Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il ponte della felicità

219119
Neppi Fanello 4 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Tra poco la vita che abbiamo trascorsa su quest'isola deserta non sarà più che un ricordo. - E poichè il compagno taceva, egli proseguiva: - Che ne sarebbe stato di me, se fossi rimasto solo? Senza di voi, Agnolo, che cosa avrei fatto? - Ragazzo mio, io posso dire altrettanto di te. Ferito così malamente e nell'impossibilità di procurarmi il cibo, sarei certamente morto senza il tuo soccorso. - Ci siamo sorretti a vicenda, - rispose Alvise - guardando teneramente il compagno. E Dio ci ha aiutati, - mormorò il marinaro; poi ricadde nel mutismo nel quale da più di un'ora si era chiuso e che faceva strano contrasto con la verbosità febbrile del compagno. Una ruga profonda gli solcava la fronte ed era chiaro indizio di una preoccupazione che egli cercava invano di occultare. Quell'insolito contegno finì col turbare Alvise. - Che avete, Agnolo? - gli chiese, posandogli la mano sul braccio. Il marinaro era combattuto da opposti pensieri, e quella lotta interna si riflettè chiaramente sul suo viso e nei suoi occhi. - Che avete, Agnolo? - ripetè Alvise con ansia. - Figliuolo, una grande delusione ci attende, - si decise finalmente a dire il marinaro. - Ma bisogna essere forti, e affrontare coraggiosamente il destino. - Spiegatevi, Agnolo. - Già da un pezzo dubitavo che la galea che si avvicina non ci fosse amica, ora il dubbio si è mutato in realtà. - A chi appartiene, dunque? - È una nave corsara turca. - Infatti la galea che a vele spiegate veniva verso l'isolotto era una nave ausiliaria corsara. Quello strano vascello di costruzione quadrata, con la poppa molto alta, in uso tra i Turchi, era da loro chiamato qaramusàl. Differiva, per le sue forme tozze, dalle imbarcazioni più snelle e agili dei Veneti e dei loro alleati. Tali caratteristiche non potevano sfuggire a uno sguardo esercitato come quello del vecchio marinaro. Ancora non si distingueva il gagliardetto che sventolava sul pennone, ma si poteva giurare che vi campeggiava la mezzaluna. Alvise sbattè le ciglia, quasi a trattenere le lacrime. Il pianto infatti gli strozzava la voce, allorchè parlò. - Che fare, Agnolo? - Se fossimo scoperti, verremmo senz'altro fatti prigionieri e imbarcati su qualche galea turca dove si vive di stenti e di miseria. - Fuggire non possiamo, - replicò Alvise guardando desolato il mare che li circondava, impassibile e misterioso come una sfinge. Ho già preparato un piano. Mettiamolo subito in opera e speriamo che Iddio ci aiuti. Raccogli tutte le pietre che puoi trovare. Le addosseremo all'ingresso della caverna, poi le copriremo con la rena e le alghe della spiaggia in modo da far credere che tutto sia naturale. Noi ci chiuderemo lì dentro con quanti viveri abbiamo, chiudendo dall'interno il nostro ingresso e non senza prima aver fatto sparire ogni traccia della nostra permanenza nell'isola. - E la zattera, Agnolo? - Quella, purtroppo, bisogna distruggerla! - Oh, Agnolo! - Non c'è via di scampo, Alvise. Mettiamoci subito all'opera. - Due ore dopo, ogni cosa era sistemata secondo il piano del vecchio marinaro. Anche le orme dei loro passi erano state cancellate sulla rena. All'ingresso della caverna, in alto, era rimasto un vano, e da quello gli occhi di Alvise fissavano l'avvicinarsi della galea.. Agnolo aveva avuto ragione: era una nave corsara turca; si vedeva ora distintamente la mezzaluna che sventolava sul trinchetto. - Che cosa vengono a fare in quest'isolotto deserto? - A rifornirsi di acqua. - Non potevano rifornirsene in qualche porto? - È gente che, vivendo fuori legge, si tiene più che può lontana dal consorzio umano. - Allora non si tratterranno a lungo. - Chi può saperlo? Se fossero reduci da qualche impresa, potrebbero anche fermarsi alcuni giorni, per riposarsi e dividersi il bottino. - Alvise tacque, continuando a guardare la galea che la stanca brezza sospingeva sulla superficie calma del mare. Ormai il legno era a poca distanza e si potevano vedere gli uomini muoversi sul ponte. Il sole era già tramontato quando la galea gettò l'àncora e un'imbarcazione venne calata da bordo. Gli uomini dell'equipaggio, scesi per la scaletta di corda che pendeva lungo la murata, vi si sistemarono comodamente. Alcuni di essi afferrarono i remi e spinta da quelle braccia vigorose l'imbarcazione avanzò rapidamente verso terra. La galea deserta si delineava contro il cielo che si oscurava sempre più. Il vespero brillava già con la sua calma luce di sogno. Otto uomini scesero a terra e la barca venne tirata a secco. Essi parlavano un linguaggio ignoto ad Alvise. I corsari sbarcarono dei barilotti, che posero da un lato; poi accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. Da alcune bisacce tolsero cibi vari e abbondanti e cominciarono allegramente a mangiare, intercalando i bocconi con lunghe sorsate di vino di Cipro. - Chissà che cosa dicono! - mormorò Alvise all'orecchio di Agnolo, che gli stava accanto con il braccio appoggiato alla sua spalla. - Te lo dirò poi, - gli assicurò sottovoce il marinaro. Evidentemente Agnolo, che aveva navigato molto nei mari di Levante, comprendeva il turco. Il ragazzo non vedeva l'ora che il bivacco finisse per essere ragguagliato sulle intenzioni e le mire dei corsari. Alla fiamma crepitante del falò continuamente .... accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. alimentato, e nel quale finirono miseramente buona parte delle tavole della zattera, il pasto si protrasse a lungo. Finalmente gli uomini si alzarono barcollando e si guardarono intorno con una cert'aria stupita, borbottando qualche cosa tra loro. Con un gesto rapido Agnolo trasse Alvise nell'angolo più remoto della grotta e gli bisbigliò: - Taci, e non fare il più piccolo rumore. - Trattenendo il respiro, stretti uno accanto all'altro, l'uomo e il ragazzo udirono i corsari camminare più volte avanti e indietro, come se fossero incerti, fin che poi svoltarono l'angolo della scogliera dove si aprivano altre grotte. Poco dopo tutto tacque, tranne il respiro gigantesco delle onde. - Chi sono? - osò allora chiedere Alvise. - Sono corsari, diretti nel golfo di Lepanto per unirsi all'armata turca. Hanno detto che i nostri saranno attaccati dopo il cinque di ottobre. - Ma perchè sono qui? - Sono scesi in questa isoletta per rifornirsi di acqua e domattina riprenderanno il mare. - Ma che cosa cercavano con tanta ansia? - Si meravigliavano di non trovare più la grotta dove erano soliti coricarsi. Buon per noi che avevamo mascherato l'ingresso e che il buio della notte ha favorito i nostri piani! - Tutto questo Agnolo lo aveva sussurrato rapidamente, ansando per l'emozione. - Sicchè, la battaglia contro i Turchi non è ancora avvenuta? - No, certo; ma è imminente. Un centinaio di galee, agli ordini di Alì pascià, sono in procinto di assalire l'armata della Lega. - Dopo un lungo silenzio, il ragazzo disse: - Agnolo, facciamo qualche cosa per la nostra patria? - Di tutto cuore; ma non so che cosa possiamo fare in quest'isola! Non possiamo certo assalire i corsari, disarmati come siamo. La lotta sarebbe impari: due contro otto! - Giocheremo d'astuzia, Agnolo. - Hai già un piano combinato? - Sì; ma è necessario che prima di tutto io mi renda conto di molte cose. Voi, che non potete ancora camminare, aspettatemi qui. - Vuoi uscire? Ne va di mezzo la tua vita, Alvise! - Per Iddio e per san Marco. - Come vuoi, caro ragazzo.... Che Dio e san Marco ti proteggano! - Piano piano, Alvise cominciò a demolire la barricata che ostruiva l'ingresso alla caverna, ma per quanto cauti fossero i suoi gesti, un sasso rotolò con un tonfo sordo lungo la scogliera. Il cuore di Alvise cessò per un attimo di battere; ma nulla si mosse, segno evidente che i corsari si erano addormentati. Rinfrancato, il ragazzo continuò il suo lavoro, e poco dopo era sulla spiaggia. Le ceneri del bivacco biancheggiavano sulla rena, ancora tepida. Tutto intorno, pace e silenzio. Alvise si avvicinò alla barca dei corsari e raccogliendo tutte le sue forze tentò di spingerla verso il mare. Dapprima la chiglia, incassata nella rena, resistette, poi si mosse con lentezza e scivolò fin dove le onde si fermavano spumeggiando. Soddisfatto, il ragazzo tornò sui suoi passi e andò cautamente, come un felino, verso l'angolo della scogliera, dove si aprivano le altre grotte. Anche da quella parte, pace e silenzio. Alvise raggiunse di nuovo la caverna, e al compagno, che lo aspettava trepidante, sussurrò: - Fuggiamo. Appoggiatevi a me. - Senza una parola, Agnolo si aggrappò al ragazzo e insieme percorsero il breve tratto di spiaggia. Raggiunsero la barca e non senza fatica vi salirono e s'impossessarono dei remi. Dolcemente, affinchè il tuffo dei remi non fosse udito dai corsari, essi spinsero la barca verso la galea. Raggiuntala, legarono l'imbarcazione perchè non andasse alla deriva, poi si arrampicarono sulla scaletta di corda che pendeva lungo la murata, e furono a bordo. - Bisogna che ci allontaniamo alla svelta, - disse Agnolo. - Se i corsari si accorgessero ora della nostra fuga, ci sarebbero presto addosso e ci farebbero morire tra i più atroci tormenti. - .... si mosse con lentezza e scivolò dove le onde.... Svelto come uno scoiattolo Alvise si arrampicò sui pennoni e sciolse le vele. Ma la notte era calma, fresca, senza un filo d'aria. Le vele rimasero inerti e lo scafo non ebbe il più piccolo rollìo. Agnolo e Alvise si guardarono, sgomenti. - Non ci resta che aspettare pregando, e che san Marco ci assista! - disse Alvise. - Hai ragione. Il Cielo non ci può abbandonare. - E infatti il Cielo vegliava sui miseri. Una leggera brezza cominciò a soffiare, aumentò gradatamente d'intensità, gonfiò le vele, e la galea scivolò rapida sulla superficie increspata. Agnolo e Alvise ringraziarono Dio e tornarono sul ponte. Il marinaro fece rettificare ad Alvise la direzione delle vele, poi si pose al timone. - Tu, - disse al ragazzo - scendi; un po'di riposo ti farà bene. - Alvise s'impadronì di un mantello che giaceva vicino all'albero di trinchetto, vi si avvolse, e sdraiato accanto ad Agnolo disse: - Rimango con voi a farvi compagnia. Chiacchiereremo un pochino. - Ma la testa del giovane aveva appena toccato le dure tavole che gli occhi gli si chiusero in un sonno di piombo. Agnolo, le salde mani strette alla ruota del timone, rimase a vegliare quel letargo innocente. La notte era senza luna, ma un'infinità di stelle brillavano in cielo e la loro luce fu indicibilmente consolante per il cuore del vecchio marinaro.

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Il babbo, che ne intuiva la sensibilità artistica, la lasciava entrare a tutte le ore nel suo studio luminoso e le permetteva di toccare polveri, ciotoline e pennelli, sebbene purtroppo, come abbiamo già visto, non sempre quelle cose servissero per tentativi pittorici. Da un pezzo aveva cominciato a insegnarle le prime nozioni di disegno e di composizione dei colori, e già sognava il giorno in cui la sua bimba, ormai famosa, avrebbe perpetuato la gloria dei Sagredo. Madonna Lucrezia, quando il marito e la figlia erano immersi in quelle lezioni, prendeva un lavoretto o un libro, e seduta in silenzio davanti al finestrone che dava sull'orto ascoltava la loro conversazione, felice della perfetta comprensione che regnava tra quelle due creature adorate. Durante l'estate, dalle finestre aperte entrava il delizioso profumo delle rose che fiorivano in un'aiuola in mezzo all'orto e il fresco olezzo delle acacie che circondavano la casetta dei Sagredo. D'inverno, invece, quando la neve copriva ogni cosa con il suo soffice strato di gelo e i rosai e le acacie erano spogli, venivano i passeri a beccare le briciole che Loredana spargeva sul davanzale. Ed erano così carini e numerosi quei passerotti, che correvano con le penne arruffate e si becchettavano scherzosamente per giungere primi, che anche Lori e il suo babbo lasciavano il loro lavoro per godersi il quadro grazioso. La mattina dopo l'incidente del ponte, Loredana stava per entrare nello studio paterno per procurarsi colori e pennelli. Le era venuto in mente che sarebbe stato bello dipingere, insieme con Alvise, il muricciolo dell'orto, e anche (perchè no?...), il muro posteriore della casa, almeno fin dove arrivavano le loro braccia. L'umidità e il vento salmastro che veniva dalla laguna l'avevano un po' sciupacchiata e scurita, e la bimba credeva di renderle la primitiva freschezza con i suoi pennellini. Mentre stava per aprire la porta la mamma la trattenne. - No, Lori, non puoi entrare stamani. - Perchè, mamma? - Il babbo aspetta una visita, anzi una visitona. - Non era un fatto straordinario, quello, in casa Sagredo, ma ogni volta non mancava di suscitare l'interesse e l'entusiasmo di Loredana. - E chi verrà, mammina? - Il nobile Marco Antonio Bragadin. - Il governatore di Famagosta?... - chiese la, bimba che conosceva bene i possessi della Repubblica veneziana. - Lui in persona. - E perchè viene, mamma? - Non lo so, curiosona! - rispose madonna Lucrezia sorridendo al suo tesoro. - Allora, vado da Alvise, eh, mammina? - Sì, piccina mia, vai pure. - Era ormai abitudine che Loredana andasse a giocare nell'orto del suo piccolo amico ogni volta che il babbo riceveva delle visite d'importanza, perchè madonna Lucrezia temeva che il chiasso dei due ragazzi disturbasse gli ospiti. Ecco dunque la fanciulletta aprire la porta e lanciarsi come un folletto verso la casetta di nonna Bettina. Per nulla al mondo si sarebbe arrischiata ad attraversare il rio sul ponte di Alvise: la strada sarebbe stata molto più breve, ma anche più pericolosa. Lo slancio di Loredana dovette arrestarsi davanti al solito ostacolo: la serpe di bronzo che fungeva da battente alla porta di nonna Bettina era troppo alta per la sua statura, e nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad afferrarla. Dovette, come al solito, aspettare il passaggio di una persona, gentile che picchiasse per lei. Nonna Bettina accolse con fare materno la bimbetta e Alvise si mostrò addirittura raggiante. - Il babbo aspetta Marco Antonio Bragadin, - disse subito Loredana con una cert'aria d'importanza. - Benissimo. Allora siate buoni, e badate di non far chiasso - rispose la nonna con la sua bella voce pacata. Aveva il massimo rispetto per le leggi e per i grandi del mondo, ma la vanità, sotto qualsiasi aspetto, non l'aveva mai sfiorata. E non aveva mai provato invidia per le ricchezze e per gli onori altrui. Mentre i due fanciulli si. divertivano, spensierati, sotto il tiglio che stendeva la sua ombra fragrante su buona parte dell'orto di nonna Bettina, il governatore di Famagosta visitava lo studio del pittore Sagredo. Il nobile veneziano portava un abito di velluto bruno di una sobria eleganza, ravvivato da un collare di candido pizzo, che incorniciava il viso barbuto, e da una pesante collana d'oro zecchino (insegna della sua autorità), che gli scendeva sul Petto. Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri del Sagredo appesi alle pareti dello studio. Erano ritratti di dogi e di severi magistrati della Repubblica, immagini di santi ed episodi di vita veneziana. Un quadro con l'apparizione della Vergine ad alcuni santi arrestò la sua attenzione. La tavola era grande e rappresentava la Madre di Dio, seduta su nubi soffici e candide, mentre ai suoi piedi si stendeva un paesaggio lagunare di una indicibile freschezza. Di fianco, un angelo divinamente bello, con i riccioli biondi e la veste argentea cinta ai fianchi da un cingolo rosso carminio, reggeva con ambo le mani un cartiglio sul quale era scritto: Ave, gratia piena. Dopo averlo osservato a lungo; il nobile Bragadin disse: - Sagredo, questa tavola l'acquisto per la cappella di San Teodoro a Famagosta. - Una lotta si accese subitanea nel cuore del pittore. Quel quadro gli era immensamente caro perchè nella Vergine. erano effigiate le sembianze di Lucrezia, sua moglie, e nell'angelo quelle di Loredana. Ma poteva rifiutarlo al governatore, tanto più sapendo dove doveva essere collocato? L'ospite intanto si era seduto sull'ampia seggiola Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri.... a braccioli, rivestita di damasco verde, sulla quale soleva mettersi madonna Lucrezia. - Sagredo, - disse infine - perchè non venite a Famagosta con me? - A che scopo, messere? - Per decorare il palazzo della residenza. - Sarebbe un'impresa meravigliosal... - mormorò - il pittore con gli occhi accesi dal desiderio. - La vostra fama varcherebbe così i confini della Repubblica. - Capisco, messere, e vi sono molto grato della proposta. Ma.... - S'interruppe, non osando esprimere più oltre il suo pensiero. Il Bragadin continuò per lui: Dicerto vi dispiacerà lasciare la vostra famiglia. Ma pensate che la separazione durerà un anno al più e che al vostro ritorno porterete con voi non soltanto la gloria, ma anche un bel gruzzolo di ducati mediante il quale provvederete all'agiatezza delle vostre care. La Repubblica compensa largamente i suoi fedeli servitori, lo sapete. - Sagredo rimaneva in silenzio, combattuto da opposti desiderii. Il governatore si alzò. La collana d'oro zecchino gli tintinnò leggermente sul petto mentre si poneva in testa il casco piumato. - Tra due giorni la nave ammiraglia mi condurrà a Famagosta. Vi attendo a bordo. Sta bene, Sagredo? - Il pittore s'inchinò profondamente. - Ci sarò,- messere. - Provvedete intanto a fare imballare il quadro dell' Apparizione. Potrete collocarlo voi stesso nella cappella di San Teodoro, - disse il nobile Bragadin incamminandosi verso l'uscita. Dopo averlo osservato a lungo, il nobile Bragadin.... Quivi giunto, si volse di nuovo al pittore che lo accompagnava rispettosamente e dopo averlo salutato con un cenno cordiale della mano, soggiunse: - Passerà da voi il mio tesoriere per il compenso. Salve, Sagredo. - Già da un pezzo Marco Antonio Bragadin, governatore di uno dei più ricchi possessi veneziani, era uscito dallo studio, e il pittore restava ancora lì ritto, in mezzo alla stanza luminosa, in balia all'onda incalzante dei suoi pensieri. Così lo trovò madonna Lucrezia quando osò timidamente affacciarsi alla porta. - Lorenzo.... - Vieni, cara Lucrezia, vieni. - Sei rimasto contento della visita? - Siedi qui, vicino a me. Devo parlarti, - le disse di rimando il pittore. Lucrezia lo guardò con un lieve sorriso sulle labbra, ma con un segreto timore nel cuore. Che cosa stava per dirle, con quell'aria seria e quella voce grave? - Lucrezia, tra due giorni partirò. - E dove andrai, Lorenzo? - chiese la donna con una voce stranamente incolore. - A Famagosta, al seguito di Marco Antonio Bragadin. - A Famagosta? - ripetè Lucrezia come un'eco lontana. Lorenzo Sagredo chiuse dolcemente nelle sue mani quelle della moglie. - Per quale motivo, Lorenzo?... - gli chiese, dopo un silenzio che a entrambi parve eterno. - Ho assunto l'impegno di decorare la residenza del governatore. Pensa, Lucrezia mia, alla gloria e alla ricchezza che mi acquisterò! - Ma Lucrezia non pensava che all'amaro distacco e alla lunga lontananza. Avrebbe voluto gridare con tutta l'anima: «Non partire! Che importa a me della gloria e della ricchezza? A me basta la mia quieta casetta rallegrata dalla tua presenza e da quella della nostra regina. Non te ne andare!» Ma Lorenzo continuava, sempre più infervorato: - Ho esitato molto prima di accettare, pensando quanto mi sarebbe stato doloroso separarmi da voi; ma ho riflettuto a tempo che tutti dobbiamo lavorare per la gloria di Venezia. E poi, che brillante avvenire preparerò alla nostra Lori! - Vi fu un altro attimo di silenzio. Il pittore continuava ad accarezzare le mani della moglie, che tremavano tra le sue. - Lucrezia, avrò a mia disposizione delle grandi pareti sulle quali raffigurare tutta la storia dei Venetici, dall'impero di Bisanzio al nostro Doge. Vi profonderò i colori più smaglianti della mia tavolozza. Voglio che in un anno tutte le glorie dell'estuario veneto siano celebrate nel palazzo del governatore. - Nella voce di Lorenzo Sagredo vibravano tanto entusiasmo e tanta passione che Lucrezia, piano piano, ricacciò in fondo al cuore, come un masso pesante, l'angoscia che la torturava. Voleva essere la degna compagna di Lorenzo, e non l'ostacolo alla sua ascesa luminosa. Intanto il pittore continuava: - Durante la traversata, che durerà parecchi giorni, avrò modo di elaborare gli episodi da dipingere, e appena giunto a Famagosta mi metterò al lavoro. Non ti ho ancora detto, Lucrezia, che il nobile Bragadin ha acquistato la mia Apparizione, per una cappella dell'isola. Sono lieto, ora, di avergliela ceduta; così, almeno, potrò a tutte le ore del giorno vedervi quasi vive e parlanti. - Una lacrima, una sola, era scesa furtiva dagli occhi di Lucrezia ed era andata a perdersi tra le fitte pieghe della fine sciarpa di velo che le copriva petto. Ma la virtuosa donna si era già ricomposta. - Che il Signore ti benedica e san Marco ti accompagni! - gli mormorò con la sua voce dolcissima. - Così sia! - rispose il marito, baciandole la mano. Loredana accolse la notizia con grande giubilo. Nella sua ingenua spensieratezza non vedeva che il lato brillante della cosa. Il suo babbo era tanto bravo che Marco Antonio Bragadin lo voleva a Famagosta per fargli decorare la propria residenza. Tra qualche mese sarebbe tornato ricco di gloria e di onori. Loredana era ancora troppo piccina per poter approfondire. I due giorni che seguirono il colloquio col governatore furono impiegati in casa Sagredo nei febbrili preparativi della partenza. Lorenzo si occupò di colori, terre, pennelli, barattoli, punte d'argento, e di quant'altro poteva avere attinenza con la sua arte; madonna Lucrezia, aiutata lodevolmente da Loredana, che non pensava più a giocare nell'ombra fresca dell'orto, preparò la biancheria, i vestiti e le cappe, e li chiuse in due grandi bauli di cuoio a borchie d'ottone. La bimba faceva mille domande, e la mamma si sforzava di risponderle con pazienza, soffocando il dolore che la stringeva dalla testa ai piedi, come le spire di un immane •serpente. Perché non poteva, gioire anche lei di quell'avvenimento così importante per il suo caro? Perché? Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, Lorenzo Sagredo parti. Lucrezia, Loredana e il piccolo Alvise poterono, per gentile concessione del Bragadin, salire a bordo della nave ammiraglia per porgergli l'ultimo saluto. Il babbo non sapeva staccarsi dalla sua Loredana, così bella e gentile nel vestitino di raso bianco a ricami azzurri, con una ghirlanda di roselline che fermava l'arricciatura vaporosa della gonnella. La gloriosa storia dei Venetici, il palazzo del governatore, la lontana isola di Famagosta, avevano perso tutto il loro incanto: non restava, ora, che l'amara realtà del distacco. Madonna Lucrezia si mostrò la più forte per rendere agli animi la serenità; ma il suo viso, pallido e come rimpicciolito, tradiva l'interna angoscia, nonostante la voluta fermezza delle linee. La nave ammiraglia si metteva in moto, circondata da altre galee che, come grandi uccelli migratori, dovevano scortarla lungo il viaggio. Partiva in mezzo al fasto di cui sapeva circondarsi la Repubblica marinara, solcando le acque della laguna che la luce del tramonto tingeva di fiamme vermiglie. Lucrezia, Loredana e Alvise rimasero silenziosi sulla riva a guardarla, finché le ombre del crepuscolo, ombre azzurre e viola, non la fecero svanire in misteriose lontananze. Loredana continuò a chiacchierare anche durante il ritorno al rio di cà Foscari, eccitata da tutto ciò che aveva visto e vissuto in quelle ultime ore. Ma quando si trovò nella sua casa insolitamente deserta e silenziosa, nello studio del babbo, che le tenebre della notte riempivano di malinconia, si aggirò inquieta, scrutando nel buio sempre crescente con le pupille lucenti di lacrime non versate, e andò a rifugiarsi, smarrita, tra le braccia materne. Dall'umida frescura delle fronde l'assiolo fece sentire il suo nostalgico richiamo.

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Noi abbiamo in sala due bellissimi quadri di tuo padre. Te li farò vedere. Dimmi ora qualche cosa della tua vita. Ti vedo così.... - Da lungo tempo mio padre è prigioniero dei Turchi. - Ah! - Era partito per decorare la residenza del governatore di Famagosta. - E si è trovato all'assedio? - Sì; ma abbiamo saputo da un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa che mio padre è sfuggito al massacro, e dopo essere stato imbarcato come schiavo sulle galee turche, è stato inviato a decorare la residenza di Alì pascià. - E tu, poverina, lo hai atteso tutto questo tempo invano? - Io, e la mamma, che è diventata cieca. Gli occhi di Teodora espressero una pietà profonda. Guardò a lungo la fanciulla sdraiata sul divano; poi, con voce dolcissima: - Vuoi raccontarmi, cara, qualcosa della vostra vita? - Loredana parlò. Tutte le miserie e le lacrime degli anni trascorsi, e anche tutte le sue speranze deluse, non esclusa l'ultima, naufragata insieme con la Santa Cattarina, riapparvero nel suo racconto. La nobile fanciulla l'ascoltava, assorta. Teodora Pisani Moretta aveva l'animo gentile e molto generoso. Dal padre aveva ereditato una bella intelligenza e una squisita sensibilità musicale. Fin da bambina era stata avviata allo studio della musica. A sei anni appena aveva messo le mani sul clavicembalo e doveva sonare sulla quinta, non potendo con le sue piccole dita arrivare all'ottava. Più grandicella, aveva iniziato anche lo studio del violino, di quell'armonioso strumento che nella sua casa aristocratica costituiva la delizia delle elette conversazioni. La musica era divenuta una delle più gradite occupazioni della sua infanzia e della sua adolescenza, e doveva restare il conforto incomparabile di tutta la sua vita. Il padre, che possedeva una vasta cultura, gli era stato maestro impareggiabile, e le ore più belle per il vecchio giureconsulto erano appunto quelle nelle quali la sua cara figliuola si chiudeva con lui nell'ampio e severo studio, le cui pareti erano coperte da scaffali colmi di rari volumi. S'intendevano tanto bene, quelle due anime gemelle! Padre e figlia rifuggivano dalle vane riunioni e dal chiasso volgare, e se non fosse stato per appagare la fiera marchesa Violante, loro rispettiva moglie e madre, non avrebbero mai preso parte ad alcuna festa, paghi com'erano dei loro godimenti interiori e dei loro amatissimi studi. Teodora aveva dovuto accettare la nomina di damigella d'onore della Dogaressa, e in questa sua qualità era obbligata a frequentare le sfolgoranti feste che si davano al Palazzo Ducale. Ma come godeva poi la quiete della sua casa e l'austera bellezza dei suoi studi! Mentre Loredana parlava, era entrata la cameriera portando il quadretto che il vecchio sonatore girovago aveva raccolto in riva al canale. Teodora lo guardò a lungo. - Volevo venderlo a messer Antonio, - le disse Loredana. - Come hai saputo render bene la malinconia dell'autunno! - È il giardinetto della mia vecchia casa. - E come hai potuto ritrarlo? - Confina con l'orto di nonna Bettina. - Era la tua casa quella che s'intravede fra i tronchi? - Sì. Nell'estate e fino al tardo autunno il fianco è tutto coperto di vite vergine. Laggiù c'erano le aiuole dove la mamma coltivava i suoi fiori. - La voce di Loredana era piena di rimpianto. - Bisognerà che tu mi lasci questo quadretto. Voglio farlo vedere ai nostri amici pittori. - E tu mi devi aiutare, Teodora. La mamma e nonna Bettina attendono tutto da me. - Non temere, cara. Con l'assistenza di mio padre potrai fare molto. - Mai vorrà occuparsi di noi? - chiese Loredana, pensando con un certo timore al severo uomo di Stato. ... mentre il pettine passava leggero.... - Tu non conosci il mio babbo e non sai quanto sia buono! - le rispose Teodora, mentre il suo pallido viso brillava di tenerezza. - Ora bisogna che vada a casa. Vedo che il buio si fa sempre più fitto, e la mamma e nonna Bettina staranno in pensiero per me. Ma come farò se i miei panni sono tutti bagnati? - Non ti preoccupare per questo. Sei poco più alta di me, e i miei vestiti dovrebbero starti abbastanza bene. - Ma non vorrei privartene. - Che dici mai! Ne ho tanti! Guarda, qui, - soggiunse, aprendo un armadio a intarsi e con le borchie dorate. - La mamma me ne fa sempre dei nuovi. - La sua voce aveva avuto una impercettibile inflessione ironica. Scelse un vestito di panno morello guarnito di martora, e lo fece indossare a Loredana. Poi condusse la fanciulla davanti allo specchio che occupava quasi una parete intera, e la fece sedere sopra una cassapanca dove stavano allineati parecchi oggetti da toeletta. - Voglio ravviarti i capelli. Come sono belli!... Sembrano oro filato! - le disse mentre il pettine passava leggero nella massa lucente che scendeva sulle spalle di Loredana. - Ecco! Ora smorziamo questo bagliore, - soggiunse, coprendo le morbide trecce con un cappuccio di panno morello come l'abito, e anche questo guarnito di martora. - Aspetta, che accenda la lucerna. Guarda: sembri una visione! - Un rumore di passi e un fruscìo di seriche gonne fece volgere il capo alle due fanciulle. La superba marchesa Violante era entrata. L'alta e snella persona procedeva eretta, e gli occhi, benchè grandi e belli, avevano un'espressione dura e imperiosa. - Che c'è, Teodora? - chiese, senza curarsi di Loredana, la quale, intimidita, se ne stava a capo chino, col viso in fiamme. Non era la prima volta che sua figlia le portava in casa delle pezzenti, e tutta la sua severità non era riuscita a guarirla di quella mania. - Mamma, la poverina era caduta nel canale mentre cercava di salvare un bambino.... È la figliuola del pittore Lorenzo Sagredo, - aggiunse in fretta, nell'intento di rabbonire la signora. Infatti, l'espressione del viso della marchesa Violante si raddolcì alquanto. Si avvicinò a Loredana e la considerò attentamente. Sembrò soddisfatta di quell'esame, perchè sulle sue labbra fiori un lieve sorriso. Teodora, trepidante, lo vide, e capì che la partita era vinta. Prese allora il quadretto, e porgendolo alla madre: - Guarda, mamma: anche lei è pittrice. Questo quadretto lo ha eseguito in questi giorni. Dovresti farlo vedere ai nostri amici. - La marchesa prese il piccolo dipinto e disse: - Ben volentieri. Adesso vi lascio. Questa giovinetta l'affido a te, Teodora. Sii la sua piccola amica.

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. - Eppure abbiamo ancora tante cose da ammirare! - Lo so, ma io desidero rivedere la mamma. Eppoi, sono piuttosto stanca, - soggiunse subito, per prevenire altre obiezioni dell'amica. - Quand'è così, - disse Mariolina cedendo a malincuore - devo contentarti. - E salutata Loredana, che ormai era giunta alla mèta, diede ordine al gondoliere di proseguire verso il palazzo Vendramin Calergi, per recarsi da Ludovica. Voleva godersi fino all'ultimo quelle ore di allegria effimera, quelle pazze ore carnevalesche che già avevano l'amaro sapore delle Ceneri.

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