Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Come presentarmi in società

199852
Erminia Vescovi 12 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
  • paraletteratura-galateo
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Questi e altri simili ammaestramenti rivolgeva Monsignor Della Casa ai suoi lettori, che pur erano onoratissimi gentiluomini; noi non abbiamo più bisogno di dirlo se non ai contadini, e talvolta anche essi, per un istintivo pudore o per una reminiscenza della scuola, sanno che certe cose non si devono fare. Eppure, la lista dei nefas non si è per questo raccorciata. Ai tempi nostri, mutati gli usi e le relazioni sociali, nuovi doveri di cortesia si sono introdotti, e nuove necessità di certi riguardi. L'igiene alza più forte la voce, e la pulizia è divenuta più schizzinosa. E le nuove idee e le nuove usanze rendono necessaria l'aggiunta di molte altre norme. Ora, per esempio, sono i fumatori che hanno bisogno degli avvertimenti del Galateo, e ci sarebbero i ciclisti, genia malvagia, irruente e dispettosa, e gli automobilisti che credono che tutto il mondo sia per loro... Tante cose si mutano col tempo!... Ma tante restano ancora. Poichè ci sono ancora gli incorreggibili maleducati che sbadigliano in conversazione, o che voltano altrui le spalle, o che mormoran fra loro, o interrompono i discorsi altrui. Ci sono quelli che si piglian tutte le confidenze, che entrano in tutti i nostri affari, ci son quelli che vogliono imporre sempre la loro volontà, ci son quelli che scherzano su tutto e su tutti e non sanno tollerare una celia dagli altri, ci sono quelli che in un caffè s'impadroniscono di tutti i giornali e li ritengono per sè; quelli che chiedono a prestito i libri e non pensano più a restituirli. Ma invece di questa spiacevole e interminabile lista sarà meglio presentare le buone regole che si convengono ad ogni circostanza e caso della vita, e venir notando secondo l'occasione quello che si deve o non si deve fare da chi ha la giusta ambizione di mostrarsi uomo cortese o almeno urbano. Vediamo dunque il fas e il nefas nel portamento della persona, nelle vesti, a mensa, nelle conversazioni, nella presentazione e nei convenevoli, nel modo di salutare e di interpellare.

. - Ebbene, per le altre lettere, valga quello che abbiamo detto per le visite di convenienza e di etichetta. Poichè la lettera sostituisce la visita; e se è vero quel che dice Cicerone che la lettera altro non è se non una conversazione in iscritto, ne vien che essa deve avere le stesse norme della visita e della conversazione, oltre ad alcune modalità sue proprie. E vediamole subito. Come chi si presenta in casa altrui dev'essere decentemente vestito, colui che scrive avrà tutta la cura per l'aspetto della lettera. Carta bianca e pulitissima: non si ammettono i colori anche lievissimi se non dalle signore. S'intende che la busta dovrà essere perfettamente assortita al foglietto. Si può usare il monogramma, la corona nobiliare, facendolo mettere a sinistra in alto del foglietto, però sono cose che sanno un po' di affettazione. L'inchiostro sia di preferenza nero o blu, e non di colori stravaganti. Le lettere di carattere ufficiale, d'affari, si scrivono sempre su carta bianca. I ricorsi, i promemoria ecc. si scrivono su carta cosidetta da protocollo, meglio se non rigata, nel qual caso, però, bisogna adoperar la falsariga, per la necessaria regolarità. La calligrafia ha pure la sua importanza, ed è quello che è la voce, nella conversazione. Certe calligrafie producono un effetto disastroso. E non solo all'occhio, ma all'intelletto che giudica spesso da quelle il grado di civiltà e talvolta il carattere dello scrivente. Lo scritto a uncini, a sbalzi, sformato, irregolare non è compatibile che nella povera gente, negli altri indica poco rispetto e negligenza; quelli poi che usano caratteri a punta, insolenti e aggressivi, o che imitano la scrittura altrui, snaturando la propria, mostrano poco cervello e poco gusto. Scrivere troppo minutamente è un tormento agli occhi e abusar della pazienza altrui; riempire una pagina con quattro righe a gran caratteri è un'altra sconvenienza. E che diremo poi delle correzioni, delle raschiature, delle macchie? Non si possono scusare in nessun modo. La data va messa in cima al foglio, a destra; nelle lettere di riguardo, invece, si suol mettere a sinistra, dopo la firma. E' cosa lodevole aggiungervi anche l'indirizzo, specialmente scrivendo a persona con cui abbiamo relazioni molto larghe. Dopo la data viene l'intestazione, sempre a sinistra, e non mai nel mezzo (salvo nelle suppliche e istanze) e tanto meno a destra, usanza carissima ai soldati e alle domestiche. La formula dell'intestazione, vien data, naturalmente, dalle nostre relazioni con la persona a cui si scrive, e dal grado di questa. Ai nostri amici e parenti diremo sempre caro e carissimo, colle altre persone ci regoleremo secondo il caso. Le forme più usate sono: Gentilissima signora, - Cara amica, - Egregio signore, - Caro amico, ecc. Quando vi sia un grado nobiliare, bisogna sempre usarlo. Così dei titoli accademici; perciò diremo: Caro Avvocato, o Caro Conte, oppure Egregio Avvocato, Egregio Dottore, - regolandoci sulla confidenza maggiore o minore che si abbia colla persona. Non si mette mai un titolo per intestazione, senza farlo precedere da un aggettivo (egregio professore, carissimo ingegnere) e non scriveremo mai a una signora: Egregia professoressa - Stimatissima maestra - Chiarissima dottoressa, per le ragioni già dette parlando delle buone regole nella conversazione. L'intestazione «Chiarissimo Professore» si usa invece con i docenti universitari. Soltanto un dipendente o un fornitore si rivolgerà a un titolato o a un professionista con la formula «Egregio Signor Conte», «Egregio Signor Ingegnere», ecc. A una persona inferiore, a un fornitore si suole scrivere: Caro signor B - Cara signora C - secondo la professione. S'intende poi che agli alti dignitari dello Stato e della Chiesa si daranno i titoli prescritti, e si ripeteranno nel corpo della lettera, e nella frase di chiusura precedente la firma. Cominciando la lettera si tenga qualche distanza dall'intestazione. Questa distanza, secondo le buone regole, deve essere tanto maggiore quanto più di riguardo la persona a cui scriviamo. E' poi necessario, in tali casi, non scrivere se non da un lato del foglio: il margine ora non si usa più, ma non è bello nemmeno nell'intimità vedere le righe correre sino all'estremo limite e talvolta - orrore! - le parole ripiegarsi in giù lungo il lembo destro... Nella frase di chiusura, bisogna badare alle stesse regole dell'intestazione: affetto, devozione, rispetto, cortesia, devono ispirarle opportunamente, secondo i casi. Diremo ad un parente o ad un caro amico: Ti abbraccio di cuore, tuo aff. ecc. - Ricevi un abbraccio dalla tua B, ecc. A una persona di mezza confidenza: La prego di gradire i miei cordiali ossequi. - Mi creda, egregio ingegnere, il suo aff. e dev. B. C. - Coi sensi della massima stima, suo obbl. P. C. - Con rispettosi saluti, obbl. e dev. B. M. Coi fornitori e alle persone inferiori: Con i migliori saluti, N. N. Una signora non metterà mai nella sottoscrizione l'aggettivo umilissima (salvo in una supplica al Capo dello Stato) e non si dichiarerà mai serva di nessuno. Nella firma si pone sempre prima il nome, poi il cognome: se vi sono titoli... si lasciano nella penna, per non passar da vanesi di cattivo gusto. Però, scrivendo ad ignoti, e quando sia necessaria una indicazione che qualifichi lo scrivente, si suole usare il titolo professionale o accademico. Sulla busta si scrive colla massima chiarezza il nome e cognome della persona, preceduti dai rispettivi titoli. Dopo il nome e il cognome si suol mettere talvolta l'indicazione del grado e l'ufficio. On. N. N. - Deputato al Parlamento. Conte B. C. - Presidente della Congregazione di Carità. Signora T. M. - Direttrice dell'Orfanatrofio Femminile. Queste indicazioni sostituiscono spesso l'indirizzo della via e numero, e giovano al recapito con maggior sicurezza. Non è ben fatto abbreviare gli aggettivi scrivendo per esempio: - Ill.mo Stim.mo, ecc.; tuttavia si può tollerare nelle buste; non mai nella intestazione interna, e tanto meno nel corpo della lettera. In fondo, a destra, si scrive il nome della città, e l'indicazione della provincia se si crede necessario. E' sconsigliabile scrivere solo Città quando la lettera non ne deve uscire: potrebbe darsi invece che per isbaglio fosse mandata altrove o scivolasse fra qualche giornale, e allora dove rimandarla? Il francobollo va messo sempre a destra, in alto. Chi non si fida della semplice ingommatura della busta, metta un sigillo, una marca di suo gusto, ma non contravvenga alle regole chiaramente espresse pel servizio postale, mettendo il francobollo dietro la busta, a mo' di chiusura. Venendo poi alle regole per una lettera bene scritta, diremo che la migliore di tutte è di lasciarsi guidare dal cuore, dalla convenienza e dal buon senso. E anche dalla prudenza, in certi casi, perchè dice il proverbio latino, verba volant, scripta manent... Si abbia la massima cautela trattando argomenti delicati; non ci si abbandoni alla collera, all'impulso cattivo del momento, se dobbiamo scrivere una lettera di rimprovero; si usi tutto il riguardo nel dare consigli, specie se non richiesti. Non si scriva a dritto e a traverso, facendo quegli sgradevoli graticci che stancar gli occhi. Le convenienze vietano di usare la macchina da scrivere per la corrispondenza che non sia d'ufficio. Per praticità, e sull'esempio dell'estero, fra giovani si tende ora ad abolire questa regola, quando ci sia una certa confidenza. Comunque, non si usi mai la macchina per scrivere una lettera privata ad una signora od a un superiore; se si fosse costretti a farlo per ragioni speciali (ad es. lunghezza eccezionale della missiva o particolare mancanza di chiarezza della nostra grafia) non si dimentichi di chiederne perdono nella lettera stessa. Si dev'essere pronti nel rispondere, specie se ci vien chiesto qualche favore, o se dobbiamo dare qualche informazione o notizia che prema. E pronti anche nel ringraziare dopo l'arrivo di qualche dono, per non lasciar la persona gentile nel penoso dubbio, se sia giunto o no. Chi poi avesse ricevuto una lettera da impostare, lo faccia subito, per non correre il pericolo di dimenticarsene... all'infinito. Chiedendo ad altri questo favore, si consegni la lettera col francobollo già apposto. Sarebbe scortese dargli in mano il danaro e peggio ancora riservarsi di darglielo dopo e dimenticarsene!... Una lettera da presentarsi a mano porta sempre scritte le parole: per favore. Se questa lettera è di presentazione va consegnata aperta, e non deve parlar d'altro. Se è lettera di carattere privato c'è chi dice che si può benissimo consegnarla chiusa. Sarà sempre più cortese però, affidandola a persona che non sia inferiore a noi, consegnargliela aperta, ed essa ha l'obbligo, ricevendola, di chiuderla in nostra presenza, con una cortese protesta. Una signora non scrive mai a lungo ad un uomo, e specialmente se l'età non è matura in uno almeno dei due. E c'è pure chi si diletta cogli ignoti conosciuti nella quarta pagina d'un giornale. Gente che ha tempo da buttar via, poco giudizio, e che si espone anche al caso di aver dei gravissimi dispiaceri... Le lettere anonime sono, chi non lo sa? una delle più riprovevoli e vili azioni. Chi ne ricevesse una, badi di non turbarsene eccessivamente; il più saggio partito è di buttarla nel fuoco e non pensarci più. Analoghe alle lettere sono le cartoline, di cui ora si fa molto uso: nella modalità hanno press'a poco le stesse regole. Si badi però che sarebbe sconvenienza scrivere una cartolina a persona molto a noi superiore, anche se fosse per una comunicazione di due righe. E anche scrivendo a parenti e amici, non si usi mai della cartolina, quando si abbia qualche cosa di delicato o di personale, per non correre il rischio che la notizia sia saputa dal portinaio o dalla domestica prima che dalla persona a cui doveva giungere, e che dia luogo a indiscreti commenti!

Allora un istinto ci guida a scegliere il tratto, la parola, il gesto più opportuno, se l'animo è abitualmente gentile, o ci induce a commettere goffaggini e inurbanità se non abbiamo la norma interna del buon gusto e del ben volere. L'arte di piacere agli altri è in gran parte quella di saper esercitare un costante dominio sopra noi stessi. Ecco perché le persone impulsive hanno raramente finezza di modi, ecco perché molti trovan più comodo andar avanti come piace a loro, e dichiarano che non vogliono seccarsi... Ma, a conti fatti, che cosa risulta? La loro scortese incuranza vien ripagata dall'antipatia che generalmente destano, e dalla privazione di molti vantaggi. Al contrario, coloro che si sorvegliano costantemente, che si frenano, che sanno opportunamente tollerare e dissimulare, si guadagnano simpatia, stima, affezione, si trovano facilitato dagli altri l'aspro cammino della vita. Quando noi leggiamo nel Vangelo: «Beati i mansueti perchè possederanno la terra» noi troviamo certo un insegnamento di alto valore mistico. Ma noi vi troviamo anche una constatazione pratica di ciò che accade realmente: coloro che hanno soavità di modi sanno rendersi padroni del cuore altrui e spesso foggiare la propria fortuna. E, del resto, in quel codice supremo di verità, noi possiamo trovar anche altre conferme a quanto abbiamo detto. Non si accompagna forse alla legge severa di non portar odio e di non recar danno alla persona del nostro prossimo, anche la proibizione di dirgli raca? E non è forse prescritta la cortesia del tratto quando vengono biasimati coloro che vogliono i primi posti nelle adunanze e nei banchetti? E quando ci viene insegnato a dir semplicemente si e no, oltre che la menzogna, non viene sbandita anche l'enfasi antipatica, la scortese diffidenza? E non ci viene imposto di mostrar un volto sorridente e aperto, anche quando ci siamo imposti qualche privazione, mentre gli ipocriti, senza curarsi di rattristar gli altri, vanno attorno con viso ostentatamente malinconico? Quando il Fariseo volle criticar la donna che aveva versato il balsamo odoroso sui piedi del Salvatore, egli si sentì da questo un tranquillo rimprovero perché nel riceverlo aveva trascurato con lui gli atti di urbanità in uso presso il loro popolo. Ma tutto si riduce, in fine, al gran precetto: Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi stessi - non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. - Su questa salda base si può edificare l'edificio intero del Galateo. E anche, per prevenire ogni pericolo di finzione, bisogna tener presente l'altro precetto: «dell'abbondanza del cuore parla la bocca». Di qui la necessità di educare l'animo a sentimenti gentili: di qui la cura che devono avere i genitori per cominciar presto coi loro figlioli. La padronanza di sè, lo spirito di sacrificio necessario tante volte nelle relazioni sociali, non si improvvisano. E può darsi talvolta che un generoso impulso dell'animo spinga ad atti eroici, in qualche occasione straordinaria, ma è difficile che l'autoeducazione giunga a tempo con cambiar il carattere d'un uomo che da piccolo non venne ben formato. D'altra parte riflettiamo che se l'eroismo e la generosità non sono sempre alla portata di tutti, la gentilezza, invece, la cortesia, la discrezione sono le necessità quotidiane della vita sociale. L'opportunità e finezza del tratto suppliscono spesso alla mancanza d'istruzione, dissimulano molti difetti, rendono più amabili le stesse virtù, come la grazia dà pregio alla bellezza; mentre la bellezza dura, fredda, sgarbata non ha potere sugli uomini. «Se tutti gli uomini conoscessero il loro interesse sarebbero tutti onesti» disse Spencer. E si può anche aggiungere: sarebbero sempre reciprocamente gentili. I genitori che insegnano per tempo ai loro figli questa grande arte della gentilezza, che la fanno diventar parte intrinseca del loro carattere, fanno loro uno dei doni più preziosi, poiché danno loro la possibilità di farsi degli amici dappertutto, e di vincere senz'urti molte delle grandi lotte della vita. E l'amico che dà a questo proposito un buon consiglio all'amico, merita tutta la sua riconoscenza; appunto come quel tal vescovo Matteo Gilberti di Verona, il quale mandò un dono prezioso al suo ospite, un certo conte Riccardo, con l'avvertimento che fra tutti i suoi modi così belli e costumati, disdiceva «un atto difforme colle labbra e colla bocca, masticando alla mensa con uno strepito molto spiacevole a udire». E il bravo conte, invece d'aversene a male, ringraziò il vescovo con tutta l'effusione per quel suo dono che tenne vera prova d'amicizia. Così ci racconta Monsignor Della Casa, il quale dice che l'ambasciatore scelto all'ufficio un po' difficile e delicato, era appunto quel tal Galateo che lo indusse a scrivere il fámoso trattato che porta tal nome. Cerchiamo dunque di far tutto quello che ragionevolmente può far piacere agli altri e ricordiamoci che la gentilezza è il fiore dell'umanità, e nel tempo stesso il profumo della virtù.

I migliori profumi sono, in genere, quelli estratti dai fiori, che risvegliano sempre sensazioni gradite: fra le acque artificiali consigliabili per l'igiene tiene il primo posto l'acqua di Colonia, e noi Italiani abbiamo carissima l'acqua di Felsina. La signora che entra saluterà sempre prima la padrona di casa; rivolgerà poi un lieve cenno alle altre persone, se le sono ancora sconosciute, e non si porrà a sedere se non dopo le presentazioni. In certe case però, si usa che il servo o la cameriera annunzino a voce alta il nome dei nuovi venuti, così le presentazioni rimangono abolite. Se nel salotto vi fossero già persone di sua conoscenza, la signora entrata rivolgerà ad esse i suoi saluti, subito dopo che alla padrona di casa. Prenderà posto dove c'è libera una seggiola o una poltroncina, senza guardar tanto, o siederà sul divano vicino alla padrona, se il posto è libero. A destra o a sinistra?... Il posto dell'ospite sarebbe sempre a destra, tuttavia in certe province si usa che la signora che riceve tenga sempre il suo posto alla destra del divano. Se nel salotto v'è caldo, la visitatrice aprirà con discrezione la pelliccia o il mantello. S'intende che avrà lasciato in anticamera l'ombrello, anche se asciutto. La conversazione dev'essere sostenuta con garbo, e diretta specialmente dalla padrona di casa. Quando poi è passata una mezz'ora circa, si può far l'atto di congedarsi, salvo a rimaner ancora, se la signora ne farà gentile istanza. Si suol approfittare, generalmente, a prender congedo, dell'arrivo di un'altra persona, e ciò per dar meno disturbo. Ma se quella persona fosse una comune conoscenza, la cortesia impone di non lasciarle credere che siamo stati messi in fuga da lei... Non potendo fare diversamente, ci si deve scusare con brevi e gentili parole. La signora che riceve ha l'obbligo di mostrare in tutti i modi il suo gradimento. Perciò farà in modo che il salotto sia ben preparato e ornato di fiori o piante, avrà cura che nell'inverno vi sia un tepore gradevole (e non eccessivo, come purtroppo si fa talora) e nell'estate ombra e frescura. Ma riguardo all'ombra, si badi che è molto spiacevole per chi entra, passar dalla luce del di fuori alle tenebre assolute di cui si compiacciono certe signorine. Spiacevole...e pericoloso. Si urta contro le poltroncine, si mette in pericolo l'integrità dei ninnoli sui tavolini, si cerca un posto a tastoni, e talvolta non si riconoscono le persone. Grazie al cielo, ora, l'usanza dei pesanti tendoni di panno e velluto scuro è sparita, combattuta dalle sagge norme d'igiene; nelle stanze si lasci circolare l'aria e regnare la luce, moderando poi l'una e l'altra a seconda delle ore delle stagioni. La signora che riceve indosserà un abito speciale, per mostrar alle sue visitatrici che desidera trattarle con premuroso riguardo: ma quest'abito, per quanto elegantissimo, non deve mai essere sfarzoso, perchè sembrerebbe, allora, che volesse soverchiarle e umiliarle. Potrà adornarsi dei suoi gioielli, ma scegliendo i meno appariscenti, e non sovraccaricandosi di anelli o di braccialetti. Ella accoglierà con un sorriso e con dimostrazioni di piacere le amiche e le conoscenti, alzandosi e andando loro incontro. Per gli uomini, la signora non si alza mai, se non fossero sacerdoti, o vecchi venerandi, persone di straordinario merito. Farà subito le .presentazioni, se è necessario, e rivolgerà alla nuova arrivata le domande d'uso, sulla salute, la famiglia, ecc., non però con fare convenzionale, ma coll'espressione di un sincero interesse. Farà poi in modo che la conversazione divenga generale, riprendendo anche, se è il caso, l'argomento di cui si trattava prima che giungesse la visitatrice, e accennandone a questa le antecedenze, perchè possa parlarne con cognizione. Si studierà poi di fare in modo che tutti si trovino a loro agio, e darà l'esempio di una moderata allegrezza, dimenticando per quelle ore i crucci e i fastidi che eventualmente potesse avere. E' cortesia cercar di trattenere le persone che fanno atto di accommiatarsi; ma non si potrà usare con un uomo, e nemmeno con una signora, quando sia molto superiore per grado o per età. La signora accompagnerà sulla soglia le sue visitatrici, ma non mai nell'anticamera, per non lasciar sole le altre. Se c'è una cameriera o un servo, è ufficio loro ricevere in anticamera e aprir loro la porta: se per un caso qualunque (non c'è da meravigliarsene in questi tempi!) non ci fossero, la signorina di casa adempirà con molto garbo questo dovere. Riguardo alle visite, l'uso di avere un giorno fisso di ricevimento va quasi del tutto scomparendo. Ora le signore preferiscono dare ogni tanto un tè, a cui amici e conoscenti, numerosi o no secondo l'importanza della riunione, vengono invitati, seguendo il grado di amicizia, per telefono o con un biglietto alcuni giorni prima. Altrimenti, la signora che voglia andare a trovare un'amica si assicurerà per telefono che questa sia in casa nel giorno che le conviene, e le farà visita senza altre formalità, dopo le cinque del pomeriggio. Se per un caso di forza maggiore la signora che ha annunciato o che attende una visita dovesse assentarsi senza poter avvisare l'altra, non dimentichi di farle poi le più ampie scuse. Quando si offre il tè (che ora ha quasi soppiantato il buon caffè, così semplice a offrirsi e a prendersi) bisogna che vi sia un tavolino preparato appositamente, con tazze finissime e tovagliette e tovaglini bianchi trinati. La padrona di casa, aiutata dalla signorina, se c'è, fa circolar le tazze e offre il latte o il rhum, secondo i gusti, e i finissimi biscotti. Ne risulta qualche volta una complicazione poco piacevole, specialmente per le visitatrici che hanno le mani guantate e ingombre: borsetta, piattino, tazza, cucchiaino, dolci... Se però è un tè in grande, ci devono esser tavolini appositi per posar tutte queste belle cose, e il servizio è fatto dai domestici in giro. Per le visite di condoglianza si aspetti almeno una settimana; si faccia una visita breve, portando un abito scuro e serio di foggia, evitando le convenzionalità, e adattando il tono della conversazione al carattere, all'età, alle idee della persona afflitta. Dai malati si vada poco e brevemente; si cerchi d'infonder loro speranza e serenità, e si mostri una sincera premura per tutto ciò che li riguarda. Invitati a ritornare, se veramente si pensa che la nostra compagnia possa riuscir di conforto, si prometta e si mantenga. Alle ammalate è gentile portare fiori non profumati, i quali, nel caso si tratti di una puerpera, saranno di preferenza bianchi. I bambini non si conducono in visita, e nemmeno si dovrebbero condurre le giovinette sotto i diciotto anni. In campagna, naturalmente, si passa sopra a queste regole. E accade qualche volta che il visitatore o la visitatrice si tiri dietro il cane... cosa deplorevole per mille ragioni. Anche nella casa ove si va in visita c'è talvolta un cane (e questo, pur troppo, accade anche in città). Ebbene, si consiglia alla padrona di tenerlo lontano dal salotto intimo. Quelle amabili bestiole considerano, si sa bene, ogni ospite del loro padrone come nemico personale, e gli vanno incontro ringhiando e abbaiando. La musica dura spesso un bel pezzo, e intanto il visitatore non può nemmeno scambiar una parola coi padroni di casa, che invano cercano di far tacere l'insolente, e spesso credono di giustificarsi dicendo questa bella ragione: non abbia paura, non fa nulla. Meglio tenerlo chiuso nel luogo suo, tanto più che simile diletto si rinnova spesso anche nel momento del congedo. E a proposito del congedo non sarà male avvertir le signore che per quanto siano in confidenza con una visitatrice, per quanto sia loro cara la sua compagnia, non devono trattenerla mezz'ora sulla porta o nell'anticamera. Questo avviso naturalmente va dato anche a chi fa la visita. Giungendo in un paese nuovo, o recandosi ad abitare un nuovo casamento, tocca a chi arriva far visita alle persone cui desidera entrar in relazione. La prima visita va restituita entro gli otto giorni. Non sarà male accennar qui ai biglietti da visita, che spesso sostituiscono la nostra persona....Essi devono essere in cartoncino bianco elegantissimo e devono portar col nome e cognome della persona, i suoi titoli e il suo grado. I professionisti vi mettono talvolta il loro indirizzo. Vi son però dei personaggi così insigniti di gradi e titoli, che la litania ne sarebbe un po' troppo lunga: molto opportunamente si suol usar da loro due specie di biglietti da visita: l'una solo col nome e cognome, l'altra con l'elenco dei gradi e dei titoli; adoperando la prima con amici e parenti, la seconda nelle relazioni ufficiali. Il titolo nobiliare non si mette quando si pone la corona. Le signore hanno il loro biglietto da visita col nome e cognome da fanciulla e da maritata; col titolo o colla corona se sono nobili per via di marito. Il cognome del marito precede sempre quello di nascita. Un tempo le signorine non avevano biglietto da visita; ora però questa regola si va eliminando. Una donna generalmente non mette sul suo biglietto titoli professionali; se però le è necessario essere conosciuta anche professionalmente, preferisce ricorrere, come già detto a proposito degli uomini, al doppio biglietto: uno col titolo per la professione ed uno senza per la vita di società. Il biglietto da visita di una signorina non porta nè titolo nobiliare nè corona. L'abitudine di mettere lo stemma sui biglietti è caduto in disuso e sopravvive un po' soltanto in provincia. Sul biglietto si scrivano poche parole di circostanza; non è bello ricorrere alla sigle p. p. c. - p. c. - p. a., che sono asciutte e volgari. Si mandano i nostri biglietti in occasioni d'auguri, di condoglianza, ecc.: si lasciano alla porta quando non si è potuto fare una visita, piegandoli all'angolo. Visitando il Sommo Pontefice l'uomo avrà l'abito nero da mattina, la signora sarà vestita di nero con velo. Non si portano guanti. Dinnanzi al Santo Padre, i visitatori si inginocchiano, Gli prendono la mano senza stringerla, e ne baciano l'anello. Le domande di udienze private si rivolgono al Ministro dei Sacri Palazzi o al Vescovo della propria Diocesi, che le trasmette alla Santa Sede. Nel visitare un Vescovo, la signora si presenta in abito serio e corretto, ma non occorre il velo. Si accenna una genuflessione presso la poltrona ove siede Monsignore, il quale raramente permette che si eseguisca, e si bacia l'anello pastorale.

Quante volte, praticando più da vicino una persona che ci era riuscita a prima vista antipatica, conoscendola meglio, abbiamo scoperto in essa delle qualità preziose, che poi ce l'hanno resa carissima! Sia dunque amorevole con tutti il bravo collegiale, pronto più a giudicar bene che male, pronto sempre a render servizio a un compagno, ad aiutarlo onestamente nel fare i suoi compiti, a intercedere in favore, a scusare una sua colpa. Agli educandi nuovi, specialmente, bisogna presentarsi col volto amichevole, incoraggiante: metterli al corrente della vita interna e istradarli all'adempimento dei comuni doveri. E non fare come certi sventati che cominciano subito i loro discorsi col dir male del collegio e dei superiori. I superiori hanno, qui, doppiamente i diritti e i doveri dei genitori poichè ne assumono interamente l'ufficio. Con loro, dunque, un bravo e buon ragazzo terrà il contegno di un affettuoso rispetto, e non si permetterà mai di criticarli, di farli segno alle malevolenze degli altri, di mostrarsi riottoso e sgarbato. E verso gli istitutori subalterni, che sono più a contatto con loro e che hanno obblighi maggiori e non sempre piacevoli, devono usar lo stesso rispetto, e procurar di unirvi fiducia e affezione. Vi sono poi alcune incombenze di collegio che sono affidate per turno agli educandi, e più ancora alle educande. e ciò ha il duplice scopo di facilitare il servizio e di avvezzar i giovani a certe incombenze domestiche, a cui possono ritrovarsi nella vita. Non dispiaccia troppo alle fanciulle, anche di buona famiglia, maneggiar la scopa o il cencio, lavar i bicchieri! Pensino che queste abilità possono giovar molto spesso, famiglia, ora che le persone di servizio van facendosi così rare; e che del resto non si perde la propria dignità in faccende che giovano al comune. Facciano dunque con viso sereno, e colla massima diligenza possibile, quello che loro viene comandato. In un luogo di educazione comune si devono evitare tutte le singolarità. Rispettando dunque la disciplina, e tenendo cari i consigli degli istitutori, si guardino i giovanetti dal chiedere continuamente e senza ragione delle dispense per non fare ciò che fanno gli altri. Pronti alla scuola, alla chiesa, allo studio, devono anche mostrarsi contenti degli svaghi comuni, e non fare gli schizzinosi. Perchè rifiutarsi di uscire alla passeggiata, e trovar mille pretesti? Si ubbidisca a questa legge di uguaglianza e di igiene, e non si insista, con disturbo degli istitutori. Nell'uscir a passeggio, poi, badino gli educandi alla massima pulizia e compostezza delle loro vesti, e procurino di non alterarla mettendo i piedi sbadatamente nella polvere o nel fango, e, quando son rotte le file, correndo e saltando disordinatamente. Camminando per le vie della città non alzino la voce, non stropiccino i piedi, non battano i tacchi. Ogni coppia cammini con passo regolare in modo da non costringer la fila a rallentare o a impedirsi il passo accavallandosi. Non si deve nemmeno rivolger la parola a quelli che stanno davanti o di dietro, e nemmeno camminar colla testa per aria, e mettersi nel rischio di battere contro qualche cosa. Incontrando persone di conoscenza, si può, anzi si deve, rivolger loro un cortese cenno di saluto; non mai alzar la voce e peggio chiamarle per nome. In dormitorio, quiete e silenzio! Se c'è chi non può dormire (ben raro caso a quell'età) procuri di non disturbare gli altri... Vi son dei ragazzi che tormentano i loro vicini di letto, chiamandoli, costringendoli a parlare, impedendo loro di dormire. E aspettano che il sorvegliante si sia ritirato, per far chiacchiericci e burle... No; nessuna regola del collegio dev'essere violata anche se manca la persona che sia preposta alla vigilanza immediata. A questa deve supplire il senso del dovere e il riguardo che ogni anima ben nata deve avere per i diritti altrui e per il proprio perfezionamento morale. Niente soppiatterie, niente indisciplinatezze. Così, il giovanetto educando si guadagnerà l'affetto comune, troverà più leggera la disciplina collegiale, e gli anni passati colà gli lasceranno un dolce ricordo, non esente di rimpianto, per tutta la vita.

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E così si deve fare anche rientrando dal passeggio o da altro luogo pubblico, e anche diciamo tutto, se abbiamo dovuto stringer le mani del nostro prossimo; mani immacolate, vogliamo credere, e perfettamente sane... ma, insomma... E le unghie van tenute pulitissime e bianchissime; per mantenerle tali bisogna che non sian troppo lunghe; ma nemmeno è bello vederle rase al polpastrello. Il rispetto alla nostra persona si manifesta in modo specialissimo nelle vesti. La biancheria intima deve essere mutata almeno una volta alla settimana, le calze assai più spesso. Chi poi si presentasse in pubblico colle vesti sbottonate, colle scarpe slegate, col lembo dei calzoni o della gonna sfilacciato o fangoso, col bavero del soprabito lucente, ohimè! di untume, o coperto di polvere, costui, dico, fosse anche un Solone o un Galileo, correrebbe un gran rischio di farsi guardare come uno strano animale. Ma si riderà anche del bellimbusto azzimato, si riderà anche del vecchio e della vecchia che ricorrono ai più visibili espedienti: «Pour réparer des ans l'irréparable outrage». Non si veggono forse i belletti stesi sulle guance rugose, e le chiome posticce, e le sopracciglia disegnate, e i capelli tinti di biondo e di nero, che passan per tutti i colori dell'iride, quando sarebbe così nobile e spesso così bella la canizie? Chi rinunzia alla propria personalità fisica dimostra cervello meschino e perde ogni diritto al rispetto altrui. E' orinai generalmente invalsa fra le donne l'abitudine di truccarsi. Premesso che ciò non si addice ad una adolescente, la donna che vi ricorre ricordi che il trucco deve servire a ravvivare o a correggere lievemente il viso, non a cambiarne totalmente le fattezze. Quindi lasci i ceroni e le impiastricciature violente ed eccentriche alle dive, che ne hanno bisogno per esigenze tecniche di palcoscenico, e si accontenti di un ritocco sobrio, appena accentuato di sera, che è sempre molto più signorile ed oltre a tutto anche molto più riuscito esteticamente in quanto il trucco migliore è sempre quello che non appare, avvicinandosi maggiormente alla naturalezza. Quanto detto sopra vale per tutte: ma è evidente che assume anche maggior valore riferito a signore non più giovani, le quali oltre alla naturale dignità ùdella donna devono considerare anche la dignità particolare richiesta dalla loro età. Ma non si corre questo rischio soltanto trascurando o alterando il corpo che Dio ci ha dato, compagno dell'anima e suo strumento nell'operare. Noi dobbiamo rispettar ancor più la nostra personalità morale. O poche o molte sian le doti che ci furono concesse, è obbligo nostro di farle valere in nostro vantaggio e altrui, e se è dissennato e superbo chi ne mena pompa, anche più di quanto si conviene, chiameremo stolto chi si compiace di avvilirsi e di snaturarsi in faccia alla gente. Perciò chi tiene un linguaggio indecoroso manca di rispetto a sè e agli altri, e così pure chi buffoneggia e scherza nelle brigate in modo scurrile. Poichè, dice Baldassare Castiglione, ci sono bene nelle corti coloro che ciò fanno per sollazzo altrui, ma si chiamano con altro nome e non gentiluomini. Non so quanto potesse toccar da vicino l'ammaestramento ai lettori de' suoi tempi. Ai nostri, di questo bel vezzo buffonesco rimane ancora qualche traccia nelle conversazioni di villaggio. C'è qualche specialista nel rifare il verso di questo o quell'animale; c'è chi s'è fatta una legge di non rinunziar mai a nessuna goffa spiritosaggine che gli venga sul labbro, pur di guadagnarsi la fama di uomo faceto... E nemmeno si deve avvilir se stessi con perpetuo atteggiamento servile verso gli altri. La cortesia non deve escludere il decoro, la compiacenza non deve estendersi ad ogni servigio, la lode non deve prender l'aspetto dell'adulazione, il complimento non dev'essere mellifluo e a getto continuo. Chi si mette prono innanzi a tutti, non si deve meravigliare se a molti verrà la voglia di calpestarlo. E nel parlare di sè, l'uomo saggio si terrà tanto lontano dalle ridicole vanterie, quanto da un'affettazione di umiltà. Chi protesta ad ogni istante di non valere nulla, di non esser capace di nulla, di reputarsi l'ultimo di tutti, corre talvolta il rischio d'essere scambiato per un ipocrita... e il rischio non è piacevole. Ma se la gente lo pigliasse sul serio? Se queste ripetute proteste di nullaggine attecchissero nell'opinione pubblica? Si può rispondere che i fatti smentiscono le parole, e che il vero merito si paleserà da sè. E' vero, ma talvolta un preconcetto formatosi di una persona può trovar una certa difficoltà a sparire. L'esperienza ci mostra molti fatti di questo genere. Ad ogni modo, questa può sembrare una originalità di cattivo gusto. Facciamo debita stima dei doni che il clemente creatore ci ha dato, e ricordiamoci che la modestia è verità, come diceva il Manzoni, che di queste cose se ne intendeva, e che se vogliamo essere stimati dagli altri dobbiamo anche mostrare che di noi stessi abbiamo una ragionevole e giusta stima.

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Noi invece, fortunatamente, abbiamo cambiato opinione, e il pubblico giustamente s'inquieta quando, a metà del primo atto o più oltre ancora ode sbatter le porte dei palchetti, ode quei molteplici rumori di assestamento con cui le ritardatarie disturbano l'attenzione tutta rivolta a quel che accade sulla scena. Anzi si è fatto un passo di più: a certi spettacoli eccezionali è vietato l'ingresso oltrepassata l'ora convenuta. Ed è giustissimo che chi va al teatro unicamente per godere la sublime elevazione di spirito a cui lo rapisce la musica o il dramma, e forse per quella volta sola, e a prezzo può darsi anche di qualche tacito sacrificio, non debba aver sciupato il suo diletto dalla scortesia di vanitosi ristucchi. Ma che diremo poi dei palchetti ove si fa conversazione durante lo spettacolo? Costoro dimostrano non solo mancanza assoluta di riguardo verso gli altri spettatori e verso gli attori, ma anche piccolezza di mente, insensibilità artistica, boria insolente. E' anche non è bene commentar lo spettacolo coi vicini (se non fosse quell'esclamazione spontanea e rapida che la passione commossa ci chiama nostro malgrado alle labbra), criticare, far confronti, mostrar erudizione non richiesta, disprezzare, disapprovare. In quanto all'applauso, esso è il compenso più ambito dall'autore e dagli artisti, ed è giusto non lesinar loro questo premio alle loro fatiche. Soltanto gli uomini dovrebbero applaudire colle mani; ora però si transige molto su questo, e bene a ragione. Se a una serata di gala intervengono principi o sovrani, o Capi di Stato il pubblico li saluta con affettuoso entusiasmo plaudendo e sveltolando i fazzoletti, tutti si levano in piedi. Così pure al suono di inni patriottici. E son quelli, bisogna pur dirlo, i momenti in cui l'animo esulta ancor più che per dilettazione per quanto sublime dell'arte perchè allora passa, aleggiando su tutto e tutti, lo spirito della Patria. Gli uomini che intervengono alle serate di gala devono portar l'abito nero, cravatta e guanti bianchi. A spettacoli più modesti basterà, sia per uomini, sia per donne, un corretto abito da passeggio. Negli intervalli fra un atto e l'altro, il pubblico si riposa, per così dire, delle sue fatiche intellettuali, si piglia il gusto di un po' di rassegna, di commenti, di critiche. Si scambiano allora visite di palco in palco si gira intorno lo sguardo armato di cannocchiale. Ma bisogna che le visite siano brevi; al suono del campanello che accenna la ripresa dello spettacolo, ognuno se ne ritorni al suo posto; se pur la confidenza con la signora visitata non permette di trattenersi, per meno male, sino alla fine del nuovo atto. E anche nell'uso del cannocchiale ci sia riguardo e discrezione. E' cosa molto scortese prender di mira con prolungata insistenza quel tal palchetto o quella tal signora. In un palco, il posto d'onore è quello che guarda la scena; ed è quello che la signora occuperà se con lei fosse una figlia o altra signorina, e che cederà ad una signora più attempata e ragguardevole. Non è bello però cambiar il posto ad ogni atto; basterà farlo una volta o due durante lo spettacolo. E' permesso a un visitatore, quando sia in confidenza, offrir qualche dolce alle signore da cui si reca. S'intende che il babbo o il marito o il fratello, non devono lasciar una signora sola nel palchetto per scender in platea o recarsi a far qualche visita: potrà far questo solo se intanto vi è con lei qualcuno che si è recato a visitarla. E non si esca e non ci si alzi se non quando lo spettacolo è veramente finito, e non quando le ultime battute, commozione, ansia, esultanza, strazio, espresso dall'artista colla massima tensione del suo genio, risuonano dalla scena e attirano a sè in un ultimo slancio l'anima protesa di un pubblico vero. Quei momenti sono sacri e vanno rispettati, anche se un insulso qualunque non è più capace a forza di materiale abitudine di intendere il grido supremo di Otello o l'estremo gemito di Violetta. Quando dunque il sipario è calato, e gli artisti lieti della bene spesa fatica, si presentano al pubblico per ricevere il premio dei suoi plausi, nei palchetti si può alzarsi e disporsi alla partenza. E' doveroso per gli uomini aiutare le signore a indossare i loro mantelli; le signorine faranno bene ad essere pronte esse, se fosse il caso, a servir la mamma, la zia, altra parente o amica che fosse con loro. Scendendo le scale non sono proibiti i commenti e i saluti, e spesso qualche incontro amichevole fornisce il completamento più bello della serata, nello scambio sincero e moderato delle impressioni. Così vanno le cose... o così dovrebbero andare, a grandi spettacoli. Ma vi sono spettacoli più alla buona: gli spettacoli di prosa, a cui, come si diceva, si va in abito da passeggio, spesso con una determinazione presa lì per lì, all'annuncio di un lavoro celebre, o anche per procurarsi uno svago inaspettato. Eccettuato che per l'impegno dell'abbigliamento, le regole però rimangono press'a poco le stesse, le regole di persone bene educate, che rispettano sè e gli altri e che hanno il debito riguardo per non far nulla che possa turbare o diminuire il piacere altrui. Si presenta però talvolta un caso. A sua insaputa, una persona onesta può trovarsi al fatto di vedere sulla scena ciò che profondamente disgusta la moralità dell'animo suo. So di due ottime zitellone che da chi sa quando non andavano più al teatro, trattenute da speciali impegni, e che una sera, finalmente, trovandosi libere, stabilirono di regalarsi una serata straordinaria. Si vestirono a tempo, presero i loro posti ed entrarono. Era l'epoca delle riesumazioni classiche cinquecentesche... e le due ottime signore si trovarono ad assistere... alla Mandragola! Se non morirono di vergogna fu un miracolo, e appena finì il primo atto se la svignarono come fu loro possibile, nascondendosi il viso. Bisogna dunque che una persona che va al dramma sappia, press'a poco, qual genere di rappresentazione gli si presenterà, e ciò è obbligo speciale per un capo di famiglia, che voglia condurre la propria moglie o le figlie, al fine di non esporle a una dolorosa mortificazione. Si vuol avvertire talvolta: non è spettacolo per signorine. Ma io consiglierei anche le signore assennate a non intervenire: ciò che disgusta e offende i sentimenti più delicati dell'animo femminile non dovrebbe trovare scusa o connivenza a nessuna età. E forse, davanti a un contegno più serio e più reciso della maggioranza femminile, i capocomici e gli autori cambierebbero rotta! Nei teatri popolari, il pubblico si abbandona più facilmente alla manifestazione clamorosa delle sue impressioni. E passi pure per gli applausi e le esclamazioni, e non ci faccia sorridere di meraviglia scherzevole l'ingenua commozione di qualche buona donna che piglia proprio sul serio la faccenda e piange e freme... Ricordiamo il grazioso sonetto di Neri Tanfucio, in cui il pubblico inveisce contro il tiranno, all'Arena. Fin qui, niente di male. Ma il male è quando il popolo non abbastanza educato, tumultua, grida e fischia. Il fischiare è un atto crudelmente villano contro chi non si può difendere, e ha fatto quanto meglio poteva per divertire il pubblico e farsi un po' d'onore. La persona bene educata non fischia mai. ... Cioè, ammetto un solo caso. Ed è questo: se una scena immorale fosse accolta da una salve di fischi, la lezione sarebbe severa per chi tocca, ma non certo inefficace. In tutti gli altri casi è inutile usare tal modo di riprovazione, quando c'è quell'altro così semplice e dignitoso, e che non fa male a nessuno: alzarsi e andarsene.

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Se nella storia sacra vi è un esempio commovente di tenero affetto tra suocera e nuora, in Noemi e Ruth, abbiamo nella storia moderna l'eroico esempio di devozione, in mezzo alle più terribili prove, tra Madama Elisabetta di Francia e Maria Antonietta. La più difficile però fra tutte le parentele è sempre quella tra matrigna e figliastra. Qui il contrasto terribile è nella natura stessa delle relazioni: qui nessun elemento comico può entrare a diminuire alquanto la tensione; qui la tragedia si accampa in tutta la sua severa inesorabilità. L'uomo che è rimasto vedovo ancor giovane ha tutto il diritto di ricostruire il suo focolare: se ha dei figli, il loro stesso interesse lo spinge a metterli sotto la guida di un'altra donna, in cui abbia tutta la sua fiducia. Ma questi figli portano ancora nel cuore il ricordo dell'estinta. Se sono maschi, più facilmente distratti e chiamati fuori di casa dagli studi, dai giochi, da altre ragioni, non formeranno un'opposizione molto grave; ma le figlie! Per loro, l'entrata della nuova moglie è un insulto al ricordo della prima, la sua nuova dominazione è una ingiustizia, una tirannia. E non mancano poi le anime zelanti a rinfocolar queste avversioni; sempre pronte a compatir la fanciulla e a dipinger la matrigna sotto i più foschi colori. Anche qui, spesso, la vittima maggiore diventa l'uomo, preso fra le tenaglie di affetti contrastanti, indeciso spesso fra il torto e la ragione. La donna che accetta di diventar moglie di chi ha già altri figli si ricordi che assume un obbligo doppiamente grave e doppiamente sacro. Se ella entrasse nella nuova casa con animo ostile, se verso quei poveri orfani si disponesse già a una severità ingiusta, a una colpevole intolleranza, ah, darebbe una prova ben dolorosa della meschinità e della bassezza dell'animo suo! Se non può aver per loro il cuore di madre, specialmente nel caso che da queste nozze venisse altra prole, si ricordi almeno di usar quell'amorevolezza e quella tolleranza che si deve a creature innocenti e prive di appoggio. Non faccia sentir loro con troppa durezza la inferiorità della loro condizione: si guardi bene dall'aizzare verso di loro l'animo del marito, dal fomentar discordie tra i fanciulli. E se vi fosse di mezzo anche la terribile questione degli interessi, serbi coll'onestà colla giustizia, colla tutela scrupolosa dei diritti, la possibilità che la differenza di condizione non influisca ancor più sinistramente. Ma si dà il caso talvolta che una donna di cuore di senno si mostri veramente ben disposta verso i figliastri, e invece trovi in loro una ostinata opposizione. Ho conosciuto un'ottima signora, la quale aveva preso, bambina ancora, la figlia di suo marito, e l'aveva educata amorevolmente, e non avrebbe desiderato altro che vedersi corrisposta nella sua affezione. Ma che? La fanciulla pareva che si facesse un gusto maligno di corrispondere colle scontrosaggini alle sue premure, colle ripulsioni alle sue offerte, con tutto un sistema di antipatia e di ribellione alla benevolenza dell'ottima donna... Fanciulla che leggi qui, se la sventura ti ha colpito togliendoti anzi tempo la mamma, non inacerbir la tua sorte vietando all'animo tuo la possibilità di un nuovo affetto. Serba pure il tuo culto verso la cara perduta, ma se una nuova donna ne ha preso il posto, studiati di trovare in lei qualche ragione di benevolenza. Forse essa cercherà di accaparrarsi l'animo tuo... E tu allora corrispondi quanto meglio t'è possibile, e vedrai la tua vita rifiorire di qualche conforto. Ma se ella fosse la classica matrigna, dura, ingiusta, indiscreta, allora pensa che è il caso di mostrare tutta la tua virtù. Soffri paziente, non fare scene inutili e volgari, non tormentare il padre con recriminazioni di esito molto dubbio, e confida nella Provvidenza che saprà aiutarti colle sue vie misteriose. Casi simili sono però, ai nostri tempi, assai più rari, perchè si va formando sempre più un concetto dì larghezza e di tolleranza anche nelle relazioni difficili. E se la guerra c'è, talvolta, e guerra anche accanita, le volgarità e le villanie, e le durezze inutili vanno sempre più scemando col crescere della buona educazione in tutti i ceti. Qualche difficoltà di relazione vi è anche tra parenti vecchi, nonni, e zii, e la turbolenta puerizia e l'adolescenza. In questo caso, i doveri maggiori sono sempre quelli dei giovani, che hanno obbligo di rispettare l'età e di compatir anche qualche debolezza. Generalmente l'affetto reciproco suggerisce senz'altro il contegno migliore; talvolta l'affetto della novella generazione non è molto vivo per l'antica: allora vi si supplisca colla cortesia, e i genitori, come anello di congiunzione, saranno quelli che debbono vigilare perchè tutti i riguardi siano usati; e i vecchi, ospiti nella loro casa, non abbiano mai a lamentarsi di mancanze a loro riguardo.

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I precetti che qui sopra abbiamo esposti si applicano anche, con qualche lieve differenza, alle pensioni di famiglia. Chi tiene pensione deve cercare di accontentare in tutto i suoi clienti, che in fine son poi come ospiti, e di dar loro quegli agi e quel trattamento che si convengono ai patti stabiliti, mettendovi di più un'amorevolezza cordiale. E chi sta a pensione abbia riguardo anche al comodo e al gusto altrui: cerchi di essere puntuale ai pasti, non disturbi col rientrar troppo tardi in casa, non abbia esigenze irragionevoli. Gli è bensì consentito di esporre i suoi desideri e anche le sue preferenze: non gli è permesso brontolare e lamentarsi o per questo o per quello, ad ogni istante: piuttosto cambi pensione. Ha naturalmente l'obbligo di dar le mance usuali alla servitù, nelle solennità, e quando lascia la casa, e, se gli sembra opportuno, farà cosa gentile offrendo tratto tratto qualche dono alla padrona di casa. Lasciando la pensione, non mancherà di ringraziare per le cortesie ricevute (o poche o molte che siano state!) e se veramente ha avuto da lodarsi di chi la teneva, scriverà almeno una volta dalla nuova sede, e si ricorderà poi con qualche biglietto o cartolina illustrata nelle ricorrenze festive.

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Riguardo alle circostanze, abbiamo già accennato, nei vari capitoli, i doni che si offrono per i battesimi, per le cresime, per le prime comunioni; quali doni si scambiano i fidanzati fra loro, e quali si offrano dai padrini e da parenti e amici in occasione del matrimonio. Ripetiamo però ad ogni modo che qui c'è una gran libertà, che va crescendo sempre coi tempi. Ed è naturale: crescono le graziose creazioni dell'industria, mentre crescono sempre più i piccoli bisogni, o reali o artificiali. Così, mentre una volta era quasi di prammatica il dono di gioielli, ora invece si vede fra i regali ai giovani sposi una gran quantità di oggetti eleganti e pratici: argenteria, ceramica, tappeti, scrignetti, lampade elettriche, cartelle, mobilucci intarsiati, ecc. Presso gli anglosassoni c'è un'usanza molto pratica. La signorina che sta per maritarsi compila una nota degli oggetti desiderati e la sottopone ai parenti e agli amici, perchè scelgano l'oggetto che credono; poi, cancellato questo, passano la nota ad altri, sinchè la lista rimane esaurita, e tutti rimangono pienamente soddisfatti. Questa usanza comincia ad apparire anche fra noi, sebbene essa tolga un po' troppo la poesia del dono, che deve rappresentare un pensiero proprio. Ma per indovinare, chi sa far le cose con garbo, facendo abilmente un po' d'inquisizione presso gli intimi della persona cui vuol fare il dono, riesce ugualmente nel suo intento. C'è anche chi, invece dell'oggetto, offre il denaro corrispondente, ma questo non è da farsi se non tra strettissimi parenti. In ogni altro caso, il dono deve aver l'aria di una gentile sorpresa, e rispondere a un desiderio determinato dall'età, dal carattere, dalle abitudini, ecc. Ai bambini si regaleranno giocattoli e libri illustrati, e anche qualche scatola di dolci, affidandola però alle mani della mamma. Alle fanciulle qualche oggettivo di utilità diretta: astucci da lavoro, cartelle da disegno, musica, mobilucci eleganti, scrignetti intarsiati, fazzoletti di seta, ecc. A un giovanetto un astuccio da compassi, un album per cartoline, una macchina fotografica, un servizio da scrivere, un pallone pel gioco del calcio e, se volete essere molto generosi, un bell'orologio o... una bicicletta! A maschi o femmine, poi, sarà sempre un dono opportuno e gradito un libro illustrato, o una raccolta di monografie, o una serie di opuscoli a collana. Anche l'abbonamento a un giornalino potrebbe andar benissimo. Per gli adulti, la scelta è ancora più ampia, fra tante cose belle e utili che presenta la civiltà moderna. Basterà che la scelta sia ben fatta: allo studioso darete un libro pregiato o un servizio da scrittoio, o uno strumento dell'arte sua; alla signora elegante un astuccio con profumi, un portafazzoletti ricamato, un cofanetto da gioielli. Vi sono poi doni che possono piacere ed essere utili a tutti: un cannocchiale da campagna, un portaliquori o un servizio da tè, una lampada elettrica, un necessario da viaggio, o un gioco di dama, scacchi, o simili. E i libri belli e buoni, di recente pubblicazione, e statuette di bronzo o di ceramica, e le belle stampe e incisioni, e le riproduzioni fotografiche di monumenti e i quadri a olio, e le miniature e gli acquarelli... Un dono qualunque dev'essere sempre presentato con garbo e allora acquisterà un valore assai maggiore a quello intrinseco, mentre in certi casi anche un soggetto di gran pregio può riuscire poco gradito, e forse anche offendere. Non si creda di far bene, e di dimostrar modestia, se nell'atto di presentare il nostro dono, si affetti di spregiarlo e considerarlo cosa da nulla: sarebbe anzi una vera indelicatezza. Non occorre poi dire che non tocca a noi di magnificarlo, e di esaltarne il gusto e l'arte, e magari di lasciarne indovinare il prezzo. Non si crederebbe possibile, ma c'è ancora della brava gente che cade o nell'uno o nell'altro di questi eccessi, mentre sarebbe tanto opportuno ricordare il volto amico e il tacer pudico di cui parla il Manzoni. Un oggetto di casa, come un gingillo, un quadretto, un vaso, ecc. non si devono mai offrire come regalo di circostanza. Solo sarà lecito farlo, e anzi gradito, quando chi lo abbia veduto e ammirato ne abbia mostrato desiderio, ma sempre come regalo extra. Non si deve però in tal caso, se la persona rifiutasse, insistere con queste volgari ragioni: - Sono stanco di vedermelo sotto gli occhi! - Non so che farmene, ecc. Diremo invece garbatamente: - Sono ben lieto di poterti fare un piacere. - Quest'oggetto starà meglio in casa tua che nella mia. - Giacchè ti piace e lo gradisci, è tuo, ecc. Dono gradito e gentile è quello di un lavoro delle proprie mani. Ma chi non sa trattare con vera perizia il pennello, il bulino, i ferri da pirografare, l'ago da ricamo, ecc., si astenga dal presentare saggi infelici del suo buon volere. La persona gentile che li riceve, farà buon viso e ringrazierà anche di cuore, pensando alla fatica che avete fatto per amor suo, ma essa e chiunque altro veda il lavoro lo giudicherà, nel suo intimo per quel che vale. Un dono non deve mai essere fatto nel momento in cui chiediamo un favore, e nemmeno subito dopo l'averlo ricevuto. Gravissima sconvenienza poi sarebbe chiedere un favore a una persona poco dopo averle presentato o inviato un regalo. I regali si portano di persona, se è possibile, altrimenti si accompagnano con un biglietto gentile. Chi poi riceve il dono è obbligato a dar una mancia al portatore. E riguardo al donatore deve mostrar la più cortese riconoscenza, e gradire e lodare l'oggetto, anche se veramente non ne sappia che fare e non gli piaccia; bisogna che tenga conto della gentil intenzione e del sacrificio di spesa e di tempo che può anche esser costato. E se il dono non fu in ricambio di qualche importante servigio, egli si terrà obbligato ad un contraccambio, che farà però con tatto e delicatezza, alla prossima occasione. A proposito di doni, vien naturale anche qualche parola sui servigi che si possono chiedere e prestare tra amici. Vi sono taluni dal carattere molto espansivo che largheggiano in offerte... Quando poi viene il momento, sembra che se ne siano dimenticati del tutto. Il meno che si possa fare con questi cotali è di considerarli come gente dal cervello leggero, e procurare di non mettersi nel caso di aver davvero bisogno di loro. Agli amici buoni si potrà chiedere, con discrezione, e quando si sappia che davvero lo facciano volentieri, e senza loro troppo grave sacrificio, una raccomandazione presso qualche personaggio, una presentazione a chi ci possa giovare, l'ospitalità per noi o per uno della nostra famiglia per breve tempo e ragioni imprescindibili, e anche il prestito di qualche oggetto: una bicicletta, un cannocchiale, uno spartito, un libro, ecc. ecc. Chi prende a prestito una cosa qualunque assume l'obbligo di conservarne perfetta l'integrità. Se accade qualche guasto, deve ricomperar l'oggetto e far le sue scuse: restituirlo sciupato è una mancanza che non si può scusare nemmeno nella più stretta intimità. In quanto ai libri, c'è una pessima abitudine imperante anche tra persone agiate e civili: quella di non restituirli, che è ladreria bella e buona. Chi poi chiede a prestito un oggetto personale, come oggetti di vestiario, gioielli, finimenti, ecc. ecc. mostra di non conoscere i limiti della discrezione che va rispettata anche fra gli intimi. La questione del prestito di denaro esce veramente dai confini del galateo... C'è sempre però un suggerimento buono da dare: se prevedete che la persona non possa o non voglia, risparmiatele il penoso momento del rifiuto. Ricevendo una richiesta di qualsiasi favore, si rifletta un momento prima di negare o consentire: l'impulsività può farci errare talvolta. Promettere senza potere poi mantenere sarebbe spiacevole e mortificante: e nemmeno si deve dir un no reciso, mentre, pensandoci bene, può darsi che troviamo il modo di accontentare l'amico. E se il favore si concede, non si faccia con aria d'importanza; se si nega, il rifiuto deve essere almeno addolcito con gentili parole e buone ragioni. A chi ci chiede in prestito un libro o altro oggetto, non usiamo la scortesia di dirgli: bada che ne ho bisogno presto - spero che non lo sciuperai - non far che te lo abbia a richiedere. Tali formule sono scusabili appena con fanciulli; ma se voi non vi fidate di quella persona, trovate piuttosto una buona ragione e tenete il vostro oggetto al sicuro. Si tenga anche presente quando si vien richiesti d'una prestazione qualsiasi, o di una persona, o di borsa o d'altro, che chi dà presto dà due volte, e che iI modo premuroso e grazioso accresce pregio al servizio. Belle sono a questo proposito le parole che il Manzoni pone in bocca al conte di Carmagnola:

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Più ancora sono in uso adesso i giuochi all'aria aperta: il tennis, la pallavolo, la pallacanestro, tutti quelli che abbiamo importati dall'Inghilterra anche coi loro nomi esotici. Sono giochi eccellenti, e molto meno pericolosi per la moralità e la convenienza che quelli di salotto: si possono dire anzi assolutamente innocenti per se stessi. Tuttavia vi si mescola sempre un po' di varietà e di puntiglio; vi può essere da parte delle signorine un po' di civetteria, e un'affettazione di mascolinità che non è di buon gusto. Si evitino anche le soverchie familiarità: i giovanotti trattino con cortese cameratismo le loro compagne di gioco, e queste si contentino dell'onesto piacere dell'esercizio fisico e della soddisfazione di saper giocar bene. Per questi giochi si suol usare uno speciale costume, elegante e comodo: giovanotti e signorine si attengano a quello senza ricercatezze e senza affettazioni. E la bicicletta? Ormai essa è diventata d'uso tanto comune che il discutere se convenga o no alle signore e alle signorine è fuori posto. Vadano dunque, se loro piace, in bicicletta! E non solo per i bisogni eventuali di ufficio, ma anche per piacer loro, in campagna. Ma non facciano mai gite o passeggiate da sole, o nemmeno in due, troppo lontano. Non si sa mai!... E il vestire della ciclista sia pratico, sia corretto, sia modesto, sia... più abbondante che scarso. Pensino ai movimenti che devono fare e alla necessità d'esser convenientemente coperte. In campagna, e specialmente in montagna, si fanno anche gite a piedi, oppure aiutandosi con muli, asinelli, ecc. Sono piacevolissime quando sono ben organizzate, e vi prendon parte persone valide, allegre e ben affiatate fra loro. Coloro dunque che non si sentono in forze, e non vogliono assoggettarsi a qualche disturbo, o hanno delicatezze eccessive, rimangano a casa e non disturbino il piacere degli altri. Coloro poi che vi prendono parte, uomini e donne, devono stare al programma fissato dal capo gita, presentarsi vestiti ed equipaggiati secondo che vien loro prescritto; portar nella compagnia tutta la migliore disposizione per contribuire all'allegrezza comune, ad esser tolleranti e servizievoli reciprocamente. Al capo gita si deve ubbidienza cortese e cooperazione in quello che egli domanda. Siccome poi l'organizzare una gita di qualche importanza richiede spesso tempo, preoccupazioni, ricerche, fatiche, è giusto che gli venga testimoniata riconoscenza da chi ne ha profittato. Ed é anche doverosissimo pagare colla massima sollecitudine la quota di spesa. I gitanti hanno il diritto e il dovere di essere allegri. Possono dunque ridere, scherzare, cantare all'aria aperta. Ma negli alberghi, nei ristoranti, nei rifugi, devono astenersi dalle chiassate che fanno distinguere la gente per bene da quella che non è tale. E si ricordino anche che la familiarità dei due sessi durante questi innocenti piaceri non deve mai trasmodare in confidenze e contatti biasimevoli. Ciò vale naturalmente anche per ogni altro genere di sport, nel quale la persona veramente fine ed educata saprà sempre conservare, nel modo di vestire come nel contegno, una linea ed una misura di equilibrio lontane da ogni eccentricità e da ogni eccesso.

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E' un triste vezzo, quest'ultimo, di noi italiani, che ancor abbiamo nel sangue il germe delle antiche discordie, e sentiamo l'eco di tanti detti ingiuriosi che un tempo si scambiavano tra di loro gli abitanti delle città vicine... Ma non solo lo diciamo per celia; purtroppo c'è chi ha il mal gusto di criticar per metodo la città nella quale il caso lo ha portato a vivere, di metterne in ridicolo le usanze, di deplorarne il clima, di biasimarne la cultura, la vita intellettuale e materiale, di lamentarsi perchè troppo rumorosa o troppo quieta, o, quando non si sa più che dire, censurar velenosamente gli abitanti e dire per esempio: Gran bella città sarebbe Napoli... se non ci fossero i Napoletani. Bisogna far guerra a questa scortesia antipatriottica ed ingiusta: è tempo che i benefici dell'unità non siano frustrati da piccolezza d'animo e di idee. Tornando all'argomento di prima, la celia però tra amici dev'essere amichevolmente tollerata, e chi ne è fatto segno, non deve mostrarsi permalosamente indispettito. Parlando di celie e di motti spiritosi, è opportuno qui ricordare che il buon gusto interdice le parole a doppio senso, i bisticci, i calembours nei quali si deliziano i provinciali dallo scarso intelletto, e che formano il tormento di chiunque sia dotato di vero spirito. Passi per una volta o due, ma farne un fuoco di fila, introdurli per forza in ogni discorso, sviare talvolta o interrompere un argomento importante con simili scempiaggini, è veramente spiacevole... I discorsi frivoli e leggeri annoiano le persone di buon senso e si devono sfuggire. E il parlar del tempo e della stagione? E' questo l'argomento satireggiato come il più insulso e impersonale... Pure non a torto Melchiorre Gioia difende chi. se ne occupa notando che le vicende delle stagioni hanno grande influenza sullo stato fisico e morale della specie umana, sui prodotti dei campi, sul corso del commercio, e non di rado sui pensieri degli uomini grandi e piccoli: a un punto tale che gli uomini di scienza ne osservano l'andamento progressivo e ne desumono delle leggi. Ora poi che la metereologia va pigliando basi scientifiche così stabili, si può escluderla davvero dagli argomenti frivoli. Se però non si avessero a mettere in campo che inutili geremiadi sulla siccità o sulla pioggia ostinata, è meglio tacere. E non vorremmo essere troppo severi con le madri di famiglia che si confidano le loro angustie domestiche, piccole e grandi, tra cui è l'eterno argomento della servitù... Questi e altri discorsi, però, come quelli dei colleghi d'ufficio riguardo alle miserie della loro professione, vanno tenuti nell'intimità, e sono compatibili solo se non si prolungano troppo. Chi poi ha noie, dolori, fastidi, preoccupazioni tutte personali si guardi bene dal metterle come tema in una conversazione: non avrà altro effetto che di annoiare gli astanti, e di riceverne qualche parola di stereotipato compianto, che ben mostra la loro indifferenza. Certe confidenze non sono permesse che tra intimi amici, da cui veramente possiamo avere conforto e consiglio. Si deve cercar, invece, nel soggetto del nostro discorso, di scegliere ciò che comunemente è gradevole. Le notizie buone, sia degli amici, sia delle vicende pubbliche, le festività, le ricorrenze, gli spettacoli, i libri, le esposizioni, i viaggi, i lieti incontri... E la lista sarebbe infinita. Tra le persone colte e fini, si parla volentieri di argomenti letterari e scientifici, si pongono e si sviluppano questioni morali e psicologiche, e la conversazione resta continuamente nutrita. Trovandoci poi in gruppi ristretti, o in dialogo con una persona sola, è arte cortese quella di saperla intrattenere con ciò che la riguarda e la interessa di più. Alla madre di famiglia si farà parlare dei suoi figli, colla modesta massaia ci potremo intrattenere di economia domestica, colla persona devota delle ricorrenze e solennità e funzioni religiose, col giovane studente dei suoi studi e dei suoi progetti per l'avvenire. Al vecchio chieder notizia sugli usi del suo tempo, all'agricoltore dell'andamento dei suoi raccolti, dei vari modi di coltivazione, ecc. ecc. Ma bisogna stare attenti. Ci son per esempio certi letterati che si impuntigliano e si seccano quando il profano vuol entrare nel suo campo; ci sono gli scienziati che tengono volentieri per sè le loro cognizioni; ci sono i medici che stanno all'erta per paura di essere indotti a dare un consulto gratis, ci sono i funzionari pubblici che hanno paura che si voglia carpir loro qualche segreto d'ufficio. Vi sono poi moltissimi, (anzi è tendenza comune) che nella conversazione voglion dimenticare le noie delle loro consuete occupazioni, e dimostrano chiaramente che tale argomento non è loro gradito. E noi rispetteremo le loro riserve. Così pure, mentre è cortesia informarsi di ciò che riguarda gli interlocutori, e interessarsi delle loro vicende, bisogna star ben attenti che tale interessamento non abbia a sembrar loro indiscreta curiosità. Ci sono taluni così ombrosi che solo a chieder loro dove andranno a passar le vacanze o a che ora arriverà quel tal parente che desiderano tanto, piglian l'aria di chi riceve una domanda indiscreta, e si esimono dal rispondere, o lo fanno con aria dispettosa. E anche questa gente va lasciata stare e con loro bisogna tenersi sulle generali. Si devono cercare, discorrendo, argomenti su cui facilmente si va d'accordo, ma è bello e utile ravvivar la conversazione anche con qualche obbiezione, per meglio svolgere tutti i lati di un argomento, e permettere ad ognuno di dire la sua. La discussione è uno dei piaceri più delicati. Ma si badi però di non andar mai tant'oltre che la disputa si accalori, e quando così si vedesse che accade, è bene sviar l'argomento, o troncarlo con una celia opportuna. Ognuno deve portare il suo tributo alla conversazione comune. E' disdicevole e offensivo per gli altri starsene sempre a bocca chiusa, e quasi sdegnoso della compagnia; è presunzione e petulanza voler sempre tener tutti pendenti dalle nostre labbra. E' bene, se si deve fare un racconto piuttosto lungo, chiederne prima licenza con una parola gentile, e se vediamo che il discorso annoia o non interessa, si interrompa senz'altro, sviando con garbo, senza mostrare risentimento o dispetto. Ma se gli ascoltatori si infastidiscono, bisogna pensare che talvolta è colpa del parlatore, che la tira troppo lunga, confonde troppe cose insieme, apre interminabili parentesi, ripiglia stentatamente il filo del discorso. Chi sappia di aver tali difetti, abbia la prudenza di non metterli in mostra. A un amabile e facile parlatore si presta orecchio assai volentieri anche a lungo, e gli si perdona un po' d'indiscrezione. Non è bene però che una donna prenda la parola e la tenga per tempo notevole, essa correrebbe il pericolo di passare da saccente e presuntuosa, taccia intollerabile nel suo sesso. Coloro che poi non vorrebbero mai lasciar parlare gli altri, e troncano e ripigliano loro le parole in bocca sono paragonati da Mons. Della Casa a quei polli che nell'aia si rincorrono per togliersi di becco la spiga di grano. Giacchè nella conversazione l'arte necessaria è non solo di saper parlare, ma anche di saper ascoltare. Bisogna ricordarsi che anche gli altri hanno diritto a esporre le loro idee, e non annoiare con continue interruzioni; bisogna aspettare la fine di un discorso prima di far una domanda superflua o un commento forse inopportuno. E bisogna tollerare con pazienza certi sfoghi prolungati di vecchi e d'infermi, e la ripetizione delle stesse cose, e spesso anche fastidiose e inutili querimonie. E se talvolta accade di sentir cose anche spiacevoli, per una ragione o un'altra, e non si abbia autorità sufficiente a imporre il silenzio, bisogna rassegnarsi a udire anche quelle, senza impegnarsi in dispute inutili: basterà il tacere come segno della nostra disapprovazione e come salvagaurdia della nostra responsabilità. Bene inteso però che se fossero offese alla morale o alla fede o ai più sacri sentimenti umani (il che non si suppone che come eccezione in una brigata civile) non è il caso affatto di dissimulare una ben legittima indignazione. Si può e si deve interrompere il discorso in bocca al malcreato, e allontanarsi da lui. In tutti gli altri casi, dobbiamo cortese ascolto a chi parla, e partecipazione alle sue idee. E' perciò sconvenientissimo, mentre uno intrattiene la conversazione, alzarsi, passeggiare per la stanza, guardar l'orologio, tamburellar le dita sulle ginocchia e sui mobili. E quando siamo in dialogo diretto con qualcuno, si devono tener gli occhi rivolti a lui, e mostrar di comprendere e gustare ciò ch'egli dice, e non mai guardar qua e là, mostrando una scortese distrazione. Ma il nostro interesse per ciò che viene raccontato non deve però estrinsecarsi con interruzioni inutili, con domande anticipate, con commenti ad ogni passo. E anche non bisogna esagerare nelle esclamazioni e nelle approvazioni. Si lasci finire il discorso, e poi si risponda con calma e con moderazione: daremo maggior prova di cortesia e d'interesse. Che dire poi di taluni, che dopo aver f atto una domanda non aspettano la risposta, e foggiandola da sè, fabbricano su questa osservazioni e commenti che naturalmente riescono a sproposito, e senza dar tempo a rettificazioni proseguono con una ridda di altre domande, di esclamazioni, di consigli?... Dio ci scampi da questi cotali!... E Dio ci scampi anche da coloro che, dopo essersi appena preso il tempo di salutarci, aprono immediatamente le cateratte della loro eloquenza per narrarci enfaticamente tutto ciò che è loro accaduto da che non ci siamo visti, e tutto quello che hanno fatto o fanno o faranno, e quel che non faranno altresì, e il perchè... Dico ce ne scampi Iddio, perchè i rimedi della prudenza umana sono a questo proposito assai scarsi. Tacere, e aspettar la fine del diluvio, per esaurimento? Ma l'esaurimento non avviene mai, le riserve sono eterne. Mettere una frase d'approvazione o di contrasto sarebbe appoggiar imprudentemente una mano sopra una valvola che provocherebbe nuovi getti impetuosi. Non c'è altro, se non liberarsene al più presto possibile, e cercar di scansare simili incontri, quando si disegnano da lontano. Coloro non sono, in fondo, altro che egoisti, e l'egoismo è nemico capitale di ogni cortesia. Per questi, la conversazione non è che un monologo, a tutto loro perpetuo beneficio. Badiamo anche al nostro modo di parlare. Non si devono metter fuori le parole con tal rapidità da soffocare gli altri e non farsi intendere; e nemmeno così lentamente da indurre a noia chi ci ascolta, oppure con una pronunzia strascicata, con innumerevoli ripetizioni. E si guardi anche di non prender l'abitudine di intercalari, innocenti bensì, ma ridicoli, e che talvolta nel senso del discorso producono bizzarri accozzi di idee, e curiosi equivoci. A persone bene educate è inutile poi raccomandare di non usar mai espressioni di imprecazione, o altre che vi somiglino, nemmeno per via di figura rettorica. Si scansino anche le esclamazioni popolari proprie al parlare d'ogni città. E in quanto alla bestemmia (che purtroppo infierisce in certe regioni d'Italia anche nelle classi elevate) l'opinione pubblica va fortunatamente segnando una energica reazione, e il Governo saggiamente l'ha assecondata con sanzioni punitive ai colpevoli. Può accadere, nel discorso, di dover nominar qualche cosa che la decenza vieterebbe. La persona urbana evita lo scoglio con mutar l'espressione, e se poi è anche persona colta, sa cavarsela graziosamente con una metafora, una perifrasi, una citazione classica... Ognuno sa poi che in una conversazione non è lecito appartarsi in due, e parlar segretamente. Ma se ciò qualcuno facesse, non si deve mostrar curiosità, anzi allontanarsi e guardar altrove. Nel parlare si eviti l'enfasi, l'esagerazione, la prosopopea. Certuni si rendono intollerabili col parlar sempre di sè e delle cose proprie, in perpetua lode, altri, raccontando ciò che han visto o sentito, vanno tanto esagerando che divengon ridicoli, e perdono il credito, come millantatori e bugiardi. Nel discorrere, si tenga il volto atteggiato a corretta piacevolezza, senza smorfie e contorsioni; non si apra troppo la bocca, non si gestisca continuamente, si evitino i suoni onomatopeici. Raccontando poi una facezia, si conservi la serietà sino in fondo: chi s'interrompe a mezzo col riso sciupa il piacere altrui e perde l'effetto. Il linguaggio da usarsi in conversazione dev'essere corretto ed elegante, ma senza affettazione. Si evitino le parole troppo ricercate, i termini troppo tecnici, gli inutili barbarismi. E' poi una sconvenienza, in un salotto dove si trovano persone di altre provincie, parlar il dialetto locale. Purtroppo tale uso permane, in certe regioni, anche tra persone altolocate, ma speriamo che col tempo si faccia luogo alla nostra bella e cara lingua comune. Quando due o più persone, dopo aver ben cinguettato nel loro dialetto, si rivolgono al forestiere e gli chiedono: Lei capisce non è vero? - è naturale che quello risponda: Io non ascoltavo ciò che non è diretto a me. Usar poi una lingua straniera in presenza di chi non la comprende, è mancanza ancor più grave, perchè, oltre metterlo fuori dalla conversazione, gli si aggiunge una specie di umiliazione per l'inferiorità intellettuale di quella tal ignoranza, mentre può valer più di noi per mille altre ragioni. Nel discorrere, insomma, bisogna aver una quantità di grandi e piccoli riguardi, i quali palesano la persona gentile e padrona di sè, e destano la simpatia e la gratitudine. Con la conversazione si collegano naturalmente le presentazioni, i saluti, i complimenti.

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