Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

188726
Pitigrilli (Dino Segre) 19 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Riassumendo: Esèrcitati a coniugare queste frasi: Io ho due piedi Tu, amore mio, hai due piedi Ella, signorina, ha due piedi Noi, signora, abbiamo dei piedi Voi, incantevoli creature, avete dei piedi Certi sporcaccioni confessi hanno «le estremità». Tu che sei una persona pulita e te, li lavi almeno una volta al giorno, chiami i tuoi piedi, «piedi». Se li chiamassi «le estremità», faresti automaticamente pensare che te li lavi a Natale e quando vai dal calzolaio, o in occasione della prima notte di matrimonio o del primo pomeriggio di adulterio.

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Secondo l'Ecclesiaste il numero degli stolti è infinito; secondo Mark Twain i quattro quinti dell'umanità sono composti di sciocchi, una persona su 18 ha bisogno, negli Stati Uniti, di un più o meno lungo soggiorno al manicomio, il 14 per cento, nei paesi latini, soffre di turbamenti nervosi, e Alejandro Raitzin ha scritto 720 grandi e fittissime pagine intitolate «El hombre no es cuerdo» - l'uomo non ha la testa a posto - per sostenere che tutti quanti, uomini e donne, abbiamo il cervello sregistrato. Per conseguenza c'è poco da imparare dall'ambiente. Se abbiamo la fortuna di figurare nella quinta parte generosamente riconosciuta, da Mark Twain, i quattro quinti di sciocchi che popolano il mondo sono pronti ad assorbirci, assimilarci, fagocitarci, e noi offriamo una predisposizione ancestrale a cedere alla potenza del numero. Basta osservare come si trasforma l'uomo in villeggiatura, in carovana, in crociera: egli si metamorfosa nel villeggiante, nel turista, nel crocerista, come se la campagna, la terra straniera, il piroscafo facessero germogliare e fiorire in forma lussureggiante la pianta della stupidità. Quando gli individui si agglomerano, il loro livello mentale è tanto più basso quanto più il loro numero è alto. Un uomo di trenta anni ha la mentalità di trent'anni; prova a mettere cinquanta uomini insieme: manifesteranno la mentalità di uno studente di quindici, bocciato e vendicativo; imbottìgliane cinquantamila in un campo di foot-ball, e vedrai esplodere la mentalità collettiva di un bambino di sette anni. I governi che incoraggiano lo sport sanno che quei 22 bruti, più l'arbitro, hanno il potere di abbrutire cinquantamila persone e disabituarle dal riflettere e dal pensare. Se ognuno di noi non si sradica dall'ambiente è perduto; la mentalità della moltitudine lo assorbe e lo assimila. E' più facile imparare una frase stupida che una frase intelligente, perchè la frase stupida trova nel nostro cervello i solchi incisi dalla stupidità ereditaria. Se così non fosse, non si spiegherebbe la travolgente fortuna che hanno i proverbi, le parole delle canzonette, le esclamazioni dei melodrammi, i detti memorabili mai pronunciati, la facile psicologia contenuta in certi titoli come «gli interessi creati» e in certi versi «el color del cristal con que se mica» - il colore del cristallo attraverso il quale si guarda. Se così non fosse, non si spiegherebbe la facilità con cui la gente si aggrappa a un tentativo di spiegazione dei fenomeni inspiegabili. Esempio : si discorre di spiritismo. E' inevitabile che uno dei presenti prenda la parola per enunciare questo luogo comune: - E' come se cinquant'anni fa qualcuno avesse detto che un giorno, girando il bottone di quella cassetta, si sarebbe udito la voce di una stazione radiostrasmittente di Montevideo. Si parla di zoofilia: - Con tanta fame che c'è nel mondo... - esclamerà l'insopprimibile cretino, come se gli avanzi che si dànno a un gatto a Parigi si potessero convertire in un tacchino arrosto per i Cinesi che muoiono di fame sul Fiume Giallo, o se col feltro della coperta della cagnetta del Duca di Windsor si potesse fare un soprabito per il povero che agonizza di freddo sulla Perspektive Newski. Non avete mai teso l'orecchio alla facile filosofia dei mediocri con pretesa di profondità di pensiero? Ci troviamo davanti a un tramonto: - Se un pittore lo mettesse in un quadro, tutti diremmo che è falso. Davanti a un mazzo di fiori: - Chissà perchè quando i fiori sono belli si dice che sembrano finti, e quando sono finti si dice che sembrano veri. A un suicidio? - Ci vuole più coraggio per vivere che per suicidarsi. Contro questa facilonerìa, contro questo squallore mentale, gli intelligenti reagiscono. All'epoca delle demolizioni di Haussmann, che sulla Capitale del Secondo Impero, muffita, antigienica e crollante, costruì la Parigi dei nostri tempi, il direttore di un quotidiano collocò in redazione un cartello: «Sarà licenziato sui due piedi il redattore che scriverà la frase: «Ed ecco un altro po' della nostra vecchia Parigi che scompare». Eliminò così quella frase. Non eliminò la «stultiloquentia» dilagante, il blablabla della gente semicolta che brilla per mezzo delle frasi semierudite: «Ma questa è un'altra storia, come direbbe Kipling» e «come il signor Jourdain che faceva della prosa senza saperlo», e «i popoli felici non hanno Storia»... Mi si obietterà: Ma allora non si può più parlare. Se è così denunciatore il far sentire la propria voce non sappiamo più che cosa dire. Voi ci togliete il coraggio di aprire la bocca. Risponderò che l'autocontrollo deve insegnarci a disporre equilibratamente della parola, dono divino del quale abbiamo la pericolosa disponibilità, e al quale la saggezza araba pone un temperamento con la domanda: «Perchè parli, dal momento che puoi anche stare zitto?»

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Per buona educazione dobbiamo rispondergli che fa veramente caldo; se abitiamo al decimo piano e abbiamo ancora un lungo percorso da compiere insieme, l'altro replicherà che c'è da sperare che domani non faccia più caldo come oggi. Egli non pensa una sola parola di ciò che dice; voi non pensate una sillaba di ciò che rispondete, perchè il suo e il vostro subcosciente sanno che questi discorsi non abbassano la temperatura: al contrario! Ma, chissà per quale diabolico motivo, nessuno sa percorrere i dieci piani di un ascensore senza orchestrare in imprecazioni, esclamazioni e lamenti il bollettino meteorologico. Tutto il resto della conversazione dei salotti e dei caffé - tranne qualche argomento sporadico - è dilatazione del nulla. Le signore che si dànno appuntamento in una confetteria, ci vanno, come al bagno turco, per perdere alcuni chilogrammi di parole sotto forma di evaporazioni verbali. Un cancelliere che dovesse riassumere due ore di conversazione in un caffé, non saprebbe che cos'abbiano detto quelle signore, quale fatto sia emerso, quale idea sia scaturita, quale pensiero si sia formato. E se una idea è uscita, se un fatto nuovo si è enunciato, è sommerso in una quantità indistricabile di frasi inutili. Per queste parole inutili che avvolgono quel poco che merita veramente di essere detto, i critici della poesia hanno inventato un termine: in italiano, «zeppa», in francese «cheville», in spagnuolo, «ripio». Cheville è la parola o il gruppo di parole che il poeta - il vacuo poeta, lo sgangherato versificatore - si vede costretto a incollare allo strettamente necessario per trascinarsi fino alla fine dell'endecasillabo; è l'imbottitura che deve aggiungere alle sei o sette sillabe che basterebbero a dire ciò che voleva dire, per arrivare alle undici che gli sono imposte dalla servitù della metrica. Un grande poeta, che era anche un diligente cesellatore, scrisse un verso che è un grido di esecrazione contro il «ripio», la «zeppa», la «cheville» e coloro che se ne servono: «Le dernier des humains est celui qui cheville», l'ultimo degli uomini è colui che... » Il verbo non esiste né in spagnuolo né in italiano, ma avete capito che cosa voleva dire De Musset. Questo abuso della «cheville» costituisce il fondo della conversazione: bisogna essere degli stilisti nel parlare e in tutte le altre forme di esprimersi, per difendersi dall'inclinazione ad abbandonarsi alla voluttuosa comodità. Il Vangelo insegna a dire «sì», quando dovete dire sì, e «no» quando dovete dire no. Ma non tutto ciò che il Vangelo insegna, gli uomini lo hanno messo in pratica. La conversazione è lo sport di interrompersi a vicenda e di non permettere all'altro di terminare la frase. Piccolo inconveniente, quando la conversazione è una ginnastica polmonare, ma fatale quando si ha interesse a sapere qualche cosa. Se volete sapere qualche cosa da qualcuno, evitate che una donna assista al vostro colloquio. Esempio: voi volete informazioni sopra il signor X. Il conversatore vi dirà: - Il signor X si è fatta una posizione con mezzi non del tutto encomiabili. La persona che interrompe interromperà: - L'ho conosciuto a Viareggio. Il signore che aveva voglia di parlare del signor X, aggiungerà: - A Viareggio? Noi ci andiamo ogni anno. Quest'anno però ho preferito la Costa Azzurra. A Montecarlo ho giocato alla roulette... E voi non sapete più nulla sul signor X, perchè la conversazione è stata deviata sulla roulette o sulla Costa Azzurra. Colui che sa ascoltare si comporta nel modo opposto. - Il signor X si è fatta una posizione con mezzi non del tutto encomiabili. Quello che non interrompe stupidamente: - Poco encomiabili? - Si potrebbe dire riprovevoli - continua colui che ha veramente qualche cosa da dire. - E' passato da un fallimento all'altro. - Fallimento? - Bancarotta fraudolenta, il che gli fece avere delle seccature giudiziarie. - Giudiziarie? - Ha passato qualche mese in carcere. Immaginate invece che con voi ci sia una donna di quelle che non sanno ascoltare e impediscono agli uni di parlare, agli altri di udire: - Ah, che orrore! Piuttosto che il carcere preferirei mille volte morire. E il primo si metterà a parlare della morte, ma non parlerà più come desideravate voi, e forse ci eravate andato apposta, del signor X. Invece colui che sa ascoltare si attaccherà all'ultima parola: - Carcere? L'altro, incoraggiato, continuerà: Poi venne un'amnistia, trovò nuovi capitali, sposando una vedova ricca, una tedesca. Colui che non sa ascoltare: - Non sposerei mai un tedesco. I tedeschi... E la conversazione gira sopra i tedeschi. Colui che sa ascoltare dice: - Una vedova ricca? - Sì, e la moglie ha pagato, fino al giorno in cui disse «e ora basta», ed è scappata con un direttore d'orchestra. Colui che non sa ascoltare: - Ho conosciuto il direttore d'orchestra Dimitri Mitropoulos: per me è superiore a Toscanini....

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Ciò che spappola i nervi è il rendersi conto che da quando quel certo rumore fastidioso è sopraggiunto, abbiamo cominciato a non capire la pagina che stavamo leggendo. Il disturbo di tornare indietro a rileggere le ultime linee e il constatare che la nostra attenzione si era staccata come la spina d'una conduttura elettrica aggravano la nostra irritazione contro il mondo esterno e contro gli uomini che ne fanno parte. La misantropia entra per gli orecchi. La classe più fastidiosa di rumori è rappresentata dalle conversazioni senza contenuto. Uno scompartimento ferroviario, dove vi siete portato un libro da leggere fra la partenza e l'arrivo, composto di quelle 300 pagine che un cervello esercitato legge in sei ore, compresi i quaranta minuti del wagon-restaurant, uno scompartimento ferroviario, dicevo, dove vi troviate imbottigliato fra due o tre rappresentanti di quella classe fastidiosa che è il viaggiatore-medio, vi darà la rappresentazione del contenuto esclusivamente fonetico delle conversazioni, con esclusione totale di un fondo di idee. Le idee, le note di bellezza, le informazioni culturali del vostro libro sono travolte dal rumore di quei tre o quattro individui che parlano. «Ma insomma, che cos'hanno detto?» vi domandate. «Che cosa l'uno ha detto all'altro, che l'altro non sapesse ancora? Quale idea ha espresso che già non facesse parte del deposito mentale del suo interlocutore?» La parola è uno strumento creato a uno scopo, ben definito e che i dilettanti usano male; fu inventato per parlare, e gli uomini lo adoperano per chiacchierare, il che è diverso. Questa diversità fu sottolineata da Socrate; a un tale che voleva prendere da lui lezione di retorica, disse: - A voi chiederò un prezzo doppio. - E perchè? - Perchè voi siete un chiacchierone - spiegò Socrate, e dovrò fare con voi doppia fatica: insegnarvi a parlare, ma prima di tutto insegnarvi a tacere. Un altro filosofo, Aristotile, alla fine di una conversazione unilaterale - Aristotile taceva e l'altro parlava senza tirare il fiato - non dava segno né di interesse nè di noia. Forse vi dò fastidio - disse l'altro a un certo punto. - No - rispose il filosofo. - Probabilmente le mie parole vi distraggono da pensieri più seri. - No. Potete continuare. Io non vi ascolto. Se il chiacchierone non fosse preoccupato delle proprie chiacchiere inconcludenti e prive di contenuto, e stesse attento alle parole dell'altro, ne vedrebbe subito il vuoto e la inutilità. La signora Du Deffand; quando, alla testa di un salotto intellettuale parigino, partecipava e dirigeva la conversazione, si macchiò chissà quante volte del peccato del «bavardage». Verso la fine della vita perse la vista, acquistando quella chiaroveggenza, quel senso critico che caratterizza l'intelligenza piena di risorse dei ciechi. Un giorno un chiacchierone si era impadronito della conversazione del salotto, abusando scandalosamente dell'ospitalità della signora. - Che cos'è - domandò la signora Du Deffand - il cattivo libro che mi state leggendo? Lo scrittore Paul Reboux consiglia alle giovani donne un sistema per acquistare un fascino che la natura non prodigò loro. Il silenzio. Quando il vostro fidanzato non parla, tacete anche voi. Proponetegli un «silence-party». Egli sarà meravigliato del vostro senso dell'opportunità, e ve lo attaccherete definitivamente. Una donna che non parla? Avrete - assicura Paul Reboux - venti pretendenti invece di uno, amica mia! II consiglio mi pare eccellente. In mezzo a tante donne che si agitano, che fanno effetti di occhi e di ugola, di spalle e di gambe, di sigaretta e di ventaglio per richiamare l'attenzione sopra di sè, una donna che rimanga tranquilla, che respiri senza trasformare il fiato in cicloni articolati, deve essere davvero un riposo, la villeggiatura perfetta dello spirito. Divenuta moglie, divenuta madre, educherà i figli alla probità verbale, che è una delle forme più nobili dell'onestà. Dire ciò che deve essere detto, nella forma più breve e più diretta, sopprimendo tutte le sbavature della frase che fanno vedere i concetti (ammesso che ce ne siano) attraverso un vetro smerigliato. E' solamente imparando a «non» parlare, che si impara a parlare con chiarezza e secondo verità.

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Altra storia: Un tedesco dice: «Abbiamo perso la guerra per colpa degli ebrei». «Eh, si, dei generali ebrei», conferma l'altro. «Come, dei generali ebrei? - ribatte il primo dopo un momento di riflessione - Se noi non avevamo generali ebrei». «Già, ma li avevano gli altri». Non perderti nella descrizione del dottore, della cliente, del tedesco, dell'altro e dell'ambiente. Non dire dove l'hai letta nè chi te l'ha raccontata. Nei giornali umoristici, le scene che fanno più ridere, a parità di contenuto umoristico, sono le storie senza parole.

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Non tutti noi abbiamo l'occasione di compiere gesti così imponenti di galanteria, ma decine di piccole occasioni si presentano anche a noi di manifestare il rispetto dovuto a questo essere fragile nel corpo e nell'anima, nella dialettica e nella volontà, ma così ammirevole nelle sue risorse di generosità, di intuizione, di sensibilità. Non dimentichiamo che non si contraddice mai una donna. Bisogna lasciarla nella sua convinzione, anche se è nell'errore. A una donna che ci telefona che non sta bene, non si domanda mai che cos'ha. Se è stata in una clinica «per una piccola operazione» non le si domanda mai che cosa le hanno tolto. Se sul suo comodino ci sono delle boccette di medicinali, non si legge l'etichetta. Se a tavola prende delle pastiglie non si domanda a che cosa servono. Il grado di intimità che ci ha concesso non ci autorizza a trattarla come uno straccio di nostra proprietà. Non si deve però cadere nella cafoneria di chiamarla, quando si parla di lei, «la mia signora». Si dice «mia moglie». Napoleone che aveva preso lezioni di belle maniere dalle dame della vecchia aristocrazia, chiamava l'Imperatrice «ma femme».

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Far entrare l'aria perchè noi abbiamo caldo è egoismo; chiuderlo è un diritto. Però anche in questo caso è bene consultare i compagni. Alle donne piccole di statura suggerisco di rimanere in piedi, perchè il ciondolìo delle gambe che non arrivano a terra è ridicolo. Anche agli uomini, comunque essi siano; consiglio di stare in piedi. E' molto più chic. Ho conosciuto a Losanna un re in esilio, che alloggiava in un hotel in un paese vicino. Un disturbo che gli impediva di stare seduto, e del quale soffersero anche Luigi XI e il Re Sole, gli fecero lanciare la moda dello stare in piedi in autobus. Tutti gli uomini di Losanna si misero a viaggiare in piedi. La moda sorge spesse volte così. Nei primi anni di questo secolo si vide, alla corte d'Inghilterra, i lords e le ladies praticare lo shake-hands, cioè la stretta di mano, sollevando il gomito fino all'altezza della spalla. Si seguiva l'esempio dato dalla Regina Alexandra. Ciò che non si sapeva, è che Sua Maestà soffriva di foruncoli tenaci sotto il braccio destro. Quando l'ascella della graziosissima Maestà guarì, il suo saluto tornò alla normalità. Il Re in esilio in Svizzera non guarì, e il giorno che tornerà a sedersi sul trono dei suoi avi rimpiangerà i tempi in cui a Losanna lanciò la moda di stare in piedi in autobus.

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. - Al mio paese - replicò l'uomo primitivo abbiamo risolto il problema da molto tempo, collocando i piani l'uno accanto all'altro, invece di sovrapporli. Invece di costruire una casa di molti piani, noi costruiamo molte case di un piano solo. - Che trovata! Qui non si può fare altrettanto, perchè la terra è più cara che l'oro. - E perchè hanno fatto sì che la terra sia più cara che l'oro? E' una conseguenza naturale del progresso... - spiegò l'ingegnere. - Ma voi sapete che cos'è il progresso? - Lo so perfettamente - rispose il selvaggio della Polinesia. - Il progresso consiste nel creare difficoltà, per avere poi la scocciatura di risolverle. Il progresso consiste nel fare i miopi per poi fabbricare occhiali; nel diffondere malattie più ripugnanti affinchè i sapienti si distraggano nel cercare i rimedi; nell'istituire l'indissolubiità del matrimonio, per inventare poi il divorzio... progresso è l'ascensore L'episodio dell'ascensore lo avevo già infilato nel mio libro «L'amore ha i giorni contati» a pag. 240. Me ne sono accorto nel correggere le bozze e poichè a pag. 243 di quel libro ho già chiesto scusa al lettore, mi ritengo scusato.

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Riassumendo: Noi, italiani e latini in genere, abbiamo una certa tendenza a essere faceti, e quando siamo scrittori, o giornalisti, o artisti o altri marchands d'esprit, crediamo che la nostra forma mentale si accordi automaticamente col nostro prossimo. Grave errore. Il nostro prossimo in genere capisce solamente le frasi composte di soggetto, verbo e predicato. Bisogna parlargli così: «Il cane ama il padrone; il prezzo della birra è aumentato; esci col paracqua». La frase «non uscire senza il paracqua» è troppo complicata per certa gente. E noi crediamo sempre di aver a che fare con individui come Guglielmo Giannini, Guasta, Indro Montanelli, Nino Bruschini, Nino Nutrizio, Vittorio Guerriero, Curzio Malaparte, cioè con spiriti eletti, ai quali l'abitudine all'allusione, all'allegoria, alla satira, allo «sfottò» conferì una ricettività particolare alla sfumatura. Ma la stessa facezia che ti puoi permettere con Renato Taddei, Gianni Finlandia, Alberto Cavaliere, Ferrante Alvaro de Torres, Leo Longanesi, Angelo Frattini, può offendere il burocrate incatorzolito nelle pratiche da evadere e da archiviare. Ti raccomando quindi di studiare il tuo uomo; prima di usare la tavolozza alla Van Gogh del tuo linguaggio. Una frase indovinata può farti cadere fra le braccia una pittrice esistenzialista che ne ha capito l'humor, questa vitamina ipsilon della nostra nutrizione intellettuale, ma può scatenarti dei guai per parte di un'allieva-levatrice discesa da uno, di quei comuni di montagna dove la gente non ride mai. Lo spirito è apprezzato da una minoranza. Tutti gli altri sono rimasti al «roba da chiodi» al «cosas de pazos» che costituiscono la saggezza di ciò che si suol chiamare «la parte sana della Nazione»

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E fra la sigaretta e il foot-ball, mi pare che di servitù volontarie ne abbiamo più che abbastanza. Non esagerare in temerità citando le frasi dei grandi uomini («più suonano forte e più mi piace»; « la musica è il più costoso dei rumori»), perchè non faresti altro che esasperare l'amor proprio di colei o di colui che assume il ministero di decongestionarti il timpano. Non so chi ha detto che la musica intenerisce i cuori più duri. Forse ha voluto usare un riguardoso eufemismo per dire che rompe le scatole più robuste. Ignorando questa mia variante, l'appassionato di musica piomberà su di voi, col peso delle sue dieci dita e la violenza dei suoi pedali per ammorbidirvi il cuore. Il tentato proselitismo dei musicisti non ha confronto in nessuna religione e in nessun partito politico. Il motivo? E' molto semplice: se a colui che vi offre il whisky voi dite che non prendete whisky, egli non insiste perchè è tanto whisky risparmiato; ma se vi negate alla musica, voi oltraggiate il povero dilettante; colui che dal vostro rifiuto riceve un danno, è lui; e quello che gli nega qualche cosa siete voi; senza di voi e altra mezza dozzina di cavie come voi, tutte le fatiche del suonatore sarebbero inutili. Il dilettante e la dilettante sostengono che «suonano per se stessi». Ma non è vero; suonano per farsi ascoltare: la vittima designata che si sottrae ai loro esperimenti costituisce un'occasione perduta di farsi sentire. Noel Clarasò ha scritto: «Può darsi che parlare di musica non sia interessante, ma parlare durante la musica lo è sempre: anche coloro che confessano di amare la musica, dormono durante una terza parte dei concerti, e se qualche spirito estremamente sensibile non può conciliare il sonno dopo aver udito una sinfonia, lo si deve unicamente all'aver dormito abbastanza durante l'audizione». Se questo sollievo è possibile in una pubblica sala a pagamento, non riesce in una casa, in mezzo al «circolo di famiglia», dove tutti ti osservano, tutti stanno svegli per il tumulto che li agita: la madre, vibrante per la battaglia vinta sul padre che non voleva saperne; il padre, per i denari sperperati in lezioni, in partiture e negli onorari incontrollabili dell'accordatore che è sempre per casa e non si sa bene che razza di lavoro faccia; le amiche per le quali la suonatrice ha della tecnica («è una macchinetta» - dicono graziosamente) e manca di sentimento oppure ha un po' di sentimento perchè è una stupida, ma sbaglia le note e mette troppo pedale. Finito il saggio si aspettano da voi l'incenso. C'è tutto un vocabolario: «il tocco, i legamenti, i pianissimo, le note brillanti». La frase che fa effetto e non costa più delle altre è questa: - Signorina, sotto le sue dita, la tastiera non è più una tastiera: e tutta un'orchestra. Se proprio ci siete cascato, ditela anche voi questa frase bugiarda, sebbene vi venga la voglia di esprimervi come Labiche, che, invitato dalla padrona di casa a dir qualcosa di gentile al virtuoso, gli domandò: - Ebbene, avete finito, piccolo scocciatore?

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Il salotto sopravvive in certe famiglie di provincia - la provincia esiste anche nelle metropoli, perchè non è nella geografia ma nell'anima - come gli ossicini del coccige, reliquia atrofica della coda, che i nostri remoti antenati non hanno avuto la previdenza di mantenere in uso, e che noi, nipoti degeneri, abbiamo perduto. Peccato! Come sarebbe comodo attaccarsi con la coda a un albero e quando si aspetta l'omnibus appoggiarsi sulla coda, formando un treppiede di teodolite! Il coccige dell'appartamento, cioè il salotto, è un avanzo araldico di famiglie illustri, che non hanno i denari per pagare ogni anno al governo il diritto di chiamarsi «dei» conti o «dei» marchesi, ma rimane loro quanto basta per offrire agli amici, chiamati «le visite», un casalingo curacao, preparato in economia con le bucce d'arancio messe a seccare sul balcone e servire qualche tazza di lavato, slavato, bollito e ribollito té. La sua origine è francese. Nel 1608 la Marquise de Rambouillet si ritirò nel suo hotel, situato vicino al Louvre, e ricevette gli aristocratici e gli intellettuali che desideravano rifuggire dalla volgarità e parlare una lingua che non fosse quella mescolanza di tutti i «patois» che si parlavano alla corte di Enrico IV. Per più di mezzo secolo Catherine de Rambouillet e le sue due figlie ospitarono le più vivaci intelligenze francesi: M.lle de Scudéry, M.me de Sevigné, M.me de La Fayette, il non ancora cardinale de Richelieu, il principe di Condé, Bensarade, Corneille, Scarron, Louis-Guez de Balzac. Nell'Orazione funebre di M.me de Montausier, Fléchier disse: «Ricordatevi di quei salotti che si guardano ancora con tanta venerazione, dove lo spirito si purificava, dove la virtù era venerata, dove tante persone di gran qualità e di gran merito componevano una corte numerosa senza confusione, modesta senza obbligo, sapiente senza orgoglio, garbata senza affettazione». Chiuso per ragioni politiche il suo salotto, si aprì quello di Mademoiselle de Scudéry, dove si componevano madrigali e si discuteva sull'amore. «Io voglio che si possa dire di una persona del mio sesso e amica mia, che ha uno spirito illuminato... ma che non si dica «E' una donna saccente». Non voleva cioè essere catalogata fra quelle che Molière definì «les précieuses ridicules». La moda e la concorrenza dei salotti intellettuali si estesero. Fu uno sfarzo di guanti, di penne, di profumi, di pizzi, di ricercatezze stilistiche e intellettuali, ma predominò la linea imposta dal chevalier de Méré: «Fuggire l'ingiustizia, la vanità, l'avarizia, l'ingratitudine, la bassezza, il cattivo gusto, il fare grossolano del tribunale, della borghesia, della provincia e degli affari. Non dire cose troppo comuni nè frasi equivoche, nè giochi di parole, nè frizzi triviali, non stimare maggiormente la fortuna che il merito, non mettersi in valore per mezzo di basse adulazioni... Saper aspettare». Monsieur de Montausier seppe aspettare tredici anni la mano di Julie d'Angennes. Ma non c'è nulla di così sterilizzato e asettico, che col tempo non si contamini. I bacilli sono nell'aria. I germi sono in noi. Le «précieuses» che avevano il programma di controllare e castigare il proprio stile, cominciarono a compiacersi delle espressioni esagerate «furiosamente, spaventosamente, terribilmente» - come oggi coloro che non sanno parlare fanno uso indecente di «straordinario, fenomenale, fantastico e mastodontico», e delle perifrasi. La candela fu chiamata «il supplemento del sole», la camicia «la compagna perpetua dei morti e dei vivi», le guance «il trono del pudore» la luna «la fiaccola del silenzio», come oggi si dice un sorriso stereotipato, un matrimonio prefabbricato, la linea aereodinamica di un corpo femminile, innamoramento a una velocità ultrasonica. Si inventarono modi di dire che durano tuttora: «oscenità, superfluità, spendere un'ora, imbarcarsi in un affare, brillare nella conversazione». A parte queste futilità, il salotto era stato inventato. Passarono due re: Luigi XIII e Luigi XIV, due reggenze femminili, Maria de Medici e Anna d'Austria, alcune guerre, e il mondo intellettuale abbandonò per una seconda volta la corte, e sotto Luigi XV i bohémiens e i politici si radunarono nei caffè, ma gli intellettuali più o meno tranquilli fecero sorgere per la seconda volta i salotti. La duchessa du Maine si ornò di ospiti illustri, come Fontenelle e Voltaire; nel salotto di madame de Lambert tenevano circolo Montesquieu e Marivaux. Per evitare disagi e incidenti, il martedì la duchessa invitava a pranzo i letterati e il mercoledì la gente di classe. Tutte le tendenze erano rispettate: la Motte che trovava noioso Omero, e il Presidente Hénault che sparpagliava paradossi sulla relatività della giustizia. Nelle sale di Madame de Tencin, il commediografo Marivaux intese dire «cose eccellenti, ma le dicevano con così poco sforzo, con un tono così facile e unto, che sembrava di udire cose correnti e comuni. Non erano essi - i conversatori - a metterci della finezza, ma era la finezza stessa che vi si trovava». Nel salotto di madame de Geoffrin sorse l'Enciclopedia. Madame du Deffand, sua rivale, le portò via dapprima d'Alambert, e poi gli altri enciclopedisti. Donna satura di ironia, disse a Montesquieu che il suo «Spirito delle leggi» doveva intitolarsi: «Dello spirito sopra le leggi». Nella sua corrispondenza, pubblicata dopo la morte, si legge: «Uomini e donne mi parevano macchine con una molla, che andavano, venivano, parlavano, ridevano senza pensare, senza riflettere, senza sentire; ognuno recitava la sua parte per abitudine». Madame de Lespinasse, che non era meno severa verso gli invitati per quanto intelligenti fossero le conversazioni che dirigeva, concluse che «c'è una sola cosa che resista: la passione».

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Ci abbiamo scritto sopra un numero di telefono, vi abbiamo fatto un'addizione, ne abbiamo strappato un pezzo per nettare il bocchino, si sono appallottolate nelle tasche, sono rimaste in un soprabito da inverno o nell'impermeabile, saranno imbalsamate come segnalibro nell'enciclopedia. Rimettere insieme un epistolario è una fatica di archeologo. 2°) Le vostre lettere indirizzate a una donna che vi ama, si trasformano in una cartuccia di dinamite. Il pacco, che lei ha nascosto nell'imbottitura di una poltrona, col rallentarsi delle molle farà salire dalle natiche al cervello la curiosità del marito, che palperà il sedile. E la giustificazione «sono di una mia amica, non posso dirti quale, mi ha fatto giurare di non dirlo», non attacca più. 3°) Ogni lettera che scrivi durante la luna di miele a tua moglie, è un documento che andrà ad appesantire l'incartamento giudiziario nella prossima causa di separazione o di divorzio, e ogni tua parola diventerà un pugnale nelle mani dell'avvocato avversario. Scrivi, se vuoi, ma non impostare. Ogni lettera d'amore che tu invii a quell'angelo è un tratto di corda che tu aggiungi al capestro che ti impiccherà. Non c'è lettera d'amore che, allo stato nascente, non appaia sublime, per quanto stupida, sciropposa e sgrammaticata sia. E non c'è lettera così eccelsa, per valore letterario e per originalità di espressioni, che, letta a freddo, non diventi ridicola. Qualunque pagina d'amore, redatta dai massimi poeti, da Dante a D'Annunzio, qualunque sia l'ispiratrice, Beatrice o Eleonora Duse, diventa grottesca sotto i motteggi a pagamento di un lercio avvocatucolo di paese.

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Dopo un certo tempo il compagno, anche il compagno più divertente, ci opprime col suo peso, ci avvelena con la sua voce, ci ha saturati con le onde che emanano dal suo sistema nervoso, e abbiamo la necessità fisica di scaricarci delle sue onde nervose. Una voce urla in noi: «vattene, va all'inferno, non ne posso più, ho bisogno di essere solo, solo, solo!» - Da che parte vai? - vi domanda. Voi gli dite che andate nella direzione opposta alla sua. Ed egli con un gran gesto magnanimo vi risponde: - Dove dovevo andare andrò dopo. Ti accompagno. E si sospende, come un paracqua, al vostro braccio.

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Abbiamo creduto a coloro che ci dicevano che l'anima è una specie di secrezione glandolare, ma ora dobbiamo credere a quelli che attraverso l'anima arrivano a curare i reumi. Trascinano per il mondo e senza passaporto una vita miserabile gli aristocratici nipoti di quei Russi che acciecavano i servi affinchè non si distraessero nel battere il burro, strappavano i lattanti dal petto delle madri per buttarli ai porci, e in una notte di Monte-Carlo perdevano ettolitri di lacrime e di sangue di migliaia di mugic. C'è da credere alla metempsicosi e in un castigo dei figli dei figli. Ma un'istituzione è sopravvissuta ai cambiamenti sociali: la mancia. Se tutti i restaurants del mondo venissero sostituiti da distributori automatici e cento anni dopo, all'Esposizione Universale dell'anno 2057, un cliente lasciasse la mancia, una mano invisibile di robot si allungherebbe a ritirarla, e un occhio - fotoelettrico - guarderebbe storto chi non l'avesse lasciata. Ogni tanto, quando viene aumentata la percentuale di servizio sui conti di trattoria o d'albergo, viene fatta una ristampa di cartellini «le mance sono abolite»; questi cartellini hanno la precisa funzione di ricordare che la mancia esiste. Il re è morto, viva il re. Le organizzazioni che «aboliscono» la mancia, la disapprovano come un avanzo di una società politicamente tramontata, la qualificano umiliante, degradante, servile, e invocano i sublimi principi proclamati da Jefferson nel Nuovo Mondo e dalla Rivoluzione Francese nel vecchio, perchè la mancia sia, se qualche retrogrado la offre, sdegnosamente rifiutata dai lavoratori della mensa. Con questo movimento sociale si è ottenuto un risultato incompleto: parte di coloro che prima la offrivano, non la offrono più, è vero, ma tutti coloro che prima l'accettavano continuano ad accettarla. E tutto questo mi pare giusto. Un discorso che si ode spesso fra gli avventori dei restaurants è il seguente: - Sul conto grava un 20 per cento (22 in certi Paesi) per il servizio. Ne consegue che un cameriere guadagni due volte di più che un generale; tre volte di più che un professore d'Università. Un cameriere ha l'automobile, e io ho l'omnibus; possiede un villino e io vivo in camera ammobiliata; manda il figlio a studiare a Cambridge e io mi privo della villeggiatura per pagargli le ripetizioni di matematica. E come se non bastasse, pretendono la mancia. A coloro che si esprimono in questi termini contro la mancia e contro il 22 per cento sul conto, sostenendo che il portare in tavola caviale e champagne, ostriche di Ostenda e pêche Melba non è più faticoso che servire acqua, riso e fichi secchi; agli intellettuali che confrontano i propri anni di università con l'impreparazione culturale del cameriere e segnalano la paradossale sproporzione fra ciò che guadagnano loro e ciò che guadagna un laureato, risponderò io a nome dei camerieri: - Il cameriere e altri dieci lavoratori della sua categoria compiono un lavoro servile. Dicano ciò che vogliono la Confederazione Generale del Lavoro e i Sindacati; per questo, invece di essere pagato di meno deve essere pagato di più, perche oltre a essere «lavoro», cioè una fatica misurabile e calcolabile, è anche «servile», il che non è misurabile. Bisogna pagargli caro il lato umiliante del suo mestiere e al tempo stesso premiarlo per essere arrivato senza studi a una solidità economica alla quale, con tutti i tuoi studi universitari, non sei arrivato tu. Perciò, oltre al 22 per cento sul conto, dagli anche la mancia. Gli spetta di diritto. E' una somma che il cliente paga per compensarlo di tutto ciò che fa al di fuori di portare in tavola dei piatti, riempirli, aspettare che tu li abbia vuotati e portarli via sporchi. Questo extra, questo al di fuori e al di più è il sorriderti, quando tu dici una vecchia facezia, l'accettare il tuo tono di superiorità su di lui, semplicemente perchè tu sai la data del trattato di Campoformio, o il peso specifico del magnesio, o l'azione antagonista dell'atropina e della pilocarpina. Lo devi pagare perchè nell'infilare la sedia sotto i 120 Kgr. di una ricca e deflagrante matrona, resiste alla legittima tentazione di rovesciarle nell'oltracotante scollatura una bottiglia di Tomato Ketchup. Devi la mancia a chi ti rifà il letto, ti lucida le scarpe, ti porta un telegramma, perchè questo personale d'albergo è il testimone muto e discreto di tutto ciò che di abbominevole avviene negli alberghi; affari equivoci, contrabbando, ricatto, spionaggio, traffico di armi, di alcoloidi, di donne, di coscienze; e il groom, il portiere, la cameriera, il valet, tutti dànno la loro collaborazione indiretta senza partecipare agli utili. Ti consiglio anzi di darla subito. E' una coraggiosa affermazione di principio contro il «divieto» delle mance e assicura un servizio più premuroso e migliore. Il sistema non l'ho inventato io, ma lo scrittore milanese Rovani, del secolo scorso, che un giorno invitò a pranzo un amico, e per prima cosa diede la mancia al cameriere (operazione che allora si riservava per ultima): e ordinò in quest'ordine il caffé, la frutta, il formaggio, la carne, la minestra e gli antipasti. Il cameriere non rise, non fece obiezioni, trovò tutto naturalissimo, grazie alla mancia preliminare. Di cattivissimo gusto è discutere col cameriere sulla composizione dei cibi, sulla loro cottura e sul loro valore. Il cameriere è un intermediario fra il padrone della trattoria e gli avventori. Barbey d'Aurevilly invitò un altro letterato parigino a pranzo in un locale di lusso, ed essendo splendidamente generoso, pur essendo a corto di denaro, ordinò in pieno inverno un piatto di fragole. Mentre le stava mangiando diede un'occhiata alla lista: tre franchi ogni fragola (franchi-oro). Quando gli presentarono il conto raccapricciante, D'Aurevilly constatò che aveva abbastanza per pagare il padrone, ma non gli rimaneva per dare la mancia. - Cameriere, ho lasciato tre fragole. A tre franchi l'una, sono nove franchi. Mangiátele, sono per voi. Agì molto male quello scrittore. L'albergatore e il cameriere vendono due merci differenti: primo vende vino, carne, vegetali e dolci; il secondo vende dell'imponderabile, dell'inafferrabile e del relativo, ed è per questo che la mancia non dovrà essere soppressa nemmeno il giorno in cui invece del 22 per cento il cameriere percepirà il 100 per 100 sull'importo. Chi non vuole andare al restaurant si comperi pane, formaggio e un fiasco di vino, e si consumi il suo pasto in casa, o a cavalcioni sul parapetto di un fiume o nella sala d'aspetto della ferrovia.

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Articolo 11°: Da quando la medicina psicosomatica ha rivelato che l'uomo che mangia non è un semplice e squallido tubo digerente, abbiamo constatato che una buona digestione dipende anche dalle condizioni ambientali, dai colori che ci fanno cornice e dai suoni. Chiudi perciò l'apparecchio radio, affinchè nessuno per far sentire la propria voce sia costretto ad aumentarne il tono o il volume. Tu, padrona di casa, devi presentare, col timbro della tua voce, il tono giusto, come quel trombettiere che accompagnava Cicerone, per dargli, oggi si direbbe, il «la». Se tu, padrona di casa di un certo prestigio, parli sotto voce, tutti parleranno sotto voce, e si finirà col realizzare l'ideale espresso dall'umorista Miguel Zamacoïs, secondo il quale «bisognerebbe pranzare con dei sordomuti per assaporare come si deve un buon pranzo». Disgraziatamente le nostre tavole invece che cenacoli di sordomuti sono congressi di sordi urlanti. Articolo 12°: Non lasciarti esaltare, padrona di casa, dallo sfarzo. Si mangia bene esclusivamente nelle case dove non esiste un cuoco che debba giustificare degli stipendi né far onore alla propria firma, e nelle case dove la padrona «non sa far da mangiare». I pranzetti ideali sono quelli che si consumano negli ateliers degli artisti, dove si mangiano le sardine come escono dalla scatola, l'arancia come esce dalla carta velina azzurra e che tu stesso ti sbucci con i pollici, invece delle arcischifosissime «macédoines» di frutta, dove si consuma cioè un menu-standard, precedentemente concordato dove ognuno si siede dove vuole, scegliendo e cambiando di vicino, dove l'invitato ha l'impressione di non essere in casa d'altri, e dove - secondo la raccomandazione di Paul Claudel - il perfetto invitato è colui che fa in modo che il padrone di casa sia «à son aise», cioè si trovi comodo come in casa propria. La più bella innovazione dei tempi nostri nell'arte di convitare è la soppressione della tavola, che viene sostituita con una grande dispensa dove ognuno si serve di ciò che gli piace: pesce in bianco per chi ha lo stomaco rovinato o in salsa piccante per chi vuol rovinarselo, carne arrostita o sanguinante, legumi fritti o insalate, specialità locali o curiosità esotiche, e, col suo piatto in mano, va a mangiare un po' più in là, come i passeri. La padrona di casa evita con questo sistema che qualche sporcaccione formi le pallottole di mollica di pane, che qualche refrattario, non avendo il coraggio delle proprie opinioni, faccia scomparire una braciola di maiale o una fetta di torta nella cassa armonica del pianoforte o in un vaso cinese o che si commetta la gaffe di far passare sotto il naso di un vegetariano una «fritada de sangre» - specialità madrilena - o che si porgano «criadillas», testicoli di toro - specialità, di Valencia, - dell'ultimo toro ucciso nella corrida del giorno, alla pallida giovinetta che domani entrerà come novizia nel convento dell'Odoraciòn. L'«autoservizio» è il trionfo dell'indipendenza e dell'autonomia; colloca tutti sul medesimo piano e ti permette di rimanere per ultimo o di andartene per primo senza interrompere il servizio, anche prima delle ore 23,30, momento fatale in cui le insopprimibili poetesse, insistentemente pregate, dichiarano di non saper nulla a memoria, ma - vedi combinazione! - si ritrovano nella borsa una mezza dozzina di poemi inediti e un volume stampato.

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Che l'opinione che abbiamo degli altri può cambiare per una parola, un gesto, una reticenza, e perciò non sarà mai tagliente nei suoi giudizi, non sarà mai inesorabile nelle sue affetmazioni. Bisogna ammettere che quando il tatto non si manifesta col tacere e col sorvolare, cioè non si arriva addirittura al controsenso di fare che il «tatto» diventi un «non toccare», conviene però «toccare» tangenzialmente le cose; sfiorarle, dire e non dire. Esempio: parlate di un bugiardo? Direte: - No, non è un bugiardo. Ha tanta fantasia, che non ha bisogno che le cose siano vere per raccontarle. Parlate di un millantatore? - Non dico che sia un millantatore, ma quando discorre di sé ha una grande facilità di parola. Di un mentitore sistematico? - Avere dell'imaginazione è un diritto, ma pretendere che gli altri credano è un abuso. Di un cretino? - E' intelligente, ma manda spesso l'intelligenza in vacanza, e io debbo avergli parlato durante le ferie. Di uno scrittore che ruba? - E' ricco in citazioni, ma cita dei pezzi così conosciuti, che non ritiene necessario di dire il nome dell'autore. Di una signorina che riesce ogni tanto ad avere una riga e mezzo intorno al suo nome nelle riviste di radio e di cine? - Il teatro le serve a dare una nota d'eleganza a qualche altra forma di attività, nella quale riesce assai meglio che sulla scena. L'uomo di tatto e l'uomo che non ha tatto posseggono due vocabolari distinti. L'uomo di tatto non si attirerà mai una querela per diffamazione, e le sue ingiurie ovattate saranno ripetute nei salotti, nelle redazioni, nelle cancellerie. Essendo il tatto una questione di misura e di sapienza nel dosare la parola, egli applicherà il suo senso dell'opportunità nel non insistere. Se una signora, alla domanda «che opinione ha su Kierkegaard?» risponde in torso evasivo che «è interessante», egli non domanderà, come feroce supplemento, che cosa ha letto di questo autore, che evidentemente la signora non ha mai sentito nominare. Le scuole non sono gli istituti ideali per fare un uomo o una donna di tatto. Nei collegi femminili le ragazze si formano con uno spirito motteggiatore, «taquin», e si abbandonano a una gara di piccole prepotenze contro la dignità e la suscettibilità delle compagne. Nei collegi maschili gli anziani perseguitano i novizi, per antica tradizione, con scherzi di cattivo genere, che nei collegi inglesi si chiamano «fagging» e in quelli francesi si chiamano «brimades». Non so se questi esercizi formino il carattere, ma certarnente abituano a una mancanza di rispetto verso il prossimo, il che aiuterà forse a conquistare gradi e medaglie nella Legione Straniera, ma non serve a chi, più pacificamente, si accontenterebbe di essere un gentleman, un homme de bien, un caballero, un signore. Dirà il lettore che io lo spingo in quella «Scuola dell'ipocrisia» dalla quale al capitolo 37 ho strappato lui e i suoi teneri figli. Legga meglio. Questa non è ipocrisia. E' la «riserva mentale». La «riserva mentale» è una nobile arte inventata dai Gesuiti e forse più anticamente ancora, dagli Stoici. E' la conciliazione della saggezza con la necessità. Il Padre Sanchez, nelle sue Opere Morali, diceva che si può giurare di non aver fatto una cosa pur avendola fatta, pensando entro di sè di non averla fatta prima di essere venuti al mondo, ed Escobar spiega che la promessa non impegna: basta dire «lo farò», e aggiungere mentalmente «se non cambierò di idea». Secondo Pascal la restrizione mentale non è altro che la menzogna. Anche per me. Ma quante volte nella giornata dobbiamo difenderci contro coloro che ci fanno domande indiscrete o esigono promesse assurde. Nella vita di società la maggior parte delle nostre frasi è l'applicazione della restrizione mentale, l'impiego di frasi a doppio senso e di spiritose anfibologie, rallegrate dallo schizzo di seltz di un sorriso.

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Per quanto scettici possiamo essere, per quanto radicale sia stato il nostro svincolarci dal passato e il nostro proiettarci nell'avvenire, per moderna che sia la nostra casa, per aereodinamiche siano la nostra automobile, la nostra silhouette e la nostra concezione della vita, per quanto abbiamo stilizzato, assottigliato, geometrizzato, semplificato, scarnito, spolpato la nostra filosofia, il rococò dei nostri nonni, il liberty dei nostri padri, il Luigi Filippo dei nostri antenati che abbiamo conosciuto nei racconti irrispettosi della generazione che ci ha preceduti, dalla loro posizione di oggetti ingombranti e grotteschi risalgono alla gerarchia di numi tutelari. La nostra irriverenza globale per il passato si trasforma in omaggio a un piccolo settore di quel passato che strappa un sorriso, siamo d'accordo, ma un reverente sorriso. Il male è che quando le cose sono stanche di noi, ci abbandonano sfacciatamente. Gli ultimi tre bicchieri di una dozzina di baccarat, le ultime tre statuine di una serie delle Nove Muse sono testimoni superstiti del tradimento dei nove bicchieri di baccarat o delle sei Muse e sono tornate nell'Empireo del nulla, per ammonirci che bisogna amare le cose, ma non fino al punto di rendercene schiavi. Fra qualche anno la Regina Giuliana, ritrovando in fondo a un cassetto i suoi «paradisi bianchi», oltraggiati dalle tarme, direbbe, se avesse letto questo mio ultimo periodo, che dopo tutto io ho ragione.

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Si racconta che un celebre romanziere, dopo aver parlato per un'ora di se stesso, investito da un'improvvisa raffica di pudore, disse: - Ma finora abbiamo parlato di me. Ora parliamo un poco di te. Hai letto il mio ultimo libro? Sembrerebbe dunque che un cenno all'ingegno o al trionfo desse risultati infallibili. Almeno così crede il gran pubblico, che quando scrive a un letterato destina mezza pagina alla «captatio benevolentiae», dicendogli su quali alti gradini della scala della celebrità egli lo colloca. Ma non sempre il metodo riesce. Chi parlava a Tolstoi dell'opera sua gli dava un dispiacere. Quando si riconciliò con Turghenieff, dopo diciassette anni di inimicizia e di indifferenza, Turghenieff passò con lui sette giorni nella sua casa di Iasnaia Poliana, e lodò i suoi libri. Appena l'ospite fu ripartito, Tolstoi gli scrisse: «Quando sento parlare delle mie opere, provo un sentimento complesso, i cui principali elementi sono la vergogna e il timore che mi si canzoni. Benchè sia certo della vostra benevolenza, mi sembra che anche voi ridiate delle opere mie. Meglio dunque non parlarne più fra noi».

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Poichè viviamo tuttora in pieno periodo quaternario e fra l'uomo di Neanderthal e il nostro gentleman non si nota un'apprezzabile differenza, noi continuiamo ad assoggettarci, fra le altre selvaggerìe, alla selvaggeria del riunirci per mangiare, mentre per altre servitù fisiologiche, come il dormire, abbiamo già imparato a isolarci. E' bene perciò che quest'usanza barbara del mangiare in comune venga disciplinata e sia spogliata della sua eccedenza in volgarità. Il principio «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», enunciato da fonte autorevole in aramaico e tradotto in tutte le lingue e tutti i dialetti del mondo, non ha avuto in questi ultimi diciannove secoli e mezzo frequenti applicazioni, e dal suo insuccesso sono venuti fuori le leggi, i tribunali, gli scherzi di cattivo gusto, la retroattività della legge, le manette e la sedia elettrica. Proviamo almeno ad applicarlo all'arte di mangiare. «Non fare agli altri...» Ti pare davvero edificante la visione di un uomo o una donna che, a metà pranzo, si sfila dagli interstizi dentari una fibra di arrosto per mezzo di un bastoncino di legno o una penna di gallina? Non credo. Perciò: Gli stuzzicadenti - articolo 13 - non debbono figurare su nessuna tavola. Nascondere due stuzzicadenti incrociati sotto il tovagliolo è altrettanto sconcio quanto lo sarebbe il disporre sulla tavola le forbici curve per tagliarsi le unghie o il corno per calzare le scarpe, o un bicchiere con acqua lysophorm per metterci a bagno la dentiera. Articolo 14°: Il mangiare, quando si invita a mangiare, non deve apparire come una funzione di primissimo piano. Basta leggere nella Sacra Scrittura (vedi il, libro di Esther) che il banchetto offerto da Assuero, in onor suo, ai capi persiani durò 180 giorni, per concludere che lo svenimento della sposa, celebrato da Paolo Veronese, più che allo sguardo di Re Assuero deve imputarsi a qualche intingolo grasso rimasto sul delicato piloro della pallida Esther. Perciò, padrona di casa, non insistere perchè l'invitato si serva una porzione più abbondante. Non domandargli «così poco?» e non incoraggiarlo a prenderne una seconda volta. Un piatto può non piacergli, ma tu avrai già prevenuto questa evenienza per mezzo dei piatti successivi. Stonatissimo sarebbe domandargli se al posto preferisce due ova al burro o una fetta di salame. Non offenderti come per un affronto personale se mentre tutti gli altri mangiano, un commensale si accontenta di assistere davanti al piatto vuoto, e quando se ne andrà non dirgli: «ma lei non ha mangiato niente». Conclusione, quando inviti qualcuno alla tua tavola, non ricordare né prima né durante né dopo che è stato un invito «a mangiare». Basta che tu faccia un piccolo sforzo di memoria per ricordare il disagio in cui, in altre case, hanno messo te, quando speravi che la tua ripugnanza per gli «escargots de Bourgogne» passasse inosservata e una domanda dell'ospite d'allora ha richiamato l'attenzione di tutta la tavola sulla tua astensione dalle chiocciole di Borgogna. Articolo 15°: Non pretendere di creare un clima di intimità e di familiarità autorizzando gli ospiti ad afferrare gli asparagi per il bianco e a stiracchiarli e sfibrarli sconciamente con i denti. Gli asparagi si tagliano col coltello e si prendono le punte con la forchetta. E non ti venga mai in testa di proclamare che «il pollo si mangia con le mani» No, signora. Il pollo non si mangia con le mani. Lo si spolpa con gli strumenti adatti, coltello e forchetta, e se la scarnificazione non riesce totale e meticolosa come un professore di anatomia può pretendere dalle pinze, dal bisturi e dallo specillo di uno studente, basta chiedere una seconda porzione di pollo. A costo di sacrificare tutto l'alfabeto delle vitamine, queste sgualdrinelle della dietetica, io credo che le pere e le mele debbano essere sbucciate. Mangiare una mela con la buccia è come andare a letto con le scarpe. A questa conclusione chicchessia dovrebbe arrivare da sé, osservando gli altri e rievocando l'impressione che prova quando il suo prossimo brandisce una coscia di pollo o fruga con i canini la polpa che non si stacca e finisce con lo sputare nel piatto un pezzo di tendine. Un signore che rosicchi il pollo con le mani è altrettanto volgare quanto colui che dopo essersi soffiato il naso esamina il contenuto del fazzoletto. Mi si obietterà che una regina d'Italia era di differente avviso. Voglio ammetterlo. Anche i re e le regine e gli altri grandi della terra cedono ogni tanto al richiamo della foresta e sentono la nostalgia dell'epoca delle palafitte. Il bruto, il selvaggio, il primitivo che sopravvivono in noi in uno stato di dormiveglia, ogni tanto si ridestano di soprassalto. Ed è allora che provano la barbara voluttà di afferare una coscia di pollo con le mani e di affondarvi le mandibole; come lo snob inflaccidito nel iusso dei «palaces» e nella mollezza dei clubs, prova un piacere a sedersi sullo scalino dell'orto e tagliarsi una fetta di pane col suo coltello, secondo lo stile agreste del bisnonno pioniere e del nonno contadino. La forchetta è un'invenzione relativamente recente, e quando Caterina de Medici la importo a Parigi, fece scandalo alla Corte di Francia. Articolo 16° : L'età felice è quella in cui si è collocati all'estremità del tavolo e vi si mangia senza parlare. A misura che, crescendo di età e di gerarchia, ci si avvicina al centro si mangia di meno in meno e si parla di più , fino al giorno in cui, occupando, un po' rimbambito, il posto d'onore, non si mangia più e non si sa più parlare. Di questi venerandi personaggi è raccomandabile non fare ostentazione a tavola, quando si invitano persone estranee alla famiglia e perciò impermeabili alle casalinghe emozioni e ai consanguinei affetti. I vecchi insopportabili meritano dei riguardi, e poichè li meritano anche i giovani, bisogna conciliare le necessità degli uni con le aspirazioni degli altri, consigliando ai vecchi di andare a letto presto, con una buona camomilla sul comodino e una borsa d'acqua calda ai piedi e le Avventure di Pinocchio in mano. Quelli che i francesi chiamano « les parents insortables », cioè i parenti impresentabili, e che non mancano nelle più stilizzate famiglie, avranno un valore storico, ma non costituiscono un elemento decorativo e non stuzzicano l'appetito ai giovani; la zia di campagna che versa il vino rosso nella minestra perchè «rinforza lo stomaco», o dopo aver rimescolato nella tazza succhia il cucchiaino, o versa il caffé nel piattino, squalifica tutta una famiglia, e tu potresti legare metà del tuo patrimonio alla Fondazione Rockefeller o all'Osservatorio Astronomico del Monte Palomar, ma non cancelleresti mai l'onta della zia che soffia sul piattino del caffé. Articolo 17°: Se i commensali sono amici intimi, marito e moglie parlino armonicamente fra di loro, ma se sono persone di riguardo ed estranee, si evitino i colloqui coniugali. I due padroni di casa si dispongano a una certa distanza l'uno dall'altra, e se i membri della famiglia sono numerosi, si sparpaglino omogeneamente qua e là, e i più ingombranti si mandino al cine.

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