Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184088
Giuseppe Bortone 5 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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In Toscana, abbiamo un eccellente qualificativo per le person pulite: « giovevole ». Se le persone non amanti della pulizia pensassero che, dalla poca pulizia, possono derivare molte malattie e la morte; se pensassero almeno che le altre provano per loro quel senso di disgusto che esse provano per quelle che vedono sudice; se pensassero anche che, per un improvviso malore o per un incidente qualsiasi, potranno rimanere seminude sulla strada o essere svestite in un ospedale, probabilmente avrebbero maggior simpatia per l'acqua, per il sapone e per il bucato...

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Al saluto non si suole, generalmente, attribuire tutta l'importanza che ha; pur dovendo ciascuno di noi convenire piú delle volte, l'opinione lusinghiera che abbiamo di amici e di conoscenti trova la sua giustificazione iniziale in un saluto. Un atto, quindi, che non va compiuto con leggerezza, e, quasi, con distrazione; tanto piú che, pur senza volerlo, si esprime con esso il sentimento da cui siamo animati verso la persona che si saluta: simpatia, benevolenza, rispetto, protezione, devozione; in ogni caso, diamo la misura della nostra educazione, della nostra distinzione, della nostra finezza. Se ci fermiamo all'angolo di una via, e ci guardiamo d'intorno, vediamo braccia che si protendono, inchini, scappellate; ma quanti modi diversi di compiere questi atti; sopra tutto, quanti diversi atteggiamenti del viso nel compierli! Il saluto è, spesso - specialmente da parte delle donne - accompagnato da un sorriso. E il sorriso è una di quelle cose su cui non è difficile fare del lirismo, ma che non si insegnano; sí che basterà dire che, con esso, possiamo esprimere tutta la gamma dei sentimenti, dal disdegno e dallo sprezzo alla simpatia e al compiacimento. E l'inchino? Ahimé, se non è piú che misurato, esso ci si presenta come un ricordo del passato, un vago ricordo, una forma antiquata di cortesia che, completata dai talloni congiunti e dal dorso rigido, rappresenta il saluto militaresco, ancora di moda fra le popolazioni teutoniche. Forma cara ai vecchi, piena nostalgia ottocentesca, ma non piú consona al nuovo costume italiano: tollerabile tuttavia, ma a condizione che gl'inchini non somiglino troppo a quei gesti meccanici dei pupazzi di gomma che fan sempre di sí col capo. I grandi inchini, ora, si possono vedere soltanto nelle ampie sale delle ambasciate e dove si balli il minuetto. Cominciamo, dunque, dal salutare gli amici e i conoscenti; mettendo sempre cordialità nel saluto, ma in grado maggiore o minore, secondo il grado di dimestichezza. Salutare per primi è come « assicurarsi il riconoscimento di una migliore educazione ». Salutare un amico alla voce, a distanza, non è bello; è sconveniente farlo con una signora. Se vi fermate con un amico, è prudente non chiedergli come sta: rischiereste di udire una filastrocca interminabile di guai - per lo piú immaginari - che vi metterebbero di malumore. Meglio sarà chiedergli, come vedremo altrove, quel che di bello v'ha da dire. Se si chiedessero notizie di voi, vi consiglierei quasi di rispondere ciceronianamente, come udii spesso nel contado senese: « Bene, se va ben di lei! ». Va da sé che l'uomo saluta per primo la donna; e scoprendosi, non facendo soltanto l'atto di scoprirsi: il piú giovane saluta il piú anziano, salvo che quello non occupi un posto piú elevato nel rango sociale. Ho detto «va da sé » riferendomi al costume generale e particolarmente a quello italiano; perché, in Inghilterra, e specialmente in America, ora saluta per prima la signora; quasi perché scelga lei, liberamente, chi vuol allietare o onorare col suo saluto. Accade talora di salutare, per errore, una signora che non si conosca: bisogna continuare a salutarla; salvo che essa non dimostri di gradir poco il nostro atto di omaggio. Non si saluta, né si parla con la sigaretta in bocca, o con una mano in tasca: anzi, le mani nelle tasche, specialmente dei calzoni, non si portano mai. Se non si hanno libere le mani, si fa cenno di portare la destra alla bocca o al cappello. Questo, se è floscio, non si prende per la tesa, ma per la parte superiore; né si solleva troppo in aria, o si agita, o si abbassa fino a mezza la persona. Lo si toglie con la mano della parte opposta a quella della persona che si vuol salutare, sempre che essa sia libera. Chi va a capo scoperto, o porta berretti di forma speciale - senza visiera, - s'inchina. I militari fanno il saluto di prescrizione, il quale è sempre il piú elegante, purché fatto con decisione e con marzialità. Una coppia saluta una signora sola. C'è chi saluta isolando, per cosí dire, il destinatario da quelli co' quali si trova: « buona sera, dottore! »: non è ben fatto; ugualmente, si deve salutare e rispondere ai saluti con chi è con noi. Quando s'è cominciato a salutar qualcuno per una speciale relazione stabilita con lui, si continua a salutarlo, anche quando quella relazione è finita. Sia detto questo specialmente per quei genitori - e non son pochi! - che salutano gl'insegnanti dei loro figlioli, e omettono poi la bella abitudine quando i figlioli passano ad altre classi o con altri insegnanti. È bene tener presente che l'« a rivederci! » è un modo amichevole di commiato: quindi, è del superiore verso l'inferiore, della donna verso l'uomo, mai il contrario. Se una signora ferma un amico o un conoscente, questo si scopre, e rimane a capo scoperto fino a quando la signora non lo autorizzerà a coprirsi; non le porgerà per primo la mano: non cercherà di trattenerla a lungo; non proseguirà il cammino con lei, salvo che non ne sia autorizzato. Se si accompagnerà con lei, o smetterà di fumare o le chiederà il permesso di continuare. Non si fermerà a parlare con altri, né le lascerà, come usava, sempre la destra, ma il posto piú comodo e piú sicuro; oggi specialmente che gl'investimenti non sono troppo rari. Nei casi di grande amicizia - o quando la signora ne abbia bisogno - le offre il braccio sinistro: gli ufficiali le offrono il destro quando portano la sciabola. È elegante che un ufficiale di grado piú elevato saluti per primo un suo inferiore quando quest'ultimo è accompagnato con signore. Due uomini mettono in mezzo una signora: di tre o piú uomini, si mettono in mezzo quelli piú ragguardevoli: alla destra di questi, o della signora, le persone, per cosí dire, numero due; alla sinistra quelle numero uno. Una coppia mette in mezzo una signora, o una signorina: il marito sempre alla destra della moglie, lasciando la destra a un altro. Due signorine possono mettere in mezzo un giovanotto, se c'è dimestichezza fra loro. Un giovinetto o una giovinetta vanno alla sinistra dello loro istitutrice: se sono in due, la mettono in mezzo. Si suol dire che è uno spagnolismo questo del posto: a me non pare; perché, in fondo, mira a far godere a tutti la compagnia e la conversazione della persona che si suol collocare in mezzo. Un uomo non ferma sulla via una signora che conosce; salvo casi urgenti, o che non possa incontrarla piú, o altrove. Per salutare una signora in auto, non s'introduce il capo nel finestrino. Alle signore non si dànno denari o lettere sulla via. Se, poi, è segno di dubbia educazione fissare insistentemente signore e signorine che passano, o volgersi indietro a guardarle, è indice di somma volgarità farle bersaglio di complimenti piú o meno sdolcinati e galanti. Lode incondizionata, a questo riguardo, merita l'iniziativa di alcuni Prefetti e di alcuni Questori i quali hanno energicamente affrontato l'increscioso inconveniente, sparpagliando da per tutto agenti della squadra mobile e facendo diffidare quegli stupidi elegantoni sfaccendati, detti «pappagalli della strada » - o esoticamente gagà - che si ostinano a infastidire le passanti. Molto spesso, in verità, anche le donne si volgono indietro per esaminarsi - ammirarsi o deridersi, secondo i casi; - ed è divertente vedere come rimangano male quando, voltatesi nel medesimo istante, si sorprendono a squadrarsi a vicenda. È sommamente ridicolo, per un uomo, fermarsi di fronte allo specchio di qualche mostra per compiacersi del nodo della cravatta o della piega dei calzoni. Per quanto è possibile, si deve evitar di camminare, come si suol dire, con la testa per aria; lo esige, prima di tutto, l'infernale movimento stradale moderno, che è quasi un permanente attentato alla incolumità e alla vita; e, in secondo luogo, l'obbligo di adempiere ai doveri della cortesia. Se si rimane mortificati quando si saluta uno sconosciuto scambiato per un conoscente, o gli si rivolge la parola, quando addirittura non lo si prenda sotto il braccio; e si risponde a un saluto che non era diretto a noi - il che, in fondo, non è gran male - si rimane peggio quando ci accorgiamo d'aver guardato una persona, cui eravamo stati presentati, senza vederla e senza farle un cenno di saluto. Quando le chiederemo scusa, la prossima volta che ci troveremo insieme, apprenderemo che essa aveva notato la nostra distrazione. Non è conveniente fermare sulla via amici professionisti - avvocati, ingegneri, medici, insegnanti - per consultarli intorno a cose riguardanti appunto la loro professione. Al passaggio d'un funerale, è doveroso fermarsi per salutare o cavandosi il cappello, o mettendosi sull'attenti, se si è a capo scoperto. Ugualmente, se passa la bandiera nazionale. Non diversamente, se passa una processione. Chi fosse d'altra confessione religiosa torna indietro, svolta, entra in una bottega; ma non rimane a capo coperto, quando tutti si scoprono ; se non per altro, come omaggio alla opinione altrui. È bello vedere in alcune città - a Siena, per esempio, - salutare le lettighe che passano con un malato. Non bisogna fermarsi in crocchi sulla via per discutere: i passanti son quasi come gli anelli di una catena: se ne tiri uno, vengono via tutti; se uno ne fermi tutti si arrestano. Il che accadrebbe anche se si leggessero giornali o lettere. Guardarsi dal parlare, per la via, a voce alta, o con gesti, o di cose delicate, o facendo nomi; dal bisticciarsi, per le coppie sopra tutto ; dall'indicare col dito; dal fischiare o zufolare; dal ridere sguaiatamente; dall'intavolare conversazioni con persone che sieno in finestra; dal passare davanti a persone ferme, che guardino vetrine o leggano manifesti; dal passare fra due o piú che vadano insieme. In alcuni paesi - e città! - si tenta finanche di passare fra due carabinieri di servizio, perché... porta fortuna! Se s'incontra una persona di nostra conoscenza in compagnia d'un'altra con la quale preferirebbe di non esser veduta, si passa oltre con disinvoltura come se non la si fosse notata. Se si porta l'ombrello, o il bastone guardarsi dal farlo roteare. Soltanto, poi, i venerandi pensionati di provincia fanno compiere all'ombrello l'ufficio del bastone. Su quello non ci si appoggia, passeggiando, né lo si porta, come un famoso personaggio da commedia, sotto il braccio, o in altro modo che possa dar noia a chi è al nostro fianco o ai passanti. Inoltre, per non intralciare il movimento, è doveroso andar sempre dal lato prescritto, che non è da per tutto lo stesso, specialmente nelle città dove le vie son senza marciapiede. Imbattendosi faccia a faccia con uno che non tenga la sua mano, piuttosto che fare per parecchi secondi quel grottesco va e vieni, da destra a sinistra e viceversa, con le braccia piú o meno aperte, proseguire risolutamente per la propria destra. Può darsi che si abbia bisogno di qualche indicazione o informazione: ci si rivolge garbatamente a qualche passante che si vede pratico del luogo o a una guardia - è meglio non disturbare una signora - chiedendo scusa del fastidio e ringraziando: si dà alla stessa maniera; dolenti se non siamo in grado di farlo. Se chi si rivolge a noi è uno straniero, non risparmiare anche qualche passo perché l'indicazione sia completa e precisa. Talora si formano, sulle vie e sulle piazze dei crocchi, degli assembramenti per un incidente o di fronte alla esposizione di una bottega: una signora specialmente non s'imbranca. E non si cerca in tutti i modi di passare ai primi posti, spingendo dietro gli altri, se c'è un qualsiasi pubblico avvenimento. Quando piove e noi siamo forniti d'impermeabile o d'ombrello, si lascia lo spazio piú riparato, presso i muri, ai passanti che ne sono sforniti: se s'incontra una signora amica in tali condizioni, meglio offrirle senz'altro l'ombrello che proporle di accompagnarla. Non si gettano sulla via carte strappate e né pure scatole vuote di cerini o di sigarette: se non ci sono, qua e là, lungo la via, gli speciali cestini metallici, si tiene tutto in tasca, salvo a sbarazzarsene quanto prima, e tanto meglio se in modo che ne possa usufruire la Croce Rossa. Mi si son proposti due quesiti: Possono le signore, per via, portare dei pacchetti? - Non era elegante, specialmente in alcune nostre regioni; ma, oramai, le signore hanno superato questo pregiudizio: a condizione, però, che i pacchetti, per il numero o per il peso, non diano l'idea dello sgombero. È elegante, per una signora, andare a passeggio con un cagnolino al guinzaglio? - Al guinzaglio si, non certo in quelle altre maniere in cui oltre Manica e in America - per quanto non sia altrettanto elegante fermarsi col cagnolino - lo si guardi o non lo si guardi!, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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Noi possediamo ciò che abbiamo donato: hilarem datorem diligit Deus, disse San Paolo. E, con l'avidità, con la taccagneria, l'ambizione. Anche questa mal si concilia con la dignità; perché l'uomo ambizioso, posseduto dalla febbre di dominare sui suoi simili, non guarda a mezzi, pur di « arrivare »; ed è costretto a transazioni frequenti con la propria dignità oltre che con le proprie convinzioni e con la propria coscienza - dovendo blandire, adulare e, non di rado, umiliarsi. « Transigere »: « la grande parola, che sembra il superlativo della prudenza, ed è quasi sempre il superlativo della viltà ». In fondo, l'avarizia e l'ambizione sono due aspetti dell'egoismo - che è la piú abietta, la piú brutale delle passioni umane - e, come tale, inconciliabile con la vera, con la grande signorilità. E c'è, in fine, la paura: trista parola e tristissimo sentimento, diffuso tra noi specialmente dal defunto regime, per il quale, sopraffatti dall'incubo di qualche male che ci possa capitare, si dimentica la propria personalità, si calpesta il proprio decoro e ci si rende schiavi di chi, in un modo o in un altro, ha saputo far nascere in noi quell'incubo. Parola e sentimento ignoti all'uomo « di carattere », all'Uomo, cioè, veramente tale, nel significato piú alto e piú nobile della parola.

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Nelle lettere familiari e d'amicizia, una introduzione semplice e viva e una chiusa buona e affettuosa: tra l'una e l'altra, le notizie e, in genere, quel che abbiamo da dire, non con un ordine stringato, ma tuttavia senza andate e ritorni. È permesso qualche poscritto, che consente di tornare un momento su ciò che s'è detto, o di colmare una lacuna. Le lettere d'affari possono essere svariatissime, dalla commissione alla raccomandazione: requisiti principali, l'ordine, la chiarezza, la brevità: principalissimo, la gentilezza. Alcune lettere di questa categoria richiedono un tatto speciale: quelle, per esempio, con cui si dànno o si chiedono informazioni. In tal caso, bisogna scrivere secondo che la coscienza suggerisce e in termini prudenti, perché la piú piccola parola inconsiderata può pregiudicare moltissimo una persona o una istituzione. Si mettono fra le lettere dette di convenienza quelle che alcune circostanze speciali della vita obbligano a scrivere: lettere di condoglianze, di congratulazioni, di ringraziamento, di scusa. Le prime son le piú difficili. Esse si propongono di consolare. Tutto vi è delicato: la scelta del momento in cui si scrive, le parole che si usano, i sentimenti che si esprimono. E il complesso di questi diversi elementi dipende dalle relazioni fra mittente e destinatario. Se chi scrive è buon amico di colui cui la lettera è diretta, prende parte veramente al suo dolore: in tal caso, il cuore guiderà certamente la penna e farà dire delle cose delicate e consolanti. Se, invece, col destinatario, non si hanno che relazioni di società, gentili senza essere amichevoli, si andrà meno avanti nella intimità del dolore, si limiterà a dare l'assicurazione della propria simpatia. Il difficile, in parecchi casi, è di restare discreto, evitando di cadere nella freddezza, che è quasi un'offesa, come quando si scrive « condoglianze » su una carta da visita, o di profondersi in effusioni inverosimili. Ora, non si cadrà in questa mancanza di gusto se si è mossi da sentimenti, elevati e generosi; se, in una parola, si ha del cuore. Non vi possono esser regole per questa specie di lettere, il cui merito principale consiste nell'adattarsi al carattere delle persone e delle circostanze. Il dolore colpisce cosí diversamente le anime! Alcune quasi vi si adagiano; e, per queste, il miglior modo di condolersi è parlare della perdita patita. Altre, al contrario, mettono come del pudore a chiudere il loro dolore in fondo al cuore, e non amano sentir ricordare da altri l'oggetto amato e perduto: per queste, sarà opportuno scivolare sui ricordi dolorosi e guardarsi dal tentar di consolare un dolore inconsolabile. Insomma, nulla vale, per l'ispirazione, come la sincerità del sentimento. Per conto mio, quando si tratti di condoglianze e di congratulazioni, alla lettera preferisco il telegramma. Le altre lettere di questo gruppo debbono anch'esse, come quelle di condoglianza, essere scritte al momento opportuno; ossia non appena si può, dopo l'avvenimento che è la causa: nascita, matrimonio, onorificenza, favore ricevuto, offesa fatta. E anche qui la disposizione con cui prendiamo la penna è la guida migliore; il buon gusto farà evitare gli eccessi che, in parecchi casi, sono l'indifferenza o la effusione iperbolica. Che diremo, in ultimo, di quel tal generino di lettere qualificate « anonime »? Inviarne per far delazioni, maldicenze, calunnie, o per destare sospetti, è peggio che appiattarsi dietro a un muro per tirare una fucilata al viandante: è l'atto piú malvagio e piú vile, che mette l'autore al bando dell'umanità. Non bastano, poi, il contenuto e la forma: ci sono anche le forme, dalle quali altresí si giudica della buona educazione, della gentilezza, della finezza di modi di chi scrive. Non si partecipano i saluti di altri che ai propri pari e agli amici; eccezionalmente, agli sconosciuti e ai superiori; a questi si possono presentare soltanto i saluti dei genitori o dei parenti. Né s'incarica un superiore di salutare un inferiore; come il superiore eviterà di affidare all'inferiore i suoi saluti per qualcuno. Non sono convenienti i poscritti nelle lettere di riguardo; in nessun genere di lettere, per far proteste d'amicizia o per congratularsi. Se si affidano lettere ad amici perché cortesemente le recapitino ad altri, si consegnano aperte: gli amici si affretteranno a chiuderle. La carta dev'esser semplice, ma non ordinaria: la bianca è la migliore. Non dev'esser profumata. Non si scrive alle persone di riguardo su carta intestata o su cartoncini. La busta deve essere della medesima qualità e del medesimo colore del foglio. Dev'esser buono l'inchiostro: leggibile la calligrafia. Si lascia sempre un centimetro di margine laterale; né si rimandano alla pagina successiva i saluti. Non si cominciano le lettere col pronome Io né con un gerundio. Sono aboliti i qualificativi sperticati: ricordare che l'illustre è molto piú dell'illustrissimo e si può dare soltanto a pochi. Sul rovescio della busta è prudente scrivere il cognome e il recapito del mittente sia per ricordarlo a chi si scrive sia perché si sappia a chi restituire il messaggio nella eventualità che non si trovi il destinatario. Ecco i recapiti, con la forma diretta e indiretta, da usare con le varie categorie di personaggi: Al Sommo Pontefice: Alla Santità di - Santo Padre - Voi, a Voi, di Voi, Santità, Santo Padre. Ai Cardinali: Eminenza reverendissima - Eminenza - Voi, Eminenza - Di Voi, Eminenza. Agli Arcivescovi e Vescovi: Eccellenza - Voi, Eccellenza - A voi, Eccellenza. Non sappiamo se ai membri della Costituente sarà data la vecchia qualifica di Onorevole. L'Eccellenza ai Ministri, ai Prefetti, ecc. non è ormai che un ricordo e, per alcuni, una nostalgia piú o meno pungente. Quanto alla chiusa, secondo i casi: devozione filiale, devotissimo suddito, devoti ossequi, con devozione, devotissimo, ossequi, con devozione affettuosa, con affetto devoto, obbligatissimo, gratissimo, cordialissimi saluti, ecc. Scrivendo, poi, a persone di riguardo e alle signore, i pronomi e i possessivi vanno scritti con la maiuscola: Lei, La, Sua, ecc. Usa scrivere con la maiuscola anche i pronomi indiretti, incastrati in altre parole: scriverLe, salutarLa. In alcun Paesi, le qualifiche dei mariti sogliono prenderle anche le loro signore. In Italia, no. Nell'Italia meridionale - evidente avanzo di spagnolismo - usa dare comunemente il « don » e il « donna ». Se c'è ancora chi prende gusto a darlo o a sentirselo dare - ma nel meridionale - poco male, per quanto anche la legge sia intervenuta a disciplinare quest'uso. Normalmente, il « don » si dà soltanto agli ecclesiastici, anche davanti al cognome, e ad alcuni nobili. La data in cima al foglio, a destra: da Siena, a' 30 di maggio del 1945, il vocativo in mezzo, o al principio del rigo; se seguíto da punto, lettera maiuscola da capo; se da virgola, si prosegue, anche se da capo, con lettera minuscola. Si tenga presente che i numeri romani, hanno già il valore di ordinali; quindi, si scrive 30, ma con cifre arabe; III con numeri romani. In fondo alla lettera, è ridicolo mettere il caro o il carissimo con i « propri » saluti: secondo i casi, aff.to, aff.mo, dev.to, dev.mo: servitore, mai servo, che vuol dire schiavo. Nelle lettere familiari, meglio il possessivo: in quelle di riguardo, meglio a Lei, dev.mo, ecc. In queste, si suol anche ripetere il recapito in fondo al foglio, a sinistra. Non è corretto firmare con le iniziali o con sigle illeggibili. Scrivendo ad amici, basta il nome e l'iniziale puntata del cognome; o questo solamente. Non è corretto inviare lettere non sufficientemente affrancate. Il francobollo si attacca diritto, in cima a destra; il recapito deve avere tutte le indicazioni precise: sul rovescio della busta, il cognome e il recapito di chi spedisce; e questo sempre, facendo poco affidamento sulla memoria o sulla cura di colui a cui si scrive. Quando si desideri una risposta da persone con le quali non si sia in confidenza, unire il francobollo. Mi par quasi superfluo ricordare che non si scrive direttamente alle piú alte Autorità; ma alle persone loro specialmente addette, o agli uffici.

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Io, che seguo da vicino la evoluzione delle istituzioni scolastiche in tutti i Paesi, ho constatato che, sotto questo punto di vista, noi lasciamo ancora a desiderare; tanto che, si può dire, non abbiamo pubblicazioni sull'argomento, né vi sono esplicite e rigorose raccomandazioni governative al riguardo. Recentemente, il governo olandese ha inviato negli Stati Uniti una commissione per studiare se, nelle scuole americane, i bimbi sono piú felici di quelli europei nelle proprie scuole. La relazione è stata pubblicata recentemente, e merita di esser conosciuta e meditata; né soltanto per la larga messe di profonde osservazioni fatte nei differenti tipi di scuole di quarantotto Stati americani - dove, com'è noto, non esistono sistemi nazionali di educazione - ma anche per il raffronto fatto con le scuole di altri Paesi orientali ed occidentali. Di modo che, come dicevo, da nulla le norme che regolano il vivere cortese, generoso, buono zampillano cosí spontaneamente come da una concezione di vita equilibrata, serena, feconda, felice: concezione che si dà e si apprende specialmente nella scuola.

Pagina 257

Cosima

243871
Grazia Deledda 4 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo cosí con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.» Oh, padrona!» egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato cosí. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: «Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani». «Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo piú.» Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so; non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.» Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie; né, d'altronde, ella voleva piú umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l'idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre.

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"Lascia stare" disse la nonnina; "noi, di lassú, non abbiamo bisogno di nulla. Sono venuta solo per un salutino, e ti porto anche i saluti di Francesco." Francesco era il nome del fidanzato di Beppa: pareva che la nonnina scherzasse crudelmente; ma poi si seppe che proprio quella notte, poco prima dell'ora del sogno di Cosima, il commendator Francesco era morto, dopo appena tre giorni di polmonite. Cosí secondo la misericordia divina, prendeva anche lui parte alla famiglia: e le cose di questo mondo erano appianate.

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Maccioni con la nipote Giuseppina che a 85 anni si ricorda ancora l'uscita della piccola Cosima: «Abbiamo un bambino nuovo, un Sebastianino». Cambiato è il nome di Fortunio, pag. 106, il figlio del cancelliere, finito poi anche lui cancelliere come il padre: e come il nome è cambiata la natura dell'imperfezione che lo affliggeva: non era zoppo, ma guercio. Le due vecchie implacabili zitelle, pag. 85, rispondevano al nome di zia Tatana e zia Paschedda M., governanti del canonico S. La Continentale, pag. 45, era certa maestra Branca. Pag. 21. La casa paterna della scrittrice, coi grappoli d'uva appesi al soffitto, e la vista dei monti dalle finestre alte, è stata descritta a piú riprese nei libri della D. con gli adattamenti dei singoli casi. Vedi le prime pagine di Il paese del vento, di Sino al confine; sul giardino vedi il racconto intitolato Casa paterna in Nell'azzurro, nel quale racconto trovansi anche notizie sui primi studii di Grazia Cosima. Sulla casa paterna della D. vedi Pietro Pancrazi, La casa di Grazia, in Donne e buoi, pag. 219. Ed. Vallecchi, Firenze, 1934, e llarukichi Shimoi in «Unione Sarda», Cagliari, I° febbraio 1931. Pag. 33. «... un inverno lungo e crudelissimo...» A ricordo dei vecchi, veramente eccezionale. Vedi Comincia a nevicare... in Il dono di Natale (1930) pp. 17-20. Fu l'inverno del 1880. Pag. 42. Sul carattere della madre, vera «mater doloris», sopra le fatiche da lei sostenute nella direzione della casa vedi Pane casalingo in «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1936. Aiutar la mamma a fare il pane era, per le ragazze, una insigne fatica. Pag. 46. L'ispettore: «un uomo tarchiato, con una testa di leone nero; tragico e colto come un gesuita. Ne abbiamo incontrati, di personaggi importanti, nella vita; nessuno che facesse tremare le vene come l'ispettore delle nostre scuole d'allora». Dal volume II primo passo: confessioni di scrittori contemporanei, raccolte da L. M. Personé, ed. Nemi, Firenze 1930: pagg. 113-120. Pag. 50. Gabriele d'Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. «A Nuoro» scrive Scarfoglio (Libro di Don Chisciotte) «ci giunsero le prime copie del Canto nuovo» [finito di stampare in Roma il 5 dello stesso mese]. Un ricordo del viaggio in Sardegna D'Annunzio rievocherà nel 1909 nella Prefazione alla traduzione italiana di Osteria di Hans Barth, e farà un cenno, oltre che del « nepente d'Oliena», delle Case delle Fate rievocate in Cosima a pagina 20 e delle Tombe dei Giganti, a pagina 94. Pag. 51. Il pallone volante che si incendia ritornerà in Il paese del vento, pag. 37. Pag. 53. Quarto rondò dell'«Intermezzo melico» di Isaotta Guttadauro di G. d'Annunzio: primamente apparso coi tipi della «Tribuna», Roma, Natale 1886. Su D'A. citato con onore dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: «I romanzi e le novelle di G. d'A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti... In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giuncheti ombreggiate da boschi di salici e di pioppi, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch'esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di rocce e di macchie dai rami contorti... e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido...». La D. nutri sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) «la penna d'uno dei nostri piú grandi scrittori - del De Amicis, per esempio - per scrivere le memorie della mia infanzia». Ma poco piú tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, «oh la penna, la penna di Victor Hugo per un'ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...». Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d'Oriente in «Avvenire di Sardegna», Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue (« gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica di un'ardente fanciulla»), Cavallotti. Piú tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s'accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, D'Annunzio, Ada Negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Piú tardi ancora si appassionò di Dostoievschi. Pag. 55. Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovine Gavina di Sino al confine (1909), «col solo motivo malinconico e primitivo ch'ella sapesse ripetere». In ques'ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a pag. 115. Pag. 68. Lettera a Epaminonda Provaglio direttore di «Ultima Moda», stampata in Roma dall'editore Edoardo Perino. «Quadrivio», Roma, 23 agosto 1936). «Mio padre è vecchio: colto da paralisi parla a stento e rimane silenzioso e cammina solo aiutato. Mia madre, tutta casa e famiglia, vestita in costume, non esce mai. Dei fratelli, uno studia a Cagliari, l'altro, ormai capo-famiglia, passa i suoi giorni tra gli affari, sempre a cavallo attraverso le nostre grandi tenute, pei monti e per le valli: mia sorella maggiore è fidanzata con un giovine avvocato e se ne andrà fra poco con lui; altre due sorelle, che completano la famiglia, sono piccole, quindici, tredici anni, e si divertono per conto loro senza pensare a me...» (marzo 1892). (Allo stesso) «Oh se tu sapessi come amo il mio babbo, e come egli era buono! Tutti, tutti gli vogliono bene. È vissuto beneficando, lasciando benedizioni dietro di sé, e non a Nuoro soltanto, ma in tutto il circondario. Vi furono anni di carestia, mi ricordo, in cui egli sostentò del suo intere famiglie, e una volta fece venire dal continente un bastimento di polenta per un miserabile villaggio, perduto nei monti piú desolati, che moriva di fame, senza aiuto, negli orrori dell'inverno...), (luglio 1892). (Allo stesso) «Avrai ricevuto il doloroso annunzio della morte del babbo mio... Benché preveduta, e da tanto tempo, questa disgrazia ha scosso profondamente le basi della felicità mia e di tutti i miei. Io ho sofferto tanto, tanto, che mi pare non si possa soffrire di piú. Ma ora sono calma e ritorno, a poco a poco, alle mie antiche abitudini ed ai miei antichi pensieri. Nella tristezza del lutto mi pare che il mio babbo amato mi sia sempre vicino, più di prima, e che il suo spirito aleggi sempre intorno a me, preservandomi da ogni sventura, e guidandomi nella buona via... Come vedi, però, le mie novelle sono molto tristi, e la mia esistenza è più che mai oscura e monotona. Tu non puoi immaginarti, con che rigidezza qui si osservi il lutto. Le nostre finestre son chiuse ed io non mi posso neppure avvicinare ai vetri. Per due o tre mesi noi donne dobbiamo stare ermeticamente chiuse in casa e poi ci sarà concesso di uscire sí, ma per ricambiare solo le visite o per andare in chiesa. Niente passeggio, a meno che non sia in campagna, nessuno svago, e un contegno sempre rigorosamente triste... E cosí per tre o quattro o magari cinque anni. Per buona fortuna io sono quasi avvezza a questa tetra esistenza, e spero di cambiarla fra due anni al piú tardi; altrimenti questo lutto artificiale unito al lutto intimo, mi ucciderebbe...» (novembre 1892). A Onorato Roux: lettera del marzo 1907, pubblicata in Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, Ed. Bemporad Firenze, 1908, vol. I, parte 2ª. «Mio padre era un uomo intelligentissimo: poeta estemporaneo, dialettale. Di una bontà incredibile, egli conservava, forse, la sua natura di poeta anche nel trattare gli affari, perché aveva fiducia di tutti, aveva pietà di tutti, si lasciava raggirare da tutti. La nostra casa era come una specie di piccolo albergo gratuito. Da venti paesi del circondario di Nuoro venivano ospiti che se ne stavano due, tre e persino otto giorni in casa nostra: Erano tipi caratteristici: popolani, borghesi, preti, nobili, servi, dei quali io conservo vivissimo il ricordo...». Pag. 83. «Roma era la sua mèta...» Quante volte, nei romanzi anche dopo che la D. si fu incontinentata, ritorna come motivo di racconto questo fascino di,Roma: Cenere, Nostalgie ecc. Scriveva a Epaminonda Provaglio nel febbraio 1895: «Il mio più bel sogno è sempre di poter venire a Roma per conoscere un po' di questo mondo che tutti vogliono farmi credere brutto, mentre a me invece pare bellissimo. Ma chi sa quando ciò sarà, chi sa quando? Non ho nessuno che possa accompagnarmi; e poi c'è un'altra cosa: io vorrei viaggiare con lusso e fare un po' di figura...». Pag. 100. Rosa di macchia: in realtà, Fior di Sardegna. (La prefazione, dell'A. al Fiore, comincia con queste parole: «Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell'isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le rocce una timida rosa montana nata all'ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine - esaminarla foglia per foglia... ecco lo scopo del presente racconto». Il, romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato «Alla contessa Elda di Montedoro i in segno d'affettuosa gratitudine». Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore - come s'è detto - di «Ultima Moda», col quale la giovine scrittrice ebbe dall'isola frequente carteggio ignorando per un po' di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. «Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo», scriveva la D. alla immaginaria Elda; «mi correggerò sempre piú sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l'inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio... È vero: la virtù di Lara è un po' troppo invulnerabile, un po' troppo fenomenale [a pag. 103 di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata cosí si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalla lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme, cosí in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?... Oh, Elda, Elda! Tu l'hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho piú nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto che semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita...». Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in «Quadrivio», 23 agosto 1936. La Deledda rifiutò sempre di ristampare quel suo romanzo giovanile e s'imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristam- pato alla macchia. Pag. 102. «Anche a costo di strapparle un po' dell'ideale che si sarà formato di me, immaginandomi forse bella e ardente, come la maggior parte delle fanciulle sarde, l'avverto che sono un tantino brutta e niente affatto interessante: e che di grazia, ahimé!, per una strana ironia, non posseggo che il nome. Per fortuna non mi affliggo tanto di queste mie disgrazie e mi conforto ricordandomi di aver letto che tutte le grandi scrittrici, dalla sua prediletta Sand alla mia favorita Miss Muloch, furono brutte». Lett. a Stanis Manca, 28 luglio 1891. «Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent'anni e sono bruna e un tantino anche... brutta, non tanto però come sembro nell'orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna... Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la piú timida e mite ragazza del mondo». Lett. a E. Provaglio, 15 maggio 1892 («Quadrivio», num. cit). Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a quel tempo giovanile. Tra i piú riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: «Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente..., cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in «Sardegna artistica» nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede ai confini del deserto, i miraggi d'oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente...». Ivi a pag. 12, ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di Proto, pag. 35 di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone. A proposito del racconto di Proto in Cosima, vedi l'interessante articolo Il lupo mannaro come motivo letterario di P. E. Pavolini in «Lares», Roma, marzo 1937. Pag. 103. Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa Paterna in Nell'azzurro e Primi passi in «Corriere della Sera» del 21 giugno 193o; articolo, quest'ultimo, che si legge ristampato nel citato vol. di L. M. Personé, Il primo passo. Pag. 110. Sulla lettera-stroncatura vedi il cit. L. M. Personé. La lettera fu scritta alla D. da uno studioso e poeta solitario, Giovanni Antonio Murru; il quale piú tardi senti il bisogno di indirizzarle invece un sonetto di elogio che comincia: «Tu, de l'ingegno figlia benedetta - Non sogni lo svanir de le vïole, - Ma forte e ardente come la vendetta - Hai l'impeto de l'odio e le parole...». Pag. 119. Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui piú avanti, a pag. 123, la D. raccolse in un articolo apparso in « Rivista delle tradizioni italiane » diretta da Angelo De Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi. Pag. 123. Rami caduti: in realtà Anime oneste (1896) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati («La Casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all'inglese, un romanzo famigliare d'anime buone e gentili »; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero «lancio» della romanziera nel mondo letterario fu fatto circa un anno dopo, da una recensione di Luigi Capuana sopra l'opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: «Spero che l'opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre piú riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto piú giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel Fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant'altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l'opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso ». La recensione del Capuana si legge raccolta ne Gli «ismi» contemporanei (Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitismo), Ed. Giannotta, Catania 1898, pagine 153-161. Il Capuana vi dava lode alla D. di non essersi lasciata traviare dagli «ismi» che stavano allora corrompendo gl'ingegni più virili. «La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità». Nella riedizione di La via del male, del 1906, la D. fece tesoro delle critiche del Capuana, rinnovando alcune situazioni che questi aveva trovate troppo artificiali, certe risoluzioni da lui giudicate troppo melodrammatiche, precisando certi press'a poco di scrittura che il critico siciliano le aveva addebitato. Pag. 125. «...un alto, grasso, biondo giornalista...» È Stanis Manca, cronista e critico della «Tribuna». Egli fu dei primi a scrivere nei giornali sulla giovine scrittrice corregionale e si recò a Nuoro per conoscerla di persona nelle vacanze del 1891. La D. mantenne col Manca un'attiva corrispondenza, tra le piú preziose per una miglior conoscenza del suo animo, della sua formazione letteraria, dell'ambiente paesano e delle ragioni personali che indussero la D., per un certo tempo, a tralasciar di trattare argomenti sardi. Tali lettere, in possesso di Antonio Manca, fratello di Stanis, vedranno un giorno certamente la luce. Da una lettera dell'8 giugno 1891 stralciamo: «Ho letto attentamente il suo articolo sulla Vita Sarda e l'ho intensamente compresa ed ho provato qualcosa come il rimorso. Infatti dacché scrivo ho lasciato in coda e sempre la Sardegna coi suoi costumi, le sue passioni e i suoi paesaggi che nessuno studia e ammira piú di me. Però io lo feci appositamente... I primi bozzetti che scrissi erano sardi, puramente sardi i personaggi, i caratteri ritratti dal vivo, come piú e meglio potei nella mia debole fantasia di sedici anni. Credevo di far onore e piacere ai miei compatrioti e mi aspettavo da loro chissà che; si figuri dunque il mio dolore - il primo dolore - che provai allorché, comparsi alla luce quei racconti, per poco non venni lapidata dai miei conterranei. Si pretese di conoscere i tipi e si volle che i miei personaggi fossero vivi, benché taluni morti decisamente nei bozzetti; e questi eroi offesi, esasperati, non potendo sfidarmi a duello mi coprivano di maldicenza, di ingiurie, di ridicolo, arrivando persino a dire che altri scriveva nell'ombra ed io non facevo che firmare, tanto che il mio povero io, piccola e fragile creatura che non aveva mai fatto male ad alcuno, provò tale dispiacere, tale disillusione, da caderne quasi ammalata. Diventai pallida, febbricitante; e mentre i miei occhi pareva s'ingrandissero (è un fenomeno reale, riflettendo l'ombra dei miei sogni spezzati) la mia anima di bambina si faceva grande anch'essa, grande di sdegno e di dispiacere. Un'altra al mio posto avrebbe spezzato la penna maledicendola; avrebbe, a furia di calzette e di ricami, obliato il suo ideale di ragazza fantastica e annoiata; io invece temperai la mia penna... ma giurai di non tradurre piú sulla carta i fatti che potevano accadere d'intorno, non solo, ma nulla che potesse riferirsi a persone e avventure sarde. Mantenni la parola sino a questi ultimi tempi: i miei romanzi, le mie novelle piú notate accadono tutte fuori di Sardegna, con personaggi tutt'altro che sardi; e se, spinta dall'irresistibile amore del patrio loco, mi decisi qualche volta a mettere su la Sardegna, lo feci in modo che i paesaggi riuscissero veri, ma gli eroi tali da non destare la suscettibilità di nessuno... Il suo articolo, la sua graziosissima lettera e i suoi consigli han finito per convincermi; anzi mi hanno recato un po' di rimorso, perché prima d'ora avrei dovuto obliare il mio rancore e narrare la storia degli ermi casolari, le leggende dei nostri boschi e delle nostre vallate, descrivere i monti che vedo dalla mia finestra [altre volte ritorna, nella confidenziale corrispondenza con Stanis Manca, l'accenno a questa finestra della sua camera, avanti alla quale la giovinetta Grazia passava a tavolino le sue ore sognanti. Vedi anche a pag. 83, l'accenno al «paesaggio sonnolento dei monti alla finestra». Sulla «vista» da quella finestra vedi i versi della D.: All'Orthobene in Paesaggi sardi: «Tu sei la visïone - Consueta dei giorni solitari - Dolcissima muraglia - Che i sogni miei rattieni e li respingi - Col vento della notte»] e dove passai tanti giorni e tante notti sí azzurre e care alla mia memoria, invece di scorrazzare nel continente e magari in Russia o Scozia, attraverso palazzi e persone che non conosco e che purtroppo temo di non dover mai conoscere... [Chi avesse allora vaticinato alla D. le accoglienze trionfali di Stoccolma!]. Conchiuderò dicendole che oramai ho deciso di lasciare il di là per dedicarmi tutta al di qui, secondo le mie povere forze me lo permetteranno e se il buon Dio dell'arte proseguirà a darmi vita e speranza». E il 2 novembre 1893, allo stesso Manca confermava: « Ho bisogno di essere forte e calma per compiere il dovere che mi sono prefissa: quello, non vano, di fare del bene alla Sardegna, alla mia, alla nostra diletta Sardegna». Pag. 130. «Spesso vado in una campagna suggestiva: una pianura melanconica, deserta, senza alberi. La nostra vigna è l'ultima; due pini alti fremono continuamente sotto il cielo d'un azzurro triste di viola mammola; al di là cominciano le tancas melanconiche, animate solo da qualche greggia, e sembrano sconfinate. Da sotto il pino ove è inciso il nome di Sebastiano Satta che deve aver sentito la triste poesia di questo luogo, io guardo la vastità desolata e desidero andare, andare attraverso questa infinita eppur dolce tristezza della natura sarda. Chissà? se diventerò ricca, mi farò una casa qui sotto l'incessante murmure dei pini...». Lettera a Luigi Falchi, ottobre 1890: riprodotta in Confidenze dello stesso, Sassari, 1925. Ai tempi del soggiorno in quella vigna deve risalire la ispirazione e composizione del nuovo romanzo La via del male, uno dei maggiori successi, anche di traduzione in lingue straniere, della D.; il quale comincia per appunto con un idillio al tempo della vendemmia. In un primo tempo detto romanzo doveva intitolarsi L'indomabile (titolo che aveva il colore del tempo: ricorda L'invincibile di Gabriele d'Annunzio, che fu la prima redazione - dal cap. I al XVI - del Trionfo della morte apparsa nella «Tribuna illustrata» del 1890; al quale tenne dietro L'Inarrivabile di Diego Angeli, Ed. Bontempelli, Roma, 1893). Nel' frattempo uscí un romanzo con quel titolo, di una scrittrice veneta in corrispondenza con la D., Umbertina di Chamery. La D. se ne crucciò; ma a torto, ché il nuovo titolo era assai piú significativo e calzante. Uscí alla fine del 1896 a Torino, coi tipi dello Speirani, con una dedica ad Alfredo Niceforo e a Paolo Orano. Pag. 130. «Un colono del Continente...» Un antico ex-coatto rimasto volontariamente nel suo luogo di esilio. Un personaggio con funzione quasi di protagonista, che molto gli somiglia, sarà Efix (Elisio) il servo tutto devoto alle figlie del padrone da lui ucciso in Canne al vento. Il vero nome era Arcangelo e proveniva dalla Calabria. Pag. 165. La prima persona che vide. «Viso fresco, capelli castani ondulati, occhi pieni di gioia furbesca ma schietta.» Vedi tale incontro voltato in romanzesco in Il paese del vento. Nella realtà, Palmiro Madesani, «continentale» in età allora di 35 anni. Le sarà presentato qualche giorno dopo l'arrivo a Cagliari, alla fine d'ottobre del 1899, in teatro, dal prof. Luigi Falchi. Si fidanzarono ai primi del novembre successivo e sposarono ai primi di gennaio del 1900. Fidanzamento e matrimonio sono narrati in modo assai vicino al vero in Il paese del vento. Si stabilirono a Roma nel marzo dello stesso anno. Di quel tempo è un breve «poema» in otto componimenti in versi dei quali fu pubblicato solo il penultimo nella «Piccola rivista», Cagliari, 12 marzo 1900, col titolo A Palmiro (dalla Luna di miele di prossima pubblicazione). [Comprende: I fidanzati e La partenza dopo le nozze; L'aurora; Le ricordanze; Ancora le ricordanze; Il presente; La pineta e Verso l'ignoto, sciolti]. Sul fidanzamento vedi anche la lettera-prefazione alla traduzione tedesca di Tentazioni di E. Muller Roder, Ed. Bibliot. Univ. Lipsia, 1903. Sui versi, in genere, della D. vedi Stanis Ruinas in «Giornale di Genova» del 20 febbraio 1925 e in Scrittori di Sardegna, Ed. Campitelli 1928, e Adolfo Faggi in Il paesaggio in Sardegna in «Marzocco» del 22 gennaio 1928; e particolarmente la recente pubblicazione di Antonio Scano: G. D., la piccola poetessa: estratto dalla «Cultura moderna», N. I del 1937, Vallardi, Milano. Ma delle sue poesie d'amore la D. non voleva sentirne parlare. Pag. 166. Donna Maria Manca, direttrice di «Donna sarda», rivista cagliaritana della quale la D. era collaboratrice, con versi e prose, da parecchi anni. L'ospitale grazioso palazzo sorge tuttora in via S. Lucifero. Pag. 167. Lettera alla scrittrice Bisi Albini. «Lettura», agosto 1911. «Sofia, sono stata quaranta giorni a Cagliari, la luminosa nostra capitale, una graziosa città moresca il cui mare ardente, dai tramonti meravigliosi, fa sentire la vicina Africa. Mi hanno fatto festose accoglienze e mi sono riposata e divertita assai...» (dicembre 1899).

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La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.» Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

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