Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170697
Mantegazza, Paolo 44 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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E che si tratti di lavoro altamente morale siamo convinti noi pure, e appunto per questo ne abbiamo curato e ne curiamo la diffusione. E perchè il libro abbia meglio a rispondere alle condizioni nuove di vita e alle esigenze dei lettori, che hanno ormai gusti letterari moderni e più raffinati, abbiamo incaricato il prof. Andrea Ferrari di rendere la forma più snella e più corrente, alleggerendola in taluni punti, in altri sostituendo le espressioni alquanto antiquate, ritoccando qua e là il periodare talora prolisso e stanchevole. Ma in questo tentativo di ammodernizzare la forma, e soprattutto di aggiornare il contenuto secondo le nuove scoperte e gli ultimi portati della scienza, è stata nostra cura precipua quella di lasciare integra la sostanza; sia pel dovuto riguardo all'autore, sia soprattutto perchè la materia è trattata dal Mantegazza con squisito senso artistico e scientifico, con tatto particolare, e sotto ogni punto di vista in modo esauriente e completo. Dalle prefazioni, che l'autore ha premesso alle prime edizioni, ci piace riportare qui il «Decalogo di Epicuro», che il Mantegazza ha posto in fronte al suo libro, come guida e ammaestramento «con cui ognuno potrà essere uomo felice, purchè lo voglia».

Se il male durava da lungo tempo, anche il piacere è prolungato, e noi ad ogni tratto confrontiamo il benessere attuale col dolore che abbiamo lungamente provato in precedenza. Le espressioni di questi piaceri sono molto varie, ma possono offrire tratti della massima soddisfazione, del delirio più incomposto di gioia. Spesso si confondono sulla fisonomia i sintomi del dolore che finisce e della gioia che comincia, e le lagrime rigano ancora il volto che sorride. I contrasti del riso e del pianto formano le combinazioni più bizzarre e interessanti, che rammentano in generale lo spettacolo del sole che appare sul finire d'un temporale. Di tutti i sensi, quello che ci offre senza confronto il maggior numero di piaceri negativi è il tatto, per la semplice ragione che esso ci procura da solo quasi tutti i dolori fisici. I nervi specifici non ci dànno mai veri dolori, ma soltanto sensazioni disgustose, per cui, sotto questo riguardo, si può dire che nel dominio dei sensi sono maggiori i piaceri dei dolori; giacchè, eccettuando il tatto, gli altri quattro sensi non possono contrapporre una infinità di piaceri che un numero limitatissimo di sensazioni spiacevoli. Forse però questo lusso di piaceri, di cui potrebbe troppo, facilmente compiacersi un ottimista, non è che apparente, perchè l'equilibrio viene ristabilito dalla sovrabbondanza dei dolori procurati dal tatto. Difatti, il cervello, il cuore, e in generali tutti i visceri, non ci dànno sensazioni piacevoli, e non concorrono tutt'al più che al senso generale del benessere; mentre il dolore impera sovrano assoluto, estendendosi al sistema cerebro-spinale e alla rete glangliare. Tulle le parti sensibili del corpo ci possono fornire piaceri tattili negativi, e, più delle altre, quelle che più spesso si ammalano e ci fanno soffrire. In generale, dovunque vi sono nervi che possono essere affetti da nevralgie, si possono avere di questi piaceri. Un esempio comune si ha nella cessazione del dolore dei denti, che può essere sorgente del piacere più vivo, e che può dimostrarsi coi segni della gioia più intensa. II mal di capo è un'altra fra le cause più comuni di questi piaceri; e così avviene spesso che dal dolore nasca la gioia, come dalla gioia sorge il dolore. Del benefizio è quasi sempre generosa la natura, mentre nella sventura il più delle volte è colpevole l'uomo, che abusa di se stesso, cercando di oltrepassare i confini della gioia, che pur sono tanto limitati. L'istinto e la esperienza ci difendono dalle sensazioni spiacevoli del gusto, perciò, se godiamo di alcuni piaceri negativi di questo senso, dobbiamo incolpare la cuoca inesperta che qualche volta ci intossica cogli aborti della sua cucina, od il farmacista che ci somministra i suoi orribili intrugli. Questi piaceri però sono poco intensi, per la ragione principale che non possono quasi mai sostituirsi improvvisamente al disgusto della sensazione che li ha preceduti. Il sapore infernale dell'olio rancido di ricino scompare con troppa lentezza dalla nostra bocca, e, quando cessa, noi siamo troppo indispettiti per rallegrarcene, trovando di essere finalmente nel diritto sacrosanto di avere almeno uno stato di calma, pel senso del gusto tanto tormentato. Le sensazioni disgustose dell'odorato sono invece fisiologiche, perchè, ad esempio, nessuno ha mai potato farsi sostituire da altri nell'esercizio dell'ultima funzione dell'intestino, nè alienare per un momento solo il proprio naso. D'altra parte, in natura la putrefazione non cessa mai un istante di far passare la materia viva nel mondo della materia morta, e i vulcani e le solfatare non cessano di vomitar nell'atmosfera torrenti di acido solfidrico, per cui, anche nello stesso stato primitivo di ignorante innocenza, il naso dell'uomo deve avere avuto i propri dolori, e quindi anche i piaceri negativi che vi corrispondono. L'udito ci offre pochissimi piaceri di questa natura, e i pochi che presenta derivano, il più delle volte, dal riposarci dalla stanchezza, la quale è pur sempre un grado minimo di dolore. Basterà citare la compiacenza di acquietare l'orecchio dalle grida laceranti di neonati, o dallo stridere della lima, o dal martellare assordante e continuato del calderaio o del magnano. La vista ci offre, fra tutti i sensi il minor numero di piaceri negativi, perchè il semplice abbassare delle palpebre o il minimo moto di allontanamento bastano a difenderci dalle immagini più irritanti e disgustose.

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In tutti i piaceri studiati fin qui, se non abbiamo potuto determinare l'essenza della sensazione che li costituisce, abbiamo però seguito il fenomeno dalla sua origine fino alla sua espressione esterna. Ora, invece, ci troviamo in un campo indeterminato, e dobbiamo studiare una forza senza conoscere quale sia l'organo che la produce. Nei sensi il piacere nasce primitivamente dai nervi sensori, e il cervello concorre soltanto coi suoi elementi intellettuali a trasformare in sensazione una semplice impressione. Qui invece il piacere sorge da quelle regioni misteriose, delle quali nessun filosofo ha mai potuto tracciare un piano topografico; in un campo dove i generosi sforzi degli spiritualisti, come le ardite ipotesi dei materialisti, non hanno mai potuto trascinare un sentiero; là dove starà scritto per sempre: regioni inesplorabili. Comunque sia, è però certo che il sistema dei nervi gangliari forma parte integrante necessaria nel telaio del sentimento. L'uomo che ama o che odia non prova alcuna sensazione al cervello, nè sente stanco il corpo dopo uno sfogo più violento di collera: invece si sente sconvolte le viscere, e prova una vera angocia al cuore, il quale ha un nome, che in tutte le lingua è sinonimo di sentimento.

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L'esercizio, o meglio, la sodisfazione di questo sentimento, produce un piacere, del quale noi non abbiamo coscienza che quando arriva ai massimi gradi. Questo piacere è uno dei più difficili a definirsi, perchè nasce da un sentimento che ne' suoi gradi minori è molto indeterminato. Nella prima età manca la capacità di una profonda riflessione, e la nostra coscienza è poco analitica; per cui non ci accorgiamo di amarci, e quindi non proviamo questo piacere. Nella giovinezza, i sentimenti dell'io sono soffocati dalla voce imperiosa degli affetti che traboccano da un animo appassionato, e che tendono a portarci fuori di noi. Non è che più tardi, quando le burrasche del cuore sono cessate, che la nostra coscienza può scrutare nel nostro intimo un sentimento, che ha fatto sempre parte integrante di tutti i nostri atti morali, che più d'una volta è bastato a calmare o a sollevare una procella, ma che noi non abbiamo mai saputo scorgere. È allora soltanto che l'uomo ha la calma sufficiente per poter gustare un piacere, che ne' suoi gradi minimi non è certamente morboso. Il piacere che nasce dall'amore di noi stessi ci presenta, come tutte le gioie, un fenomeno di riflessione, nel quale però la strada percorsa dalla partenza al ritorno è brevissima. Da tutti i punti sensibili del corpo partono molte impressioni che, arrivando alla nostra coscienza, si unificano nella sensazione complessa della vita. È questa che risveglia il sentimento affettuoso per noi stessi, che si riverbera calmo e soave nelle sensazioni che l'hanno prodotto. Questa gioia ci spinge a concentrarci in noi stessi, ma se ci si arresta appena un momento di troppo a compiacerci del nostro apprezzamento, si diventa egoisti, e il piacere che si prova è colpevole. In questo caso noi abbiamo uno degli esempi più delicati di un affetto indefinito e vago che cambia di natura appena salga di un grado. Del resto, è assai difficile che questo piacere esista da solo e che la coscienza lo possa riflettere un solo istante in tutta la sua purezza. Esso si associa per lo più ai piaceri dei sensi e dell'intelletto, ai quali fornisce nuovi elementi. Quando noi godiamo di vedere, di ascoltare e di pensare, senza volerlo ci rallegriamo anche di sentire il nostro io che vede, ascolta o pensa. Tutti i sentimenti poi che nascono in noi e in finiscono hanno per campo necessario d'azione questo affetto primitivo. Così tutti i piaceri della vanità, della gloria e del pudore sono fili tessuti sull'orditura dell'affetto per noi stessi. Questo piacere è gustato più dall'uomo che dalla donna, ed aumenta quanto più ci si avanza nel grado di civiltà.

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Ogni giorno abbiamo sott'occhio le più ridicole compiacenze dell'amor proprio, che cammina in sfacciato incognito, sotto il nome di onore. Le false gioie di questo sentimento si possono talvolta distinguere appena da quelle della vanità, e per riconoscerle bisogna ben definire questo vago sentimento. Esso è formato dall'elemento immutabile della nostra dignità, che passa inalterato attraverso ogni vicenda, e dal riflesso iridescente dell'opinione pubblica. In questo secondo caso sta riposta l'unica causa de' suoi piaceri morbosi.

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Tutti i lavori più elementari necessari all'esercizio della vita ci procurano una sodisfazione dell'amor proprio nella prima età, quantunque noi non possiamo sicuramente rammentarci l'aria di trionfo con cui per la prima volta abbiamo da soli portato il cucchiaio fino alla bocca, o la sovrana beatitudine con cui, posti isolati addossati ad una parete, abbiamo potuto con infinito studio percorrere lo spazio di pochi passi per precipitarci fra le ginocchia della mamma, che ci stringeva sorridendo fra le braccia. Il camminare era allora per noi un lavoro di alta meccanica ed era difficile: il riuscirvi lusingava quindi il nostro amor proprio, il quale non può essere soddisfatto che dalla vittoria su una difficoltà. Come è naturale, il piacere riesce tanto maggiore quanto più difficile l'esercizio; e il fanciullo, che batte colla sua bacchetta il cerchio, prova un piacere dell'amor proprio, come l'autore che scrive la beata parola fine ad un'opera che gli è costata lunghi anni di fatica, e ciò sebbene non godano nel medesimo grado della stessa gioia.

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Dopo aver consumato un terzo della vita per poter diventare qualcosa, ridiamo di compassione, pensando al valore immenso che abbiamo dato ad una parola o ad un premio, che cambiato di forma forse ancora ci sollecita e ci lusinga. Da prima la mamma colle carezze e col premio di un bravo, poi il maestro col biglietto di lode o il volume dorato, ora la società intera coi suoi applausi, colle sue cattedre, co' suoi diplomi in pergamena, coi suoi nastri, colle sue corone: ma sempre lo stimolo del premio all'amor proprio. Anche gli uomini che sanno pesare il valore dell'esca e che sanno ridere dell'inganno, si lasciano colla stessa facilità degli altri sorprendere in un momento di debolezza morale. Felici i pochi che sanno vivere nelle loro acque tranquille e rimangono indifferenti alle lodi e alle lusinghe!

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La colpa riesce di un grado superiore quando noi stessi impieghiamo una certa arte per abbellirci e renderci degni delle lodi che, per istinto e per esperienza, abbiamo trovato tanto care al nostro cuore. La natura però in queste gioie esercita una influenza massima in confronto della educazione, e le compiacenze della vanità incominciano a rallegrarci fino dai primissimi tempi della vita. Tutti possono osservare nei bambini la differenza che esiste a questo riguardo nei due sessi. Il fanciullo grida, schiamazza e giuoca per sè senza badare il più delle volte se è osservato; mentre la bambina, che sta vestendo la sua bambola in presenza di altre persone, guarda obliquamente se la si osserva, e impiega una parte della sua attenzione per far bene e per dare una certa eleganza ai suoi movimenti. Questo fatto semplicissimo, che cade sott'occhio anche dei più distratti osservatori, ci svela il mistero di due esistenze, la formula morale dei due sessi. Queste colpe veniali però non ci dànno che piaceri molto languidi, ed è soltanto ne' suoi gradi maggiori, quando assume forma di vera passione, che la vanità offre le sue gioie più intense, le quali diventano vero bisogno. La donna, vana per eccellenza, studia se stessa in tutti i suoi movimenti ed in tutti i lineamenti esterni della sua persona, cercando di trarre l'interesse più alto dai capitali a lei concessi dalla natura, e di nasconderne con tutti gli artifici i difetti. Distratta per indole, ella arriva con la volontà ad acquistare lo spirito d'osservazione più acuto e più pertinace; impaziente e volubile, ella si sacrifica alle lunghe torture della toeletta, ai tormenti prolungati di una seduta dal parrucchiere per una permanente, ed alle interminabili pose davanti allo specchio, dove impara la mimica e perfino l'arte di muovere le labbra con eleganza. I sacrifici più penosi le sono ricompensati ad usura quando, entrando nella sala di conversazione che l'attende, vede fissarsi su lei gli occhi di ciascuno, e dalla bocca di tutti sente uscire voci di ammirazione e di elogio. Allora ella abbassa timidamente gli occhi e si fa rossa. Non è però il pudore che le fa salire il sangue alle gote; ma la pienezza della gioia che l'inonda che deve celar in sè, tutta assorbire a poco a poco, a rischio di restarne soffocata. Ella però non si dimentica mai un solo istante, e nell'inoltrarsi incerta verso la sedia che a gara le presentano i suoi corteggiatori, studia il muover dei piedi e le molli oscillazioni dei fianchi; e negli sguardi che arrischia rammenta i moti imparati allo specchio, dal timido abbassar delle palpebre al formidabile balenare degli occhi in tutta in loro passione. Se involontariamente i suoi occhi si soffermano per qualche istante più del bisogno sopra qualcuno, ripara subito l'errore del cuore, portandoli sopra gli altri che stanno, attendendo la vita e la luce dalle sue pupille, e con un solo muover di ciglio pare che li compensi della involontaria e crudele dimenticanza. Altre volte, dov'ella vuol lasciare più profonda ferita, finge l'indifferenza o lo sprezzo; e alternando le lunghe assenze de' suoi occhi sospirati cogli sguardi più ardenti e più burrascosi, si compiace di far palpitare di gioia o impallidir di tristezza la vittima che pende da un suo cenno. E chi potrà mai svelare tutti i misteri della politica più machiavellica, che nasconde le sue arti tenebrose nei gabinetti delle belle signore? Se mai voi avete sott'occhio una donna accusata di vanità, e che desiderate assolvere, sia essa pure vestita in abito dimesso e apparentemente disordinato, guardatela bene da capo a piedi, perchè non un capello è disposto a caso, non una piega del vestito è spontanea. La ciocca che le sfugge dalla treccia è stata messa a suo luogo da una mano intelligente ed artistica; il bottone dell'abito, che sembra a caso scappato dal suo occhiello, è stato slacciato ad arte onde lo sguardo, penetrando per quella piccola fessura, possa più facilmente intravvedere i tesori nascosti, e forse a lungo si è studiato per decidere quale dei bottoni dovesse rimanere dimenticato. Infine, ricordatevi bene che una donna vana, quand'anche costretta a vivere sola in eterno, si farebbe bella per se stessa, e morente cercherebbe forse ancora di atteggiarsi in modo seducente e dignitoso.

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Tutti i piaceri della vanità, che abbiamo divisi artificialmente in tre classi, non differiscono che nella loro origine, e provengono tutti dalla sodisfazione dell'approbatività degenerata, o portata ad un grado morboso. Per lo più si combinano fra loro in diversi modi in uno stesso individuo, il quale non si abbandona alla coltura di un ramo speciale, se non quando spera una raccolta maggiore di frutti. Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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L'affetto fisiologico però non viene soddisfatto che quando abbiamo il diritto di possedere, e possiamo, in faccia a tutti, considerare nostro un oggetto qualunque. Allora noi mentalmente improntiamo sull'oggetto un suggello invisibile, che lo rende caro e interessante ai nostri occhi. Pare che si marchi un carattere del nostro individuo sulla cosa che è nostra. Noi possiamo benissimo entro di noi confrontare la sensazione che ci produce la vista di un oggetto che non è nostro, con quella di uno che ci appartiene. Nel primo caso vediamo, guardiamo e desideriamo, mentre nel secondo caso contempliamo e amiamo, e la sensazione è quasi tiepida, essendo complicata da un affetto che l'accompagna. Il piacere più semplice che ci è dato da questo sentimento consiste nel porre attenzione agli oggetti che noi possedevamo già per diritto di eredità, forse ancor prima che sorgesse in noi quest'affetto. Le gioie cha si hanno in questo caso sono le più pallide, perchè non sono state precedute da un desiderio, e noi eravamo possessori prima ancora di essere uomini. I maggiori piaceri che ci offre il verbo avere sono quelli che, seguendo l'ordine più naturale e primitivo delle cose, hanno per necessaria introduzione il verbo cercare; e il loro grado è sempre in ragione diretta della intensità del desiderio, e non già del valore della cosa. Il bibliomane che, dopo lunghi anni di impazienti ricerche, diventa possessore di un raro libricciattolo, che mancava alla sua biblioteca, prova certamente una gioia assai più grande del ricco proprietario che riceve la notizia di un abbondante raccolto. Altre volte le compiacenze dell'amor proprio si associano ai piaceri di questo sentimento, e noi godiamo assai nel mostrare ai conoscenti le nostre proprietà terriere, le nostre preziose raccolte. Tutti gli oggetti che sono nostri ci possono procurare alcuni piaceri, che differiscono di poco fra loro. In generale, il piacere più completo del possesso si gusta nel contemplare un piccolo oggetto che noi possiamo tenere fra mani e che possiamo custodire in minuscolo ripostiglio. In questo caso pare che il pronome possessivo salga di un grado, e che il sentimento della proprietà venga sodisfatto nella maniera più conforme alla sua intima natura morale. Quando un oggetto è troppo grande perchè noi possiamo muoverlo e trasportarlo, può esser nostro finchè si vuole, ma sentiamo che può facilmente cambiare di padrone; mentre il piccolo oggetto fa parte di noi stessi, ed è proprio nostro. Il ricco fanciullo che riceve in dono da suo padre un vasto campo da tennis, si rallegra, ma esprime in modo calmo la sua gioia; mentre, se è regalato di un elegante nonnulla minuscolo, ride e salta festoso, e dopo averlo maneggiato in tutti i versi, se lo intasca lietamente, o corre a riporlo assieme alle sue cose. Così i beni mobili sono molto più nostri dei beni immobili, perchè quando questi possono dare un piacere maggiore, esso non deriva dal puro sentimento della proprietà, ma dalla speranza di godere nell'avvenire altri piaceri di possesso che essi ci frutteranno. Chi non intendesse la differenza, si immagini di possedere un cammeo e una vigna, e confronti le due varietà di piacere.

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Se nel corso di lunghi anni noi abbiamo sempre veduto un oggetto vicino a noi, senza che esso ci ridestasse una sol volta un'immagine morale, possiamo privarcene senza dolore, mentre in un'ora sola un'inezia qualsiasi può ispirarci il più vivo affetto e diventarci carissima. In generale, perchè un oggetto mantenga l'impronta di un sentimento, conviene che l'immagine morale sia molto viva, o che vi si rifletta molte volte. Fra i mobili della casa, il letto è quello sul quale si dovrebbe leggere la storia più interessante. Là si nasce, si muore, e si tramanda ai posteri l'eredità della vita: là si soffre e si gode, si medita e si ama; là si passa per lo meno un terzo dei nostri giorni: eppure il letto è uno degli oggetti più prosaici, e sul quale si legge poco o nulla. Questo fatto misterioso però si spiega subito, quando si pensi che nel letto pochissima è l'attenzione, e la massima parte del tempo che vi si passa, spetta all'assopimento temporaneo della nostra coscienza, per cui le immagini morali possono bensì mandarci un raggio di luce vivissima, ma è subito spento nell'oscurità più profonda. Una seconda maniera con la quale noi amiamo gli oggetti, è la contemplazione dell'immagine altrui che in essi si riflette. A questo affetto si riferiscono i piaceri infiniti che ci procurano le così dette memorie. Le ciocche di capelli, le lettere, i nastri, un fiore appassito, ci richiamano i palpiti dell'amore; frammenti di marmo o di mattoni ci ridestano l'ammirazione per qualche uomo illustre; i ritratti ci rappresentano, insieme all'immagine morale, anche i lineamenti di chi ci fu caro. Tutti i sentimenti possono, in una parola, proiettare la loro immagine sugli oggetti, e l'affetto può, in questi casi, salire ad un grado straordinario, procurandoci le gioie più intense. Anche le immagini del dolore, riflesse negli oggetti, possono renderceli cari e procurarci piacere. Un pugno di terra preso dal campo del cimitero, dove dorme la nostra madre, può essere per noi una vera reliquia, come si può amare con intensità un fazzoletto bagnato di sangue prezioso. Anche la mente può improntare immagini sugli oggetti; ma il raggio di luce che essa emana deve sempre essere riscaldato, passando prima nel tiepido nido del cuore. L'erudito adora i suoi libri, il numismatico ama con trasporto le sue monete, il malacologo non saprebbe distaccarsi senza dolore dalle sue conchiglie; ma i libri, le monete e le conchiglie riflettono, insieme al raggio della mente che si compiace del lavoro, l'affetto alla scienza, il quale è un vero sentimento. In una parola, si può dire che tutti gli oggetti che si amano sono animati da un sentimento che vi si nasconde, quasi fosse un calorico latente che noi possiamo sprigionare e render sensibile colla nostra volontà. Gli oggetti cari sono veri segni materiali, che si adattano all'imperfezione della nostra mente e del nostro cuore; sono incarnazioni del sentimento nella materia, dalle quali possiamo sprigionare l'affetto e il piacere. Così il prigioniero, rinchiuso per lunghi anni nel suo carcere, effonde i suoi affetti nelle cose che lo circondano, sicchè i muri, i mattoni, le travi, acquistano qualcosa che non può essere sentita che dal povero solitario, il quale ama con trasporto quelle cose che sole gli sanno rispondere coll'eco delle sue parole. L'affetto delle cose è d'ordinario così calmo e delicato, che è sentito meglio dalla donna e dal vecchio. La prima emana una luce più calda d'affetto, che facilmente si fissa sopra ogni cosa, mentre il secondo può leggere sugli oggetti una storia più lunga e più interessante. Nei paesi freddi e presso i popoli inciviliti queste gioie devono essere più squisite. L'esercizio moderato di questi piaceri rende l'uomo disposto all'analisi e alla calma degli affetti soavi e delicati. L'abuso dell'affetto alle cose fa nascere l'egoismo, o lo perfeziona. La patologia di queste gioie consiste, per la massima parte, nella loro esagerazione, che è sempre sintomo sicuro di egoismo. L'uomo egoista si riduce ad amare gli oggetti, perchè questi riflettono benissimo la sua immagine, perchè non tradiscono e non abbandonano, e perchè non elevano mai pretesa alcuna di gratitudine, nè domandano mai da noi il menomo sacrifizio. Il vecchio, che per natura è sempre alquanto egoista, ama spesso le cose più che gli uomini.

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Come abbiamo già detto a questo riguardo, tali piaceri, però, se sono di una intensità talvolta spasmodica, sono anche da riprovare, perchè debilitano l'organismo in modo irreparabile, e conducono ad una vecchiezza precoce con tutti i suoi acciacchi.

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Abbiamo parlato dell'affetto per noi stessi, cioè del sentimento più puro in prima persona, poi siamo passati a poco a poco ad altri affetti, che vanno sempre più complicandosi per un elemento morale che è fuori di noi; per cui, attraversando di corsa il campo interminabile e misterioso dell'amor proprio, siamo arrivati ai piaceri che derivano dall'amore alle cose e alle bestie, nei quali la parte della prima persona prepondera ancora in modo straordinario. Ora ci troviamo nell'ordine naturale innanzi all'amore tra gli uomini, e ci vediamo aperto lo smisurato orizzonte dei veri affetti, nel quale brillano le passioni più fulgide della nostra vita e le gioie più sublimi del cuore. Qui il sentimento palpita più caldo e più impetuoso; e la penna che vorrebbe scrivere canna e sicura, guidata della mente inesorabile e fredda, vacilla nelle mano, perchè le armonie del cuore fanno fremere di gioia e trepidare di un santo timore. L'uomo, animale destinato a vivere in società, deve avere necessariamente un legame morale che lo unisce a' suoi fratelli, e la natura gli ha concesso un affetto primitivo che nasce in lui e con lui muore, e che, oscurandosi nelle burrasche più violente delle passioni, torna però sempre a risplendere nel cielo, appena la calma abbia diradato le nubi che hanno ottenebrato l'orizzonte del cuore. Questo sentimento lega quasi tutti gli uomini per mezzo di un filo misterioso, facendone un sol corpo, un solo individuo. I mari e i monti sembrano dividere qua e là la catena che lega gli uomini da un punto all'altro della terra, e gli odii delle nazioni e dei governi spezzano violentemente il filo degli affetti; ma la corrente emanata da un popolo che soffre o esulta, che s'innalza o si abbassa, se non può correre con rapidità telegrafica, si diffonde però lenta e calma una superficie della terra ed arriva a confondersi con la corrente sempre viva, che produce da ogni parte l'umana famiglia, divisa ne' suoi innumerevoli alveari. Qualche volta una scintilla emanata dal genio ha impiegato molti secoli a far sentire la sua scossa all'umanità intera; ma nessuna corrente è andata mai perduta, e nella vita morale che riceviamo per eredità di nascita e di educazione, si confondono ancora misteriosamente le conquiste di Alessandro, la caduta dell'Impero romano e le guerre dei Crociati. L'oscillazione partita da Betlemme, or sono venti secoli, va diffondendosi ancora nelle estreme regioni dell'Australia, a cui misteriosamente si affiancano i fremiti partiti dalla Mecca. A scosse impetuose, o per correnti insensibili, il minimo movimento fa oscillare l'umanità intera, l'elidersi e l'incontrarsi misterioso di mille fremiti che partono da ogni punto del mondo abitato costituiscono la vita morale dell'umana famiglia. Nei grandi centri della civiltà, dove gli operai della macchina sociale formicolano laboriosi, le scintille partono senza posa; e diffondendosi per la rete delle strade ferrate e dei telegrafi, fanno muovere le nazioni d'Europa e d'America ad una vita agitate e turbinosa; mentre nelle lontane colonie, le correnti emanate dalle grandi pile della civiltà, arrivano deboli e lente, sicchè non producono più nè scintilla, nè scossa. A poco a poco per la forza della pila si accresce, i fili telegrafici, per i quali corre il pensiero, si moltiplicano, e noi ben presto dal centro dell'Europa potremo far palpitare con noi della stessa vita i selvaggi della Patagonia e quelli della Micronesia. In ogni modo un sentimento collega l'uomo all'uomo in un moto di simpatia. Indeterminato e confuso, questo affetto è il fondo sul quale si intrecciano tutte le passioni più o meno violente che legano fra loro alcuni individui, e ben di rado si mostra in tutta la sua semplicità e senza che il cuore v'abbia trapunta qualche immagine più viva. Due uomini, che provano il piacere di avvicinarsi, soddisfano il più semplice di tutti i sentimenti di seconda persona, che potrebbe chiamarsi affetto umano e sociale. Ben di rado però questa gioia esiste da sola, perchè l'oscillazione comunicata a questo sentimento, trae quasi sempre in simpatia d'azione altri affetti che lo elidono o lo ravvivano. Così, se due uomini che si incontrano si fanno paura, l'amore di se stessi oscura subito il piacere di vedersi, ed essi si allontanano o si mettono sulla difensiva. Se invece i due uomini parlano una stessa lingua e si conoscono a vicenda, associano al piacere di sodisfare il sentimento sociale, la gioia intellettuale di comunicarsi i propri pensieri. L'affetto sociale è soddisfatto tutte le volte che noi accomuniamo la nostra vita con quella di un altro uomo, sia che guardiamo semplicemente, insieme ad uno sconosciuto, uno stesso oggetto, sia che ci trovi assieme a migliaia di persone ad assistere allo stesso spettacolo. La parte misteriosa che prende questo sentimento a tutte le nostre gioie, viene espressa complessivamente della parola compagnia; ma riesce molto difficile a definirsi. Nello stesso modo che probabilmente in tutti i corpi trovasi misteriosamente celato qualche imponderabile, così in quasi tutti i nostri piaceri entra, come elemento indispensabile, l'affetto sociale: anche in moltissime gioie individuali, senza volerlo, si vive e si gode insieme a un'immagine che è fuori di noi. L'egoista più perfetto può isolarsi finch'egli vuole, ma è pur sempre un membro dell'umanità che deve con essa soffrire e con essa godere; e l'uomo individuo può resistere fisicamente, ma non moralmente; perchè l'uomo-completo, l'uomo fisiologico è sociale e vive insieme all'umana famiglia, anche quando vuol isolarsi da essa nella solitudine più profonda. L'uomo che ha vicino un altro uomo, e non ha alcuna ragione di odiarlo, anche senza vederlo lo sente, e senza saperlo comunica moralmente con lui. Supponendo che un uomo privo di tutti i sensi, tranne del gusto, sappia di essere a tavola con altre persone, egli ne sente la presenza e gode della loro compagnia. In questo caso il suo piacere è semplice e puro, e non deriva che da una sodisfazione passiva del sentimento sociale; egli non vede nè ascolta i suoi vicini, ma sa di essere in mezzo ad esseri della sue specie, e ne gode. Questo affetto però è così delicato, che si lascia modificare dalle passioni più miti. Così basta che il povero cieco e sordo-muto pensi un momento alle sue sventure, perchè il dolore cancelli il piacere ch'egli prova, e, invece di amare i suoi commensali, li invidi e li odii. Il sentimento sociale non ha che un carattere vago e indistinto quando ci mantiene allo stato di potenza, ma prende invece una forma determinata quando passa allo stato di forza attiva. In questo passaggio esso presenta il carattere speciale di tutti gli affetti, di seconda persona ai quali serve di sfondo, e che tutti rappresenta nelle leggi fondamentali che lo reggono. L'egoista e il superbo possono agire con veemenza e passione per sodisfare i loro piaceri prediletti, ma riflettono sempre in se stessi lo scopo dell'azione; mentre l'uomo che ama di qualunque affetto un suo fratello, pone la sodisfazione del proprio sentimento fuori di sè e si rallegra delle gioie altrui, provando un piacere molto maggiore, quando egli stesso direttamente ridesta nell'altro la gioia.

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Questo bisogno forma da solo tutta la filosofia delle espressioni cortesi, colle quali cerchiamo di dimostrare agli altri l'affetto che abbiamo per essi. Qui stanno i saluti, le carezze, i baci, e tutto l'immenso apparato delle dimostrazioni della cortesia e della gentilezza, con tutta l'infinita varietà di forme fisiologiche e patologiche. Il primo atto di sorpresa piacevole che fece un uomo incontrando nella foresta un altro uomo, fu il primo saluto; nello stesso modo che la stretta di mano deve essere antica come l'umanità. Se i due uomini che si incontrarono proseguirono insieme il loro cammino, e uno di essi, vedendo ingombra la strada da una pianta spinosa, la spezzò e allontanò perchè il compagno potesse passare senza ferirsi, e questi per l'atto cortese lo ringraziò con un sorriso: fu questo il primo e il più semplice scambio di una cortesia fra due uomini: all'uno procurò il piacere di sodisfare praticamente l'affetto sociale, e all'altro concesse la gioia di dimostrare la propria gratitudine. L'ospitalità è una maniera complessa di sodisfare il sentimento sociale: essa dovette nascere coll'uomo appena egli si unì in famiglia. L'ospitalità ci fa accogliere sotto il nostro tetto il pellegrino sconosciuto, e ci fa prodigare a lui tutte le cure più sollecite che dimostrano l'affetto che pel nostro prossimo proviamo. È un servigio reso da uomo ad uomo, senza riguardo a sesso, a età o a legami di sangue; è per questo che l'ospitalità è primitiva e pura nei popoli selvaggi, i quali la sostituiscono alla beneficenza e a tutte le forme della filantropia, in cui poi si smembrò un unico sentimento presso i popoli più civili. Questa forma di esprimere praticamente l'affetto sociale si conservò ancora attraverso la civiltà di tanti secoli; e quando, trovandoci in una casa isolata della campagna, apriamo la nostra porta al viaggiatore sorpreso dal temporale, esercitiamo l'ospitalità nella sua primitiva forma, provando il piacere che dovettero gustare i nostri primi padri antichi. A questa ospitalità primitiva si deve la fondazione degli ospedali, dei ricoveri e di tutti gli istituti di beneficenza. L'ospitalità è una formula molto complessa, che merita di essere analizzata più da vicino, perchè in sè comprende infinite maniere di esprimere praticamente l'affetto che portiamo agli altri. Il saluto in tutte le sue forme più o meno cortesi è sempre un modo breve, col quale dimostriamo il piacere di vedere una persona. La forma più semplice di questa espressione di gioia è un segno fatto con qualunque parte del corpo, ma per lo più con la mano; e può nelle forme più complesse associarsi alle parole o agli abbracci più o meno espansivi. In ogni modo, quando è sincero, l'uomo che lo riceve ne valuta subito il valore morale. Il saluto si esprime anche tacitamente con un leggero chinare del capo e un increspare lieve del labbro al sorriso. Il togliersi dal capo il cappello, residuo di un uso cavalleresco del passato, è ora sostituito dal tendere deciso del braccio in alto, gesto che sostituisce pure la comune stretta di mano. Dopo il saluto l'uomo si fa vicino all'uomo e lo interroga sulle sue vicende, e seguendolo coll'occhio intento dell'affetto a vicenda con lui sorride e con lui piange. Quante volte due uomini, che pur non si videro mai, incontrandosi col cuore gonfio d'affetti, si diedero una formidabile stretta di mano e si intesero! Quante volte con una solo parola fusero insieme i loro cuori in un ineffabile delirio d'affetti; quasi due torrenti impetuosi che, correndo dapprima solitari nel loro letto irto di rupi, incontrandosi si calmarono, scorrendo lenti nel pacifico fondo di un lago! Quante volte quattr'occhi umani, che pur non si erano mai incontrati, rimasero a lungo fissi gli uni sugli altri, leggendo a vicenda in mezzo a un velo di lacrime la storia del cuore e rimandandosi torrenti d'affetto nell'estasi più soave! Talora uno dei due è oppresso dal dolore, e viene confortato dalle parole dell'altro: egli riceve un vero soccorso morale, un'elemosina di parole che viene chiamata consolazione. Le gioie che in questo caso si provano da chi esercita, consolando, il sentimento sociale, possono essere molto diverse di natura e di intensità. Un egoista che, senza soffrire col compagno, pronuncia a fior di labbra e per puro convenzionalismo una parola di conforto fredda e stentata, che non gli costa alcun sacrificio, non può provare che una gioia pallida, perchè egli non sodisfa alcun bisogno del cuore. L'uomo generoso, invece, che, commosso profondamente, stringe forte la mano al fratello che soffre, dicendogli con voce commossa, ma energica, una parola di sollievo, prova una profonda emozione. Più d'una volta una parola sola o una stretta di mano meglio alleviano un profondo dolore e rendono amici due uomini che non si erano mai conosciuti.

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Allo zero di questo termometro del merito, che qui s'accorda col piacere, abbiamo l'egoista che accidentalmente con un atto semplicissimo produce un qualche beneficio di cui si rallegra, per la riconoscenza guadagnata a buon mercato e per passare da uomo benefico. Salendo sopra lo zero, troviamo tulle le gioie usuali e comuni della beneficenza, che si fanno col minimo sforzo e piccolo sacrifizio, e che si associano sempre a dosi più o meno grandi di amor proprio. Andando ancora più in alto, l'amor proprio impicciolisce, e il sentimento sociale si accontenta del premio della gratitudine; finchè nelle regioni più elevate della scala morale noi troviamo la gioia purissima, che si misura tutta dalla grandezza del sacrificio, e che nelle sue forme più ideali di perfezione non esige la più piccola ricompensa, fosse pur quella della sola nostra approvazione intima. A tanta altezza salgono pochissimi uomini; ma il loro sentimento spande intorno tanta pienezza di luce, che basta a rischiarare l'umanità intera, la quale si rallegra di avere in sè chi ne sublima la dignità avvilita da tanti egoismi e bassezze. L'uomo che si sacrifica al bene altrui prova sicuramente un immenso piacere, che non considera scopo del suo operare. Quand'egli sente palpitare il cuore al sentimento della compassione e sta per lanciarsi con sublime imprudenza nell'agone, si vede sbarrata la via dall'egoismo. Vacilla, si ferma e magari piange; sente l'umana debolezza e il pericolo della lotta, e spasimando forse di un dolore che non ha nome, supplica il cielo perchè voglia rinnovare il miracolo della vittoria di Davide contro Golia. Lotta aspra, dura e forte, ma, sopraffatto l'egoismo, quando egli stende la mano all'uomo che soffre, si asciuga prima il sudore della stanca fronte e stagna il sangue che stilla dalle ferite, onde non imporre al fratello il peso della gratitudine, nè ricompensare se stesso con un premio che lo abbasserebbe nella considerazione di se stesso. Se è vero che gli uomini generosi fanno il bene per procurarsi un piacere, si pongano tutti gli uomini a cercare queste gioie e noi avremo il paradiso in terra. I pochi eletti continuino intanto nelle loro lotte, perchè essi hanno la sublime missione di far brillare qualche gemma sul fango dell'umanità. I mediocri non si scoraggino, nè rinuncino a queste gioie, perchè vi sono sacrifizi di tutte le misure, che si adattano alle grandezze varie del cuore umano; e se essi non potranno sorridere al martirio della vita, potranno sempre arrivare a perdere un'ora di sonno o a far tacere per pochi istanti la voce dell'amor proprio a pro' di un fratello sventurato. Le gioie del sacrificio sono le più grandi fra i piaceri del sentimento. Esse sublimano tutti gli affetti più generosi, primo fra gli altri il sentimento della dignità, il quale esulta e s'innalza all'apoteosi più completa. Nel regno del cuore il sacrificio è la gioia più grande, o per lo meno una delle maggiori, che arriva in alcuni casi ad una tale altezza da potersi chiamare venerabile e santa. L'uomo che arriva a offrire se stesso in olocausto sull'altare di un sentimento, ci mostra lo spettacolo più imponente del mondo morale.

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Subito dopo la scintilla di gioia si è spenta, e noi, continuando la nostra passeggiata, non ci troviamo più in alcun rapporto morale coll'uomo che abbiamo soccorso. Ma se il giorno seguente, ripassando per lo stesso luogo, noi sentiamo ancora la voce querula del mendicante e poniamo ancora mano alla borsa, incominciamo a fare un passo verso una consuetudine, e la scintilla di gioia che proviamo incomincia a diventare una corrente; ed anche dopo qualche tempo, sebbene lontani dal mendicante, possiamo pensare a lui con compiacenza. D'altra parte, se il mendicante non è un semplice mercante che vende lacrime e lamenti per averne senza fatica il pane della vita, s'egli ha un cuore che sente, e s'egli riesce a distinguere, nel palpare la nostra moneta, ch'essa è calda d'affetto e che differisce dalle altre che sono gelate dal fiato della vanità, egli penserà a noi con piacere, e vedendoci arrivare ci distinguerà con un sorriso che noi potremo saper leggere e interpetrare. Per quanto siano fuggevoli e delicati questi rapporti che ci legano, se essi si ripetono a lungo, noi potremo amarci e diventare, forse, amici. La simpatia e la beneficenza sono le due fonti primitive dell'amicizia, la quale nella sua essenza si può definire per lo scambio di due sentimenti sociali molto vivi. Quando due persone, per una ragione qualunque, si rimandano spesso scintille di gioia, queste vengono poi a formare una corrente continua, una vera atmosfera che abbraccia in sè due esistenze. Allora l'uomo che ama, vive, almeno in parte, di una vita doppia; e, conservando nel suo cuore l'immagine dell'amico, sente i palpiti di un altro cuore a cui rimanda i fremiti del suo. Chi vuole che per ciò sia necessaria un'identica natura morale a costituire due amici; chi pretende invece che il contrasto dei caratteri favorisca l'amicizia: mentre altri, forse più diligenti osservatori, ci insegnano che un amico è complemento dell'altro, e che le facoltà di entrambi sommate insieme formano un'unica natura complessa, un tutto più o meno armonico. Basta però la più superficiale osservazione della vita che ci circonda per dimostrarci che l'amicizia può scaturire da sorgenti molto diverse, e che, avida di spazio, essa vaga libera in larghissimo campo, diffondendo a piene mani le sue gioie fra gli uomini i più somiglianti e i più dissimili. Non tutti gli uomini sicuramente possono essere amici fra loro, quantunque possano essere tutti onesti e dotati di delicato sentire. Due persone per ispirarsi il sentimento dell'amicizia devono convenire, almeno fino a un certo punto, nell'età e nelle proporzioni del sentimento e della mente. Nelle diverse età della vita si parlano lingue diverse, si battono diversi sentieri, si vive sotto un diverso cielo. Fra gl'individui d'età troppo disparata l'amicizia è impossibile; e quando questo nome si adopera ad indicare l'affetto che lega il vecchio al giovane, il fanciullo all'adulto, si commette un errore di logica. Il sentimento più vivo può riunire questi esseri diversi, ma esso non è costituito che dalla venerazione, dal rispetto, dalla riconoscenza o dalla stima. II calore di due esistenze si confonde per non costituire che una sola temperatura, un solo clima, nel quale vivono due esseri. Anche quando uno di essi si allontana, la sua immagine morale rimane al posto abbandonato; e l'amico la contempla con lo spirito, l'accarezza come si accarezza una cosa viva, la bacia con trasporto e ne sente il tiepido calore che emana solo dalle cose vive e da quelle che sono amate. Questo è l'affetto che lega due persone nel santo nodo dell'amicizia. Come l'età, così la soverchia distanza morale o intellettuale può frapporre un ostacolo insormontabile a ravvicinare due in modo da farne due amici. Qui però la difficoltà è minore. Ora lo sguardo affascinante del genio può a poco a poco avvicinare a sè un uomo che si trovava lontano e perduto nella folla; mentre altre volte la tiepida e profumata emanazione, che spira da un cuore sublimemente delicato, ravvicina a sè il cinico che cammina per vie battute e solo. Questa è anzi una delle forme più perfette e ammirabili dell'amicizia.

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Da una parte abbiamo una sensazione leggera e dall'altra una reazione straordinaria di tutti i muscoli, e perfino del diaframma, il quale viene spesso spinto ad una vera convulsione. Il rapporto tra causa ed effetto è veramente sproporzionato, e ci fa sospettare che questo fatto appartenga già alla classe dei piaceri patologici.

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Se facciamo una buona azione, interessiamo direttamente in noi il sentimento, e proviamo un piacere del quale abbiamo in noi soli l'origine e la ragione. Se siamo spettatori di un atto generoso, esso si riflette nella nostra coscienza, e producendo un piacere, fa scintillare nello stesso tempo un raggio di luce riflesso che è costituito dall'ammirazione. Il raggio che si riflette dalla nostra coscienza varia secondo la natura della luce che vi arriva, e secondo il numero delle volte che vi si proietta. Così un uomo che manda a noi una sol volta l'immagine di un'azione grande per intelletto, ci ispira l'ammirazione, la quale può arrivare a un tratto alla venerazione o all'adorazione, se il raggio di luce che ha colpito la nostra coscienza era vivissimo e fulminante. In generale, però, la stima per le azioni, sommamente vere o belle, derivanti dall'intelletto, emana una luce che può esser molto viva, ma che è sempre più o meno fredda. Invece il raggio più mite, che diffonde intorno a sè un'azione buona, arriva caldo alla nostra coscienza e fa oscillare subito per simpatia d'azione il nostro cuore. In ogni modo, sotto tutte le sue forme, questo sentimento è sempre nobile, perchè in esso l'egoismo è sempre vinto dalla generosità, e la formidabile parola dell'io è cancellata dalla grande rivale del tu. Quando si ammira, si riconosce una superiorità qualunque, si fa atto di sudditanza, si fa violenza alla vanità, perchè voglia sottoscrivere il documento di una inferiorità. Siccome però l'egoismo è un elemento necessario all'organizzazione morale di tutti gli individui, i quali lo posseggono soltanto in diverse proporzioni; così ne viene che esso lotta sempre più o meno col sentimento della stima, concedendogli una parte maggiore o minore di gioie. Vi sono uomini di una superbia eccessiva, che non hanno mai stimato e venerato alcuno, e che, presi alla strozza dalla verità, pronunciano col labbro un atto di ammirazione che cancellano subito col cuore. Per questi la gioia di ammirare e di venerare è lettera morta. Moltissimi altri non sanno stimare che gli uomini grandi, che sono separati da essi da largo spazio di terreno o di tempo, e non possono sopportare la più piccola superiorità che li avvicini, e mentre prestano forse un culto di adorazione per Cesare, per Newton o per Napoleone, soffocano di bile fiutando appena l'odore acre e insoffribile che emana da un titolo accademico, o da un pollice di nastro all'occhiello di un loro simile. A nostro conforto però abbiamo uomini eletti che, senza esser grandi, sanno ammirare ciò che è grande, e che senza aver mai potuto oltrepassare nella vita del cuore la barriera della bontà e del dovere, possono piangere di commozione leggendo, ad esempio, la storia di Romeo, o assistendo ad una azione nobile e generosa. L'ammirazione che si presta ai grandi che più non sono, può diventare un vero culto, una vera adorazione, ma la mente vi entra assai più che il cuore. Questi piaceri si provano anche nella stima che si professa pei contemporanei di mente sublime, o per uomini in cui si onora la vecchiaia onesta e dignitosa. Tutti i piaceri che si provano in questi diversi casi richiamano alla mente la luce pacata e tremula della luna che rischiara, ma non riscalda. Le altre gioie invece sono più calde, più vive, più palpitanti, e assomigliano alla luce del sole. In questo l'uomo grande è presso noi, e la luce che egli diffonde all'intorno ci fa fremere e sospirare. A questa classe di piaceri appartengono ancora le sensazioni deliziose che si provano nell'essere spettatori di una azione nobile e generosa. Queste gioie variano di grado secondo il merito dell'azione, ma sono sempre calde anche nei gradi minimi. Come tutti i sentimenti, anche la stima può procurare infiniti piaceri molto diversi fra loro. Tutti i sensi e tutte le facoltà morali possono servire come strumento a suscitare la gioia. La semplice vista di un autografo di persona insigne può far palpitare di piacere, come un cieco può piangere di gioia palpando colle mani intente un oggetto appartenente a un grande ch'egli apprezza e onora. Chi sentì l'armonia che Rossini dedicò alla sua tomba, provò sicuramente un piacere a cui partecipò anche l'orecchio. Lo stesso si può dire di chi legge per la prima volta l'autobiografia di un grande, lasciata in eredità a quelli che non furono suoi contemporanei. Altre volte la gioia spetta a un sentimento diverso, e riceve una leggera sfumatura dalla stima. Così si può prestare il culto della gratitudine più viva al proprio benefattore; ma se questi è venerabile per un'onorata vecchiaia e per meriti di mente e di cuore, non è che con trepida gioia che lo si saluta e gli si bacia la mano. La gioia della venerazione si prova, in tutta l'ideale purezza, nel culto che si presta a una madre decrepita o ad un grand'uomo che, vecchio e cadente, manda ancora un raggio di viva luce dalle stanche pupille. L'esercizio di queste gioie rende migliori tutti i nobili sentimenti, umilia la superbia o eleva la vanità al grado di nobile ambizione. Più d'una volta il culto prestato ad un genio bastò a indirizzare la vita a un nobile scopo, e a far cogliere il premio d'una corona d'alloro. Queste gioie non sono di tutti, e ognuno le prova in grado molto diverso. La donna ne gode senza dubbio più dell'uomo. Esse sono più vive nell'adolescenza e nella giovinezza, e nelle nazioni incivilite. Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

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Qui abbiamo un esempio chiarissimo di questa verità. Se voi credete che un ricco per eredità tragga tanto piacere da' suoi tesori quanto uno che ha conquistata la agiatezza col sudore della propria fronte, vi ingannate a gran partito, e non conoscete neppure la prima buccia che involge il cuore umano. Se volute godere, lavorate. Il piacere si trova qualche rarissima volta per via, come si può trovare uno scudo per terra; in tutti gli altri casi bisogna conquistarlo, comperarlo colla fatica e spesso col dolore. Moltissimi non sono felici perchè non hanno la forza a il coraggio di esserlo.

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Così abbiamo veduto il nobile sentimento dell'ambizione, mostrarci nella vanità una forma meschina. Altre volte l'affetto è colpito da una fatale malattia che lo altera in tal modo da farlo tralignare. Vedemmo difatti la gioia legittima del possesso degenerare nella compiacenza del furto. In ogni modo però sotto le forme morbose più bizzarre e le deformità più ripugnanti, l'occhio paziente e acuto dell'osservatore poteva indovinare la natura della alterazione e provvedere. Sgraziatamente le malattie del cuore non finiscono qui, e moltissime derivano dallo sviluppo di un elemento morboso d'indole specifica, o da un sentimento colpevole primitivo. L'odio è uno dei sentimenti colpevoli più semplici nella sua essenza, ma che, disponendo di un immenso arsenale di abiti e di costumi, riveste le forme più bizzarre, sicchè molte volte riesce difficile in sulle prime di riconoscerne l'identitità. Il suo carattere specifico è quello di essere sodisfatto del male altrui. Così alcune offese particolari fatte all'amor proprio suscitano l'invidia, la quale non è altro che odio per la superiorità altrui. Ciò che modifica però più d'ogni altra cosa la natura dell'odio, è la misura del sentimento colpevole proprio ad ogni individuo. La stessa offesa, che arrecata ad un tale non lo porta che ad un momento di collera innocente, accende in un altro la fiamma di un odio implacabile e profondo, o lo ispira alla più crudele vendetta. La stessa umiliazione può farci piangere di dispetto, o impallidire di rabbia, o infiammar di furore. In ogni caso, l'odio eccitato da una causa qualunque ha i propri bisogni, e questi producono piacere quando vengono sodisfatti. La collera, che non è altro che una scintilla di odio, quando venga ridestata in un uomo onesto non lo spinge che a battere i piedi, a bestemmiare, o a rompere quello che gli capita fra mani. Altre volte l'odio viene eliminato in parte dai nobili affetti, e non essendo forte abbastanza da eccitare all'offesa, sorride però di compiacenza all'altrui sventura. Nei gradi massimi l'azione è veramente necessaria a spegnere la forza straordinaria accumulata in un cuore che si consuma nell'odio più veemente, e i delitti sono le barbare gioie che sodisfano questo crudele sentimento. Più d'una volta fu visto l'uomo sorridere alla fatale sventura di una calunnia creduta vera, e contemplare con feroce smania gli ultimi aneliti di una vittima colpita a morte. Misurate lo spazio immenso che separa il fanciullo che gode nel tormentare un povero insetto, e l'assassino che prova un'atroce voluttà nel sentire sotto la sua mano le viscere palpitanti della vittima che spira domandando pietà: voi avrete un'idea del numero infinito di gioie più o meno morbose, che coltiva il sentimento dell'odio. Forse, meno pochissimi eletti, tutti gli uomini hanno nel cuore un germe di odio, che, atrofizzato e isterilito dai nobili affetti che da ogni parte rigogliosi lo circondano, dà quando in quando deboli segni di vita, oppure, con una subitanea esplosione, erutta lave ardenti che non offendono alcuno. Le forme più innocenti con le quali l'odio si sviluppa in questi casi, sono gli accessi di collera, gli irrefrenati scatti d'ira e atti di avversione, e moltissimi individui mediocri, in cui l'odio non dà mai scintilla o fiamma, senza commettere positivamente un'azione colpevole, sono sempre indispettiti e col muso ingrugnito, pronti ad aggredire astiosi.

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Ogni dolore nato nelle regioni del sentimento può diminuire o cessare, producendo una gioia, che, come abbiamo già veduto parlando dei sensi, può dirsi negativa. La storia completa di queste gioie non vien fatta che con la storia del dolore, il quale ne misura quasi sempre il grado di forza e ne determina la natura. Nello stato di calma la gioia fa equilibrio al dolore, ma appena la passione con la mano capricciosa del destino toglie dalla coppa del piacere uno dei tanti gioielli che l'adornano, l'equilibrio è rotto, la bilancia trabocca verso il dolore, fa soffrire e spasimare il sentimento con le sue oscillazioni brusche e disarmoniche. Quanto più si leva dalla coppa del piacere, e tanto più si rompe l'equilibrio, e il dolore s'innalza e trionfa. Se allora una mano benefica ripone sul piccolo piatto del piacere il gioiello che è stato tolto, o ve ne sostituisce un altro dello stesso valore, l'equilibrio si ristabilisce, tornano la calma e il riposo, vibra di voluttà il sentimento relativo. Ogni volta che un affetto offeso in qualunque modo genera un dolore, può procurarci le gioie più intense, quando una mano pietosa ne medichi la ferita recente o l'antica piaga, quantunque il più delle volte il sentimento non arrivi a provare una gioia positiva, ma debba accontentarsi della cessazione del dolore. In qualche raro caso l'accidente che toglie il dolore è tanto fortunato, che non solo il piacere nasce dal ristabilito equilibrio, ma dopo di avere spento colla sua benefica onda il fuoco del dolore, trabocca e straripa da ogni parte, diffondendo dovunque la gioia. In questo caso la voluttà arriva ai massimi gradi dell'umana potenza, e il nostro fragile organismo può appena resistere ad una scossa, che sembra farne scricchiolare e rompere l'orditura. Come dall'amplesso di due umani nasce un lampo di voluttà e si crea una nuova vita, così dall'accoppiarsi della gioia e del dolore si sviluppa uno spasimo di gioia. Le più grandi forze, i più grandi fenomeni nascono dal cozzo e dall'accordo di due elementi contrari, il polo positivo e il negativo, l'acido e la base, l'attrazione e la repulsione, il bene e il male, il piacere e il dolore... Fra i sentimenti dell'io, quelli che possono procurare le gioie negative più intense, sono l'egoismo in tutti i gradi e l'amor della proprietà. Una guarigione inaspettata dopo lunghe e trepide sofferenze, e il riacquisto di ricchezze perdute possono fornirci un esempio degli intensi piaceri che possono procurare questi affetti di prima persona. Le offese all'amor proprio sotto tutte le forme lasciano dietro a loro una striscia così lunga e pertinace di amarezze, che di rado la gioia può arrivare a cancellarne del tutto le tracce. Si direbbe che un uomo offeso nella sua vanità si trasformi in lumaca, e dovunque passi lasci sempre una traccia di bava luccicante del suo passaggio, e non possa riandare il sentimento delle reminiscenze senza vedersi sempre davanti agli occhi quella macchia fatale, che il tempo può assottigliare a render grigia, ma mai cancellare. Tutti i sentimenti di seconda persona possono procurarci le gioie negative più intense. Ora è un amico che ritorna dopo una lunga e dolorosa assenza; ora è una madre che benedice piangendo di gioia dopo la collera generosa di qualche giorno; ora è il santo suolo della patria che si ritrova in un delirio di piacere dopo un lungo esilio. Vi sono in questo campo alcune gioie così vive, che quasi farebbero desiderare gli atroci dolori che ne sono la causa originaria. I piaceri negativi del sentimento sono il balsamo più soave dei dolori e degli strazi del povero cuore umano, serbato a tante torture. Un lampo che illumina e riscalda basta a interrompere le tenebre e il gelo di lunghi anni; e facendo nascere la speranza di una seconda scintilla, rende sopportabile la vita. Vi sono però tristi casi, nei quali questi brevi conforti a una vita di torture sembrano un'amara parodia od un insulto. La cosa però non deve essere così: la speranza ci insegna che quei fugaci lampi di gioia, facendoci tollerare la vita, hanno il sublime scopo di renderci degni della palma del martirio... E nella speranza bisogna riporre fede per la nostra felicità. Senza dubbio queste gioie sono più numerose e più vive nella donna, che la natura ha destinata a maggiori dolori. Vi sono alcuni spasimi di voluttà morale non conosciuti che da chi ha molto sofferto; e per soffrir molto, bisogna avere molto cuore. Qui, come in molti altri casi, bisogna guadagnare il piacere con lunghe fatiche, bisogna conquistare la gioia colla lotta più aspra e più ostinata. La fisonomia dei piaceri negativi del sentimento è molto varia nei diversi casi, e il solo segno che la caratterizza è costituito dallo stupore e dal contrasto dei lineamenti del dolore e della gioia.

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Nel regno dei sensi abbiamo molti misteri, ma penetriamo l'andamento generale dei fenomeni: abbiamo un corpo che ci tocca colle sue molecole, colla luce, o col suono; un oggetto insomma che ci manda qualche cosa, della quale noi ci accorgiamo. Nel regno del sentimento invece i misteri crescono, le ombre discendono sull'orizzonte delle nostre ricerche, ma ci intendiamo ancora: sono forze che partono da noi e si dirigono verso un punto fisico o morale; sono emanazioni calde e vaporose colle quali l'io risponde alla natura. Ma quando noi passiamo dal sentimento il più complesso alla più semplice azione intellettuale, ci sentiamo in un altro mondo e sotto un cielo meno trasparente. Qui la coscienza, per quanto ci avverta dei fenomeni della mente, non sa guidarci a studiarli nè a riconoscerne l'origine o la ragione. Prima noi ci siamo serviti della mente per studiare qualche cosa che, quantunque ad essa legata, era pur sempre fuori di essa; mentre ora è la mente che deve studiare se stessa; è l'io che, dopo aver contemplato l'edifizio nel quale ha sede, e dopo essersi compiaciuto di studiarne accuratamente ogni parte, si trova faccia a faccia con se stesso, e guardandosi nello specchio della coscienza, rimane a un tratto sorpreso di potervisi riconoscere, senza però discernere i propri lineamenti in modo netto e preciso. Vi sono molti uomini che non possono intendere questo fatto, perchè non sono mai capaci di isolarsi per un solo istante dal mondo esterno, di togliersi dall'ambito dei sensi e del sentimento; e guardandosi nello specchio della propria coscienza, non hanno potuto mai vedere e sentire il loro io nudo, isolato, sospeso davanti al triplice regno della natura umana. Certamente l'uomo e con la pazienza e coll'attenzione, può contemplare ad una ad una le faccette del proprio poliedro morale, e analizzare i singoli lineamenti della propria mente, può studiare la memoria, la ragione, la fantasia; in questo caso però studia ancora gli strumenti, gli organi e le parti, ma non vede ancora l'assieme del meccanismo, non distingue l'unità umana. Solo per il lampo di un secondo si può con una robusta volontà sospendere quasi il moto della vita morale, e senza ricordare, nè pensare, nè creare, si può avere la coscienza dell'io pura e semplice, e contemplare davanti a se stesso quel punto misterioso formato dall'incrociamento di tulle le forze fisiche e morali. Più in là non si può andare. Quel punto è indivisibile e noi non possiamo averlo davanti alla nostra coscienza che come il guizzar di un lampo. Nello studio della nostra mente, si sarebbe fatto un gran passo, se si fosse potuto isolarla nettamente dagli altri due regni della natura umana, o se almeno un abisso avesse separato il sentimento dall'intelletto; ma, sgraziatamente, non è così. La voragine non esiste, e una comune vegetazione, crescendo sui confini dei due mondi, non ci permette nettamente di determinarli. Quando noi siamo nel giardino fiorito dell'affetto e ci sentiamo voluttuosamente illanguiditi dall'aria tiepida che vi si respira, possiamo dire con sicurezza che ci troviamo nella regione del sentimento; ma se cerchiamo il muro di cinta del delizioso giardino, non lo possiamo trovare; e, quando intenti alla differenza della temperatura e della vegetazione, camminiamo in linea retta dal centro alla periferia per trovare dove finisce il cuore e dove comincia la mente, facciamo la figura di quei bracchi che, avendo perduto la traccia della lepre, abbaiano, corrono a dritta ed a manca, fiutando l'odore che li ha guidati fino allora. Qui fa troppo freddo, dobbiamo trovarci già nel regno della mente; ma questi fiori non crescono però che nelle regioni calde... Qui fa troppo caldo, siamo ancora nei giardini del cuore; ma è impossibile: non vedete i larici e gli abeti? Pur troppo è così: i sentimenti ideali, quelli che nascono cioè da un'idea o ad essa si indirizzano, formano un anello che congiunge i palpiti del cuore colle aspirazioni del cervello. La verità è un'idea; la storia de' suoi piaceri va dunque inserita in quella delle gioie intellettuali; ma la verità si sente, e l'amore del vero è un sentimento.

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In questo modo abbiamo la coscienza di esistere. Questo fatto psichico semplicissimo e costituito, da una parte, da tutte le infinite impressioni esercitate sul sistema nervoso, e dall'altra, dalla coscienza che le avverte e le unifica. È un fenomeno fondamentale della vita, diverso nei diversi animali, nei diversi individui della specie umana e nei momenti infiniti nei quali si suddivide la vita di ogni individuo. Checchè ne sia, però, questo fenomeno è sorgente forse del maggior numero di piaceri. Quando gli organi sono tutti perfettamente sani e l'intricato meccanismo della vita intellettuale procede con tutta la sua pienezza, allora l'uomo si sente e gode della vita, provando uno dei piaceri più semplici e nello stesso tempo più complessi. Questo piacere è proprio di tutte le età, di tutti i tempi, di tutti i paesi. Il non poterlo godere è una malattia che si osserva spesso nei melanconici, negli ipocondriaci e nei permalosi. Esso è uno dei piaceri meno intensi, ma che dura quanto la vita e che non viene interrotto che dai dolori che lo sopraffanno. È nella gioventù che l'uomo lo prova con maggiore intensità, ed è allora che spesso lo si vede, beato di se stesso e del mondo che lo circonda, camminar baldanzoso col sorriso e colla coscienza della sua forza sul volto che irradia, a vivi raggi, la gioia. Questo piacere primitivo non deriva dalla civiltà; e il primo uomo che, dopo avere ammirato la magnifica natura circostante, avrà portato uno sguardo su se stesso, deve averlo provato in tutta l'intensità con cui lo sente tanto un bambino che, destandosi nella sua culla, si guarda attorno e sorride, quanto il filosofo che, sano di corpo e di mente, senza pensare, si guarda e si dà una fregatina di mani.

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Spesso vi si legge dipinta una gioia calma e fredda, in cui però scorrono di quando in quando alcune scintille prodotte dalle piccole scoperte che si vanno facendo, le quali nella loro essenza non sono che cognizioni nuove, che noi abbiamo il merito di leggere nel libro della natura. Vari sono gli aspetti della fisonomia: così un uomo che gode interessandosi ad un nuovo insetto, deve avere una fisonomia diversa dall'altro che si compiace di studiare la filosofia di Leibnitz. Chi osserva estatico in un microscopio non può esprimere la stessa gioia dell'altro che contempla il moto delle stelle. Nell'analisi dei piaceri intellettuali non si possono tracciare che confini molto estesi e figure grossolane, perchè, quando si discendesse ad un'analisi più minuta, si entrerebbe, senza volerlo, nel campo della gioia dei sensi o del cuore. La patologia dei piaceri della mente è quasi sempre data dal sentimento che indirizza il lavoro della mente a uno scopo colpevole. Nel dominio della morale l'intelletto è servo del cuore, ed è uno strumento che per se stesso non ha la minima responsabilità, potendo servire a coltivare il campo del sentimento come a farlo isterilire. Il merito del lavoro mentale è sempre misurato dall'affetto che lo ispira, e per se stesso non può meritare nè premio nè pena. Questo in faccia alla morale. Per il filosofo il piacere dell'intelletto può essere morboso anche senza essere colpevole, quando, cioè, è prodotto da una facoltà difettosa nella proporzione o nella natura e quando esso offende il vero ed il bello. Tra i piaceri morbosi della mente insomma alcuni sono ammalati e colpevoli, altri possono essere ammalati ma innocenti. Infatti, si può godere nell'acquistare una cognizione pericolosa alla morale, come si può osservare con vera voluttà un'azione colpevole; ma in ambedue i casi la malattia del piacere è data dal sentimento. In altro caso si può essere divorati da una vera mania di sapere e di osservare cose piccole e di nessuna importanza; si può essere, in una parola curiosi, e allora il piacere che si prova non è colpevole, ma morboso. La curiosità può essere una leggera malattia della mente, quando lo spirito di osservazione e il bisogno di imparare degenerano in una velleità capricciosa e convulsiva di sapere le cose le più indifferenti e scipite, in un vero prurito invincibile di stuzzicare ad ogni momento il proprio intelletto colle notizie le più insulse del mondo. È questa una passioncina che non esce mai dalle proporzioni dei pigmei, ma che è esigente come un fanciullo ostinato, irragionevole come una donna indispettita, insistente e incorreggibile come una mosca. Le donne ne peccano più di noi, ma anche nel nostro sesso i curiosi non mancano sicuramente. Del resto questa malattia della mente è così leggera, che, quando non conduce a indiscrezioni e a brutali sfregi della delicatezza, si perdona facilmente.

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Ora è la casa dove siamo nati che si disegna bigia o vaporosa presso il giardino dove abbiamo tentato i primi passi; ora è un paese e una contrada, che non possiamo sentir nominare senza che il cuore batta più forte; ora è la nostra lampadina che manda la sua luce sullo scrittoio che ci ha visti curvi allo studio. I nostri libri, i nostri giuochi, i nostri parenti, gli amici nostri, tutti ci vengon davanti, tutti ci salutano e passano. Quanta gioia si prova nell'assistere a quel giuoco di ombre! Ora si scorre avidamente lo sguardo su tutto l'orizzonte e si contempla tutta l'immensità di quello spazio oscuro e silenzioso; ora si arresta l'occhio pieno di lagrime soavi su qualche ombra prediletta, che, passandoci vicina, ci ha lambito il cuore. Forse allora noi l'arrestiamo e, a lungo guardandola, le parliamo con calma o con veemenza, ma sempre con affetto intenso, ed essa ci intende e ci sorride, ma senza parlare ci saluta e poi passa. Chi ignora i tesori del passato e delle reminiscenze è privo di una delle gioie più delicate e soavi che fanno spasimare l'uomo morale. I fatti più volgari, le persone più indifferenti, i piaceri più insignificanti si elevano e si sublimano passando nel mondo della reminiscenze, dove pare che la fantasia getti il suo splendido manto per abbellire ogni cosa. È un mistero avvertito anche dai più volgari osservatori. Vi sono alcuni piaceri che abbiamo goduti con la massima indifferenza e che, richiamati poi alla mente, risuscitano una gioia più viva ed intensa. Perfino molti ineffabili dolori, quando vengono disseppelliti da uno strato molto profondo, e quando sono resi ben fossili dal tempo che tutto pietrifica, possono ridestare una malinconia soave: spesso si sentono assai più vivi i dolori sofferti che i piaceri goduti. Tutto ciò che passa attraverso lo spazio e il tempo si depura e si abbellisce: i morti diventano migliori dei vivi, i lontani più grandi dei vicini; tutto ciò che appartiene alla storia è assai più poetico di ciò che è contemporaneo. E ciò deve essere. La memoria non ci conserva che un abbozzo nebuloso e incerto dei nostri piaceri o dei nostri dolori, e la fantasia, dovendo supplire al vuoto che esiste, vi pone i suoi ornamenti più splendidi, le sue gemme più preziose. D'altra parte, tutto ciò che è incerto e che oscilla, che si indovina più che non si veda, che si presenta più che non si intenda, ha sempre una attrattiva particolare che commuove e seduce. Le gioie della memoria intellettuale servono a perfezionare questa facoltà. L'abuso isterilisce la fabbrica delle idee: accumulando troppi materiali, non si lascia più spazio all'officina del pensiero. Vi sono molti eruditi che non hanno mai pensato un'idea che non avessero rintracciata in qualche autore. Essi però, quando sappiano fare buon chilo delle materie che trangugiano, possono essere utili alla società. I piaceri della reminiscenza ravvivano la fantasia, e fanno nascere un culto per il passato, il quale va quasi sempre accompagnato a gusti delicati e gentili. Sono piaceri però che possono andar congiunti all'egoismo, e che si misurano più dalla perfezione dell'intelletto che dalla squisitezza del cuore. Il vecchio dovrebbe goderne più degli altri, perchè ha maggiori tesori da conservare; ma il giovane, avendo una sensibilità più squisita e una fantasia più fervida, li gusta sicuramente con maggiore intensità.

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Oggi abbiamo dato un giro alla manovella che serra le nostre passioni, domani ne daremo due, poi tre, poi quattro; si arriverà in certi casi a una vera rabbia convulsa di volere tutto ciò che è difficile, di sentirci padroni di tutte le nostre facoltà. Vi sono momenti per gli uomini di ferrea volontà nei quali essi si sentono sovrani dispotici di se stessi e, quasi serrassero in pugno il cuore e il cervello, godono di un vero spasimo, pensando che con uno stringere o un allentare di palme possono soffocare il cuore o lasciarlo palpitare gonfio di vita, possono far tacere il pensiero o abbandonarlo alla più spontanea e tumultuosa attività. Difficilissimo però è il non abusare della volontà, quando essa ci è concessa dalla natura robusta e prepotente. Si può cominciare con la più innocente ostinazione, o coi giuochi più comuni del volere, e si può finire colla tirannia più feroce esercitata sopra sè o sopra gli altri. In questi casi si diventa adoratori maniaci della propria forza, e, dimenticando che essa non è che uno strumento accordatoci per pervenire al bello, al buono e al vero, si rende la volontà scopo a se stessa. Si immaginano gli sforzi più straordinari, si tentano le prove più ardite di ginnastica morale, e si arriva a comandare a se stessi l'amore o l'odio, il riposo o il lavoro, la virtù o il vizio. Questi atleti della volontà, quando dànno una direzione unica alla forza che si sviluppa in essi, possono arrivare ad una straordinaria altezza, sia nel vizio come nella virtù. Il governo della loro mente si riduce a un principio che domina sovrano e che comanda a tutte le facoltà soggette per mezzo della volontà. Tutti i sentimenti, dai più generosi ai più vili, tutti i poteri intellettuali non possono agire per propria ispirazione. Una delle forme morbose più frequenti della volontà è l'ostinazione. In questa malattia l'uomo esercita un grande sforzo di volontà per un'azione che non lo merita, e continua a volere anche quando la ragione o il dovere dovrebbero persuaderlo a mutar d'avviso. Nei piaceri ch'egli prova entra quasi sempre l'esercizio di una lotta, o una sodisfazione colpevole dell'amor proprio. In ogni caso l'ostinazione è sempre un aborto o una forma mostruosa di una potenza nobile e generosa, e va quasi sempre unita, all'ignoranza o alla vanità. In alcune forme di capricci, che riescono tanto cari ai fanciulli e alle donne, entra sempre, come elemento principale un abuso della volontà, e la fisonomia di queste gioie, a differenza delle altre che spettano alla stessa famiglia, presenta un carattere meschino nel quale entrano sempre un dispetto e un piacere. I piaceri fisiologici della volontà sono meglio gustati dall'uomo, giovane o adulto. Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.

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In questa gioia entra sempre una dose più o meno grande di malignità, o di quell'odio diluito di cui abbiamo parlato a proposito del piacere di far dispetti. Un altro elemento costante di questi piaceri è l'esercizio del pensiero che immagina la fandonia, ciò che in alcuni individui costituisce quasi l'unica sorgente di gioia. Essi diventano allora artisti della frottola, che si propongono con le loro invenzioni di far bere il più grosso possibile al maggior numero di individui.

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Così tutte le vanità meschine e le goffaggini dell'amor proprio ci possono far ridere di tutto cuore, perchè ci presentano un'immagine morale che contrasta in modo particolare coi sentimenti del bello, del buono o del vero che abbiamo in noi. Un cozzo più forte delle immagini produrrebbe un dolore, mentre essa offende. Vi sono alcuni casi nei quali, senza contrasto e senza deformità, il vellicamento di un solo affetto basta a farci ridere. Quando noi, ad esempio, ci proponiamo di fare una celia a un nostro amico, al pensiero di quanto capiterà ci mettiamo a ridere da soli, perchè stuzzichiamo con una innocente e piccola sodisfazione il sentimento del male, e produciamo ancora un solletico. Può darsi che l'idea dell'amico corbellato si presenti nello stesso tempo alla nostra mente; ma non è necessaria per farci ridere: il solo progetto riesce ridicolo. La sorgente più feconda del ridicolo nasce però dalle idee che seguono le sensazioni della vista, e che vellicano il sentimento del bello senza offenderlo. Le caricature della natura e dell'arte, le bizzarre combinazioni delle forme, possono costituire una raccolta infinita di varietà ridicole. Anche l'udito può procurarci molti piaceri di questa natura, e in qualche rarissimo caso lo possono anche gli altri sensi; tanto meno, però, quanto più si avvicinano al tatto. Il ridicolo è un ente morale che nasce da un esercizio tutto particolare della mente e del sentimento, ed è più facilmente sviluppato dal senso più ideale, che è quello della vista; meno dal più materiale, che è quello del tatto. Anche gli errori possono, vellicando il sentimento del vero, riuscire ridicoli, sopratutto quando non sono nostri. In ogni caso l'azione deve esser improvvisa e possibilmente nuova. La rapidità e la novità della sensazione sono elementi che ravvivano in un modo straordinario il ridicolo, e talvolta bastano quasi da soli a risvegliarlo. Precisamente come per poter ridere al solletico tattile bisogna trovarsi in uno stato di leggero eretismo nervoso; così per poter ridere di una caritura o di una goffaggine bisogna avere la sensibilità morale in uno stato particolare che non tutti gli uomini posseggono, e che non si ha sempre nello stesso grado. Alcuni eletti hanno una tale sensibilità per il ridicolo, che lo trovano in ogni oggetto, e lo fanno scaturire ad ogni passo come da una fonte misteriosa. Esempi numerosi ci sono offerti dai caricaturisti, che scoprono il lato ridicolo anche dove parrebbe inesistente. Spesso però questo ridicolo ch'essi scoprono in ogni cosa, non riesce sensibile che ai loro nervi, mentre se hanno spirito, creano veramente un ridicolo nuovo che può esser tale per tutti e che può risvegliare il solletico morale negli uomini anche più seri. Vi sono autori ed artisti che sono maestri in questa manipolazione del ridicolo, dalla quale traggono spesso il pane della vita, e qualche volta anche la gloria. I piaceri del ridicolo non bastano sicuramente a far felice un'esistenza, ma possono distrarre dalle cure e dalla noia; e qualche volta, suddividendo in intervalli infinitesimi la stoffa più volgare della vita, valgono a renderla brillante di scintille. Alcuni cercano il ridicolo con una vera passione, perchè ne traggono facili piaceri, e perchè la loro ricerca serve ad occupare il tempo. L'abuso però di questi piaceri tende a render l'uomo frivolo e leggero. In generale, chi può elevarsi alle gioie superiori dell'intelligenza e del sentimento, non cerca questi piaceri, e non se ne rallegra che quando li trova a caso sul sentiero della vita. L'opinione pubblica può servirsene come di un'arma terribile per educare e condannare. Il ridicolo può bastare ad uccidere un individuo, un vizio, una casta; esso stronca ed abbatte come un colpo di fulmine, d'un tratto, anche ciò che pare più serio e più resistente. Abbiamo già veduto come questi piaceri riescano meno vivi nell'età matura e nel sesso virile. La mobilità sensitiva della donna e del fanciullo li rende molto atti a sentire l'influenza del minimo solletico morale. Fra tutti i popoli della terra, senza dubbio, il francese è quello che ha una maggior sensibilità per il ridicolo; per cui ne fa oggetto importante di commercio. La gioia prodotta dal ridicolo può essere morbosa quando si fonda sul dolore altrui. Chi ride vedendo cadere un galantuomo, o si compiace di tutte le piccolo sventure che diventano grandi per l'associazione del ridicolo, prova certamente un piacere colpevole. L'azione del ridicolo però è qualche volta così fulminante, che non si può difendersene assolutamente e bisogna ridere anche quando la morale ci comanderebbe di tenerci seri o di mettere il broncio. Qualche volta noi non siamo colpevoli di provare un piacere che nasce da un ridicolo doloroso; ma lo diventiamo nell'esprimerlo. Un povero diavolo può essere così malconcio dalla natura, la quale ne ha voluto fare un mostro, che noi non possiamo difenderci dal trovarlo ridicolo; ma non possiamo, senza diventare crudeli, ridergli in faccia.

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In questo lavoro, però, non potendo percorrere che un'unica strada, si è scelta quella dell'analisi, più lunga e viziosa, e perciò più opportuna per fermarci più a lungo nelle regioni che abbiamo impreso a studiare. Ma ora, prima di prendere commiato da voi, vi farò ammirare per un istante la magnifica strada maestra della sintesi, la quale, diritta e maestosa, fa percorrere nel più breve tempo possibile il grande viaggio.

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Il piacere, come abbiamo già visto, è un fenomeno nel quale si produce una forza che diffondendosi lungo le fibre sensibili dal punto in cui si sviluppa primitivamente, trae in azione gli apparati ai quali si distribuisce. È in questo modo che abbiamo coscienza dei piaceri che noi stessi godiamo, e possiamo leggere sul volto dei nostri fratelli, e anche degli animali, il piacere che essi provano. I segni sensibili, coi quali si esprime il piacere, formano i suoi lineamenti o lo scheletro anatomico della sua fisonomia; mentre la parte che prendono le facoltà morali nell'espressione del fenomeno costituiscono la fisonomia viva, che si dipinge sopra il fondo invariabile e fisso dei lineamenti anatomici. Gli elementi anatomici di qualunque espressione del piacere sono i nervi e i muscoli, i quali vengono mossi in vario modo secondo la natura delle correnti che arrivano ad essi a mezzo dei nervi motori dei centri nervosi. Nessun movimento però è caratteristico delle sensazioni piacevoli, e la natura specifica non risulta che dal modo di concorrere e di accordarsi dei vari elementi. Il piacere può esprimersi col riso o col pianto, coll'elevarsi degli angoli della bocca o colla perfetta immobilità delle labbra, col moto il più diffuso e il più sfrenato, o colla calma più completa. Noi però sappiamo distinguere con un semplice sguardo le infinite gradazioni di un sorriso, e possiamo a prima vista sorprendere un raggio di luce che brilla in un velo di lacrime. La serie infinita dei piaceri può quasi tutta esprimersi col semplice brillare e muovere dell'occhio. Le gioie vivaci e intellettuali, in generale, lo rendono lucidissimo, più aperto e più mobile; mentre le voluttà più intense dei sensi lo fanno languido, incerto o anche fisso, finchè nei gradi maggiori lo nascondono interamente sotto il velo delle palpebre. Gli affetti più delicati si esprimono tutti con innumerevoli gradazioni di movimenti in basso, in alto, a destra, a sinistra; e qui è veramente meraviglioso l'osservare come nello spazio da poche linee possa contenersi tutta l'immensa varietà delle passioni umane dall'odio all'amore, dall'invidia al perdono, dal fuoco più ardente della passione al tepore più freddo dell'indifferenza. L'occhio nel lampo di un secondo esprime un'immagine che l'artista deve impiegare lunghe ore a rappresentare, e che il filosofo deve studiare lungo tempo per poterla incompletamente analizzare. L'occhio concorre ad esprimere il piacere anche con la secrezione delle lacrime, le quali non mancano mai nei gradi maggiori delle gioie del sentimento. La lacrima che scende sulla guancia di una madre commossa nell'abbracciare il figlio restituito alla salute da una pericolosa malattia, ha la stessa composizione chimica di quella che spunta nell'occhio di un cuoco che taglia una cipolla: è secreta dalla stessa ghiandola, ha la stessa forma, lo stesso colore; ma la prima brilla di una luce morale misteriosa che, riflessa nella nostra coscienza, ci commuove ad una purissima gioia, e forse ci ispira a un soave pianto. Quest'espressione di gioia è una delle più soavi. Forse il misterioso fatto di un fenomeno che serve ad esprimere a un tempo la gioia e il dolore, ci sorprende e ci trasporta, senza che ce ne accorgiamo, in quelle purissime regioni del mondo ideale, dove gli estremi opposti si riuniscono in una armonia meravigliosa. Tutti i muscoli della faccia concorrono ad esprimere il piacere con infiniti movimenti. Il naso, nella sua stoica impassibilità, rimane fedele alle sue abitudini e sta immobile; ma la bocca si muove più d'ogni altra parte, piegando i suoi angoli al sorriso, uno dei modi più semplici con cui si rappresenta il piacere. Dopo quelli della faccia, i muscoli che nel piacere si risentono più spesso sono quelli del collo e del tronco; seguono quelli delle braccia e delle mani, e gli ultimi a entrare in azione sono quelli delle estremità inferiori. Si intende sempre che questo vale in regola generale, e che le eccezioni sono numerose. Una delle fisonomie muscolari più elementari è quella costituita dal battere delle mani, che con l'applauso manifestano un consenso piacevole, e dal fregarsi le mani l'una contro l'altra, il che forma un segno quasi caratteristico del buon amore e dell'allegria. I moti più complicati sono il salto, la corsa, il ballo, e infiniti altri atti più bizzarri e più rari. Tutti ricordano che quando il Davy scoprì il potassio, ne provò tanto piacere che si mise a ballare in mezzo al laboratorio. Una delle fisonomie più caratteristiche del piacere è il riso, costituito da una espressione prolungata, interrotta e rumorosa, nella quale il diaframma è preso da una vera convulsione. A questo fatto fondamentale si associano poi nei diversi casi il brillar degli occhi, il muoversi dei muscoli della faccia e l'agitarsi di tutta la persona. Il riso più modesto è formato da un sorriso, e cioè dall'elevarsi lieve degli angoli della bocca, dall'aprirsi alquanto delle labbra, dal mostrarsi dei denti e da una sola espirazione prolungata. Se questo si ripete e gli angoli della bocca si alzano e si abbassano convulsivamente, il riso cresce di intensità, finchè la lieta convulsione diventa tanto forte che il respiro è interrotto, l'espirazione riesce difficile, e i poveri visceri del venire; agitati continuamente dalle scosse rabbiose che loro comunica il diaframma, recano disturbo e la mano pietosa corre a proteggerli da tanto eccesso di moto. La circolazione viene pure disturbata, e il volto si fa rubicondo, mentre gli occhi divengono lacrimosi per puro fenomeno meccanico; talvolta si prova un forte dolore all'occipite. Il riso ne' suoi massimi gradi può riuscire pericoloso. Il minimo male che può produrre è quello di farci bagnare con la nostra orina, o di far nascere un dolore di ventre passeggero, mentre può arrivare a produrre la morte coll'apoplessia cerebrale, collo scoppio di un'aneurisma, o con la rottura di qualche viscere. Il riso ridotto ad una formula elementare è una vera scarica nervosa che, per il modo improvviso con cui scocca, trae in convulsione il diaframma ed altri muscoli secondari; è una valvola di sicurezza, con la quale si dà sfogo all'eccesso di forza che non può essere rattenuta. Quando il piacere dura a lungo, e sale a poco a poco di grado, può arrivare alla massima intensità senza produrre il riso, mentre un piacere di minimo grado può far uscire ad un tratto nello scoppio più fragoroso. La natura però del piacere esercita a questo riguardo un'influenza molto maggiore della sua intensità, e il riso è l'espressione più naturale di una classe particolare di piaceri intellettuali che, come abbiamo già veduto, spettano al mondo bizzarro del ridicolo. Lo spasimo più voluttuoso di un amplesso ci fa appena sorridere, mentre la vista di una caricatura ci può fare scompigliar dalle risa. Il singolare si è che vi sono alcune sensazioni, mancanti affatto di elementi intellettuali superiori, che ci trascinano con prepotenza al riso; ciò che si osserva nel solletico. Pare che in questo caso il fenomeno si riduca ad un moto riflesso prodotto da una irritazione di indole specifica.

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La razze sono creazioni della mente umana, le specie sono proposte eterodosse; ma sulla terra noi non abbiamo nè razze, nè specie, ma famiglie; e queste per molti caratteri comuni formano gruppi naturali, nei quali le forme esterne, il cranio, e, più d'ogni altra cosa, il diverso sviluppo delle forze intellettuali e morali devono servire di base alla distribuzione naturale. I piaceri differiscono assai nelle diverse razze, non solo nel grado in cui sono goduti, ma anche per il diverso modo con cui ne viene espresso il godimento. Le razze americane esprimono le loro gioie con pochissimi segni, e riesce all'europeo assai difficile il leggere su quei volti impassibili i lineamenti del piacere e del dolore. All'estremo opposto, i negri hanno una mobilità grandissima di fisonomia, e ad esprimere i piaceri fisici e le gioie del cuore si servono delle loro estremità come di telegrafi aerei, corrugando e contorcendo in mille modi i muscoli della loro faccia lucida e oleosa. Il loro riso è un vero schiamazzo fragoroso che arriva qualche volta ad un grido selvaggio. La coscienza fisica di esistere è in queste razze nel massimo grado di intensità, e il loro vivacissimo sghignazzare rammenta le scimmie, che sotto fra le più allegre creature del regno animale; e tanto più lo sono, quanto meno intelligenti. Triste mistero! Gli animali che più si avvicinano all'uomo sembrano farsi più tristi; mentre l'uomo ride del riso più giocondo e rumoroso quanto più si avvicina alle bestie. Le razze di alto sviluppo intellettuale, dimostrano i loro piaceri con una fisonomia ricchissima, ma meno vivace o meno espansiva. I muscoli prendono poca parte alla fisonomia, ma il difetto è ricompensato ad usura dall'intelletto. Ho veduto l'ubriachezza in molte nazioni d'Europa, negli Indiani Payaguas dell'America meridionale e in molte tribù negre dell'Africa, e ho sempre osservato il fatto costante, che l'espressione del piacere è più vivace e più rumorosa quanto più debole è lo sviluppo della intelligenza.

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Siccome però il cuore ci insegna che il piacere non deve essere l'ultimo e unico scopo della vita, noi non abbiamo il coraggio di confessare la nostra fame ingorda di gioia, e, mentre con tutti gli sforzi dai tempi di Adamo fino a noi si lavora e si suda per accrescere il numero e la squisitezza dei piaceri, l'umanità pudica non ha ancora formato una parola per esprimere l'arte del piacere. Di mezzo alla nostra miseria questo tratto di delicatezza ci onora altamente, provando che, se non sappiamo raggiungere l'alta cima della perfezione, sappiamo però guardarla e, sopra tutto, rispettarla. La gloria più grande nell'arte del piacere è la musica, la quale si può dire veramente creata dall'uomo, perchè in natura non si può parlare di armonia e di melodia, sebbene esistano i suoni e i canti di mille cose diverse. Quest'arte divina deve essere messa al disopra delle altre, perchè produce i più vivi piaceri, e perchè è intesa da tutti, sebbene dal lato della perfezione ideale essa debba cedere ai capolavori dell'ingegno umano, alle produzioni della poesia e della filosofia. Tutte le altre belli arti producono parimenti nuovi piaceri; ma in esse l'imitazione entra sempre più della creazione. Il più bel quadro e la statua più stupenda sono sempre copie di un oggetto che esiste o che può esistere; mentre una composizione musicale è un vero prodotto della mente umana, una creazione. Alcuni preferiscono sicuramente la pittura o la scultura alla musica; ma la musica sola è una lingua intesa da tutti, e da quasi tutti parlata o balbettata, perchè essa è il linguaggio che esprime il sentimento.

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Nei giuochi nei quali la vittoria non si deve che al caso, si ha pur sempre la gioia della fortuna, della quale pur troppo abbiamo, così nelle piccole come nelle grandi cose, la vanità di compiacerci. Il secondo elemento, che è quasi indispensabile come il primo per produrre il piacere nel giuoco, è il lavoro facile che ci riposa o ci distrae, e che, in ogni caso, non ci fa sentire il peso insopportabile di un ozio perfetto. Si è già analizzato questo piacere parlando del tabacco. La formula più semplice che rappresenta tutti i giuochi è costituita da due elementi, cioè da una piccola compiacenza dell'amor proprio e dal piacere di far qualche cosa senza fatica, cui bisogna aggiungere i piaceri della curiosità e del guadagno. La curiosità entra in quasi tutti i giuochi come elemento produttore del piacere, ma non è così necessaria come si crede. Si può giuocare con piacere anche quando si è sicurissimi di vincere, e, in qualche caso, anche quando si sa di perdere. E qui non si ha contradizione, perchè nel giuoco l'uomo che perde senza dolore prova sempre la compiacenza di sentirsi generoso, anche quando non pone mente a questo rapido esame di coscienza. L'amore del guadagno può essere del tutto escluso dalle passioni più o meno piccine che lottano fra loro in ogni giuoco, ma quando vi entra, acquista quasi sempre tanta preponderanza da far da padrone. Insieme all'amor proprio costituisce le emozioni più violente del giuoco, ma quasi sempre le sorpassa di gran lunga, sicchè bene spesso da solo viene ad occupare tutto il campo delle gioie del giuoco, il quale allora diventa un terreno di lizza, ove gli eventi di una lotta tempestosa e violenta costituiscono una gioia aspra e agitata, che può arrivare in qualche caso ad un vero delirio. Allorchè il bisogno di provare le vive emozioni del giuoco cresce al grado di passione, ci procura piaceri morbosi, i quali offendono l'estetica morale, quando non ci conducono alla colpa gravissima di dimenticare per esso i doveri più sacrosanti. Si cercano nel giuoco le emozioni; ma queste non si potrebbero avere, se non si avesse un vivo desiderio di guadagnare e un'orribile paura di perdere, e se la speranza ed il timore, alternandosi a brevissimi intervalli colle sconfitte e colle vittorie, non si agitassero continuamente. Può darsi che il guadagno non sia il primo scopo del giuoco, ma è pur sempre vero che a produrre la gioia si adopera sempre un fermento vizioso, una passione bassa o colpevole. Se sopra il telaio costituito dai piaceri dell'amor proprio, dell'occupazione facile, della curiosità e dell'amor del guadagno si tessono tutte le combinazioni dei piaceri del tatto e della vista, dei sentimenti sociali e dell'esercizio di alcune facoltà mentali, si vengono a costituire le formule che rappresentano le gioie di tutti i giuochi conosciuti. Senza entrare in molti particolari, i giuochi, secondo il piacere che in essi predomina, si possono classificare così: Giuochi nei quali predomina il piacere del guadagno e di essere sbattuti dalle rapide e continue oscillazioni segnate dalla fortuna (giuochi d'azzardo); Giuochi nei quali predomina la compiacenza dell'amor proprio, la quale si fonda sopra un'abilità intellettuale (scacchi, dama, ecc.); Giuochi che devono la loro prima attrattiva all'esercizio muscolare e dei sensi, e all'amor proprio che deriva dalla compiacenza di esser più o meno esperti (bigliardo, palla, birilli, bersaglio, bocce, ecc.); Giuochi nei quali la fortuna si combina coll'abilità, sicchè, non potendo misurare l'influenza che esercitano sull'esito questi due elementi, il vincitore può prendersi tutto il merito della vittoria, e il vinto ha un certo diritto di accusare la fortuna e di difendersi dall'umiliazione di non aver saputo vincere. Questi giuochi sono numerosissimi appunto perchè si adattano tanto mirabilmente alle esigenze dell'amor proprio (tarocco, scopa, tresette, domino, ecc.). Oltre queste classi principali se ne potrebbero fare altre secondarie formate dalle combinazioni di diversi piaceri. Oltre i giuochi propriamente detti, vi sono molte occupazioni, che non furono primitivamente immaginate al solo scopo di produrre un piacere, ma che possono benissimo servire a questo scopo. Così si hanno la caccia, la pesca, le passeggiate, i viaggi, il teatro, il ballo e infinite altre occupazioni. A questi possono aggiungersi tutti i ludi sportivi, specialmente quando non si considerano come esercizi, ma si praticano come semplici svaghi, come il pattinaggio, gli ski, il nuoto, il calcio, il tennis, la palla ovale, l'alpinismo e via dicendo.

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Nè basta ancora: si possono qualche volta accumulare pochi capitali, dopo ostinate lotte e difficili vittorie riportate sul desiderio; ma noi abbiamo a sopportare le mille avarie e i mille danni ai quali va soggetta la felicità, il più delicato e il più volubile dei capitali che mai si possano possedere. Quando la felicità non è malata, è una delizia il contemplare la freschezza del suo colorito e l'ammirarne l'amabile vivacità; ma la sua salute è così precaria e cagionevole, che ben di rado si può godere di questo spettacolo soave. Le malattie che attaccano la felicità sono infinite; alcune vengono dal di fuori di noi, altre nascono in noi. Le prime sono costituite dai dolori che ci arrecano gli altri, per propria colpa o senza una colpa al mondo, ad esempio sia mostrandosi ingrati verso di noi, sia morendo, sia riverberando in noi il riflesso dei loro affanni; le seconde sono date dai malanni fisici del nostro corpo e dalle delusioni morali. Vi è un mezzo colpevole adoperato da alcuni per preservare la felicità da tutte le malattie contagiose che vengono dal di fuori, e consiste nel farle prendere ripetutamente un bagno di egoismo; ottimo fra tutti i mezzi che preservano dal dolore. Anche questa vernice però, per quarto impermeabile, non ci può difendere dai mali fisici, e d'altronde essa riesce tanto spiacevole, che nessuno osa avvicinarsi a questa felicità imbalsamata dall'egoismo. Dopo ciò potete comprendere facilmente perchè sembri teoricamente tanto facile l'esser felice, e perchè mai non vi si riesca. In ogni modo, per aspirare almeno ad un posto qualunque nel santuario dei felici in terra, bisogna, per prima cosa, prendere per amministratore dei propri fondi un desiderio già vecchio e prudente. Tutte le fatiche che dovremo durare nel far questa scelta ci saranno largamente compensate, e potremo aspettare senza rimorsi prima di deciderci alla scelta. Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Noi che, sottoponendo al microscopio e a reattivi chimici il nervo di una rana per cui passa una corrente di dolore tetanico, non vi sappiamo scorgere alcun cambiamento materiale, non abbiamo il diritto di rifiutarci a credere che il pistillo possa vibrare alle oscillazioni del piacere nel ricevere il polline fecondatore. In quel momento d'amore i fiori respirano come gli animali, e sviluppano correnti di calore e fors'anche di elettricità; e perchè il soddisfare al più prepotente fra i bisogni organici non sarà sentito e goduto? Lo stame della loasa sente l'organo femmineo e gli s'avvicina; le piante tutte sentono la luce e la cercano, e dovunque c'è sensazione v'è piacere e dolore. Fra gli organi del senso nei vegetali e i nervi degli animali passa forse la stessa differenza che si scorge fra le trachee e i polmoni, fra la clorofilla e i globuli del sangue, fra l'olio e l'adipe, fra un'antera ed un testicolo, ma l'organo non deve mancare, dacchè la funzione esiste.

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Dall'analisi minuziosa e particolareggiata, a cui abbiamo fatto seguire la sintesi relativa, risalta evidente che il piacere non è altro che uno stato di sodisfazione, di compiacimento ed anche di godimento, procuratoci da una impressione esterna o da un eccitamento interiore. Abbiamo visto che il piacere non è da considerare soltanto quale prodotto della sensibilità fisica, e abbiamo potuto constatare che i godimenti più intensi e più nobili esulano dall'animalità pura e semplice, per assurgere al campo spirituale, in cui primeggiano il sentimento e l'intelligenza. Pertanto, la dignità umana e la stessa nostra natura complessa, che ci fanno superiori agli altri esseri viventi; il grado di civiltà da noi raggiunto, e la raffinatezza e nobiltà del nostro sentire, non possono che elevarci dal campo della sensualità, procurarci i maggiori piaceri interessando direttamente e più intensamente il cuore e la mente. Non è il caso, però, di macerare il corpo e assoggettarlo alle più severe astinenze, per darsi alle pratiche ascetiche, nell'aspirazione dello spirito alle beatitudini di una vita puritana o di quella ultraterrena. E ciò perchè non è consigliabile nè possibile scindere e separare i tre aspetti della sensibilità umana: senso, sentimento e intelletto; e soprattutto perchè non si può troncare la piena coordinazione e associazione fra le sensazioni derivanti da impressioni materiali, e quelle di origine intellettuale e morale. Come l'individuo è unico per costituzione fisica dell'organismo, così lo è pel suo sistema nervoso, e un piacere non potrà mai essere esclusivamente fisico, senza interessare, più o meno direttamente, anche gli altri due rami della nostra sensibilità. Perciò, dicendo di elevarsi dal dominio dei sensi, non significa affatto rinunciare ai piaceri che essi possono procurarci; e ciò tanto più, in quanto la natura stessa ce li ha elargiti largamente, per la preservazione e la riproduzione della specie. Ma poichè i piaceri fisici sono comuni a tutti gli esseri, sino ai bruti e ai tipi primordiali monocellulari, non si vorrà che l'uomo, posto dalla natura al sommo della scala dei viventi, si abbrutisca lasciandosi vincere dai piaceri dei sensi, quando può trovare le più gradevoli e le più vive sodisfazioni coltivando i sentimenti sgorganti dal cuore, ed elaborando i tesori che la mente raccoglie con lo studio e la osservazione. È da ritenere pertanto che i piaceri fisici non possono, nè debbono essere trascurati, perchè essi rappresentano lo stimolo al lavorio dei sensi, che reggono in pieno l'organismo, provvedono alla conservazione della specie, procurano materiale all'intelletto, dànno alimento alle passioni; ma essi debbono essere opportunamente moderati, perchè ogni loro eccesso debilita il nostro corpo, affievolisce la nostra resistenza, demoralizza il nostro spirito. Un giusto e saggio equilibrio fra i piaceri dei sensi, dell'intelletto e del sentimento farà l'uomo sempre più disposto a godere quello stato di benessere morale, che potrà portarlo verso la felicità, per quanto essa possa essere più o meno intensa, più o meno prolungata, secondo le varie vicende e vicissitudini della vita.

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La costituzione organica, che abbiamo fin dalla nascita, come influisce su tutti gli atti della vita, così pure impronta d'un marchio speciale la natura dei piaceri venerei. A questo proposito però non si possono fare che induzioni più o meno probabili. In generale si può dire che i piaceri sono maggiori quanto più vive sono la sensibilità e l'intelligenza, e quanto più forte è l'istinto sessuale. I primi due elementi esercitano però l'influenza massima, per cui un individuo dotato del temperamento erotico più sviluppato, ma di sensi ottusi, gode assai meno di un altro che prova tutte le sensazioni in un modo più intenso e ha facoltà intellettuali molto lucide, una coscienza delicatissima per intendere ciò che sente, e analizzare le infinite gradazioni del piacere. Gli individui di temperamento nervoso, quelli dotati di pelle fina e bruna, di forme rotondette, di labbra grosse, con la laringe molto prominente, godono in generale molto più degli altri che hanno tali caratteri opposti. A questo proposito però ho notato un'eccezione: alcuni esseri sensibilissimi non arrivano che rare volte, e dopo una lunga esperienza ai gradi massimi del piacere; giacchè, non potendolo tollerare quando per la soverchia sua forza conduce ad un vero delirio, contraggono spasmodicamente i muscoli degli organi genitali e l'ejaculazione avviene senza piacere, forse per la compressione che viene in questo modo esercitata sopra alcuni filamenti nervosi. Una credenza assai diffusa ritiene lascivi i gobbi, i nani e, in generale, gli individui di piccola statura e di lungo naso. Sebbene questa asserzione non sia scientificamente provata, pure si verifica molte volte che questi individui abbiano organi genitali sviluppatissimi; per cui è probabile che i loro piaceri siano più intensi, qualora però essi siano dotati d'una più intensa sensibilità. La facoltà di generare non è concessa che alle età più vigorose della vita, quando l'organismo sviluppa forze molto superiori a quelle che basterebbero a conservare l'individuo, ne consegue perciò che i piaceri venerei debbono essere propri dell'età feconda, e quindi più vivi nel periodo della massima forza. Nei primi tempi della pubertà e nei primi anni della giovinezza i piaceri sono in generale più intensi, ma assai meno delicati; mentre negli anni seguenti, fin verso il quarantesimo, l'esperienza e il bisogno di ravvivare con un certo artificio sensazioni intiepidite dall'abitudine, rendono i piacerj più squisiti. Nel mezzo di questa età, quando l'ardore dei desideri giovanili si associa ad un certo stadio di lussuria, questi piaceri sono della massima potenza. Questo avviene in generale fra il ventesimo ed il trentesimo anno.

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Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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Così, quando nella calda estate beviamo con delizia l'acqua ghiacciata, o sentiamo fondersi nell'arsa bocca la neve mollissima e granulosa d'un gelato, noi abbiamo il massimo piacere dalla sensazione tattile del freddo e non già dal sapore; mentre di rado possiamo trovare piacevole un cibo per la sola ragione che è caldo. Bisognerebbe portarsi fra i ghiacci della Siberia, per sentir forse il piacere nel bere una tazza d'acqua tiepida. Se però la variazione della temperatura non può da sola produrre una sensazione piacevole, essa concorre indirettamente a rendere più variati e più intensi i piaceri del gusto. Ciò avviene per due ragioni: e perchè i nervi vengono dal calore del cibo indotti in uno stato di iperstenia di senso; e perchè la temperatura, tendendo ad allontanare le molecole dei corpi, ne diminuisce la coesione. In ogni modo, tutti sanno come l'arte di riscaldare le vivande sia una parte essenziale della gastronomia, e come uno stesso cibo e una stessa bevanda possano cambiare di sapore secondo il grado della loro temperatura. Basterà a questo proposito rammentare la differenza di sapore che passa fra il latte tiepido e il latte freddo. Un secondo elemento fisico che contribuisce alla produzione dei piaceri del gusto è lo stato liquido o solido degli alimenti. La sensazione piacevole prodotta da una bevanda è molto più semplice e uniforme di quella che si ha da un alimento solido. I piaceri del bere sono più fugaci e più delicati, ma meno elevati di quelli del mangiare. Bevendo, noi riposiamo i muscoli, e, intenti languidamente a raccogliere una sensazione che ci si offre tanto spontanea, proviamo la voluttà di un piacere che non ci costa alcuna fatica. Tull'al più ci accontentiamo di soffermare alquanto la bevanda nella bocca. Se si potesse fare una statistica complessiva dei piaceri del gusto provati da un'intera generazione, si troverebbe che quelli del bere superano di gran lunga quelli del mangiare. Alle bevande appartengono gli alcoolici, il caffè, il thè, il mate, il guaranà ed altre sostanze meno note, che formano una classe speciale di alimenti, fattori possenti della civiltà dei popoli. L'analisi dei piaceri infiniti che ci vengono forniti da queste bevande ci trarrebbe a parlare dei piaceri del sentimento e dell'intelletto, perchè esse estendono la loro azione su tutto il campo delle facoltà umane, entrando come cifre formidabili in tutte le formule che rappresentano le questioni dalle più volgari ai problemi più astrusi della vita sociale. Il vino è il sovrano legittimo della legione innumerevole degli alcoolici, quello che tutti li rappresenta nei tesori di voluttà che ci porge, dallo spumoso champagne all'austero succo delle vigne d'Oporto; dal liquido vulcanico dei grappoli cresciuti sulle lave del Vesuvio ai vini togati di Malaga. I piaceri che noi custodiamo gelosamente nelle nostre cantine spettano al gusto, ma sono elevati al massimo grado dalle gioie che tengon dietro allo svuotamento delle bottiglie, come vedremo appresso. Il caffè, invece, col thè suo fratello minore, sorride di pietà e di disprezzo ai garruli e rubicondi alcoolici, mostrando loro in aria di trionfo il nobile corteggio di piaceri che lo accompagna. Il delizioso profumo di una tazza di Moka ridesta il cervello ad una vita calma e operosa. I nervi trasmettono sensazioni più vivaci e più intense, e la mente ad ognuna di esse crea pensieri sopra pensieri. La fantasia agita il suo portentoso caleidoscopio, creando immagini sopra immagini; e la coscienza, riflettendo nel lucidissimo suo specchio tutti i moti della mente e del cuore, rende l'uomo superbo di se stesso. Queste gioie però non sono di tutti, come quelle che si trovano nel fondo d'una bottiglia; e moltissimi non hanno mai sognato che il caffè possa dare altri piaceri, oltre quelli del suo sapore e di una facile digestione. Il mate preparato coll'infusione delle foglie abbrustolite dell'Ilex paraguayensis è una bevanda tonica e stimolante che forma la delizia degli abitanti del Rio de la Plata e del Paraguay e che, con frequenza molto minore, viene usata anche nel Brasile, in Bolivia e sulle coste dell'Oceano Pacifico. Questa bevanda, che contiene una grande quantità di caffeina, oltre a produrre un piacevole eccitamento dei sensi e dell'intelligenza, per il modo cui si succhia e si riprende ad ogni istante, porge molti piaceri accessori, mantenendo viva la conversazione, allontanando la noia e, più che altro, riunendo in un'atmosfera comune di sensazioni le diverse persone che si trovano assieme. L'Europeo ripugna spesso da questo comunismo illimitato di bocche, che succhiano da un unico recipiente con un'unica cannuccia d'argento, e rifugge da un piacere che spontaneamente ci richiama all'epoca beata del latte e miele, in cui la diffidenza e il timore di terribili malattie non avevano ancora bandito dalla mensa la tazza comune. Io confesso però che vedrei con dolore abbandonare dalle nazioni americane la cannuccia del mate per vederlo versare fumante in eleganti tazze di porcellana. Il guaranà, fatto coi frutti della Paullinia sorbilis, era una bevanda aristocratica, riservata, per il suo alto prezzo, ai ricchi del Brasile e della Bolivia. Ma ora è più largamente diffusa. Si prende fredda e zuccherata; ha sapore piacevole che rammenta i lamponi e il cioccolatte; scuote l'inerzia e il sonno, dispone ai lavori intellettuali e alle gioie dell'amore.

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Se per caso si trovano alla stessa tavola due o tre persone, ma ognuna mangia per conto suo, noi abbiamo un desinare composto, il quale potrebbe essere abbellito dalla conversazione, ma che non costituisce ancora un fatto morale. Questo non si ha che quando più persone, strette fra loro dai vincoli della famiglia o dell'amicizia, si riuniscono ad un solo desco per mangiare assieme. Allora si ha un vero svago complesso, una vera festa, nella quale i piaceri del senso si associano in mirabile accordo alle delizie del sentimento. Nel desinare della famiglia la parte migliore del piacere è costituita dal sentimento, e, quando questo vien meno, le vivande più squisite non possono supplire al tesoro che manca, facendo di ogni individuo un essere vegetativo. L'atmosfera morale che in sè confonde ed unifica le gioie del desinare è il sentimento, è l'affetto che riunisce i membri della famiglia. Il piacere di riposarsi dalle fatiche della giornata, di vedersi, d'essere vicini, di parlarsi, di scherzare, sono altrettanti elementi che rendono beate le ore in cui in sì breve spazio si trovano raccolti tanti affetti e tante gioie. Tutto ciò che tende a ravvicinare gli individui e ad ispirare il raccoglimento, ravviva i piaceri del desinare. Così nulla è più delizioso del desco di una famiglia svizzera, che nella sua camera di legno, ben chiusa e ben riscaldata, vede cadere la neve attraverso le piccole finestruole, al lume pacato di una lucerna, mentre i figli e i parenti stanno seduti con una tranquillità esemplare e una serenità olimpica attorno alla tavola. Sotto le stesse condizioni morali è invece pessimo il desinare di una famiglia indiana, che, sbandata nei campi, si raccoglie sul mezzogiorno attorno a una tavola sudicia e disadorna, presso la quale gli uni stanno seduti, gli altri in piedi. Noi possiamo benissimo immaginarci la differenza di questi due pasti, senza essere Indiani o Svizzeri, purchè solo noi ricordiamo i tiepidi e raccolti pranzi delle sere d'inverno, e il distratto desinare dei caldi giorni d'estate. In generale si può dire che, andando dal nord al sud, il desinare decresce di importanza e di bellezza, finchè nella zona torrida cambia affatto di fisonomia. Nel pranzo il sentimento che domina è, in generale, meno elevato che nell'umile desinare, e le ricercatezze del lusso vengono a coprire, più d'una volta, passioncine d'una meschinità veramente desolante. Il convito più nobile è quello in cui si tributa un omaggio all'ospitalità, e si onora in modo speciale la persona che viene invitata. Allora si hanno da una parte le premure d'una cortesia naturale o le attestazioni di stima e di rispetto, e dall'altra le espressioni della riconoscenza. Questo scambio di nobili gentilezze spande su tutto il pranzo la sua benefica influenza e ravviva ed eleva le gioie più materiali dei sensi, offerte in sacrifizio sull'altare del sentimento. Rarissimi però sono i pranzi che si elevano a tanta dignità; e una splendida mensa raccoglie spesso intorno a sè uomini che magari si odiano e si disprezzano, non hanno fra loro sincerità di rapporti o di disinteressata considerazione. Allora i pallidi e stentati sorrisi, le studiate menzogne e le sfrontate adulazioni spandono una gioia falsa e veramente patologica, che spesso riesce anche a soffocare i piaceri del gusto, pel quale manca l'attenzione necessaria. Oltre queste due grandi varietà di pranzi ve n'ha un'ultima, quella, cioè, in cui molte persone si raccolgono attorno a una mensa sfolgorante di tutte le ricercatezza dell'arte culinaria, e dove si dedica una vera festa ai piaceri del gusto, ai quali si associano quelli dell'odorato, dell'udito, della vista e, fors'anche, del senso sessuale. Quando questi pranzi non s'abbassano fino all'orgia, possono essere elevati a un certo grado dalla perfezione dell'arte e dal sentimento del bello, e la gioia, che trabocca da ogni parte fra le risa e le scintille dello spirito, non è certamente colpevole. La merenda è il pasto meridionale per eccellenza: in tutta la sua perfezione non si può fare che sotto la volta d'un cielo azzurro, tra l'erbe e i fiori. Allegra e vivace, essa bandisce l'ordine e l'etichetta e si compiace di frutta, di dolci, di latte e d'altri cibi semplici e leggeri. I giuochi, gli scherzi e la musica ne sono gli accessori più naturali e spontanei. La cena presenta due varietà ben distinte e che differiscono immensamente fra loro. La cena della famiglia è un pasto soavissimo, condito da una calma gioia e da un particolare raccoglimento. I lavori della giornata sono finiti e la mente riposa in una calma serena e soave. È l'ora delle confidenze e delle dolci ammonizioni, dei racconti e delle interminabili chiacchiere che un tempo si facevano presso il focolare. Beati quelli che hanno potuto godere in tutta la loro purezza le gioie d'una cena di famiglia! La seconda varietà di cena è costituita da una piccola festa consacrata alle lussurie del gusto, e nella quale basta la velleità di un appetito capriccioso per poter onorare degnamente le squisite vivande e i vini deliziosi. Questa cena, anche nel suo esemplare più onesto, cammina sulla linea di demarcazione fra il desinare e l'orgia; il più delle volte la temperanza è talmente compromessa, che si ritira dai lieti convitati fino dall'istante in cui questi si riuniscono, e non ricompare che più tardi, accompagnata spesso dal pentimento.

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Fino ad ora noi abbiamo veduto che le voluttà più intense accompagnano la sodisfazione dei bisogni più urgenti e segnati della natura come necessari; ed ora vediamo scaturire una sorgente fecondissima di piaceri da sensazioni di puro lusso, che non sono necessarie alla vita dell'individuo nè a quella della specie. Di più l'uomo ha potuto coll'arte estendere i confini dei piaceri concessigli dalla natura, come conseguenza necessaria delle condizioni fisiologiche, ma non ha potuto produrre mai una sensazione piacevole di nuova natura. Qui invece vediamo che egli, creando la musica, che per se stessa non esiste in natura, apre a un tratto un orizzonte infinito di gioie sublimi e delicate, delle quali se ne fa in questo modo un bisogno artificiale. Moltissimi animali inferiori sono affatto privi del senso dell'udito. Dove esso compare nelle sue forme più semplici, non può dare che sensazioni molto confuse e grossolane. Nei gradini più elevati della scala animale, dove l'orecchio presenta quasi la stessa struttura di quello dell'uomo, noi non possiamo dire se il semplice esercizio di questo senso possa essere piacevole. È certo però che molti mammiferi, e fors'anche i rettili e i pesci, sanno distinguere i suoni armonici e sembrano compiacersene, dando segni di godimento. L'intelligenza a questo riguardo non ha alcuna influenza sulla perfezione dei piaceri, perchè noi vediamo ogni giorno il merlo accompagnare allegramente col suo canto il suono dell'organetto, mentre il cane più intelligente abbaia indispettito ad un delizioso concerto. Fra tutti gli animali gli uccelli sono forse i soli che possano godere della musica, di cui essi stessi sono partecipi. I filosofi, che vogliono abbassare la dignità umana, come se noi non fossimo già molto in basso, pretendono che abbiamo imparato i primi elementi di musica dagli uccelli. Per quanto la fisonomia degli animali sia difforme dalla nostra, noi possiamo leggere la gioia e il dolore anche nei lineamenti di un uccello; e se abbiamo potuto solo una volta spiare da vicino l'usignuolo nelle sue esercitazioni musicali, dobbiamo aver veduto che esso gode assai, quando colla sua testolina intenta, cogli occhi lucidi e fissi ascolta il suo canto, col quale pare scherzare, ripetendo le note che lo dilettano, o studiando variazioni semplicissime. Quasi tutti gli uomini godono della musica; pochissimi vi sono indifferenti. Ma fra Cuvier, che doveva fare uno sforzo su se stesso per sentir suonare mirabilmente il cembalo dalla figlia prediletta, e Rossini che da quando nacque fino alla morte visse in un'atmosfera di armonia, della quale aveva bisogno come dell'aria, esistono infinite varietà di orecchi più o meno sensibili alle delizie della musica. A questo proposito gli individui si possono dividere in tre categorie: quelli che non sanno godere che della musica eseguita dagli altri; coloro che la possono ripetere; e gli ultimi che la sanno creare. È inutile dire che nel mondo dei suoni queste tre specie di persone sono diversamente privilegiate, e come soltanto i maestri possano pretendere ai piaceri più sublimi dell'udito. Nessuno ha il diritto di accusare di ottusità di mente chi rimane indifferente davanti ad un torrente impetuoso di armonia. La storia ci porge molti esempi di alti intelletti che non sapevano distinguere un accordo musicale da uno strillo; e l'osservazione ci mostra ogni giorno esecutori distinti di musica e dilettanti appassionati fra le persone di cervello più che mediocre. I piaceri dell'udito hanno invece un certo rapporto col sentimento, e spesso gli uomini egoisti e brutali sorridono di compassione a chi si commuove alle delizie di una melodia. La donna può godere più dell'uomo della musica, ma essa rimane assai al disotto nel godimento dei tesori intellettuali che spettano a questi piaceri, e che ne formano anche la parte più preziosa. Ben di rado poi essa può pretendere alla sublime voluttà della creazione, come lo prova abbastanza la statistica dei compositori di musica. L'uomo-bambino comincia a sentire i piaceri della musica, ma questi si riducono alla pura sensazione uditiva, che è anche incompleta e confusa. Divenuto fanciullo gode più assai di questi piaceri, ma la sua continua distrazione e l'imperfezione delle facoltà intellettuali gli impediscono di gustarli in tutta la loro pienezza. È nell'età della fantasia e del genio che la musica apre tutti i suoi tesori di armonia, portando al massimo grado di esaltazione tutte le facoltà cerebrali. Nell'età adulta l'esperienza supplisce, come nelle altre sensazioni, alla raffinatezza del piacere, per cui questo è più calmo, ma può essere ancora intenso e delizioso. Quando l'uomo scende per la curva della parabola, ritornando d'onde venne, allora l'udito si fa ottuso, la fantasia si fa opaca e i piaceri dell'udito impallidiscono.

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Dal senso più semplice e primitivo, che è quello del tatto, abbiamo veduto che le sensazioni si vanno sempre più elevandosi, nell'associazione con nuovi elementi intellettuali; per cui i sensi si fanno meno sensuali e più istrumentali. Nel tatto il piacere è per eccellenza locale ed è ristretto quasi sempre nei confini della sensazione. Nel gusto si sale appena d'un grado, in modo che la differenza riesce ben poco sensibile. Nell'odorato il campo del piacere incomincia ad estendersi, e più d'una volta, oltrepassando i limiti della sensazione, entra in un campo più elevato. Nell'udito la complessità riesce già molto più sensibile, e il sentimento cammina di pari passo colla sensazione, per cui non possiamo separarli che facendo violenza alla natura e distruggendo il piacere, il quale dai nervi sensori s'irradia per tutto il sistema cerebrale. Finalmente nella vista noi abbiamo i piaceri più complessi e più intellettuali, che non si arrestano quasi mai nel cerchio della sensazione, ma comunicandosi con una rapidità straordinaria alle facoltà intellettuali, le traggono in azione. Pare l'udito sia il senso del cuore, e la vista sia invece quello della mente. Questo fatto, che fa parte delle azioni più misteriose del cervello, è inesplicabile; ma noi possiamo intenderlo e, direi meglio, sentirlo, confrontando le sensazioni che proviamo nel vedere una persona amata o nel sentirne la voce attraverso il telefono. Nei due casi godiamo di un piacere alquanto diverso: nel primo la mente simpatizza colla sensazione, la quale rassomiglia per la sua natura spirituale a un'idea o ad una immagine; mentre nel secondo caso siamo commossi e sentiamo che nel piacere l'affetto entra più del pensiero. A questo proposito, scherzando sulle parole, si potrebbe dire che l'occhio è l'orecchio della mente, come l'orecchio è l'occhio del cuore. Alcuni animali hanno vista più acuta di quella dell'uomo, il quale non potrebbe sicuramente, come il condor, vedere dall'alto del Chimborazo pascolare una pecora nell'ima valle. Siccome però l'intelletto entra quasi sempre ad elaborare le sensazioni della vista, che impronta d'un carattere ideale affatto specifico, così si può dire, senza tema di errare, che l'uomo gode più di tutti gli altri animali dei piaceri della vista. Le differenze individuali che possono variare questo campo di piaceri sono costituite dalla diversa perfezione dell'occhio, e sopra tutto dallo sviluppo dell'intelletto, che concorre a queste sensazioni coll'elemento dell'attenzione. Il miope non può godere i piaceri delle prospettive e dei vasti panorami, mentre il presbite non può deliziarsi che in modo molto incompleto dei piaceri del microcosmo che lo circonda. I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Il disordine e la confusione invece o ci dànno una immagine ridicola che ci diverte per il contrasto che presenta col tipo di perfezione che abbiamo in noi, ovvero ci ispirano un ribrezzo che può anche essere piacevole. Quanto al bello, che nasce dalla mancanza di simmetria e di ordine, si può piuttosto divinare che spiegare, come quando ci si trova alla presenza di un orrido. Forse si può dire che la brusca disubbidienza alle leggi piace per l'ardimento che ci pare di vedere nella natura o nell'arte che se. n'è fatta colpevole, e perchè la forza, sotto tutte le forme, ha sempre qualche cosa di grande che esalta e piace. Il disordine degli oggetti inanimati può gradirci, specialmente quando essi sono in movimento, perchè ci dànno l'immagine di una specie di vita. Comunque sia, il disordine tradizionale della bottega del rigattiere ci riesce assai più piacevole dell'ordinata e regolare distribuzione delle pezze di panno del magazzino di un mercante; nello stesso modo che il sublime caos di un oceano che mugge è uno spettacolo assai più bello della tranquilla superficie di una palude qualsiasi. L'immensità di alcune immagini ci ispira l'idea dell'infinita grandezza del mondo e della nostra piccolezza, in un contrasto piacevole al quale spesso si associa anche la compiacenza di potere col nostro occhio abbracciare tanta vastità di orizzonte. Quando contempliamo dalla spiaggia l'immenso piano del mare e la volta del cielo che, in curva maestosa, si confonde coll'estremo limite di un orizzonte incerto e nebuloso, noi abbiamo sotto i nostri occhi un'immagine sensibile dell'infinito, e con lo sguardo vaghiamo su quel deserto smisurato di acque e di cielo cercando invano un confine e un punto fermo su cui riposare. L'apparire improvviso di una vela, in mezzo a quella solitudine che ci confonde, rianima a vita anche il sentimento, facendolo concorrere al nostro piacere; e nello stesso tempo gustiamo l'idea purissima dell'infinito e l'affetto simpatico per ciò che è vivo ed umano. Questo è l'elemento fondamentale del piacere che si prova alla vista del mare, e che forma quasi il telaio sul quale si possono tessere poi le più splendide combinazioni delle gioie del sentimento e della mente. La piccolezza estrema degli oggetti suscita pure in noi l'idea dell'infinito, mostrandoci in qual modo i confini del microcosmo non abbiano limiti come gli spazi imponderabili del cielo. I piaceri che si provano in questo campo formano l'attrattiva principale delle ricerche microscopiche. È poi veramente singolare il fatto che ci porta molte volte ad amare alcuni oggetti per la sola ragione che sono piccoli. Pare che noi associamo ad essi l'idea della debolezza, e che ci sentiamo ispirati ad averne compassione e a proteggerli, anche quando essi non hanno vita. Altre volte essi ci ridestano il desiderio di possederli; per cui, prendendoli fra le mani e guardandoli con attenzione, atteggiamo il volto all'interessamento e alla simpatia. Questo genere singolare di piaceri non si prova in tutta la sua intensità, che quando l'oggetto è ben definito e costituisce un vero individuo. Difatti, il frammento angoloso di una roccia, per quanto piccolo, non produce in noi il piacere che gustiamo nel contemplare un ciottolino liscio e rotondetto; come pure la barba di una penna d'oca non ci interessa quanto un piccolo fagiuolo. A questi piaceri, per se stessi minimi, si collega spesso l'attrattiva speciale di alcune Il moto concorre ai piaceri morali della vista con molti elementi. Innanzi tutto, essendo uno dei sintomi essenziali di ogni specie di vita, ci ridesta la simpatia che abbiamo per ogni essere vivente. Quando il movimento intenso è prodotto dall'industria umana, noi ce ne rallegriamo, compiacendoci della nostra potenza. Quando invece il movimento è naturale, ci ridesta quasi sempre sentimenti più umili e delicati, a meno che non si sia riusciti colle nostre ricerche a scoprire un moto che non si rilevava spontaneo ai nostri occhi. I movimenti naturali producono due classi di piaceri ben distinti a seconda che siano alterni o continui. In generale i primi ci commuovono ad una affettuosa malinconia, mentre i secondi ci fanno gustare i piaceri grandiosi e tristi che si hanno dalle immagini dell'infinito. L'onda, che fremente si rompe sulla spiaggia e poi si allontana per tornare in alterna vicenda, ci interessa e ci consola, perchè ci rappresenta il moto della vita: il giorno dopo la notte, il riposo dopo la fatica, il riso dopo il pianto, il ritorno dopo la partenza. Invece lo scorrere lento e non interrotto delle acque d'un fiume ci tiene assorti in cupa contemplazione, che riesce piacevole solo per la grandezza delle idee che ci desta. L'acqua che scorre ai nostri piedi, scherza e si muove, ma passa e non ritorna; il vortice che molina e si scioglie è seguito da un altro che lo incalza e poi sparisce; la foglia che cade dall'albero è trascinata via e non ritorna; e sempre instancabile, continua, un'onda segue l'altra e il moto mai non riposa. Questo spettacolo ci offre nei suoi elementi una formula assoluta dell'eternità, un esempio del sempre. Il suicida che s'affaccia ad un fiume per precipitarvisi, ritornerebbe più facilmente addietro, se invece dell'onda inesorabile che passa e non ritorna, vedesse il lieto alternarsi delle onde sulla viva d'un lago. Anche la luce nei suoi diversi gradi di intensità può avere un valore morale. Quando è intensa ci ridesta alla vita; quando è debole e incerta ci ispira alla malinconia e alla calma. La luce di una mediocre intensità, ma tremula, ha una attrattiva speciale, e se ne ha un esempio magnifico nella calma voluttà che ci prodiga l'astro della notte. I colori hanno un valore morale di una certa importanza nei piaceri della vista. Noi chiamiamo allegri il rosso, il bleu e il giallo, che sono i tre colori fondamentali, mentre diciamo tristi il nero, il grigio o il cinereo, puro e verginale il bianco. Questo fatto, che si riscontra in tutte le lingue, dimostra più d'ogni altra cosa la natura intellettuale delle sensazioni della vista. Quasi tutti hanno una speciale simpatia per qualche colore: io, ad esempio, amo con trasporto l'azzurro. Nei paesi caldi si preferiscono i colori più vivi, mentre, là dove il sole sorride di rado, anche gli uomini amano meglio le tinte meno tenui e più cupe. Molte nazioni negre hanno una vera passione per i colori più sgargianti. Alcuni colori poi producono immensi piaceri per le memorie che vi si riferiscono; e l'esule può, in lontani paesi, piangere di gioia alla vista della bandiera tricolore. Gli esseri viventi ci interessano molte volte al solo vederli, per l'affinità naturale che abbiamo con essi; e il piacere riesce in generale tanto maggiore quanto più essi ci assomigliano. I vegetali, per quanto siano lontani da noi per ogni principio di affinità, e per quanto la loro vista sia fredda e priva di movimento spontaneo, pure ci interessano assai più dei minerali per la parte che prendono ai piaceri della vista. Il prigioniero, che tra le connessure delle pietre del carcere scorge una tenera pianticina di lichene, prova un piacere molto superiore che se avesse trovato un minerale pregiato. Le parti di una pianta che in generale ci interessano maggiormente sono i fiori, perchè appunto in essi la vita si mostra in tutto il lusso delle sue forme e dei suoi colori. La bellezza delle forme e la varietà dei colori, infatti, hanno gran parte nel piacere che ci dànno i fiori, ma non ne costituiscono l'elemento principale. Talvolta il fiorellino più modesto ci interessa assai più di un magnifico fiore smagliante, perchè una simpatia misteriosa ci lega a questi esseri delicati, a queste tenere creature del mondo vegetale. Gli animali possono piacere, quando non siano schifosi o non ci incutano paura. Tutti però in qualche circostanza possono concorrere alle gioie della vista. Il rospo si ammira nelle vetrine dei musei, come la tigre ci piace meglio quando è chiusa fra le sbarre di un serraglio. Alcuni animali ci interessano per la loro piccolezza, e il piacere che si prova contemplando una formica che passeggia sulla nostra mano, scomparirebbe del tutto, se quell'insetto avesse la proporzione di un coniglio. Altri animali rallegrano la vista col brio dei colori, colla vivacità dei movimenti, colla stranezza delle forme: alcuni di essi ispirano l'affetto, altri la curiosità. Le fiere ci dilettano per la loro potenza muscolare. L'uomo è l'animale che ci interessa più di tutti gli altri ed è naturale, sia perchè ci riguarda direttamente, sia perchè è l'essere superiore nella scala della creazione. Più d'una volta mi sono sorpreso in atto di ammirare la bellezza delle forme e la nobiltà dell'incesso che lo caratterizzano. La vista dell'uomo poi ci risveglia subito quell'affetto indistinto, che è il fondamento e la ragione prima della società. Il piacere che proviamo in questo caso sale poi di grado, a seconda dei vincoli che ci legano alla persona che vediamo. Fra lo sguardo affettuoso di una madre che divora cogli occhi il bambino che tiene fra le braccia, e l'occhiata distratta che gettiamo a chi passa per via accanto a noi, sta un mondo intero di sensazioni e di piaceri, che si riferiscono al sentimento. L'incontrarsi degli occhi è sorgente di gioie immense. Quando abbiamo dinnanzi a noi un uomo, possiamo contemplarlo e analizzarlo da capo a fondo; ma se egli si allontana senza averci guardato, noi restiamo stranieri l'uno all'altro, e la sensazione e le idee che egli ci ha destate si chiudono nei limiti del nostro io. Ma se ad un tratto i nostri occhi si incontrano, noi ci troviamo in rapporto intimo di fratellanza, e ci mandiamo mentalmente il saluto dell'uomo all'uomo. Questa corrispondenza misteriosa degli occhi non può farsi che fra esseri della stessa specie: e quando anche il nostro sguardo s'incontrasse con quello del cane che ci ama o del cavallo che ci porta, il piacere sarebbe languido e puramente sensuale. L'uomo, invece, col balenar dell'occhio, parla all'uomo e lo intende, e le due coscienze sembrano affacciarsi l'una all'altra. Una sensazione della vista può essere piacevole per le memorie che ridesta in noi. L'esule che, tornando in patria, dall'alto d'un colle scorge una semplice macchia bianca, ch'egli intuisce essere la sua casa paterna, la contempla con un vero delirio di gioia, senza che l'immagine sia per se stessa interessante. Egli contempla un oggetto che gli è caro e di cui adora anche l'immagine, e rimane sospeso fra la sensazione e il mondo di memorie che sta dietro ad essa, ma che ancora non si schiude; ed egli guarda e riguarda e si arresta, piangendo di gioia, sopra un'immagine che è pur sempre la stessa, ma che per lui diventa sempre più interessante, quanto più egli la contempla. Sotto questo aspetto, il valore morale degli oggetti può crescere a dismisura il piacere che ci danno colle loro immagini. La vista di una quercia può far delirare di gioia l'Europeo, che da lunghi anni non vede che palme e felci. Una donna che fila può far piangere lagrime soavi ad un soldato, cui rammenta la sua vecchia madre e i racconti del focolare domestico. Io non posso vedere senza compiacenza il cortile di una casa dove cresca dell'erba, perchè è sull'erba di un cortile che io ho tentato i primi passi, ho trascorso le ore più care della mia infanzia cacciando insetti e giuocando coi ciottoli, e dove ho gustato le sensazioni più vergini. La passione dominante rende piacevole la vista degli oggetti che vi si riferiscono, e produce in questo modo una infinità di piaceri diversi. Il sibarita guarda con gioia la polvere veneranda di una bottiglia a cui sta per dare l'assalto, mentre il bibliofilo palpita di piacere vedendo, ad un tratto, nei palchetti di una libreria un libro che ancora non possiede. In questo modo anche gli oggetti più indifferenti o anche ripugnanti possono essere fonti di gioia. Il malacologo ritorna a casa festoso dalla passeggiata, per una nuova lumaca che è riuscito a prendere; mentre l'anatomico rimane collo scalpello sospeso, nell'atto di una compiacenza superiore, sopra un cadavere ributtante, perchè egli ha sotto gli occhi un caso di inaspettata importanza.

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Nei primi stadi dell'ebbrezza, noi abbiamo la coscienza della vita più piena e più sensitiva; noi produciamo artificialmente quello stato di benessere di cui si gode sotto la duplice influenza di una salute vigorosa e di una passione esilarante. In seguito molte facoltà del sentire, del pensare, del muovere sono esaltate più o meno; e dallo stato di calma e di apatia in cui si trovavano, sono indotte ad una sovreccitazione che può variare di grado e di natura, ma che è pur sempre un'attività febbrile. Fino ai primi gradi dell'ebbrezza, noi possiamo assistere allo spettacolo di un eccitamento di tutte le nostre facoltà; ma, più tardi, l'esaltazione disordinata ed eccessiva di alcuni piaceri trascina con prepotenza la ragione in una sarabanda, in cui i fremiti confusi portano ad una frenesia di sensi, nella quale tutti gli elementi del bene e del male, rotte le dighe che li rinchiudevano, vengono a darsi la mano per abbandonarsi in comune alla più sfrenata licenza. Un altro carattere generale dei piaceri dell'ebbrezza, che ne costituisce la fisonomia caratteristica, è quella di dominare tutti i vasti campi della mente e del cuore in modo da scacciarne le cure importune, le segrete angosce del presente, o i rimorsi del passato.

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Come presentarmi in società

199852
Erminia Vescovi 6 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
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Questi e altri simili ammaestramenti rivolgeva Monsignor Della Casa ai suoi lettori, che pur erano onoratissimi gentiluomini; noi non abbiamo più bisogno di dirlo se non ai contadini, e talvolta anche essi, per un istintivo pudore o per una reminiscenza della scuola, sanno che certe cose non si devono fare. Eppure, la lista dei nefas non si è per questo raccorciata. Ai tempi nostri, mutati gli usi e le relazioni sociali, nuovi doveri di cortesia si sono introdotti, e nuove necessità di certi riguardi. L'igiene alza più forte la voce, e la pulizia è divenuta più schizzinosa. E le nuove idee e le nuove usanze rendono necessaria l'aggiunta di molte altre norme. Ora, per esempio, sono i fumatori che hanno bisogno degli avvertimenti del Galateo, e ci sarebbero i ciclisti, genia malvagia, irruente e dispettosa, e gli automobilisti che credono che tutto il mondo sia per loro... Tante cose si mutano col tempo!... Ma tante restano ancora. Poichè ci sono ancora gli incorreggibili maleducati che sbadigliano in conversazione, o che voltano altrui le spalle, o che mormoran fra loro, o interrompono i discorsi altrui. Ci sono quelli che si piglian tutte le confidenze, che entrano in tutti i nostri affari, ci son quelli che vogliono imporre sempre la loro volontà, ci son quelli che scherzano su tutto e su tutti e non sanno tollerare una celia dagli altri, ci sono quelli che in un caffè s'impadroniscono di tutti i giornali e li ritengono per sè; quelli che chiedono a prestito i libri e non pensano più a restituirli. Ma invece di questa spiacevole e interminabile lista sarà meglio presentare le buone regole che si convengono ad ogni circostanza e caso della vita, e venir notando secondo l'occasione quello che si deve o non si deve fare da chi ha la giusta ambizione di mostrarsi uomo cortese o almeno urbano. Vediamo dunque il fas e il nefas nel portamento della persona, nelle vesti, a mensa, nelle conversazioni, nella presentazione e nei convenevoli, nel modo di salutare e di interpellare.

. - Ebbene, per le altre lettere, valga quello che abbiamo detto per le visite di convenienza e di etichetta. Poichè la lettera sostituisce la visita; e se è vero quel che dice Cicerone che la lettera altro non è se non una conversazione in iscritto, ne vien che essa deve avere le stesse norme della visita e della conversazione, oltre ad alcune modalità sue proprie. E vediamole subito. Come chi si presenta in casa altrui dev'essere decentemente vestito, colui che scrive avrà tutta la cura per l'aspetto della lettera. Carta bianca e pulitissima: non si ammettono i colori anche lievissimi se non dalle signore. S'intende che la busta dovrà essere perfettamente assortita al foglietto. Si può usare il monogramma, la corona nobiliare, facendolo mettere a sinistra in alto del foglietto, però sono cose che sanno un po' di affettazione. L'inchiostro sia di preferenza nero o blu, e non di colori stravaganti. Le lettere di carattere ufficiale, d'affari, si scrivono sempre su carta bianca. I ricorsi, i promemoria ecc. si scrivono su carta cosidetta da protocollo, meglio se non rigata, nel qual caso, però, bisogna adoperar la falsariga, per la necessaria regolarità. La calligrafia ha pure la sua importanza, ed è quello che è la voce, nella conversazione. Certe calligrafie producono un effetto disastroso. E non solo all'occhio, ma all'intelletto che giudica spesso da quelle il grado di civiltà e talvolta il carattere dello scrivente. Lo scritto a uncini, a sbalzi, sformato, irregolare non è compatibile che nella povera gente, negli altri indica poco rispetto e negligenza; quelli poi che usano caratteri a punta, insolenti e aggressivi, o che imitano la scrittura altrui, snaturando la propria, mostrano poco cervello e poco gusto. Scrivere troppo minutamente è un tormento agli occhi e abusar della pazienza altrui; riempire una pagina con quattro righe a gran caratteri è un'altra sconvenienza. E che diremo poi delle correzioni, delle raschiature, delle macchie? Non si possono scusare in nessun modo. La data va messa in cima al foglio, a destra; nelle lettere di riguardo, invece, si suol mettere a sinistra, dopo la firma. E' cosa lodevole aggiungervi anche l'indirizzo, specialmente scrivendo a persona con cui abbiamo relazioni molto larghe. Dopo la data viene l'intestazione, sempre a sinistra, e non mai nel mezzo (salvo nelle suppliche e istanze) e tanto meno a destra, usanza carissima ai soldati e alle domestiche. La formula dell'intestazione, vien data, naturalmente, dalle nostre relazioni con la persona a cui si scrive, e dal grado di questa. Ai nostri amici e parenti diremo sempre caro e carissimo, colle altre persone ci regoleremo secondo il caso. Le forme più usate sono: Gentilissima signora, - Cara amica, - Egregio signore, - Caro amico, ecc. Quando vi sia un grado nobiliare, bisogna sempre usarlo. Così dei titoli accademici; perciò diremo: Caro Avvocato, o Caro Conte, oppure Egregio Avvocato, Egregio Dottore, - regolandoci sulla confidenza maggiore o minore che si abbia colla persona. Non si mette mai un titolo per intestazione, senza farlo precedere da un aggettivo (egregio professore, carissimo ingegnere) e non scriveremo mai a una signora: Egregia professoressa - Stimatissima maestra - Chiarissima dottoressa, per le ragioni già dette parlando delle buone regole nella conversazione. L'intestazione «Chiarissimo Professore» si usa invece con i docenti universitari. Soltanto un dipendente o un fornitore si rivolgerà a un titolato o a un professionista con la formula «Egregio Signor Conte», «Egregio Signor Ingegnere», ecc. A una persona inferiore, a un fornitore si suole scrivere: Caro signor B - Cara signora C - secondo la professione. S'intende poi che agli alti dignitari dello Stato e della Chiesa si daranno i titoli prescritti, e si ripeteranno nel corpo della lettera, e nella frase di chiusura precedente la firma. Cominciando la lettera si tenga qualche distanza dall'intestazione. Questa distanza, secondo le buone regole, deve essere tanto maggiore quanto più di riguardo la persona a cui scriviamo. E' poi necessario, in tali casi, non scrivere se non da un lato del foglio: il margine ora non si usa più, ma non è bello nemmeno nell'intimità vedere le righe correre sino all'estremo limite e talvolta - orrore! - le parole ripiegarsi in giù lungo il lembo destro... Nella frase di chiusura, bisogna badare alle stesse regole dell'intestazione: affetto, devozione, rispetto, cortesia, devono ispirarle opportunamente, secondo i casi. Diremo ad un parente o ad un caro amico: Ti abbraccio di cuore, tuo aff. ecc. - Ricevi un abbraccio dalla tua B, ecc. A una persona di mezza confidenza: La prego di gradire i miei cordiali ossequi. - Mi creda, egregio ingegnere, il suo aff. e dev. B. C. - Coi sensi della massima stima, suo obbl. P. C. - Con rispettosi saluti, obbl. e dev. B. M. Coi fornitori e alle persone inferiori: Con i migliori saluti, N. N. Una signora non metterà mai nella sottoscrizione l'aggettivo umilissima (salvo in una supplica al Capo dello Stato) e non si dichiarerà mai serva di nessuno. Nella firma si pone sempre prima il nome, poi il cognome: se vi sono titoli... si lasciano nella penna, per non passar da vanesi di cattivo gusto. Però, scrivendo ad ignoti, e quando sia necessaria una indicazione che qualifichi lo scrivente, si suole usare il titolo professionale o accademico. Sulla busta si scrive colla massima chiarezza il nome e cognome della persona, preceduti dai rispettivi titoli. Dopo il nome e il cognome si suol mettere talvolta l'indicazione del grado e l'ufficio. On. N. N. - Deputato al Parlamento. Conte B. C. - Presidente della Congregazione di Carità. Signora T. M. - Direttrice dell'Orfanatrofio Femminile. Queste indicazioni sostituiscono spesso l'indirizzo della via e numero, e giovano al recapito con maggior sicurezza. Non è ben fatto abbreviare gli aggettivi scrivendo per esempio: - Ill.mo Stim.mo, ecc.; tuttavia si può tollerare nelle buste; non mai nella intestazione interna, e tanto meno nel corpo della lettera. In fondo, a destra, si scrive il nome della città, e l'indicazione della provincia se si crede necessario. E' sconsigliabile scrivere solo Città quando la lettera non ne deve uscire: potrebbe darsi invece che per isbaglio fosse mandata altrove o scivolasse fra qualche giornale, e allora dove rimandarla? Il francobollo va messo sempre a destra, in alto. Chi non si fida della semplice ingommatura della busta, metta un sigillo, una marca di suo gusto, ma non contravvenga alle regole chiaramente espresse pel servizio postale, mettendo il francobollo dietro la busta, a mo' di chiusura. Venendo poi alle regole per una lettera bene scritta, diremo che la migliore di tutte è di lasciarsi guidare dal cuore, dalla convenienza e dal buon senso. E anche dalla prudenza, in certi casi, perchè dice il proverbio latino, verba volant, scripta manent... Si abbia la massima cautela trattando argomenti delicati; non ci si abbandoni alla collera, all'impulso cattivo del momento, se dobbiamo scrivere una lettera di rimprovero; si usi tutto il riguardo nel dare consigli, specie se non richiesti. Non si scriva a dritto e a traverso, facendo quegli sgradevoli graticci che stancar gli occhi. Le convenienze vietano di usare la macchina da scrivere per la corrispondenza che non sia d'ufficio. Per praticità, e sull'esempio dell'estero, fra giovani si tende ora ad abolire questa regola, quando ci sia una certa confidenza. Comunque, non si usi mai la macchina per scrivere una lettera privata ad una signora od a un superiore; se si fosse costretti a farlo per ragioni speciali (ad es. lunghezza eccezionale della missiva o particolare mancanza di chiarezza della nostra grafia) non si dimentichi di chiederne perdono nella lettera stessa. Si dev'essere pronti nel rispondere, specie se ci vien chiesto qualche favore, o se dobbiamo dare qualche informazione o notizia che prema. E pronti anche nel ringraziare dopo l'arrivo di qualche dono, per non lasciar la persona gentile nel penoso dubbio, se sia giunto o no. Chi poi avesse ricevuto una lettera da impostare, lo faccia subito, per non correre il pericolo di dimenticarsene... all'infinito. Chiedendo ad altri questo favore, si consegni la lettera col francobollo già apposto. Sarebbe scortese dargli in mano il danaro e peggio ancora riservarsi di darglielo dopo e dimenticarsene!... Una lettera da presentarsi a mano porta sempre scritte le parole: per favore. Se questa lettera è di presentazione va consegnata aperta, e non deve parlar d'altro. Se è lettera di carattere privato c'è chi dice che si può benissimo consegnarla chiusa. Sarà sempre più cortese però, affidandola a persona che non sia inferiore a noi, consegnargliela aperta, ed essa ha l'obbligo, ricevendola, di chiuderla in nostra presenza, con una cortese protesta. Una signora non scrive mai a lungo ad un uomo, e specialmente se l'età non è matura in uno almeno dei due. E c'è pure chi si diletta cogli ignoti conosciuti nella quarta pagina d'un giornale. Gente che ha tempo da buttar via, poco giudizio, e che si espone anche al caso di aver dei gravissimi dispiaceri... Le lettere anonime sono, chi non lo sa? una delle più riprovevoli e vili azioni. Chi ne ricevesse una, badi di non turbarsene eccessivamente; il più saggio partito è di buttarla nel fuoco e non pensarci più. Analoghe alle lettere sono le cartoline, di cui ora si fa molto uso: nella modalità hanno press'a poco le stesse regole. Si badi però che sarebbe sconvenienza scrivere una cartolina a persona molto a noi superiore, anche se fosse per una comunicazione di due righe. E anche scrivendo a parenti e amici, non si usi mai della cartolina, quando si abbia qualche cosa di delicato o di personale, per non correre il rischio che la notizia sia saputa dal portinaio o dalla domestica prima che dalla persona a cui doveva giungere, e che dia luogo a indiscreti commenti!

Allora un istinto ci guida a scegliere il tratto, la parola, il gesto più opportuno, se l'animo è abitualmente gentile, o ci induce a commettere goffaggini e inurbanità se non abbiamo la norma interna del buon gusto e del ben volere. L'arte di piacere agli altri è in gran parte quella di saper esercitare un costante dominio sopra noi stessi. Ecco perché le persone impulsive hanno raramente finezza di modi, ecco perché molti trovan più comodo andar avanti come piace a loro, e dichiarano che non vogliono seccarsi... Ma, a conti fatti, che cosa risulta? La loro scortese incuranza vien ripagata dall'antipatia che generalmente destano, e dalla privazione di molti vantaggi. Al contrario, coloro che si sorvegliano costantemente, che si frenano, che sanno opportunamente tollerare e dissimulare, si guadagnano simpatia, stima, affezione, si trovano facilitato dagli altri l'aspro cammino della vita. Quando noi leggiamo nel Vangelo: «Beati i mansueti perchè possederanno la terra» noi troviamo certo un insegnamento di alto valore mistico. Ma noi vi troviamo anche una constatazione pratica di ciò che accade realmente: coloro che hanno soavità di modi sanno rendersi padroni del cuore altrui e spesso foggiare la propria fortuna. E, del resto, in quel codice supremo di verità, noi possiamo trovar anche altre conferme a quanto abbiamo detto. Non si accompagna forse alla legge severa di non portar odio e di non recar danno alla persona del nostro prossimo, anche la proibizione di dirgli raca? E non è forse prescritta la cortesia del tratto quando vengono biasimati coloro che vogliono i primi posti nelle adunanze e nei banchetti? E quando ci viene insegnato a dir semplicemente si e no, oltre che la menzogna, non viene sbandita anche l'enfasi antipatica, la scortese diffidenza? E non ci viene imposto di mostrar un volto sorridente e aperto, anche quando ci siamo imposti qualche privazione, mentre gli ipocriti, senza curarsi di rattristar gli altri, vanno attorno con viso ostentatamente malinconico? Quando il Fariseo volle criticar la donna che aveva versato il balsamo odoroso sui piedi del Salvatore, egli si sentì da questo un tranquillo rimprovero perché nel riceverlo aveva trascurato con lui gli atti di urbanità in uso presso il loro popolo. Ma tutto si riduce, in fine, al gran precetto: Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi stessi - non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. - Su questa salda base si può edificare l'edificio intero del Galateo. E anche, per prevenire ogni pericolo di finzione, bisogna tener presente l'altro precetto: «dell'abbondanza del cuore parla la bocca». Di qui la necessità di educare l'animo a sentimenti gentili: di qui la cura che devono avere i genitori per cominciar presto coi loro figlioli. La padronanza di sè, lo spirito di sacrificio necessario tante volte nelle relazioni sociali, non si improvvisano. E può darsi talvolta che un generoso impulso dell'animo spinga ad atti eroici, in qualche occasione straordinaria, ma è difficile che l'autoeducazione giunga a tempo con cambiar il carattere d'un uomo che da piccolo non venne ben formato. D'altra parte riflettiamo che se l'eroismo e la generosità non sono sempre alla portata di tutti, la gentilezza, invece, la cortesia, la discrezione sono le necessità quotidiane della vita sociale. L'opportunità e finezza del tratto suppliscono spesso alla mancanza d'istruzione, dissimulano molti difetti, rendono più amabili le stesse virtù, come la grazia dà pregio alla bellezza; mentre la bellezza dura, fredda, sgarbata non ha potere sugli uomini. «Se tutti gli uomini conoscessero il loro interesse sarebbero tutti onesti» disse Spencer. E si può anche aggiungere: sarebbero sempre reciprocamente gentili. I genitori che insegnano per tempo ai loro figli questa grande arte della gentilezza, che la fanno diventar parte intrinseca del loro carattere, fanno loro uno dei doni più preziosi, poiché danno loro la possibilità di farsi degli amici dappertutto, e di vincere senz'urti molte delle grandi lotte della vita. E l'amico che dà a questo proposito un buon consiglio all'amico, merita tutta la sua riconoscenza; appunto come quel tal vescovo Matteo Gilberti di Verona, il quale mandò un dono prezioso al suo ospite, un certo conte Riccardo, con l'avvertimento che fra tutti i suoi modi così belli e costumati, disdiceva «un atto difforme colle labbra e colla bocca, masticando alla mensa con uno strepito molto spiacevole a udire». E il bravo conte, invece d'aversene a male, ringraziò il vescovo con tutta l'effusione per quel suo dono che tenne vera prova d'amicizia. Così ci racconta Monsignor Della Casa, il quale dice che l'ambasciatore scelto all'ufficio un po' difficile e delicato, era appunto quel tal Galateo che lo indusse a scrivere il fámoso trattato che porta tal nome. Cerchiamo dunque di far tutto quello che ragionevolmente può far piacere agli altri e ricordiamoci che la gentilezza è il fiore dell'umanità, e nel tempo stesso il profumo della virtù.

E così si deve fare anche rientrando dal passeggio o da altro luogo pubblico, e anche diciamo tutto, se abbiamo dovuto stringer le mani del nostro prossimo; mani immacolate, vogliamo credere, e perfettamente sane... ma, insomma... E le unghie van tenute pulitissime e bianchissime; per mantenerle tali bisogna che non sian troppo lunghe; ma nemmeno è bello vederle rase al polpastrello. Il rispetto alla nostra persona si manifesta in modo specialissimo nelle vesti. La biancheria intima deve essere mutata almeno una volta alla settimana, le calze assai più spesso. Chi poi si presentasse in pubblico colle vesti sbottonate, colle scarpe slegate, col lembo dei calzoni o della gonna sfilacciato o fangoso, col bavero del soprabito lucente, ohimè! di untume, o coperto di polvere, costui, dico, fosse anche un Solone o un Galileo, correrebbe un gran rischio di farsi guardare come uno strano animale. Ma si riderà anche del bellimbusto azzimato, si riderà anche del vecchio e della vecchia che ricorrono ai più visibili espedienti: «Pour réparer des ans l'irréparable outrage». Non si veggono forse i belletti stesi sulle guance rugose, e le chiome posticce, e le sopracciglia disegnate, e i capelli tinti di biondo e di nero, che passan per tutti i colori dell'iride, quando sarebbe così nobile e spesso così bella la canizie? Chi rinunzia alla propria personalità fisica dimostra cervello meschino e perde ogni diritto al rispetto altrui. E' orinai generalmente invalsa fra le donne l'abitudine di truccarsi. Premesso che ciò non si addice ad una adolescente, la donna che vi ricorre ricordi che il trucco deve servire a ravvivare o a correggere lievemente il viso, non a cambiarne totalmente le fattezze. Quindi lasci i ceroni e le impiastricciature violente ed eccentriche alle dive, che ne hanno bisogno per esigenze tecniche di palcoscenico, e si accontenti di un ritocco sobrio, appena accentuato di sera, che è sempre molto più signorile ed oltre a tutto anche molto più riuscito esteticamente in quanto il trucco migliore è sempre quello che non appare, avvicinandosi maggiormente alla naturalezza. Quanto detto sopra vale per tutte: ma è evidente che assume anche maggior valore riferito a signore non più giovani, le quali oltre alla naturale dignità ùdella donna devono considerare anche la dignità particolare richiesta dalla loro età. Ma non si corre questo rischio soltanto trascurando o alterando il corpo che Dio ci ha dato, compagno dell'anima e suo strumento nell'operare. Noi dobbiamo rispettar ancor più la nostra personalità morale. O poche o molte sian le doti che ci furono concesse, è obbligo nostro di farle valere in nostro vantaggio e altrui, e se è dissennato e superbo chi ne mena pompa, anche più di quanto si conviene, chiameremo stolto chi si compiace di avvilirsi e di snaturarsi in faccia alla gente. Perciò chi tiene un linguaggio indecoroso manca di rispetto a sè e agli altri, e così pure chi buffoneggia e scherza nelle brigate in modo scurrile. Poichè, dice Baldassare Castiglione, ci sono bene nelle corti coloro che ciò fanno per sollazzo altrui, ma si chiamano con altro nome e non gentiluomini. Non so quanto potesse toccar da vicino l'ammaestramento ai lettori de' suoi tempi. Ai nostri, di questo bel vezzo buffonesco rimane ancora qualche traccia nelle conversazioni di villaggio. C'è qualche specialista nel rifare il verso di questo o quell'animale; c'è chi s'è fatta una legge di non rinunziar mai a nessuna goffa spiritosaggine che gli venga sul labbro, pur di guadagnarsi la fama di uomo faceto... E nemmeno si deve avvilir se stessi con perpetuo atteggiamento servile verso gli altri. La cortesia non deve escludere il decoro, la compiacenza non deve estendersi ad ogni servigio, la lode non deve prender l'aspetto dell'adulazione, il complimento non dev'essere mellifluo e a getto continuo. Chi si mette prono innanzi a tutti, non si deve meravigliare se a molti verrà la voglia di calpestarlo. E nel parlare di sè, l'uomo saggio si terrà tanto lontano dalle ridicole vanterie, quanto da un'affettazione di umiltà. Chi protesta ad ogni istante di non valere nulla, di non esser capace di nulla, di reputarsi l'ultimo di tutti, corre talvolta il rischio d'essere scambiato per un ipocrita... e il rischio non è piacevole. Ma se la gente lo pigliasse sul serio? Se queste ripetute proteste di nullaggine attecchissero nell'opinione pubblica? Si può rispondere che i fatti smentiscono le parole, e che il vero merito si paleserà da sè. E' vero, ma talvolta un preconcetto formatosi di una persona può trovar una certa difficoltà a sparire. L'esperienza ci mostra molti fatti di questo genere. Ad ogni modo, questa può sembrare una originalità di cattivo gusto. Facciamo debita stima dei doni che il clemente creatore ci ha dato, e ricordiamoci che la modestia è verità, come diceva il Manzoni, che di queste cose se ne intendeva, e che se vogliamo essere stimati dagli altri dobbiamo anche mostrare che di noi stessi abbiamo una ragionevole e giusta stima.

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Noi invece, fortunatamente, abbiamo cambiato opinione, e il pubblico giustamente s'inquieta quando, a metà del primo atto o più oltre ancora ode sbatter le porte dei palchetti, ode quei molteplici rumori di assestamento con cui le ritardatarie disturbano l'attenzione tutta rivolta a quel che accade sulla scena. Anzi si è fatto un passo di più: a certi spettacoli eccezionali è vietato l'ingresso oltrepassata l'ora convenuta. Ed è giustissimo che chi va al teatro unicamente per godere la sublime elevazione di spirito a cui lo rapisce la musica o il dramma, e forse per quella volta sola, e a prezzo può darsi anche di qualche tacito sacrificio, non debba aver sciupato il suo diletto dalla scortesia di vanitosi ristucchi. Ma che diremo poi dei palchetti ove si fa conversazione durante lo spettacolo? Costoro dimostrano non solo mancanza assoluta di riguardo verso gli altri spettatori e verso gli attori, ma anche piccolezza di mente, insensibilità artistica, boria insolente. E' anche non è bene commentar lo spettacolo coi vicini (se non fosse quell'esclamazione spontanea e rapida che la passione commossa ci chiama nostro malgrado alle labbra), criticare, far confronti, mostrar erudizione non richiesta, disprezzare, disapprovare. In quanto all'applauso, esso è il compenso più ambito dall'autore e dagli artisti, ed è giusto non lesinar loro questo premio alle loro fatiche. Soltanto gli uomini dovrebbero applaudire colle mani; ora però si transige molto su questo, e bene a ragione. Se a una serata di gala intervengono principi o sovrani, o Capi di Stato il pubblico li saluta con affettuoso entusiasmo plaudendo e sveltolando i fazzoletti, tutti si levano in piedi. Così pure al suono di inni patriottici. E son quelli, bisogna pur dirlo, i momenti in cui l'animo esulta ancor più che per dilettazione per quanto sublime dell'arte perchè allora passa, aleggiando su tutto e tutti, lo spirito della Patria. Gli uomini che intervengono alle serate di gala devono portar l'abito nero, cravatta e guanti bianchi. A spettacoli più modesti basterà, sia per uomini, sia per donne, un corretto abito da passeggio. Negli intervalli fra un atto e l'altro, il pubblico si riposa, per così dire, delle sue fatiche intellettuali, si piglia il gusto di un po' di rassegna, di commenti, di critiche. Si scambiano allora visite di palco in palco si gira intorno lo sguardo armato di cannocchiale. Ma bisogna che le visite siano brevi; al suono del campanello che accenna la ripresa dello spettacolo, ognuno se ne ritorni al suo posto; se pur la confidenza con la signora visitata non permette di trattenersi, per meno male, sino alla fine del nuovo atto. E anche nell'uso del cannocchiale ci sia riguardo e discrezione. E' cosa molto scortese prender di mira con prolungata insistenza quel tal palchetto o quella tal signora. In un palco, il posto d'onore è quello che guarda la scena; ed è quello che la signora occuperà se con lei fosse una figlia o altra signorina, e che cederà ad una signora più attempata e ragguardevole. Non è bello però cambiar il posto ad ogni atto; basterà farlo una volta o due durante lo spettacolo. E' permesso a un visitatore, quando sia in confidenza, offrir qualche dolce alle signore da cui si reca. S'intende che il babbo o il marito o il fratello, non devono lasciar una signora sola nel palchetto per scender in platea o recarsi a far qualche visita: potrà far questo solo se intanto vi è con lei qualcuno che si è recato a visitarla. E non si esca e non ci si alzi se non quando lo spettacolo è veramente finito, e non quando le ultime battute, commozione, ansia, esultanza, strazio, espresso dall'artista colla massima tensione del suo genio, risuonano dalla scena e attirano a sè in un ultimo slancio l'anima protesa di un pubblico vero. Quei momenti sono sacri e vanno rispettati, anche se un insulso qualunque non è più capace a forza di materiale abitudine di intendere il grido supremo di Otello o l'estremo gemito di Violetta. Quando dunque il sipario è calato, e gli artisti lieti della bene spesa fatica, si presentano al pubblico per ricevere il premio dei suoi plausi, nei palchetti si può alzarsi e disporsi alla partenza. E' doveroso per gli uomini aiutare le signore a indossare i loro mantelli; le signorine faranno bene ad essere pronte esse, se fosse il caso, a servir la mamma, la zia, altra parente o amica che fosse con loro. Scendendo le scale non sono proibiti i commenti e i saluti, e spesso qualche incontro amichevole fornisce il completamento più bello della serata, nello scambio sincero e moderato delle impressioni. Così vanno le cose... o così dovrebbero andare, a grandi spettacoli. Ma vi sono spettacoli più alla buona: gli spettacoli di prosa, a cui, come si diceva, si va in abito da passeggio, spesso con una determinazione presa lì per lì, all'annuncio di un lavoro celebre, o anche per procurarsi uno svago inaspettato. Eccettuato che per l'impegno dell'abbigliamento, le regole però rimangono press'a poco le stesse, le regole di persone bene educate, che rispettano sè e gli altri e che hanno il debito riguardo per non far nulla che possa turbare o diminuire il piacere altrui. Si presenta però talvolta un caso. A sua insaputa, una persona onesta può trovarsi al fatto di vedere sulla scena ciò che profondamente disgusta la moralità dell'animo suo. So di due ottime zitellone che da chi sa quando non andavano più al teatro, trattenute da speciali impegni, e che una sera, finalmente, trovandosi libere, stabilirono di regalarsi una serata straordinaria. Si vestirono a tempo, presero i loro posti ed entrarono. Era l'epoca delle riesumazioni classiche cinquecentesche... e le due ottime signore si trovarono ad assistere... alla Mandragola! Se non morirono di vergogna fu un miracolo, e appena finì il primo atto se la svignarono come fu loro possibile, nascondendosi il viso. Bisogna dunque che una persona che va al dramma sappia, press'a poco, qual genere di rappresentazione gli si presenterà, e ciò è obbligo speciale per un capo di famiglia, che voglia condurre la propria moglie o le figlie, al fine di non esporle a una dolorosa mortificazione. Si vuol avvertire talvolta: non è spettacolo per signorine. Ma io consiglierei anche le signore assennate a non intervenire: ciò che disgusta e offende i sentimenti più delicati dell'animo femminile non dovrebbe trovare scusa o connivenza a nessuna età. E forse, davanti a un contegno più serio e più reciso della maggioranza femminile, i capocomici e gli autori cambierebbero rotta! Nei teatri popolari, il pubblico si abbandona più facilmente alla manifestazione clamorosa delle sue impressioni. E passi pure per gli applausi e le esclamazioni, e non ci faccia sorridere di meraviglia scherzevole l'ingenua commozione di qualche buona donna che piglia proprio sul serio la faccenda e piange e freme... Ricordiamo il grazioso sonetto di Neri Tanfucio, in cui il pubblico inveisce contro il tiranno, all'Arena. Fin qui, niente di male. Ma il male è quando il popolo non abbastanza educato, tumultua, grida e fischia. Il fischiare è un atto crudelmente villano contro chi non si può difendere, e ha fatto quanto meglio poteva per divertire il pubblico e farsi un po' d'onore. La persona bene educata non fischia mai. ... Cioè, ammetto un solo caso. Ed è questo: se una scena immorale fosse accolta da una salve di fischi, la lezione sarebbe severa per chi tocca, ma non certo inefficace. In tutti gli altri casi è inutile usare tal modo di riprovazione, quando c'è quell'altro così semplice e dignitoso, e che non fa male a nessuno: alzarsi e andarsene.

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Più ancora sono in uso adesso i giuochi all'aria aperta: il tennis, la pallavolo, la pallacanestro, tutti quelli che abbiamo importati dall'Inghilterra anche coi loro nomi esotici. Sono giochi eccellenti, e molto meno pericolosi per la moralità e la convenienza che quelli di salotto: si possono dire anzi assolutamente innocenti per se stessi. Tuttavia vi si mescola sempre un po' di varietà e di puntiglio; vi può essere da parte delle signorine un po' di civetteria, e un'affettazione di mascolinità che non è di buon gusto. Si evitino anche le soverchie familiarità: i giovanotti trattino con cortese cameratismo le loro compagne di gioco, e queste si contentino dell'onesto piacere dell'esercizio fisico e della soddisfazione di saper giocar bene. Per questi giochi si suol usare uno speciale costume, elegante e comodo: giovanotti e signorine si attengano a quello senza ricercatezze e senza affettazioni. E la bicicletta? Ormai essa è diventata d'uso tanto comune che il discutere se convenga o no alle signore e alle signorine è fuori posto. Vadano dunque, se loro piace, in bicicletta! E non solo per i bisogni eventuali di ufficio, ma anche per piacer loro, in campagna. Ma non facciano mai gite o passeggiate da sole, o nemmeno in due, troppo lontano. Non si sa mai!... E il vestire della ciclista sia pratico, sia corretto, sia modesto, sia... più abbondante che scarso. Pensino ai movimenti che devono fare e alla necessità d'esser convenientemente coperte. In campagna, e specialmente in montagna, si fanno anche gite a piedi, oppure aiutandosi con muli, asinelli, ecc. Sono piacevolissime quando sono ben organizzate, e vi prendon parte persone valide, allegre e ben affiatate fra loro. Coloro dunque che non si sentono in forze, e non vogliono assoggettarsi a qualche disturbo, o hanno delicatezze eccessive, rimangano a casa e non disturbino il piacere degli altri. Coloro poi che vi prendono parte, uomini e donne, devono stare al programma fissato dal capo gita, presentarsi vestiti ed equipaggiati secondo che vien loro prescritto; portar nella compagnia tutta la migliore disposizione per contribuire all'allegrezza comune, ad esser tolleranti e servizievoli reciprocamente. Al capo gita si deve ubbidienza cortese e cooperazione in quello che egli domanda. Siccome poi l'organizzare una gita di qualche importanza richiede spesso tempo, preoccupazioni, ricerche, fatiche, è giusto che gli venga testimoniata riconoscenza da chi ne ha profittato. Ed é anche doverosissimo pagare colla massima sollecitudine la quota di spesa. I gitanti hanno il diritto e il dovere di essere allegri. Possono dunque ridere, scherzare, cantare all'aria aperta. Ma negli alberghi, nei ristoranti, nei rifugi, devono astenersi dalle chiassate che fanno distinguere la gente per bene da quella che non è tale. E si ricordino anche che la familiarità dei due sessi durante questi innocenti piaceri non deve mai trasmodare in confidenze e contatti biasimevoli. Ciò vale naturalmente anche per ogni altro genere di sport, nel quale la persona veramente fine ed educata saprà sempre conservare, nel modo di vestire come nel contegno, una linea ed una misura di equilibrio lontane da ogni eccentricità e da ogni eccesso.

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