Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Al tempo dei tempi

219279
Emma Perodi 5 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Non ti abbiamo dimostrato affetto? Non ti abbiamo fatto del bene? - Sì, sì, sì - rispose Ruggiero. - Siete bellissime, mi avete dimostrato molto affetto che vi contraccambio, mi avete fatto del bene di cui vi sono grato, ma.... - Ma? - ripetettero le sette Fate. - Ma non siete la Reginuccia. Lei, lei sola voglio per isposa. - Le sette Fate divennero a un tratto sette vipere. - Sentitelo, il presuntuoso! Vuole nientemeno che la Reginuccia! Ah! ah! ah! - e tutte e sette gli andarono a rider sul muso, canzonandolo. - Un bel cavaliere non può forse pretendere alla mano di qualsiasi principessa? - domandò il giovane. - Ah! ah! ah! cavaliere perchè ha il cavallo! Leviamoglielo! - E una delle Fate cavò fuori la bacchetta e disse - Comandiamo e vogliamo che il cavallo rompa la cavezza e fugga! - La Fata non aveva appena detto così, che si sentì giù un gran fracasso e poi lo sealpitìo di un cavallo in fuga. - Ah! ah! ah! - fecero le Fate - il cavallo è scappato e il cavaliere non è più cavaliere. E come farà a pretendere alla mano della Reginuccia? - Ruggiero, nel vedersi così schernito, andò su tutte le furie. - Maledette! Maledette, andatevene! - urlava. - Sì, sì, ma prima ti toglieremo quel che ti avevamo regalato, pezzente, - dissero le Fate, e tramutandosi a un tratto in civette gli s'avventarono alla faccia e si misero a strappargli a uno a uno i peli dei baffi e quelli della barba! Ruggiero cercava di difendersi e strillava come un dannato : - Ahi! Ahi! Ahi! - Quando lo ebbero tutto pelato e scorticato che faceva sangue da tutte le parti, lo buttarono in terra e due si misero a storcergli le gambe che gli avevano raddrizzate, due a spingergli le ossa per farlo ritornare piccino, e tre, perchè la fatica era maggiore, a rifargli la gobba e non si contentarono di fargliela di dietro, gliela fecero anche davanti. Poi, così conciato, lo abbandonarono, e volando via dal finestrone se ne andarono per non farsi vedere mai più! Figuratevi la rabbia del gobbo! Figuratevi le esclamazioni della sora Maruzza e della sora Leonora quando entrarono in camera di Ruggiero e lo videro ritornato come prima e anche peggio! Figuratevi i commenti del vicinato! Basta dire che Ruggiero non si alzò più, non si fece più vedere da nessuno e di lì a pochi mesi morì dalla rabbia. Il cortile dove le Fate ballarono si chiama ancora Lu curtigghiu di li sette Fati ed il perchè ve l'ho detto.

. - Monreale è su in cima a un colle, noi abbiamo questa superfluità della gobba e le salite non possiamo farle; danari per pagare una lettiga non ne abbiamo mai avuti, dunque il magnifico duomo non possiamo vederlo, - concludeva o l'una o l'altra delle due donne, e Ruggiero lasciava cadere il discorso e rimaneva immobile a pensare. Ogni sera, quando andava nella sua camerina piccina piccina, stava una mezz'oretta sul terrazzino a guardare nel vicoletto e poi lasciava sempre il finestrone socchiuso con la speranza che fosse venuta la prima Fata per portarlo a veder le maraviglie del mondo, e spengeva il lumino a olio perchè entrasse con più sicurezza. I gobbi riposano poco e Ruggiero stava quasi sempre desto, e se una nottola passava, volando, vicino al finestrone, o un gatto correva sul tetto, faceva un balzo e il cuore gl'incominciava a battere forte forte. Di giorno pensava se la predizione si sarebbe avverata e qualche volta vi prestava fede, e allora era allegro; qualche volta gli pareva impossibile, e allora era tutto cupo e malinconico; ma di notte sperava sempre, sempre aspettava e badava a ripetere: - Anch'io devo avere un giorno o l'altro qualche sollievo, altrimenti la mia vita sarebbe troppo troppo penosa! - Una notte (il giorno seguente ei compiva appunto vent'anni, ma Ruggiero non lo sapeva) il gobbino ansava penosamente seduto sul letto, perchè era un gran caldo e con tutto il finestrone aperto non riusciva a prender fiato. - Poveretto me! - diceva sospirando. - Che bella vita! Tuttì i giovani, belli o brutti, lavorano, ma anche si svagano e almeno mangiano quant'hanno fame e dormono come ghiri. Io, lavorare non posso, di svaghi non c'è neppur da parlarne, la fame non ho memoria d'essermela levata mai, e la notte, invece di dormire, sto qui a far lunari e ad aspettare chi non viene. - Non aveva terminato di pronunziare queste parole, che la sua camera s'illuminò come di giorno e dal finestrone aperto entrarono sette civette con gran starnazzar d'ali. Due si posarono sulla spalliera da capo, due su quella da piedi, due sulle seggiole che erano ai due lati del letto e una proprio sulla mano di Ruggiero. Tutte lo fissavano con i loro occhietti d'oro e quella che gli s'era posata sul pugno e che pareva parlasse per tutte, prese a dire, mentre le altre agitavano le ali per fargli vento: - Perchè credi di aver la bocca? - Per parlare e mangiare. - Allora perchè non te ne sei mai servito? Se lo dicevi prima ti avremmo aiutato; non sai che siamo le tue comari? - Lo so, ma come potevo sapere che mi avreste udito se mi fossi lagnato dalla fame? Le sette civette si guardarono, come per dire che aveva ragione, poi fecero al gobbetto una riverenza e quella che gli s'era posata sul pugno, disse: - Se ti manca la bellezza, e questa non è colpa tua, non ti manca però l'acume, e io vorrei essere pronto di mente come te, piuttosto che sciocco come tanti bellimbusti. Ma se vuoi esser bello, potremo farti sparir la gobba, non senza provar dolore però. - È meglio soffrire una volta sola che sempre come soffro io quando cammino, quando salgo le scale, e soprattutto quando sono a letto e sento il bisogno di dormire, e invece l'asma mi fa soffiar come un mantice. Dunque sono pronto a soffrire per perder la gobba. - Allora, - rispose la civetta - te la faremo sparir subito, perchè correresti rischio di morire per mancanza di fiato, dovendo correr con noi nell'aria. - Le sette civette, a un cenno di quella che parlava, si gettarono sul gobbetto. Una lo prese col becco per la punta del naso, due per le mani, due per i piedi, una per la pelle dello stomaco, un'altra per la pelle del ventre, e dopo averlo sollevato dal letto fino al soffitto, lo lasciaron cadere in terra supino da quell'altezza. - Ohi! ohi! ohi! - urlava il disgraziato. - Per bello apparire, qualche cosa bisogna sofrire! - gli disse per tutta consolazione la civetta. - Ora ti guariremo come non potrebbe guarirti neppure il chirurgo del Re, e a mezzanotte sarai sano e arzillo e ti porteremo a vedere il mondo. - Mi porterete a seppellire! - gemette l'infelice. - Scommetto che non ho più una costola sana. - Oh non si muore per così poco, - rispose la civetta. - Anche se tu avessi la spina dorsale rotta, questo te la guarirebbe. - E nel dir così cavò di sotto l'ala sinistra un barattolino piccino piccino e le altre civette fecero lo stesso. In quel barattolino tuffò una penna che si strappò dall'ala destra e con quella penna, prima la civetta che parlava e poi tutte le altre, unsero la schiena del gobbetto. - Ti duole più? - gli domandò a operazione finita. - No, il dolore è calmato; ma prima che possa dirmi guarito!... - Guarito sei già e la gobba è sparita. Toccati e prova a camminare. - Ruggiero si toccò e sentì che la gobba non ce l'aveva più; si provò a scender dal letto e a camminare, e non soltanto lo fece senza dolore, ma s'accorse che era cresciuto almeno almeno due palmi. - Che bella cosa! M'avete fatto proprio un regalo da comari! - esclamò. - E ora, - disse la civetta che parlava - ora dobbiamo far la festa di ballo. - Dove? - Giù nel cortile. Per cortile è piccolo, ma per sala è grande. - E detto questo volò via e tutte le altre civette fecero lo stesso e di giù si misero a urlare tutte: - Ruggiero, scendi, scendi! S'aspetta te solo e la festa è in tuo onore! - Ruggiero scese e rimase di sasso nel vedere che le sette civette s'erano trasformate in sette donne una più brutta dell'altra, tutte gobbe sdentate, con una bazza lunga lunga, una scuffia sui cernecchi arruffati, e che tutte e sette giravano come trottole, con le gambe a ipsilonne, intorno al cortile illuminato come di giorno. A quel rumore s'erano destate tutte le persone del vicinato, e chi socchiudeva l'uscio, chi il terrazzino per vedere che cosa accadeva. Ma non appena gettavano gli occhi su una delle Fate, si facevano il segno della croce e scappavano a rimpiattarsi sotto le lenzuola. Così non videro che nel girare le sette Fate gobbe avevano messo nel mezzo Ruggiero, e lo facevano girare anche lui, e che Ruggiero non era più gobbo ed era tanto cresciuto. Quanto alla sora Maruzza e alla sora Leonora non sentirono nè il rumore che facevano le sette Fate, nè le loro risate nel veder girare Ruggiero, perchè erano tutte e due sorde, e per di più la notte si fasciavano la testa dalla paura di prender malanni. Gira gira, Ruggiero aveva la lingua fuori e soffiava come un mantice: - Basta, pietà! - balbettava. Ma sì ! Le sette Fate parevano ammattite e non si fermavano. A un tratto però il giovane cadde in terra. Allora tutte lo circondarono e tutte si tolsero la scuffia e con quella gli facevano vento e tutte ripetevano: - Poverino! Poverino! - Aria! Aria! Aria! - balbettava Ruggiero. - E aria sia! - disse quella delle Fate che gli era davanti. A queste parole ella si stese per terra, le braccia le si tramutarono a un tratto in ali enormi, la sottana formò la coda e il corpo le si coprì tutto di penne. In un battibaleno era diventata una civetta. Le sei Fate, non appena la compagna ebbe fatto questo mutamento, sollevarono di peso Ruggiero, glielo misero bocconi sulla schiena e augurandogli il buon viaggio, sparirono. Il cortile tornò buio e silenzioso e i curiosi che s'erano affacciati tornarono a letto. L'immensa civetta volò in alto, nella notte buia,

Noi col Re non abbiamo mai avuto nulla da spartire, e a quest'ora non si viene a molestar la gente; andatevene! - La sorella, sentendo che era un messo del Re, mise le gambe fuori dal letto, s'infilò la sottana e scese per andare ad aprirgli. Risalì col cameriere e questi si guardò intorno e domandò: - Che siete sola? O le altre dove sono? - Ma si può sapere chi cercate? - domandò donna Tura mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con gli occhietti di porco. - In casa ci sono io, e lì in quella stanza c' è la mia sorella Peppa. - Chiamatela, chè debbo parlare con lei. - Donna Tura, lemme lemme andò a chiamarla. Quando il cameriere si vide davanti quelle vecchie orrende, si sgomentò tutto, ma pensò: - Col Re non si scherza, e se lo faccio aspettare e non gli porto nessuno, sale in furia e mi manda certo a morte; se, invece, vede un orrore di donna, è capace di mettersi a ridere e di sgridarmi soltanto; dunque è meglio portargliene una di queste, benché facciano spavento tutt'e due. - Allora il cameriere disse a donna Tura, che era la maggiore: - Il Re vi vuole subito, e il Re non intende di aspettare. Dunque vestitevi per bene e io vi ci accompagno. - Ma il signor Re che può mai volere da me? - Non lo so, e non facciamo chiacchiere inutili. Piuttosto sbrigatevi in un momento. - Donna Tura andò in camera sua tutta tremante e confusa. E mentre si pettinava i cernecchi, pensava: - Ma che vorrà mai il signor Re? Ma che vorrà? - Quand'ebbe terminato di pettinarsi, si mise una sottanuccia nuova di cotone a fiori, un paio di pendenti falsi, un vezzo di vetro, si legò intorno al collo enorme un nastro vecchio, perchè era povera, e si infilò un paio di scarpe, le meglio che avesse. Poi si buttò sulle spalle una certa mantellina dell'anno mai, e così agghindata, che pareva la Befana, si presentò al cameriere. Non appena don Giovannino la vide, si sentì morire e sospirando disse: - Via, andiamo!!! - Scendono le scale, escono e salgono nella carrozza che aveva portato il cameriere e i cavalli partono. Ma avevano fatto pochi passi che donna Tura disse: - Fatemi il favore di far fermare un momento che debbo scendere, - e lo disse con l'intenzione di scappare e non tornar più perchè non aveva coraggio di comparire davanti al Re così brutta e mal vestita. Il cameriere chiama il cocchiere, fa fermare e donna Tura scende e tutta piangente imbocca un vicolo e si mette a correre all'impazzata, ansando come un mantice. Mentre correva così, senza sapere dov'andarsi a nascondere, viene a passare una Fata, che, vedendola tanto disperata, la ferma e le dice: - Figlia, che hai che piangi tanto? - State zitta! Peggior disgrazia non poteva capitarmi. Il Re mi ha mandata a chiamare, e come faccio a presentarmi a lui così brutta e vecchia da far paura? - Figlia mia, non t'affliggere; non sei brutta davvero; anzi, sei tanto bella, - e le passò la mano sulla testa, sul viso, sulle spalle e poi se ne andò. Bastò quella carezza della Fata perchè a un tratto da brutta si facesse bella, da vizza si facesse fresca. E come cambiò lei, così cambiò tutto quello che aveva addosso: il vestito si convertì in un abito sontuoso di broccato, i pendenti falsi in orecchini di diamanti, il vezzo di vetro in un magnifico vezzo di perle e quel mantellaccio dell'anno mai in un sontuoso mantello tutto foderato d'ermellino. Donna Tura, quando si vide così ben vestita da parere una principessa, smise a un tratto di piangere, si fece tutt'allegra e tornò addietro a cercare la carrozza. Figuriamoci come restasse il cameriere nel vedere quella bella ragazza che gli faceva cenno di aprir lo sportello! - Ma chi è lei? - le domandò. - Chi sono? Ma quella di poco fa. - Ma come mai in un momento è così cambiata? - Questo non deve importarvi; aprite e andiamo dal Re! - Il cameriere si sentì allargare il cuore di condurre al Re quella bella cameriera vestita come una gran signora e dette ordine al cocchiere di sferzare i cavalli. Arrivarono al Palazzo e don Giovanni per una porticina e per una scala di servizio, condusse donna Tura in un salottino privato del Re e le disse d'aspettare. Quando il Re entrò la squadrò da capo a piedi. - E lei chi è? - le domandò. Donna Tura fece una bella riverenza e rispose con una vocina tutta latte e miele: - Maestà, sono la nuova cameriera portata da don Giovanni. - Badi, - le rispose il Re che vedendola così bella e ben vestita non s'attentava a darle del voi come alle altre - io sono molto esagerato per la pulizia. - Per questo, - rispose donna Tura - Vostra Maestà può stare tranquilla, perchè io sono veramente sofistica e non posso tollerare nè macchie, nè polvere e non mi piace altro che l'acqua. Guardi le mie mani, come sono pulite, e le unghie? Così le tengo sempre anche quando faccio il servizio. - Il Re s'accostò per guardarle le mani e sentì che la cameriera era tutta profumata. - Bene! Bene! - esclamò. - Lei è proprio la cameriera che fa per me, e lei sola pulirà i miei abiti, avrà cura della mia biancheria e delle mie stanze particolari. Se mi contenta, non dubiti che la pagherò bene e alla mia Corte potrà invecchiare. - Donna Tura fece un'altra bella riverenza e uscì per farsi indicare dal cameriere quel che doveva fare. Ora lasciamola e torniamo all'altra sorella. Donna Peppa, il giorno dopo, aspetta aspetta, e non vedendo tornare la sorella, si veste e va al Palazzo del Re a cercarla, e là giunta la fa chiamare. Donna Tura le va incontro tutta impettita e la guarda d'alto in basso come se neppure la conoscesse, perchè era brutta e vestita male e, senza neppur lasciarla parlare, le mette in mano un'elemosina e le dice: - Buona donna, eccovi una moneta, andate in pace! - Donna Peppa se ne andò, brontolando e sputando veleno, e si fece anche più gialla e più secca dalla grande invidia che la rodeva. - Come, siamo cresciute insieme, siamo invecchiate insieme, siamo sorelle e mi tratta così? -

- Più poveretta assai di me, perchè rimase vedova con quattro piccine e per isfamarle s'è logorata le braccia e tutti noi qui le abbiamo fatto la carità. - E ora? - Comare Momina si strinse nelle spalle. - Che volete che vi dica, comare mia, la fortuna le è venuta tutt'a un tratto. Ora è una signora, sta in un bel palazzo, e le sue quattro figlie marciano con abiti di seta. Mistero! Mistero! - La signora aveva inteso abbastanza. Fece cenno alla cameriera di salutare la comare e tutte e due se ne andarono: Vincenza tutta lieta, la signora con un diavolo per capello. Arrivò a casa di corsa e tutta trafelata andò dal figlio e gli disse: - Quella ragazza tu non la sposerai, se la madre non confessa come da pezzente è divenuta signora! - Il povero Cavaliere si sentì morire. Egli non voleva dire che i quattrini a donna Paola glieli aveva dati lui, e a Maricchia non voleva rinunziare. - Perchè prestate orecchio alle calunnie? - Non sono calunnie; è la verità che un mese addietro donna Paola stava in una catapecchia ed era una pezzente, dunque? - Avrà rivendicato qualche eredità! - Ma che eredità, se è figlia di poveri, se il marito era facchino del porto, se.... - La signora soffocava dalla rabbia all'idea che suo figlio potesse imparentarsi con certa gente. - Io sposerò Maricchia anche figlia di facchino, anche povera! - disse. In quel mentre capitò il padre, che aveva udito il diverbio, e quando fu informato del motivo di esso, dichiarò anche lui che non voleva assolutamente che si facesse il matrimonio, anzi ordinò al figlio di prepararsi a partire per Palermo ove aveva un vecchio zio, e gli promise che la moglie l'avrebbe trovata più bella di Maricchia e certo di miglior condizione, e senza dargli tempo d'avvertirla, lo fece imbarcare su una nave già pronta e lo spedì via. Torniamo a Maricchia. Aspetta aspetta il Cavaliere, il Cavaliere non si vedeva e Maricchia era nelle smanie. Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, finalmente Maricchia manda la cameriera al palazzo del promesso sposo a prender notizie, e la cameriera fa l'ambasciata a donna Vincenza. - Mi manda la signorina Maricchia a prendere notizie del suo promesso sposo, lo riverisce e gli fa dire che aspetta con impazienza una sua visita. - Risponde donna Vincenza trionfante: - Dite a Maricchia, figlia di Totò il facchino del porto, che il Cavaliere è andato a Palermo a sposare una signora pari suo e che tornerà soltanto con la moglie. -

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