo». Gentile prese l'orecchio, e senti che era freddo come il ghiaccio. «Posso portarlo alla festa di Maggio?» disse, piangendo, poi si svegliò, infreddolito, tremante. Una spinta intestinale doleva forte nel ventre. Si alzò, inciampò nella veste che aveva gettato a terra prima di addormentarsi. Cadde sul tappeto, senza farsi male. Tornò in piedi e corse nella piccola camera a bugliolo. Appena seduto cominciò a scaricarsi con violenza: già il dolore al ventre passava. Guardava la piccola candela nella boccia di vetro rosato che illuminava le pareti arabescate della stanzetta. Senti venire, dalle capanne sparse sulla riva dello stretto, sotto il palazzo, un limpido canto di gallo.

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Questa mattina, nel giardino, una delle sorelle ci ha chiamate al cancello della Luna: e oltre le sbarre che, benedette, ci conservano al tuo servizio e alla tua dolcezza, abbiamo visto l'uomo che ora qui vedi, e che dice di essere il pittore veneziano che hai chiamato per il tuo ritratto. Con stupore lo vedemmo là: e sebbene la vanità non sia cosa onorevole, mi è sembrato che, piú di ogni altra, egli guardasse me, e ne sono rimasta turbata. Il mio sonno, questa notte, era leggero: ho aperto gli occhi, ed ecco ancora costui che si muoveva dietro quel quadro. Per un lungo istante, luminoso signore, ho pensato che fosse un sogno: come poteva, un uomo che non fossi tu, essere entrato nell'harem? Qui sdraiata, sorpresa e muta come un bambino cui, per burla, qualcuno appaia in veste di angelo o di stregone, io mi pizzicavo la carne per svegliarmi. Ma costui era presente. Ho parlato, gli ho chiesto chi fosse, come e perché fosse qui. Le sue ragioni, luminoso signore, mi sono parse incerte e maldestre, come quelle di un ladro sorpreso a rubare. Racconta di essere qui con la complicità di qualcuno. Ora ti ho chiamato non solo perché tu decida come punire l'oltraggio, ma perché con il tuo infinito potere gli chieda il nome del serpe immondo che lo ha portato fino a me. L'Imperatore restò silenzioso, quasi ripetendo le parole di lei. Poi avanzò e le sedette accanto, e alzò lo sguardo al quadro, mestamente. — Non addolorarti troppo per me, luminoso signo- re, — disse Amilah, chinandosi a baciargli la mano. - Questa vicenda non mi ha ferito: mi sorprende soltanto. Quanto a costui, se è vero che si tratta del pittore che ti ritrae, non desidero muoia prima di aver compiuto la sua opera: e se temi che mani minacciate di morte possano essere meno capaci e sicure, lascialo tornare libero alla sua patria: la punizione cada solo su quelli che non hanno protetto la mia solitudine, che è un dono per te. Quasi lontano da sé, stordito, Gentile aveva smesso di provare paura: non per la via di salvezza che Amilah nominava, ma per la visione di quale amore e dedizione lei portava al Sultano. Non provava gelosia, giacché alla gelosia occorre, per esistere, almeno l'illusione di un possesso: lo scorava invece come una nostalgia, una malinconia totale, sentirsi nell'abisso del non-amato, del non-diletto, del non-guardato. Ebbe la folle voglia di correre via fra i gelsomini del giardino: non per fuggire minacce di morte, ma la delusa angoscia che lo opprimeva. Ebbe, vagamente, un desiderio di liberazione mortale: di una fischiante zagaglia di eunuco che, penetrandogli nel cuore, lo togliesse da quell'eccesso di vuoto, dall'abbandono assoluto in cui le parole di Amilah lo avevano lasciato.

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Sulla bestia quietata il cavaliere si sporse: con voce meno alta ma piú brusca, parlò: — A Firenze è conosciuto il mio nome, e anche la mia faccia: se non li sapete, vuol dire che abbiamo biada in diverse greppie. Ora fate spazio, o lo farà il mio frustino! Spronò il cavallo, alzando insieme lo scudiscio minaccioso. Filippo, con un balzo, si levò dalla via, e si voltò a guardare la polvere del passaggio, con una smorfia di spregio. — Io lo conosco, — disse fra Diamante, risalendo dal fossetto in cui era sceso fin dal primo grido. — Chi è? — Messer Francesco Buti. — Abbia le grazie che merita, — disse freddo Filippo: assai lontano, in pazienza e in umiltà, dal dover essere dei frati. Poi, in un silenzio di malumore, ripresero la via.

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Abbiamo ogni tipo di colore. Il burban tuo padre ha fatto arrivare per noi gli oli e le polveri colorate piú preziose tra quelli che i mercanti portano dalla Persia con i cammelli. — Non intendevo questo, Sakumat. Io chiedo se... siamo sicuri delle cose da dipingere. — Abbiamo qualche idea, Madurer. — Si, certo. Ma non bisogna sbagliare. — Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare? — Perché se sbagliamo... se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre. Sakumat alzò una mano. Disse: — Invece possiamo sbagliare, Madurer. Basterà tenere gli occhi aperti, e accorgersi degli errori. Forma cancella forma, e colore copre colore. Però ora bisogna cominciare. Se non cominciamo non possiamo fare le cose giuste, e nemmeno quelle sbagliate. — Sí, — disse il bambino, — hai ragione. — E dunque, da dove cominciamo? Quale parete dipingiamo per prima? — Questa. No... quella! Oppure... Vedi, Sakumat? Sbaglio già adesso, e non abbiamo nemmeno cominciato! — Non stai sbagliando, Madurer. Stai decidendo. Questo è sempre difficile: ma si può fare. Sakumat attese in silenzio. Il bambino si era fatto molto serio. — Cominciamo da questa parete, — disse poi, — qui, a destra della porta. — Bene. E cosa dipingiamo? Ci fu altro silenzio. Madurer si leccava le labbra e respirava profondamente, con gli occhi spalancati. Sakumat teneva le mani appoggiate su un cuscino, davanti a sé. — Abbiamo parlato di molti luoghi, ricordi? — disse. — Sí, ricordo. Ma aspetta un poco, per favore. È proprio difficile scegliere. — Noi non abbiamo fretta, Madurer. Nessuna fretta davvero. — Cominciamo con la montagna. Ricordi quando abbiamo parlato del prato fiorito e del pastore Mutkul? Facciamo la montagna dove vive Mutkul! — Quella soltanto, Madurer? — No, certo! Anche le montagne intorno. Non tutte le montagne del mondo... Facciamo delle montagne. Sakumat non chiese altro: si mise al lavoro. Con un carboncino tracciò le linee di una grande vallata, schizzando vette rocciose intorno. Indicò con tratti leggeri le zone di bosco, definí sul fondo della valle i campi coltivati. Tratteggiò un gruppo di case di pietra e una strada che si arrampicava sul monte, sparendo a tratti in avvallamenti pietrosi. Dietro di lui Madurer guardava incantato. Ogni tanto si spostava inquieto, seguendo con il capo e il corpo i segni del carboncino sulla parete. Poi, calmato, sedeva sui cuscini e osservava a occhi socchiusi, godendosi le svelte aggiunte di Sakumat, ammirando il nascere ed ampliarsi degli spazi nella pittura. — Quello che cosa è, Sakumat? — Forse è un macigno. O una capanna. Vuoi che sia una capanna? — Ma può essere una capanna? — Certo. È vicina al grande campo... Può essere la capanna del contadino. — Però, Sakumat, è davvero una capanna? Tu volevi fare la capanna? Sembra un macigno. — È solo uno schizzo, Madurer. Niente è ancora finito. Potrebbe essere un macigno. E può essere la capanna del contadino. Il pittore, con tocchi leggeri, aggiunse qualche segno, e formò l'immagine della capanna. — È la capanna di un amico di Mutkul! — sbottò entusiasta Madurer. — Come si chiama? — chiese Sakumat senza voltarsi, — non ricordavo che Mutkul avesse un amico. — Nella storia non c'era, infatti! Però Mutkul poteva avere un amico contadino, vero? — Certo che poteva. Era un uomo socievole, anche se stava bene con le sue capre e il suo cane. — Allora facciamo che si chiamava Insubat! — Sí: questa è la capanna di Insubat. Aveva molte pecore, Insubat? — No, perché non era un pastore: era contadino. Aveva un bue per tirare l'aratro e anche un asino vecchio dal muso peloso. Sakumat schizzava rapidamente. — Ecco, questo è il piccolo recinto per il bue e l'asino, — disse, — è qui, dietro la capanna. Madurer si era di nuovo alzato e guardava ansioso la parete. — E la capanna di Mutkul, dove la mettiamo? — Ci penseremo oggi, Madurer, — disse il pittore, — ora siamo un po' stanchi. E fra poco arriverà il burban. Piú tardi, nel pomeriggio, mentre sfogliavano insieme un libro che mostrava molti insetti dalle lunghe zampe, il bambino chiese: — E il grande macigno, Sakumat? — Quale macigno? — Quello che... Quello che poteva essere un macigno, e dopo è diventato la capanna di Insubat. Quello che non era ancora la capanna... Il macigno che avrebbe potuto esserci, insomma... — Sí, ricordo. Cosa vuoi sapere? — Dov'è? — Non so, Madurer. Non esisteva ancora... C'era qualcosa, là, e abbiamo deciso che è la capanna di Insubat. C'è solo la capanna di Insubat. — Ma avrebbe potuto esserci anche il macigno, vero? E se non c'è, dov'è? Voglio dire, non esiste proprio per niente? Non c'è? Sakumat stava per rispondere, ma si trattenne. Tacque per qualche istante. Poi disse: — Forse è dall'altra parte della montagna. È sul lato che non vediamo. Madurer prese a sfogliare il libro. — Facciamo che è dall'altra parte della montagna, — disse, — quella dove ci sono anche i ladri di bestiame. E proprio in un bosco di cedri. Non è mai completamente illuminato dal sole, perché i rami dei cedri sono fittissimi. — Allora deve essere un po' coperto di muschio, - disse Sakumat. — Di che colore è il muschio? — chiese il bambino, continuando a sfogliare il libro. — Io ho letto che è verde. Ma è verde come questa farfalla? È verde cosí il muschio? — Un po' piú scuro. Assomiglia al verde di... questa parte del disegno. Ma ci sono molti tipi di muschio, e certamente esiste un muschio piú chiaro. Forse esiste un muschio dello stesso colore della farfalla. — Tu l'hai visto? — No. Non c'è molto muschio, in questa regione. Ma piú a sud, e anche a nord, fra le montagne alte, se ne trova moltissimo. Cosí dicono i viaggiatori. Madurer alzò la faccia. — Se esiste davvero, — disse, — e se la farfalla ci va sopra, nessuno la può vedere, perché ha lo stesso colore. — Sí, è cosí, — disse Sakumat, — come la lucertola sulla roccia. Madurer rise brevemente. Poi disse: Tu credi che la farfalla sappia di esistere, quando è sul, muschio verde chiaro? Anche Sakumat rise. — Sí. Credo che sappia di esistere allo stesso modo di quando vola, o è in riva a una goccia d'acqua... — Io invece credo che lo sappia un po' meno, — disse Madurer, continuando la sua risata leggera.

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. — Non abbiamo deciso che in questa stanza comincia il mare? Sakumat non rispose, continuando rapido il disegno. Ma non passò molto che la linea morbida dei colli si interruppe, e un segno netto calò, disegnando una scarpata quasi verticale. Poi, tenendo leggermente il carboncino fra due dita, il pittore tracciò una linea sottile, continua, perfettamente orizzontale, per l'intera parete. — Ecco il mare, Madurer. Il bambino seguiva con lo sguardo la nascita dell'orizzonte. — Non ti fermare, per favore, — disse. Sakumat aveva ormai superato l'angolo tra le pareti. — Ancora? — chiese senza voltarsi. — Sí, ancora! Per tutta la parete, e anche l'altra... per favore! — disse Madurer. — Facciamo tutto il mare, in questa stanza! Sakumat non si fermò. Lentamente, con sicurezza, tracciò la linea orizzontale tutto intorno interrompendola all'ingresso della terza stanza e riprendendola dall'altra parte, fino a tornare alla porta tra la prima stanza e la seconda. — Ecco, è tutto il mare, — disse. Madurer, in piedi al centro della stanza, girava lentamente su se stesso, guardando intensamente la linea leggera che divideva lo spazio bianco della parete. Girò piú volte, rosso in faccia, con gli occhi lucidi e le mani che stringevano l'aria in strane contrazioni. — Sopra è il cielo, e sotto è il mare, — disse. All'improvviso, con uno dei suoi scatti leggeri, corse nella prima stanza e tirò una corda appesa vicino all'ingresso principale. Dopo un istante entrò la piú anziana delle servitrici. — Alika! Corri a chiamare mio padre! — disse il bambino. — Non stai bene, mio piccolo signore? — chiese la donna guardandolo in faccia. — Sto molto bene, Alika, — disse Madurer. — Voglio soltanto che venga mio padre, per mostrargli una cosa. Fai in fretta, per favore!

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— Come quella che abbiamo sul libro rosso? — Sí, di quel tipo. Due alberi, con trenta pirati a bordo... — il bambino si allontanò lentamente dalla parete, continuando a guardare. — Viene dalle coste di Grecia, e si chiama Tigrez. Il mattino dopo, ancora piccolissima, la nave pirata si stagliava all'orizzonte, un poco inclinata, con le vele miste tese al vento. Era troppo lontana per poter vedere i pirati, ma la piccolissima bandiera era nera, e il punto bianco al suo centro non poteva essere che un teschio. — Sakumat, io trovo che i pirati del Tigrez sono troppo prudenti, — disse Madurer. — Perché? — Perché navigano solo di notte, e di giorno se ne stanno tutto il tempo fermi sotto il sole, nonostante tiri un gran vento... Avranno la noia, non ti pare? E non sapranno cosa fare. I piú ribelli si raduneranno all'ombra del boccaporto e borbotteranno contro il capitano. «Che diavolo sta facendo il capitano? — diranno. — Che diavolaccio di modo di navigare è questo? Che gli siano entrate le seppie nel cervello?» Sakumat sorrise. — Già, — disse, — è proprio uno strano modo di navigare. — Credo che li possiamo un po' incoraggiare, vuoi? — disse il bambino. Cosí Sakumat dipinse la nave piú grande, mentre il bambino osservava: e in tre giorni il Tigrez si avvicinò di un buon tratto. In una settimana almeno di un altro miglio, e ogni volta, poiché cambiava il vento, le vele erano tese in modo differente, e la chiglia tagliava l'onda con diversa angolatura. Perché fosse vicinissima, il piú vicino possibile per una nave sospettosa, ci volle un mese intero. Con il libro di pirateria aperto sulle ginocchia, Madurer dava consigli e faceva domande. Raramente Sakumat rispondeva a parole. I pirati del Tigrez, in verità, non erano trenta, ma ventinove. In coperta se ne vedevano soltanto diciotto, perché gli altri erano di sotto, nella cambusa, in cuccetta, e alcuni addirittura ai ferri, per punizione. Ma di tutti Madurer conosceva nome e provenienza. Il capitano era un greco di Salamina, e si chiamava Krapulos. Il secondo era un rinnegato di Rodi, di nome Purtik. Stavano tutti e due sul piccolo cassero a guardare il mare con un grosso cannocchiale, mentre sulla coffa, col braccio teso ad oriente, stava in bilico il moro Randui, che i pirati avevano liberato da una galera turca... — Niente mozzo, su questa nave? — chiese un giorno Sakumat. Madurer alzò la faccia dal libro che stava consultando. Ormai il vascello, lanciato in bolina, aveva girato il fianco e si mostrava in tutta la sua grandezza: otto pirati erano alle manovre, in gran pericolo di cadere in mare. — Ce ne vuole uno? — disse il bambino. — Certo. Tutti i capitani da piccoli hanno fatto il mozzo su una nave pirata. Senza piccoli mozzi, niente grandi capitani. — Anche Krapulos era mozzo? — Era mozzo sulla Majada, un due alberi chiamato anche lo Squalo di Cipro, — asserí Sakumat. — Quando le navi turche di Kuranin il Pazzo affondarono la Majada, Krapulos, che aveva quattordici anni, nuotò una notte intera seguendo le stelle, fino all'isola di Santorini... Il giorno dopo, a cavallo del palo prodiero del Tigrez, sedeva pericolosamente un mozzo dai capelli scuri, con una mano aggrappata ad una cima del fiocco e l'altra al corno del drago che faceva da polena al vascello pirata. Era il mozzo del Tigrez, e si chiamava Madurer. — Non ci sono io solo al mondo con questo nome, no? — aveva detto il bambino con irruenza. — Certo, no. Chissà quanti Madurer ci sono, — aveva ammesso Sakumat. — Ecco: uno di loro è il mozzo del Tigrez, — aveva concluso il bambino, stringendo fra le cosce un grosso cuscino di raso. E fissava il mare oltre la prua.

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. — Non temerlo, amico mio, — rispose il burban, — non ci sono segni diversi in questo suo malore, e nemmeno è precoce: anzi è questo il piú lungo intervallo tra le crisi che abbiamo potuto misurare. Del resto, a suo tempo mi informai su questa possibilità, e tutti l'hanno esclusa. I tuoi colori sono per mio figlio solo fonte di contentezza. Fu come il burban aveva previsto. Nei giorni seguenti, pur restando a letto senza forze, Madurer non mostrò piú segni di sofferenza. Negli intervalli dei lunghi sonni quieti, in cui passava quasi metà del giorno, riprese i suoi colloqui con il pittore. — Ora c'è da dipingere la terza stanza, Sakumat... — Sí. Come la dipingeremo? — Ci penso molto. Sto prendendo una decisione. — Ma non c'è fretta, piccolo amico. Tu sei stanco, e un poco anch'io. Non ci sarà nessuna conseguenza cattiva se interrompiamo per qualche tempo il lavoro. — Sí, certo. Ma il pensiero non mi costa troppa fatica: e allora ci penso. Il bambino chiese di trasportare il suo letto nella terza stanza, dalle pareti ancora intatte. Le guardava a lungo, in silenzio, tenendosi una mano davanti alla bocca con atteggiamento grave. — Posso conoscere un po' dei tuoi pensieri, Madurer? — chiese Sakumat qualche tempo dopo. — Ecco, io... Non sono proprio dei pensieri, Sakumat: sono come dei desideri, dei desideri di immagini che lottano fra loro... Immagini in contrasto nel mio pensiero. So che una vincerà, ma è ancora presto per sapere quale. — Non vuoi parlarmi di queste immagini, Madurer? Forse, con le parole, sarà piú facile decidere. Ma il bambino si era di nuovo addormentato. I suoi riposi, densi come possono essere solo quelli che seguono le grandi stanchezze, non duravano meno di un paio d'ore. Sakumat usciva allora da palazzo e montava il suo vecchio cavallo. Attraversava al passo il villaggio, guardato con mutissima curiosità dalla gente, che sapeva qualcosa della sua presenza presso il burban. Quando il pittore, a quelli che piú arditamente sollevavano verso di lui la faccia, accennava un saluto, provocava inchini e timide ritirate. Fuori dal villaggio lanciava il cavallo ad una andatura piú energica, senza mai spingerlo alla corsa. Sentiva, piú che nel corpo consumato della bestia, nel proprio la pesantezza dei mesi passati a dipingere, e faticava a ritrovare l'agilità e il gusto della cavalcata, che sempre aveva avuto. Tuttavia insisteva, lasciando che lo sguardo corresse attorno molto piú veloce del cavallo, a urtare in silenzio i larghi fianchi pietrosi della vallata, la cui immagine tornava come un'eco spogliata, continua e nitida. E gli sembrava di notare pietre e spazi e tinte con nuova precisione: di sapere, in qualche modo, prevedere le cose che il paesaggio poco a poco svelava... Al ritorno trovava quasi sempre il bambino addormentato, e attendeva accanto al letto il suo risveglio. Se Madurer tardava a svegliarsi, camminava a lungo accanto alle pareti delle stanze dipinte e con lo sguardo ripassava ogni ricchezza delle pitture, ogni segno lasciato dai giochi pensosi fatti assieme al bambino.

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Non come quelli che abbiamo fatto sulle montagne e le colline, però. Quelli sono visti da lontano. Io vedevo un prato con erba e fiori molto vicino. — Un prato grande e vicino, — ripeté Sakumat. — Si, come un mare, ma vicino, capisci? Tutto intorno, in modo da esserci in mezzo. Di essere dentro. — Cosí dipingeremo un prato, Madurer. — Ma c'è una cosa. C'è una cosa che ti devo dire... Però ora ho molto sonno. Te la dico dopo, Sakumat. Qualche volta, durante le attese, il pittore non uscva dal palazzo. Percorrendo corridoi e scale, per i quali aveva assoluta libertà di movimento, raggiungeva una torre non altissima ma decisamente piú elevata di ogni altra costruzione del villaggio, e guardava il volo degli uccelli. Li guardava cosí a lungo e attentamente che, tornando nelle stanze di Madurer, e trovandolo ancora addormentato, disegnava su grandi fogli di pergamena la traccia di quei voli, in larghi scarabocchi a nessun altro comprensibili. Poi piegava i fogli, e li riponeva nel basso scaffale della prima stanza. Spesso, al risveglio, come se durante il sonno avesse vissuto una curiosità, Madurer chiedeva che il letto fosse spostato da una all'altra delle stanze dipinte, oppure orientato diversamente, in modo da aver di fronte ora le montagne, ora la pianura e la città assediata, o le colline deserte, o la nave pirata nel suo mare cangiante, o il puro orizzonte marino. — Cosa mi volevi dire sul nuovo prato, Madurer? - chiese Sakumat. — Sarà bellissimo, vero? Io lo penso bellissimo. — Credo che sarà bello. Facciamo buone cose, di solito, tu ed io. Ma avevi qualche altra cosa da dirmi, ricordi? — Sí. Non è molto facile. Non vorrei che fosse troppo faticoso, per te. Sakumat sorrise e aspettò senza parlare. Il bambino riuní le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre. Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendo o no, Madurer li imitava. — Ricordi la nave, quando arrivò? — disse. — Certo che la ricordo. — Voglio dire, ricordi che si fece vicina a poco a poco? Al principio c'era quel puntino lontano, e non sapevamo nemmeno che era una nave... Sí, ricordo bene. — Poi diventò grande, e cosí si vedeva che era una nave. — Sí. Prima viaggiava solo di notte, — sorrise Sakumat, — poi decidemmo di incoraggiare la ciurma... Il bambino aveva la fronte corrugata, come per uno sforzo. Sakumat tacque, e aspettò. — Io vorrei che anche per il prato fosse cosí, — disse Madurer tutto d'un fiato, aprendo un poco le dita sulla coperta. Sakumat alzò un sopracciglio. — Se penso che vuoi una nave che arriva lentamente sul prato, penso giusto o sbagliato? — disse. Madurer rise. Si sollevò nel letto e si appoggiò ai cuscini. Ormai era tornato abbastanza in forze, e la carnagione, naturalmente non troppo colorita, aveva perso tuttavia il pallore della malattia. — Sbagliato! Volevo dire che mi piaceva moltissimo vedere la nave avvicinarsi. E anche il prato, mi piacerebbe vederlo crescere piano piano. — Vuoi che lo dipinga lentamente? — No... Vorrei proprio che fosse un prato che cresce. Prima con l'erba corta, poi più lunga... Prima i fiori, come si dice, acerbi? E poi maturi. Capisci? — Adesso ho capito, — disse Sakumat. — E si può fare? — Sí. Ma ci vorrà tempo. — Prima delle montagne dicevi: «Abbiamo tutto il tempo, Madurer!» — fece il bambino, tentando di imitare la voce del pittore. — È vero. Abbiamo tempo, — disse adagio Sakumat, — tutto il tempo che ci è dato, l'abbiamo. — Puoi chiamare i servi, per favore? Vorrei far portare il letto nella terza stanza. Voglio dormire li, mentre cresce il prato. Anche tu ci dormirai? — Mmh... Alla mia età, un prato può essere troppo umido, di notte, Madurer! — fece Sakumat. — Ma visto che il prato crescerà lentamente, forse mi potrò abituare. Quando, piú tardi, venne il burban a trovarlo, il bambino parlò a lungo con lui del nuovo progetto. Il padre disse che era una splendida idea. — Nemmeno il burban di Ankara ha un prato in casa! — disse. Poi Madurer si addormentò. — Amico mio, quanto tempo occorrerà per dipingere il prato, come lui vuole? — chiese il burban a Sakumat. — Come vuole lui... almeno quattro mesi, signore. Forse cinque. — E questa è l'ultima stanza. Quattro mesi sono sufficienti... — disse Ganuan. — Posso chiedere sufficienti a cosa, signore? — Ad allargare l'alloggio di mio figlio. Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.

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Ma abbiamo da lavorare ancora sulle nostre figure, Madurer. Ho delle idee, ma devo pensarci meglio. Come capitava a te prima di decidere il prato, ricordi? — Si. — Intanto, finché non ti alzerai, leggeremo delle fiabe, e guarderemo le figure dei libri. — E faremo qualche disegno sulla pergamena? — Se non ti stancherà troppo. Ti insegnerò a dipingere gli uccelli. Ma nei giorni seguenti le forze di Madurer non furono sufficienti a disegnare. Sakumat gli lesse molte storie, parlando con lui delle vicende e dei personaggi. Notava intanto come la forza stentasse, molto piú della volta precedente, a ritrovare le strade nell'organismo del piccolo. Ma il pensiero di Madurer, tra un riposo e l'altro, era rapido e desto. Soltanto, a tratti, lo prendeva una specie di distrazione, un momento di assenza, nel quale gli uscivano parole svagate, forse senza significato: come se il suo stesso pensiero, imprendibile, le facesse risuonare senza i legami del linguaggio. Anche i sonni diurni diventarono piú lunghi e insistenti. — Costruire nuove stanze è una buona idea, — disse Sakumat. — Ma io ne ho una migliore. — È quella a cui hai pensato in questi giorni? — Sí. E mentre ci pensavo diventava piú bella. — Allora dimmela, Sakumat. — Ecco: se noi continuiamo ad allargare le pareti, non potremo piú dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo. Madurer taceva, attentissimo. — Insomma, credo che queste pareti ci. bastino, - disse Sakumat. — Ma sono complete! — osservò Madurer. — Il Tigrez è grande nel mare, e piú grande non potrebbe diventare. Il prato è completamente fiorito. C'è anche lo stralisco che brilla di notte. Che altro possiamo dipingere? Sakumat giocava parlando con le mani del bambino, come spesso faceva. — Ricordi come abbiamo dipinto le cose, Madurer? — disse, stringendogli un po' piú forte le dita, — come era piccola la nave, all'inizio? E com'era acerbo il prato? — Si, li abbiamo fatti poco a poco. Piano piano. — E ricordi una cosa ancora piú antica? Che il mondo non fa salti, e non si ferma? Madurer rimase in silenzio, soppesando fra le sue dita piccole quelle piú grandi del pittore. — Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? — disse. — Possono continuare, sí. E cambiare. Se noi vogliamo. — Cambiare come? Diventare più belli? — Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita. Il bambino sembrò affaticato. Stava rientrando nel torpore. — Sí, facciamo cosí, — disse, — poi mi spiegherai, come... Anche per Sakumat era stata una conversazione faticosa. Ascoltò il respiro fragile del bambino assestarsi in cadenza piú regolare. Poi chiuse gli occhi. Come dalle ferite di un ramo, dalle palpebre chiuse uscivano lacrime chiare.

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— Perché io e Sakumat abbiamo deciso di lavorare ancora sui nostri paesaggi. Dobbiamo aggiungere il resto della vita. Il burban tacque, guardando il figlio. — Forse non mi spiego bene, padre mio, — disse Madurer, e lo prese per mano, — voglio spiegartelo da vicino. Ganuan segui il figlio finché si trovarono di fronte alle montagne, nella prima stanza. — Che cosa vedi, padre? — chiese Madurer indicando con la mano una parte del paesaggio. — La montagna. E sul fianco, la capanna del pastore Mutkul con il recinto delle pecore. Poi vedo... — Un momento, padre. Quello che vedi, è proprio quello che hai già veduto? — Sí, mi sembra. No, aspetta... Sbaglio, o le capre di Mutkul dovrebbero essere piú numerose? Mi sembra proprio che siano diminuite... — Bravo! — esclamò Madurer. — Erano diciotto, precisamente! — E adesso sono nove, — contò il burban, — nove soltanto. — Sí, nove. Otto femmine e un montone. E sai perché? — Forse è venuto un orso, di notte? — No, padre. — Dei ladri di bestiame, allora. — Niente ladri. I ladri ci sono, ma stanno dall'altra parte della montagna. Da questa parte non vengono mai. — Allora Mutkul ha venduto le capre che mancano. — Mutkul non vende le sue bestie, padre. A lui non occorre denaro, perché mangia formaggio e beve latte, e si veste con la pelle delle capre. Però... ci sei vicino! — Allora le ha regalate? — Sí! — fece Madurer. — Sai, padre, Mutkul non ce la faceva piú a badare ad un gregge numeroso. Gli anni passano, e lui non è piú agile e robusto come una volta. Non riesce piú ad arrampicarsi per le rocce, e inseguire gli agnelli. Il burban abbassò il capo, in ascolto. — E cosí le ha regalate! — continuò Madurer. — Le ha donate ad un pastore giovane che vive appena oltre il crinale, e si chiama Bubakr, e ha i capelli rossicci. — Ma Mutkul non aveva il suo cane zoppo, che lo aiutava? — chiese il burban. — Oh, è morto, — fece Madurer con voce leggera, — è morto da parecchi mesi. Anche per questo Mutkul non tiene più un gregge numeroso. Di altri cani non si fida. — Ed è molto vecchio, ora, Mutkul? — Non vecchissimo, padre. Però è piuttosto vecchio. — Come me? — No. È piú vecchio di te. Ed è molto stanco. Cioè, abbastanza stanco. Madurer alzò la faccia e disse con aria solenne: — Il tempo passa per tutti, padre mio. — Certo, — disse Ganuan, e levò lo sguardo dal figlio, per osservare altre parti del paesaggio. — Vedo laggiú un'altra novità, — disse, — non c'era neve su quelle montagne, mi pare... — Infatti. Si avvicina l'inverno, — rispose Madurer, — gli orsi sono già entrati nelle grotte per dormire. Con la mano mostrava al padre i mutamenti. Indicò il colore del bosco, meno verde di prima: vaste zone erano coperte da una tinta giallo bruna, e piú in basso l'erba dei prati era a tratti bruciacchiata dal freddo notturno. — Lassú, vedi la caverna, sotto la roccia? Sí. È nuova anche questa? — Prima era coperta dagli alberi. E vedi il testone dell'orso? — Questo? — No, quella è la roccia. Un po' piú in basso... Ecco! — Sí, questo è l'orso. Bisogna guardare attentamente, per vederlo. — E l'ultimo orso che va in letargo. Ha mangiato moltissimo, negli ultimi due mesi: bacche, noci, miele, frutta, e persino formiche! — Persino formiche? — Sí, padre. Gli orsi mangiano tutto. — Allora ha la pancia piena. — Grossa cosí! — e Madurer imitava ridendo la gonfia andatura dell'orso ghiottone. Poi sedette sui cuscini e continuò: — Lo ha preso una grande sonnolenza, capisci? Ora va nella grotta a dormire per tutto l'inverno. — Però adesso è ancora sveglio, — disse il burban, sfiorando con le dita l'ombra dell'orso nella caverna. — Non dorme ancora. Ogni tanto fa due passi fuori, e sgranocchia qualche ramoscello. Ma soltanto per golosità, perché ha già la pancia pienissima. Respira, e fiuta l'inverno. Poi, fra poco, entrerà nella tana e ci resterà per molti mesi. Ma prima farà un bel mucchio di rami secchi davanti all'ingresso, per ripararsi dal vento, mentre dorme. Il burban guardò intorno, stordito. Disse: — Non fa freddo qui, vero? Vuoi che faccia accendere il fuoco? — No, padre. Non fa freddo, — rispose Madurer, — è solo un po' meno caldo, perché l'estate è passata. Ma non occorre il fuoco. Tutto il paesaggio della prima stanza era mutato: non in modo vistoso, ma in ogni particolare. Al posto del carro di Talya che andava con la sua tenda azzurra verso la pianura, c'era adesso un carro dalla tenda marrone che due buoi trascinavano verso la montagna. Nessun cavallo era legato dietro il carro, ma due grossi cani pelosi trotterellavano accanto alle ruote. La città nella pianura non era più assediata. Attorno alle mura, presso il grande portale spalancato, si vedevano piccole baracche di mercanti. Rimpicciolito, vicino ad una tenda azzurra da nomadi, c'era il carro di Talya: e la piccola, quasi invisibile, che si esercitava ai salti acrobatici. — Come è finito l'assedio, Madurer? Il bambino invitò il padre a sedersi accanto a lui. Poi prese a raccontare: — È finito in un modo abbastanza strano, e anche divertente. Devi sapere che il capo degli assedianti, il re Ras-Patay, si ammalò d'impazienza dopo tre anni di assedio: si ammalò tanto che mori. Alla sua morte non c'era più motivo di assediare la città, e cosí le truppe dovevano andarsene: però diventò Re il principe Njulabey, figlio del morto. Il principe, ricordi?, era quello che mandava con il piccione il messaggio d'amore alla principessa assediata, che si chiamava Mutihah, e ora che era Re non se ne voleva andare, perché se partiva l'avrebbe persa. Però non poteva nemmeno restare li senza combattere, senza continuare l'assedio, perché i suoi generali, a stare con le mani in mano, si sarebbero offesi. Allora cosa fece Njulabey? Si incontrò di nascosto sotto un albero di prugne con la principessa Mutihah, e si misero d'accordo per fare un bambino. Il giorno dopo il principe, che adesso era Re, chiama i suoi generali e dice: «Chi mi può impedire di rinunciare ad essere Re?» «Nessuno, Re Njulabey: ma ci vuole un erede!» «L'erede c'è». «Dov'è?» «È nella pancia della madre, la principessa Mutihah, bella come il sole di maggio e mia eletta, al caldo e al comodo. Uscirà fra nove mesi, e credete voi che sarà contento, quando nascerà, di nascere in una città assediata dai propri generali?» Cosí, padre mio, quei generali furono messi a tacere, e l'assedio fini. — Un trucco davvero astuto, — sorrise il burban, — e poi nacque il bambino? O fu una bambina? — Un bambino: eccolo lassù! — indicò Madurer. - Lo vedi, sulla torre più alta della città? Si chiama Nakutad. — Ma è già un bambino grande. — Certo. E nato da più di dieci anni. Ha un cannocchiale, vedi? È per guardare le stelle. — Lo vedo. Ma le stelle dove sono? Madurer mise un dito davanti alla bocca, come per rivelare un segreto. — Presto Sakumat dipingerà la notte, padre, come sopra il prato, — disse a voce fervida. — Ora il sole, laggiù, sta tramontando. Poi faremo il buio, piano piano, e poi le stelle. Cosí il piccolo Re le potrà guardare. Potrà guardarle quanto vorrà, anche fino al mattino, perché è un Re e nessuno può mandarlo a dormire.

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. — Ma è il momento ora di parlarvi della ragione per cui io e gli Anziani della Serenissima vi abbiamo convocato. Forse, avrete pensato, vi si vuole affidare un lavoro in uno dei nostri bei palazzi... Invece è cosa diversa, e benché nessuno vi possa imporre quel che la vostra volontà non accetti, la richiesta che stiamo per farvi è per la Repubblica di grande impegno e valore, e non vi parrà giustamente altro che lode e privilegio il fatto che sia rivolta a voi. I due fratelli pittori tornarono a guardarsi per un istante, e come erano abituati da sempre in un attimo si lessero sotto la compunta tranquillità, e la rispettosa curiosità dei volti, la scintilla di un sorriso, un complice ammiccamento sul procedere ampolloso del Doge. — Del resto, fratelli Bellini, — continuò il Reggitore con un movimento delle bianche mani, — alla fine di tutto uno solo di voi sarà impegnato... Ma ora vi dirò piú chiaramente. Gli Anziani, nei loro scranni ai lati del Doge, presero fiato nello stesso momento, come i cantori all'inizio di un inno: e per un attimo ai due fratelli pittori parve che il resto del discorso sarebbe stato davvero cantato da tutti quei vecchi in palandrana. Invece il Doge riprese da solo: — Il Sultano dei Turchi, Imperatore Maometto, che vive e regna a Costantinopoli, e con il quale la Serenissima ha da anni rapporti di pace ed alleanza, ci manda a chiedere un pittore, il piú valente che abbiamo, per un'opera nel suo palazzo. Sebbene non ufficialmente, ci fa sapere che quest'opera sarà un suo ritratto, e verrà esposto a venerazione sopra la porta interna del Palazzo Imperiale. Voi sapete piú di me, maestri, come gli usi e la religione dei musulmani non favoriscano la rappresentazione delle figure umane... Pare dunque che non ci siano nelle terre dell'Islam artisti capaci d'altro che meravigliosi ornamenti. La richiesta di un pittore capace ci è giunta in modo solenne e direi quasi pressante, tale da non permetterci dubbi né esitazioni. Né dubbi o esitazioni abbiamo avuto, del resto, nel pronunziare subito i vostri nomi: però ne abbiamo ancora, e non sono risolti, su a chi di voi chiedere e affidare l'opera... Il Doge tacque, volgendo ai lati lo sguardo lungo le due file di Anziani, come per raccogliere il loro consenso a quanto diceva. Poi tornò a vagare con gli occhi dalla faccia di Gentile a quella di Giovanni, che restarono in silenzio, ben convinti che il discorso non fosse finito. — Insomma, benedetti figli di Jacopo, — disse il Doge unendo le mani quasi a preghiera. — C'è stata una discussione molto appassionata, che vi risparmieremo: dovete solo sapere che i nostri venerabili Anziani, animandosi nel descrivere e commentare la bellezza delle vostre opere, e le qualità del vostro tocco, eran diventati come i ragazzini delle sponde che gridano durante le gare sul Canal Grande... Presi da discreto disagio, i due fratelli lo sciolsero in una risata, a cui si unirono gli Anziani, come a premiare la bonomia del Doge. — Alla fine, — disse il Signore facendo abbassare subito la voce di tutti, — alla fine ci siamo detti: scelgano loro. Piú di tutti noi, voi sarete rispettosi della vostra differenza, e generosi nella decisione. Scegliete dunque, maestri, chi di voi, se vorrà, potrà svolgere questo incarico prezioso, per il quale è annunciata, naturalmente, una generosa ricompensa. Non bisogna che lo facciate subito, s'intende. Il Doge tacque. Senza guardare il fratello, Giovanni prese la parola. — Illustre Signore, e voi nobili Anziani, non mi occorre consultare mio fratello Gentile io lo indico senza dubbio, e subito, come il piú adatto alla missione, la cui proposta onora anche me. Io non voglio, e certo nemmeno lui, discorrere qui, per questa ragione, sui diversi modi della nostra arte: cioè di come io penso e faccio le opere di pittura, o di come le pensa e fa lui... Se voi avete discusso, se vi siete accalorati, è stato vostro diritto e gioco: ma noi, quando insieme scoprimmo sotto lo sguardo amoroso e leale di Jacopo nostro padre, le diversità del nostro stile, subito le accettammo ed amammo come fossero parte dell'uno e dell'altro: in tale modo che mai ne vorremmo o sapremmo fare oggetto fra noi di discussione, e tanto meno di preferenza e contesa. Altre ragioni, in verità decisive, spingono invece a scegliere Gentile per questa missione: accade infatti che, come forse sapete, io stia in pieno lavoro alla Scuola Grande: e ad un punto tale che, interrotto o affidato ai soli aiuti, il danno sarebbe irreparabile, e la spesa rovinata. Un viaggio come quello che proponete, poi, richiede forza e buona salute: e io, benché qualche anno più giovane di mio fratello, sono di natura piú fragile e malsana. Vado soffrendo da mesi un perfido male ai piedi, che mi costringe a dipingere seduto, e non mi permette di sopportare altri viaggi che quello da casa mia a San Marco... Gentile ha tempra robusta, adatta ai viaggi, e per di piú ha da pochi giorni dato l'ultima pennellata al Salone del Maggior Consiglio, proprio oltre quella parete. Egli è dunque libero da impegni presenti, e nessun contratto lo lega per i prossimi mesi. Infine, rivelo che in un periodo della giovinezza in cui io ero affidato a una balia a Treviso, a causa della mia debole salute, Gentile ebbe una balia turca qui a Venezia, che gli raccontava storie dell'Oriente e gli insegnò la misteriosa lingua di Costantinopoli. E Gentile cosí bene l'apprese, che sempre era lui ad accompagnare nostro padre Jacopo alle fiere di piazza, dove i mercanti del Levante vendono terre colorate e i preziosi pennelli damasceni. Vedete dunque, Signore e Venerabili, come sembra che la stessa mano di Dio si sia mossa a indicare quale di noi due possa, se vorrà, prendere la via. E Giovanni, sbirciando questa volta Gentile con un sorriso truffaldino, abbassò la faccia come colui che umilmente s'apparta. Gentile sorrise. Il Doge, guardandolo, lo incoraggiò a parlare. — Signore illustre, e Anziani venerabili, — disse il pittore, — nonostante quello che mio fratello ha detto, pur accettando come sacra e benedetta la differenza delle nostre pitture, io sono nell'animo convinto che egli sia miglior pittore di me. Tuttavia, quello che lui dice sul corso dei nostri lavori, sul suo malanno, e sulla mia conoscenza della lingua turca, è la verità. Inoltre, io non nego che un viaggio nelle terre d'Oriente molto mi piacerebbe, giacché ricordo le storie che non solo la balia turca, ma nostro padre ci raccontava: storie di cavalieri e cavalli straordinari, di leoni e deserti, stupende magie e musiche, damigelle incantate. Io e Giovanni lo ascoltavamo in silenzio, seduti ai suoi piedi, con la schiena contro il muro del campiello ancora caldo di sole: e l'odore salato del canale diventava per noi il profumo dei porti d'Oriente. Alla fine, ricordi, Giovanni? nostro padre diceva: «E domani, pesciolini, ve ne conterò una nuova! » Giovanni Bellini, che durante il racconto di Gentile aveva mutato la sua espressione allegramente cospirativa in una di intensa e commossa memoria, alzò verso il Doge gli occhi rossi di pianto. — Miei cari, miei cari, — disse il Signore, sporgendosi in avanti sullo scranno, dopo una pausa rispettosa, — mi sembra che quello che occorreva sia ottenuto. Giovanni non può, e non vuole. Gentile vuole e può. A voi va bene, a noi va bene: anche all'illustre Maometto piacerà.

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