Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

168865
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Disse un illustre napoletano che, venendo per la prima volta nell'altra Italia, gli parve che la gente non avesse occhi: noi stessi abbiamo una tale impressione ritornando nel nostro paese dal mezzogiorno; ma ritornando dalla Sicilia in particolar modo. Oh quegli occhi siciliani così profondi, cosi acutamente scrutatori, cosi pieni di sentimento e di pensiero, e pur così misteriosi quando il loro sguardo non è spiegato dalla parola o animato da una passione determinata, intorno alla quale non ci possa esser dubbio! Avete già lasciato l'isola, molti ricordi di luoghi famosi e di spettacoli incantevoli del suo mare e del suo cielo si sono già confusi nella vostra mente; ma vedete ancora quegli occhi, un balenìo di pupille oscure come sparse per l'aria, che vi dicono mille cose non ben chiare, e par che vi leggano nell'anima, senza svelarvi l'anima che fiammeggia in loro. Sono esse veramente l'espressione visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile a definirsi, così vario in sé medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie e di lacune; per cui disse uno scrittore dell'isola che il siciliano "pensa e sente come un arabo, agisce come un greco, concepisce la vita come uno spagnuolo". Strano carattere, violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all'entusiasmo e allo scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento individuale, che in altri popoli è il più grande propulsore delle iniziative, produce l'effetto di far curvare l'individuo dinanzi all'individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare le moltitudini a pochi padroni, di perpetuare lo spirito del feudalismo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita pubblica! L'uomo, dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili, è capace di far miracoli; ma gli uomini, renitenti all'associazione e ai sacrifici che la concordia impone, sono collettivamente inetti e infecondi. Un grande errore è però il giudicare il siciliano dalla collettività, come la maggior parte di noi italiani facciamo. Egli ha tutto da guadagnare a esser conosciuto individualmente e da vicino. Lavoratore, ragionatore, padre di famiglia, amico, ospite, egli si rivela tutt'altr'uomo da quel che pare visto di lontano, nella moltitudine. Per questo c'è una grande diversità nel giudicarlo fra gli italiani del Continente che hanno vissuto lungo tempo nell'isola e quelli che non v'hanno mai posto piede o non vi passarono che come viaggiatori. Questi sono ingiusti. Questi pensieri mi sorgevano in mente ogni volta che mi soffermavo a guardar lo Stretto nel punto in cui le due coste sono più vicine. Che c'è di più maraviglioso di questo fatto? Poco più di tre chilometri di mare, che si attraversano in trenta minuti, e quel poco d'acqua divide le due terre come un vasto deserto o come una formidabile barriera di montagne. Passano continuamente quel breve spazio, con la maggior facilità, migliaia di persone e carichi enormi di merci; e quello stesso spazio mantiene quasi immutate per secoli diversità profonde di idee e di costumanze, perpetua ignoranza e pregiudizî reciprocamente funesti fra un popolo e l'altro, falsa e deforma mostruosamente le notizie dei fatti, arresta il cammino di grandi fame, ed è causa che uno dei due popoli, che pure ha con l'altro tanti legami di sangue, d'indole, d'interessi, di storia, senta in sé un'indomabile tendenza a viver di vita propria, con leggi proprie, considerando - e non in tutto a torto - come inconciliabili con la sua natura ed esiziali ai suoi interessi la maggior parte delle istituzioni e delle norme che reggono la vita pubblica nella terra posta quasi a contatto della sua! Ed è forse appunto questa uniformità forzata di leggi e d'obblighi, su cui si fondarono per tanto tempo tutte le migliori speranze del suo risorgimento, è forse questa appunto la cagione principale della persistenza delle sue miserie e dei suoi dolori! Ma queste sue miserie chi potrebbe mai sospettare viaggiando per quello splendido "paradiso terrestre" delle sue coste? Non ero mai andato per terra da Messina a Palermo; feci questo viaggio in una giornata bellissima; ne fui abbagliato e incantato. Questo versante Tirrenico, che rappresenta la quarta parte dell'area totale dell'isola, e contiene oltre un terzo dell'intera popolazione, con una densità molto superiors alla media del regno d'Italia, pure essendo meno maravigliosamente florido del versante Jonico, compreso fra Messina e Siracusa, è per bellezza di paesaggio e per ricchezza di vegetazione una delle più ammirabili regioni d'Europa. E' una successione di golfi e di seni dalle curve graziosissime, dominati da alti promontorii dirupati, che si specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole. Si percorre il primo tratto, lungo il mare, in vista delle diciassette isole dell'Arcipelago Eolio, che par che sorgano l'una dopo l'altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e leggere, tinte di colori soavi, d'un'apparenza quasi vaporosa. E le pianure verdi, solcate da innumerevoli corsi d'acqua, succedono alle pianure verdi, i boschi ai boschi, i vigneti ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d'avanzi di colonie greche e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d'aranci, le siepi di fichi d'India, le spalliere di áloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un'aria imbalsamata che vi delta nel sangue e nell'anima un sentimento delizioso della vita. E quante grandi immagini del passato vi sorgono dinanzi da ogni parte! Su quel ridente azzurro del golfo di Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell'altre acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta l'armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d'Angiò; laggiù riportò Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l'esercito cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall'esercito greco di Gelone e di Terone. A grandi lampi vi passa dinanzi tutta la storia dell'isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e sociale di tre continenti, e d'in fondo al passato immenso vedete sorgere l'albore d'una speranza: poiché se l'Italia peninsulare, come fu detto con felicissima immagine, è un braccio teso dall'Europa nella direzione dell'Africa, la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità quella affermata dal Fischer, ch'essa possiede una stoffa di colonizzatori di primordine "atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni cielo". Chi sa che nell'avvenire dell'Africa non sia il risorgimento dell' "organo prensorio" d'Italia? Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la Conca d'oro, ecco Palermo!

Le buone maniere

202293
Caterina Pigorini-Beri 15 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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Se accetti un invito a pranzo non andare troppo presto, ma neppure troppo.tardi, badando che potresti riuscire prima inopportuno, e dopo molesto, per aver fatto ritardare altrui, come abbiamo ripetutamente detto. Se le persone di servizio del tuo ospite commettono qualche disattenzione non raccoglierla e fingi di non accorgerti o cerca scusarle se hanno mancato. Se tu dovessi trovare qualche cosa nel tuo piatto che non fa parte delle salse, vinci il ribrezzo e cerca nascondere e dissimulare l'accaduto. Se hai invitato, sii cortese; non badare se qualche malavveduto ti rompe un oggetto anche di valore, se il servo ti fa cadere una posata, se ti si macchia il tappeto o la tovaglia. Non sederti troppo vicino o troppo lontano dalla tavola e non spiegare la tua salvietta pel primo e molto meno non stendertela sulle ginocchia come i contadini o sul petto. Non allungare troppo i piedi a rischio di pestare quelli del tuo vicino. Se ti manca un coltello, una posata, del pane, accenna piano al domestico che te lo serva, senza chiamarlo forte come all'albergo. Non mordere nel tuo pane e non tagliarlo col coltello, ma spezzalo a piccoli pezzi quanto basti per portarlo alla tua bocca con due dita. Non soffiare nella tua minestra e non stendere col coltello salse, frotte o burro sul pane; salvo che prendendo il the, il che può essere tollerato. Non tagliare la vivanda che a misura di accostarla alle tue labbra, e ricordati che il pesce non vuol esser tagliato col coltello. Non ripulire la forchetta o il coltello sul pane nè gettarlo poi sotto la tavola; nè gettare le ossa quando le hai spolpate. Bisogna evitare di versare il sale o di notare se siete per caso tredici a tavola, perchè vi potrebbero essere delle persone superstiziose che se ne spaventerebbero. Non parlare colla bocca piena a rischio di farti andare la roba in traverso e di dover schifire o turbare i convitati. Non fare rumore nè colle labbra nè colle mascelle, e sopratutto bada di usare tutta quell'attenzione per cui le tue labbra e i contorni della bocca rimangano estremamente puliti. Non accostare mai il coltello alla bocca e non intingere il pane nelle salse colle dita. Non sbucciare le mele o le pere in spirale ma in quarti e man mano che le mangi, tenendole colle forchettine. Non mangiare troppo in fretta per non affrettare gli altri, nè troppo adagio per non farli attendere. Se hai il singhiozzo allontanati un momento e non tornare se non è passato. Il solo atto di moverti ti darà un'agitazione salutare che forse imporrà il freno a' tuoi nervi. Ripulisci la bocca prima di bere, giacchè non vi ha cosa più ripugnante che vedere un bicchiere coll'orlo ingrassato. Se mangi degli sparagi, della selvaggina, ecc., ti sarà permesso di prenderla colle dita. Chi presiede alla gentilezza, alla grazia, alla sceltezza dei modi in Italia e ne dà quello che si chiamerebbe in musica la intonazione, ha l'abitudine di fare così; e tutt'al più per la selvaggina potrai valerti del lembo della salvietta. Mangiando frutti piccini col nocciolo o uva o ribes, i rifiuti non si rovescieranno sulle mani per porli nel piatto; ma nel piccolo cucchiaio da dessert se c'è; e se non c'è, sul piatto inchinandovi sopra leggermente. Nel bere bisogna fare lentamente; non far rumore colla gola bevendo; e bisogna asciugarsi la bocca dopo che si è bevuto. Per prendere il caffè è di regola lasciarlo freddare sino a che si possa bere senza versarlo nel piattino, perchè non isgoccioli sulla tovaglia, sugli abiti o sul tappeto, dato che si prenda in piedi e mormorando, come dicevano i nostri nonni. Alla padrona di casa è riservato il maggior còmpito in tutto quello che riguarda il buon andamento d'un convito, d'un salotto, d'un ricevimento, sia pure il più cordiale e il più alla buona. La donna ha il dovere di regolare tutto quello che si attiene alla casa, al focolare domestico; l'uomo ne è il doveroso sostenitore, quello che deve fornire i mezzi del benessere; ma la donna deve darne l'intelligenza e il modo di goderne. Infine, diremo anche noi con parole non nostre per avere maggiore autorità: «una donna anche nervosa in casa propria sarà sempre gentile e amabile. «Questa specie di ospitalità, meglio esercitata in Francia che in alcun altro paese, è una delle cose che maggiormente contribuisce alla piacevolezza della società. Non si deve in casa propria nè andare in collera, nè formalizzarsi, nè mostrarsi bisbetici, nè avere sprezzo o durezza: ecco delle massime che sono generalmente osservate dalle persone educate». In tutti questi comandamenti di cui più d'uno può parere una superfluità e una formalità quasi ridicola, si cela una incontestabile saggezza, di cui le persone non superficiali, ma sinceramente amanti della dignità personale non possono nè debbono fare a meno. Essi se non foss'altro aiutano l'uomo a stare costantemente sopra sè medesimo; ciò evita molte cattive conseguenze anche nella parte morale dell'educazione, esercitando le facoltà relative alla prudenza e all'attenzione, e produce l'effetto infalliblle di dare all'uomo delle buone abitudini, che si convertono poi, come abbiamo ripetutamente detto, in suggestioni corrette e virtuose, indispensabili al rispetto di sè medesimo e degli altri.

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Le leggi della civiltà, di cui abbiamo più volte parlato, avendo reso famigliari a tutti le regole più elementari del saper vivere, han reso inutile una classificazione precisa di esse, se non in quanto ci portano all'esercizio quotidiano di alcuni doveri, resi più frequenti dalla facilità che hanno le società moderne di trovarsi al contatto. Le leggi fondamentali del vivere in società non hanno punto mutato; solamente hanno modificato la loro maniera di essere, che è più sbrigativa, a così dire, più libera, più alla portata di tutti: una differenza non di profondità ma di superficie. Ecco perchè, a guardare indietro nei nostri antichi galatei, o a guardarci intorno con quelli moderni, specialmente francesi, che hanno il segreto delle cose amabili e gentili, e che posseggono caratteri troppo più generali di questi piccoli precetti elementari, non si troverebbero certamente negli usi e costumi odierni quei precetti esteriori che si cercavano nei cortegiani perfetti cavalieri, nei gentiluomini e nelle madonne e donzelle dei tempi andati. I mutamenti nel sistema di vita in tutto, perfino nel nutrirsi e sopra ogni altra cosa nell'intendersi, per la facilità del viaggiare e del comunicare fra di noi e colle nazioni anche più lontane, han tolto tutti i possibili impacci o legami alla libera facilità di muoversi e di godere i comodi della vita; quello che gl'inglesi con felice parola chiamano comfort è ormai possibile a tutti. Questo non ha escluso nè cacciato dai nostri cuori la pietà per coloro a cui la fortuna non fu favorevole e la natura fu matrigna; tutt'altro; ci ha anzi reso meno difficile, nel collettivismo delle nostre forze, della nostra volontà e delle nostre esperienze, di potere rendere meno amara negli infelici la povertà e meno pungente il dolore, e nei colpevoli meno crudele l'espiazione. Soltanto nelle legislazioni in cui è superstite la tradizione barbarica può essere possibile l'abbassamento morale degli ospizii di mendicità; mentre negli istituti della carità moderna e perfino della punizione, il primo sentimento è il sollievo morale al colpevole e al derelitto, di cui sono elementi indispensabili la nettezza, l'urbanità, la disciplina, l'igiene e lo stimolo al risveglio del senso morale, il quale ultimo più spesso che non si creda non è spento ma soltanto sopito nei cuori. Non sono lontani i giorni in cui l'etichetta impediva di scendere dal cocchio per sollevare un misero caduto per via, di stendere la mano ad un operaio volenteroso, a cui il lavoro oggi ha aperto tutte le porte, fino quelle della reggia. La civiltà moderna non è anzi superiore a tutte le altre se non perchè ha nobilitato il lavoro, e lo ha dato all'uomo come un premio anzichè come una espiazione. Una volta si diceva: è sciocco ma è ricco; oggi si dice: è ricco ma è sciocco; e questo profondo sentimento della dignità personale, che con una semplice particella grammaticale riassume tutto il cambiamento della legislazione morale di un popolo, rivela come la fusione delle classi sia la forza invincibile del nuovo elemento sociale, che, senza spostare il centro, allarga l'orbita in cui l'uomo può aggirarsi liberamente. Non ancora un secolo fa era civiltà portare il codino e cospargerlo di polvere che imbrattava gli abiti; il merletto inamidato e i calzoni corti colle fibbie d'oro; e alle donne avere il cavalier servente, giocare a bazzica, mettere la maschera per via e fiutare tabacco colle tabacchiere d'oro e miniate artisticamente. Maria Teresa non trovò di meglio da regalare a Gaetana Agnesi che una tabacchiera tempestata di gemme; e, senza parlare delle parrucche enormi dei gentiluomini, i quali per non scomporle dovendosi alzare presto da letto si coricavano, come si direbbe, sul loro naso, fino al 1830 per additare in Francia il primo gentiluomo dell'epoca che era il figurino vivente dei modi eletti e gentili, si diceva esser egli tanto vigile sopra sè stesso, che avrebbe potuto fare il giro d'Europa, senza toccare il fondo della sua carrozza da viaggio. Ora abbiamo perfino i vagoni letti, i wagons-salons, e i treni palazzo, il che prova che l'umanità ha sciolto i legami della schiavitù, rendendo possibile ad un uomo di restare ministro perfino in veste da camera. Non credo che questa libertà di tratto possa far nascere l'accusa già fatta da qualcuno di coloro i quali trovano male tutto quello che non è antico, che il secolo ha distrutto la buona creanza. Sarebbe difficile seguitare a fare le riverenze, come le nostre nonne, nel salire su un treno il quale si ferma un minuto solo perfino per i re e per le regine, o trasmettere i madrigali per telegrafo; come sarebbe incomportabile un abito a strascico andando per la strada e la crinoline nei trams e nelle vetture pubbliche o negli automobili, in cui per l'ebbrezza, passeggera, speriamo, delle corse vertiginose, è tolta anche la vanità di morire con arte. L'urbanità, la gentilezza hanno perduto tutto quello che avevano di stecchito, e come la letteratura ha lasciato la rettorica, così le espressioni di cordialità hanno bandito tutto quello che c'era di iperbolico, di magnifico, di adulatorio e di servile. La nostra epoca affrettata, che si esplica col vapore e col telegrafo, ha dovuto uniformare le sue prammatiche alle esigenze del tempo, che è diventato moneta anche per gl'italiani: ha resa la vita più facile e più espansiva, buttando a mare l'inutile zavorra delle formalità non più necessarie, rendendola anzi più omogenea e più accessibile alla benevolenza reciproca e a quella simpatia che incatena le anime colle sue innocenti libertà. L'urbanità odierna ha reso possibile la fusione dei costumi e, sciolti dalla freddezza un po' tetra gli uomini del Nord, ha potuto, ponendo in confronto uomini e cose e usanze, temperare la esuberante verbosità e mobilità di quelli del Sud, introducendo nelle nazioni le più lontane tra loro dei costumi geniali e simpatici, che aggiungono un filo d'oro di più nella trama talvolta monotona e pesante della vita, e la rendono gentile e attraente. Non è più tanto difficile di imitare quelle classi che fino a qui ebbero, si può dire, il possesso dell'eleganza e della grazia e per cui si destarono nelle classi medie e inferiori tante invidie con conseguenze sì funeste: ora, se non a tutti è data la facoltà di elevarsi fino all'eleganza, è dato però sempre quella di giungere fino alla civiltà; e ciò ci insegna qual via dobbiamo battere per ottenere il fine a cui aspirano coloro, a cui non fu dato per eredità di possedere quella che si chiama una educazione fine e squisita. Tutte le classi sociali faranno dunque cosa utilissima, in questa epoca di rapide fortune e di carriere non più difficilmente splendide, di erudirsi durante la giovinezza in quelle particolarità delle consuetudini sociali e delle belle ed eleganti maniere, che rendono loro accessibili delle cariche onorevolissime a cui possono giungere nell'età matura. Una delle grandi forze dell'Inghilterra è appunto questa: di coltivare l'arte dell'ineccepibilità nel costume: gli uomini pubblici sono così perfetti nel modo di trattare, e gli affari diplomatici esigono una tale distinzione di maniere che in quella nazione così nobile ed elevata, dove pure esiste la Paria ereditaria, ognuno può elevarsi fino al primo grado dello Stato; per cui nessuno, appena lo può, trascura le regole elementari di quelle prammatiche che in Italia fanno ridere. Eppure l'Italia è la maestra della diplomazia e non vi ha forse paese in cui si trovino tanti patrizi come in essa. La democrazia in Italia, per la comun parte, vorrebbe dire far senza complimenti, non portare i guanti e non rispettare il galateo. Ciò nella vita pubblica crea imbarazzi e dispiaceri senza fine, che poi talvolta si traducono in ostacoli insormontabili: e nella politica internazionale è assolutamente una porta chiusa in faccia a chi vuol entrare, spesso anche malgrado un valor personale superiore ad ogni eccezione. Gli emuli mediocri forniti di buone qualità esteriori, vincono coloro che non si sono curati di avvantaggiarsene. Il restar zotico fra le piume, i gioielli, gli ermellini e le uniformi militari o delle grandi cariche dello Stato, fa un contrasto così sensibile, da riuscire assolutamente molesto e insopportabile. Luisa Saredo e Paolo Boselli hanno pubblicato dei documenti preziosi per la principessa di Savoia che andò sposa in Francia. Il re Sole scriveva a Madama di Maintenon che essa era simpatica, attraentissima, piena d'ingegno, ma non sapeva fare la riverenza; punto capitale nel paese dove Madama di Maintenon aveva fondato l'istituto di Saint Cyr, nel quale alla suora Luisa fu amministrato il cilicio solo perchè aveva dato alle educande un po' di vino fuori di pasto, il che le aveva forse esilarate e si erano abbandonate a qualche piccola allegra risata. Infine la disciplina era allora, com'è adesso, una grande operatrice di miracoli nel campo delle qualità esteriori. E questo studio, secondo i loro tempie le loro fortune, non lo sdegnarono Napoleone e Washington, i due usciti dal popolo che più seppero governare e regnare su di esso. E se anche un uomo dovesse restare, come è desiderabile, nella posizione modesta e oscura in cui è nato, il conoscere i modi e le convenzioni della vita civile e della cortesia sarà ancora di un vantaggio incalcolabile; potrebbe, nell'esercizio salutare della gentilezza e della grazia, elevare il proprio io all'altezza di coloro che gli sono anteposti; fuggire la brutalità delle parole e degli atti; temperare l'ira e la rigidezza del suo carattere, e togliersi a quello scherno che, sia pure ingiustamente, perseguita tutti coloro i quali ignorano le regole d'una prammatica consacrata dalla universalità dei popoli, dalla tradizione e dai costumi. In questo però deve essere curato con ogni diligenza che le formalità e le prammatiche della vita elegante e gentile diventino un'abitudine cosi, che vengano spontanee, come nate con noi stessi; il che si potrebbe riassumere in questo precetto: bisogna conoscere sempre il proprio ambiente morale. È indispensabile guardarsi da quegli atti che accusano in sè stesso quello che i Francesi chiamano parvenu o borghese, per cui in Italia fu inventata da un giornalista di genio la parola pacchianesimo. Il pacchiano nell'Italia meridionale è il contadino scelto, gonfio, spaccone, quello che ostenta oro e gioielli, abiti vistosi, e idee fine, senza possederle. È difficile farne la spiegazione precisa: infine il pacchianesimo o il borghesismo è stato definito una mentalità; cioè uno stato d'animo e di mente alquanto grossolano, che non sa adattare le modalità dell'eleganza, e soverchia sempre nell'espressione delle prammatiche e degli usi sociali. Bisogna studiare di essere una ruota sia pure piccolissima del meccanismo sociale e non un nodo allo scorrere delle abitudini generali ed evitare così il ridicolo. Il ridicolo è un'arma pericolosa nella società moderna, ed è poi stata pericolosa sempre. La commedia riesce più a sferzare i troppo ingenui che i birbanti. Anche ciò è naturale nell'uomo; e una prova sta in questo, che quando vediamo un uomo o una donna che va a rischio di cadere, non possiamo impedire un istintivo impulso di riso. Ciò è tanto più ingiusto in quanto se vediamo cadere una bestia bruta ne risentiamo invece un senso di compassione e di pietà. Questo istinto umano così profondo e così invincibile si applica inavvertitamente alle regole di quella che si è convenuto di chiamare la buona creanza. Ecco perchè è utile di notare e di definire praticamente gli usi più indispensabili della vita sociale.

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Abbiamo detto che ci sono titoli nobiliari e di diritto i quali si debbono dare immancabilmente a chi ne è insignito; questi possono essere ereditati o acquisiti per diritto personale o per benemerenza del Re e della nazione e diventano poi ereditarii. I titoli ereditarii sono quelli di Principe, di Duca, di Marchese, di Conte, di Barone, riversibili generalmente al primogenito; abusivamente o per consuetudine o per disposizioni speciali o per predicati si chiamano cogli stessi titoli i figli secondogeniti, che invece sono Cavalieri di nascita, e anche le figlie; le quali però non possono mai portare questo titolo andando a marito con persona che non ne possieda alcuno o ne porti uno diverso superiore o inferiore, nel qual caso assumono quello del marito. Il continuare a portare un titolo a cui il marito non ha diritto, mentre stabilisce quasi una superiorità verso di lui, cosa da evitarsi specie di fronte ai figli, costituisce pel pubblico, sempre un po' sedizioso, un capo d'accusa, che le signore per bene faranno cosa ottima a dissipare colla espressione di una modestia, la quale non farà che aumentare il loro pregio. Questi gradi di nobiltà, a cui il secolo scettico mostra di non dare alcuna importanza, sono in realtà da alcuni più ambiti e più invidiati che qualcuno non creda; sarà perciò indispensabile di non tràscurarne l'uso scrivendo o parlando con persona che ne sia insignita. Nessuno di essi importa l'appellativo di Eccellenza, il quale è un diritto riservato alle grandi autorità dello Stato. Sono Eccellenze i Collari dell'Ordine della Santissima Annunziata, il Presidente del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i Generali in capo, gli Ammiragli, il Primo Aiutante di campo del Re, i Ministri di Stato e le loro signore, la Dama d'onore della Regina, il Ministro della Casa Reale, il Ministro degli Ordini equestri, i Ministri in carica e i Sottosegretari di Stato, il Presidente del Senato e della Camera dei Deputati, i Primi Presidenti e i Procuratori Generali delle Corti di Cassazione, e in genere tutti quelli che per decreto reale sono Grandi Ufficiali dello Stato. Sono Eminenze i Cardinali, e come elettori e soli eleggibili al Pontificato, sono trattati come principi stranieri e precedono i Cavalieri dell'Annunziata. Gli Arcivescovi e i Vescovi sono designati col titolo di Monsignori, ma gli ecclesiastici li onorano coll'Eccellenza, di che si valgono anche quelli i quali non appartengono a questa gerarchia. Nelle prammatiche ufficiali, gli Arcivescovi precedono i Senatori e i Deputati, e i Vescovi li seguono precedendo i Cavalieri Gran Croce, i Primi Presidenti, i Procuratori Generali, ecc. Arcivescovi e i Vescovi sono implicitamente riconosciuti idonei per entrare in Senato. Sono onorevoli i Senatori e i Deputati. Sono Gentildonne le signore nate nobili, maritate anche a chi non possegga alcun titolo nobiliare. Ci sono poi i Cavalieri della Corona d'Italia, dell' Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, dell'Ordine militare di Savoia, dell'Ordine del Merito civile, i quali ultimi non hanno gradi superiori a quello di cavaliere. I due Ordini dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d'Italia possono essere accresciuti di grado e così: Ufficiale, Commendatore, Grand'Ufficiale, Ufficiale Gran Croce, Gran Cordone. Nell'uso comune però, meno che nelle soprascritte, negli avvisi di morte e di matrimonio e negli inviti per le precedenze indispensabili, non sarebbe conveniente chiamare un tale: signor Ufficiale, signor Gran Croce o Gran Cordone, il che ecciterebbe l'ilarità. Si usa il maggior grado nominabile, vale a dire signor Commendatore; Onorevole o Senatore, sempre prendendo il più che comprende il meno. È superfluo dire che il titolo di Maestà è dovuto al Re e alla Regina, anche se il Re è abdicatario e la Regina è vedova; e Altezze Reali sono i figli e le figlie della famiglia reale. Il Pontefice è sempre designato col titolo di Santità. Il titolo di Dottore, Professore, Prefetto, Consigliere, Avvocato, infine di qualunque qualifica, va messo, parlando o scrivendo a persona che ne copre la carica, preceduto da illustre se la persona è celebre, illustrissimo, PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 9 chiarissimo, esimio, secondo le usanze invalse ai nostri tempi, a differenza degli antichi, che stabilivano delle vere e proprie categorie. Il Don e il reverendo e reverendissimo pei sacerdoti: l'appellativo Maestro è posto assolutamente per indicare il maestro di musica, come si diceva Mastro, al tempo del rinascimento, al pittore, allo scultore, all'orafo. Signora è per la donna maritata o di età; signorina per le fanciulle, distinzione portataci recentemente dai maestri dell'eleganza, i Francesi. Signorina non è più adatto ad una persona che abbia passato i trent'anni. Se avrà dello spirito, essa saprà indicare che è fuori dal circolo di certe pretese le quali la renderebbero ridicola.

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Tutti noi abbiamo provato questa impressione penosa in qualcuna di queste visite, in qualcuna di queste ospitalità; la buona educazione ci ha imposto questo sagrifizio, ma la nostra coscienza si è ribellata e ha protestato contro questa importunità che ha prodotto in noi il proponimento di non cascare mai più sotto una coazione di gentilezza, la quale è tanto più penosa perchè ci costringe ad essere ingrati senza nostra colpa per un moto spontaneo dell'animo. Così quando ospiti insigni vanno in provincia, il ricevimento ufficiale talvolta diventa a dirittura una fatica e, per alcuni temperamenti, dannoso alla salute. Importa di non eccedere nelle dimostrazioni di cordialità e conservare quella discrezione che è la prova di quello spirito, il quale rende amabili le persone avvezze a vivere in società. Il vostro ospite non lo trascurerete, ma lo lascerete libero di moversi e di respirare liberamente; se è una signora le servirete di compagnia fin dove è lecito senza parere curiosi o intromettenti; se è un uomo secondo la condizione vostra e le abitudini del luogo, lo farete padrone della vostra casa accennandogli le ore dei pasti e delle conversazioni che darete in suo onore. Prevederete quel che potrebbe occorrergli durante le ore notturne, perchè se ha abitudini non siano turbate, specialmente se fosse di età alquanto avanzata. Cosicchè non mancherà mai un lumicino da veglia, qualche ristoro: quelle piccole cose che evitano i languori agli stomachi deboli o li impediscono nei delicati. Quando egli partirà, avrete tutto preveduto; le provvigioni pel viaggio, le valigie alla porta, cercando di allontanare finchè potete la noia molestissima delle mancie ai vostri domestici, il che rivelerà in voi un intimo senso di delicatezza e di previdenza. Non tutti gli ospiti sono in condizione di spendere molto per non figurar male, secondo un cattivo pregiudizio sociale; non tutti gli ospitati hanno i mezzi in relazione della vostra casa o del vostro genere di vita; a tutti indistintamente la mancia è un pensiero umiliante, quasi importi istintivamente l'idea di offendere il proprio simile. Infine egli è certo che l'uso è comune in società; ma non è meno certo che bisognerebbe liberarsene fino ad una certa misura, come si sono evitate le mancie tradizionali in taluni uffici e in talune istituzioni del capo d'anno e del ferragosto. La mancia al domestico, la quale fa pensare che l'albergo è una istituzione salutare perchè là almeno non si fanno complimenti, toglie una parte della cordialità e dell'espansione all'ospitalità. L'ospite veramente cortese e scelto sa di per sè compensare le proprie persone di servizio del lavoro straordinario occorso in certi giorni, e nel mentre impedisce la rapace avidità de' suoi domestici, ne educa i sentimenti, evitando la loro mormorazione e facendo sì che essi servano gli ospiti tutti ugualmente dal più ricco al più povero, senza secondi fini e senza mancanza di riguardi.

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I caratteri suscettivi sono dei cattivi caratteri e, come abbiamo già ripetutamente detto, rivelano un soverchio amore della propria persona. Un altro dovere imprescindibile fra gente che si rispetta è quello di parlare urbanamente e di formarsi la buona abitudine dell'amabilità e della cortesia scambievole; di non dare un comando senza farlo precedere da una parola di preghiera e seguire da una parola di ringraziamento. Questa urbanità non può degenerare in affettazione, anzi la esclude, poichè sarebbe prima di tutto una inurbanità per chi ascoltasse, il sentir dire: cuor mio, viscere mie, anima mia, angelo, ecc., il che è una mancanza di rispetto per la dignità umana. Se v'ha cosa ancor più spiacevole dell'inurbanità è l'eccesso della forma: ogni soverchio rompe il coperchio. C'è chi tiene la cortesia e le parole gentili e cerimoniose per la gente fuori di casa, e pe' suoi conserva il viso arcigno o il silenzio agghiacciante: c'è chi non pensa che a' suoi, non loda che i suoi, non ha riguardi che per la moglie o pel marito e pe' figli proprii. Tutto ciò è il difetto d'un giusto giudizio e d'una buona educazione. La moglie e il marito non si daranno mai torto l'un l'altro presenti i figliuoli o i domestici, ma siccome l'errare è da uomo, l'un d'essi potrà convenientemente osservare e, occorrendo, riprendere e non mostrare una soverchia debolezza nell'assentire in presenza d'altri ad una idea storta, ad un'opinione sbagliata, ad una cosa che appare non vera; il che indurrebbe chi ascolta a credere che c'è una complicità ad una menzogna, o una superbia eccessiva nel voler dare ragione a chi ha torto, soltanto perchè chi la dice è persona che ci appartiene. Un silenzio contenuto e compiacente può solo essere urbano per chi assiste ad uno di questi casi, che nella vita, purtroppo! sono più comuni che non si pensi. Anche il vestire pulitamente e diligentemente è un dovere di buona educazione. Una donna sciatta o spettinata e cogli stivali rotti si rende ributtante. È utile di ricordarlo. Non siamo tutti ricchi ma abbiamo tutti a nostra disposizione dell'acqua fresca, un ago e un ditale. Si può fare a meno dei cosmetici e della cipria, ma non del sapone e del pettine. La madre di famiglia vestita con garbo, esercita sul marito, sui figliuoli e sui domestici una salutare influenza; ed anche questo fa parte dell'urbanità. Un uomo che uscisse di casa coi solini sudici o sfrangiati, con un bottone di meno, e coll'abito che mostrasse la corda, indicherebbe in famiglia un disordine che sta in ogni persona di evitare. L'educazione rispetto all'ordine, che poi ci porta al metodo e garantisce l'economia e I'igiene, è in ogni caso più che un precetto di galateo, una massima di morale. I fratelli e le sorelle saranno accostumati di buon'ora a quei caratteri che sono istintivi ai singoli sessi. Una dolcezza che sembri sommessione da una parte; una franchezza sciolta dall'altra, che non abbia l'apparenza del dispotismo, ma che prometta quasi una difesa forte e sagace. La sorella è un freno salutare all'irrompere dell'ira, alla libertà soverchia della parola, alla mormorazione volgare; un fratello è una salvaguardia, un consigliere, un protettore e qualche volta un maestro. L'istitutrice, quando c'è, rappresenta un'autorità che sta tra i genitori e gli ascendenti e i maestri esterni; essa non deve arrogarsi alcun diritto, ma non deve essere in dubbio sui doveri che gli altri hanno verso di lei. I genitori nel prenderla sotto il proprio tetto e nell' affidarle la cura de' proprii figliuoli avranno usato tutte quelle cautele che ne garantiscano il valore ed i costumi; avranno studiato da dove esce per sapere dove presso a poco potrà andare; e per questo non le interdiranno l'esercizio di diritti tanto più difficili ad esercitarsi, in quanto i domestici hanno sul conto degli istitutori e dei maestri un concetto molto curioso, che vale la pena di essere studiato per poterlo raddrizzare e correggere. Essi tengono tutti coloro che lavorano per la famiglia dei loro signori per pagamento, e specialmente gl'istitutori, i maestri e perfino i professori più celebrati delle università, qualche cosa di poco diverso da loro. Una lezione privata che si può rimunerare, per essi non è che un servizio come il ripulire una camera o lustrare gli stivali. Ciò non par vero, ma è così; e dimostrerebbero una grande deficenza di studi filosofici e morali, coloro che se ne offendessero o non volessero persuadersi che il mondo è stato sempre così e sempre andrà così. L'uomo ha conservato in sè per eredità, per fatalità e per istinto un pochino di quell'angelo ribelle che si volle alzare per superbia, e non se ne guarì neppure quando fu travolto nell'abisso d'ogni malore, come dice il poeta. I genitori mostreranno il più gran rispetto del maestro ponendolo al di sopra di sè medesimi; non ne commenteranno gli insegnamenti, non gli daranno torto, neppure se l'ha, in presenza degli allievi o d'altri; inculcheranno nei figliuoli l'assoluto e profondo rispetto e indurranno i fanciulli e i domestici a domandare scusa se hanno errato, senza debolezza, anche se per caso l'errore dell'istitutore o del maestro fosse provato. È indispensabile la gerarchia nella vita, come nel convento era necessaria la regola. Non mancherà modo poi alla persona che governa, di ricondurre il precettore con prudenza sulla via della giustizia. Dal canto loro le istitutrici specialmente, perchè ormai gl'istitutori sono andati in disuso dal giorno che gli abati hanno cessato di essere possibili, cureranno di ornarsi di tutte quelle amabilità che rendono attraente una donna, la quale senza essere nata a servire non ha posizione propria pel comando. L'istitutrice e la damigella di compagnia non hanno al certo una condizione molto invidiabile, ma l'hanno però sempre degna di ogni rispetto, se da una parte sanno spogliarsi dalle smancerie dell'affettazione, e dall'altra dagli atti arcigni, dalle parole dure e dagli acerbi rimproveri. La pedanteria deve essere esclusa come la disinvoltura troppo lieta o specialmente beffarda. Esse debbono sapere che la loro condizione le costringe ad essere simpatiche; e per esserlo debbono curare perfino il loro abbigliamento in modo che corrisponda a quel comandamento categorico dei francesi: avere il fisico dell'impiego - le physique de l'emploi. Poste in una condizione che tocca al capo e ai piedi della gerarchia, esse debbono saper essere gl'intermediarii pietosi del perdono e della carità nelle famiglie, come quei cuscini, a così dire, che impediscono gli urti, arrotondano gli angoli, attutiscono i rumori e gli strofinii; e lasciare nelle famiglie il ricordo d'una custodia mite e gentile quasi di fate benefiche, il cui nome richiama negli anni tardi un sorriso di compiacimento e una lagrima sugli occhi di coloro che ne provarono i benefici influssi. È a questo patto che le famiglie si cementano e che gli uomini diventano benevoli l'uno verso l'altro in un comune desiderio di rendersi tollerabili.

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Abbiamo detto che il mondo è ingiusto, e quindi è facile il comprendere quale sia il nostro parere su questa dolorosa faccenda. Tuttavia in tutto ciò non è solamente il mondo che abbia torto; bisogna dire che qualche volta hanno torto anche le maestre e perfino quelle che, con neologismo deplorevole, si chiamano le professoresse. S'intende che non vogliamo ora parlare del costume. Per le maestre che non hanno costume o l'hanno scorretto questo libro non è fatto, perchè nessuno ha avuto qui l'idea di stendere un tratto di morale; del resto noi siamo obbligati tutti a credere che maestre scostumate non ce ne siano, o almeno che ora non ce ne siano più. Ma questo appunto non essercene più, ha lasciato nella tradizione l'idea che ce ne siano state; il che ha contribuito non poco a farle considerare da un punto di vista non degno del loro nobile compito; e la tradizione è assai potente nei popoli, come sappiamo. Ora, per esempio, il figlio d'un ladro non ha alcuna colpa di essere il figlio d'un ladro; ma questa colpa del padre, questo discredito si riversa sul suo figliuolo, il quale, sia pure per ingiustizia, ha il dovere di essere galantuomo non più in proporzione aritmetica, ma in proporzione geometrica. Così avviene delle maestre, le quali hanno il loro peccato originale, poichè prima che esse nascessero, forse qualcuno ha peccato per esse: e a questo peccato involontario può servire di battesimo e di rigenerazione un'austerità stretta, quasi monastica, specialmente nelle piccole città, dove il pregiudizio e il pettegolezzo sono una malattia, purtroppo! cronica e inguaribile. Il modo di comportarsi di una maestra in società deve essere d'una riservatezza rigorosissima. Ad essa non sono permessi balli pubblici, abbigliamenti capricciosi, passeggiate e partite di piacere che possano dar luogo a osservazioni e commenti; e non le sarà permesso di intrattenersi con persone di diverso sesso, o di ostentare libertà soverchia di maniere o di discorsi. Dovendo conoscere il bene ed il male, essa saprà correr via sopra un argomento sdrucciolo, inculcare l'ordine e darne l'esempio con una compostezza misurata e severa. Essa sarà al corrente del movimento intellettuale, sociale e politico del suo paese, perchè non le abbiano a riuscire incomprensibili le leggi che deve rendere carne e sangue della crescente generazione. Ma questa conoscenza delle cose, questa coltura, questo amore dello studio, non deve degenerare in pedanteria, la quale spesso involontariamente tradisce l'abito peculiare dell'insegnamento. Le letterate non sono molto amate dal pubblico, perchè teme sempre di trovare in esse il tono cattedratico. Il sapere deve zampillare come sapienza spontanea, e le cognizioni essere assimilate così, che ne venga un ornamento del discorso e non un peso per l'interlocutore. Anche la dottrina delle donne deve avere il calore dell'affetto. Se per tutte le altre donne la moderazione e la dolcezza sono un ornamento dell'amabilità, in lei debbono esse il principale fattore del carattere. La mondezza dell'abito e la sua semplicità austera saranno il suo primo figurino di moda; e la conoscenza delle cose della vita non deve far altro che insegnarle a schivarne i pericoli e a porsi come un faro luminoso davanti alle piccole coscienze, che vanno svegliandosi negli alunni ad essa affidati. E poichè, come dice il Pascal, la virtù d'un uomo non deve misurarsi da' suoi sforzi, ma da ciò che fa ordinariamente, è naturale che l'esempio della virtù non può venire che da colui il quale l'esercita nelle piccole evenienze della vita. L'uomo si corica la sera, si alza la mattina, si veste, fa affari, mangia e digerisce quando non ha lo stomaco guasto: questa è l'intelligenza animale, come ha detto un filosofo, la materia in moto. Nessuno potrebbe immaginare neppure approssimativamente il numero di idee o di pensieri di quella folla nera, compatta, che esce ogni mattina dalle nostre case, inonda le piazze, ciarla, stride, piange, si rallegra e si dilegua silenziosamente nelle prime ore della notte buia, per ricominciare il domani colla stessa disordinata consuetudine il lavoro faticoso della vita materiale. Quel milione di teste che interrogate in un momento non appassionato sanno esprimere così bene i sentimenti più nobili, il gusto più fine, lo slancio più eroico, tal da poter sembrare la voce di Dio prese separatamente; per un contrasto bizzarro, specie di animali inconscienti con volto umano, pare non sappiano ragionare dirittamente, nè sentire profondamente le cose che esprimono, quando sono tutte insieme. Egli è che l'uomo singolo vive incatenato nelle consuetudini: e spetta a coloro che insegnano l'indirizzare l'intelletto umano ad averne di buone, di nobili, di oneste. Questa educazione delle consuetudini appartiene di diritto alle maestre, che essendo donne, sole sanno sorridere all'infanzia, sole possono cogliere per simpatia i primi moti di un'anima che si sveglia alle loro prime carezze. Egli è perciò che noi abbiamo intitolato e dedicato questo capitolo alla maestra e non al maestro; l'uomo non ne capirà mai nulla, salvo che per eccezione e poichè abbiamo fuse le scuole maschili colle femminili, non si vede più la ragione perchè una donna non possa condurre i fanciulli di ambo i sessi fino alle classi superiori, restando così esclusi gli uomini, i quali maneggiando colle loro grosse mani quei teneri cuori minacciano d'infrangerli. Se altro non fosse, ciò educherebbe gli uomini al rispetto e alla reverenza verso coloro che sono dolci, che sono soavi, che sono deboli. Più tardi li daremo in mano ai retori, agli scienziati e ai filosofi; essi non arriveranno mai troppo tardi: l'abito degli affetti sarà già formato. È stato detto che per ben intendere la scienza dell'anima bisogna studiarne l'alfabeto accanto ad una culla. Ma quell'inno alle culle gli uomini non sapranno mai cantarlo; e tutta l'educazione d'un popolo è in mano di chi insegna all' infanzia, perchè solo chi ha veduto il principio delle cose grandi, può giudicarne l'andamento. Gli insegnamenti della scienza e della filosofia sono dottrine e non moti dell'animo; esse possono calmare le ebbrezze dell'intelligenza, non saziare la sete dei nostri cuori e indovinarne la fine. E questa sete d'affetto è la rivelazione di quell'ideale che solo l'educazione può raggiungere. Questo grande compito dell'educatrice dovrebbe crearle un'atmosfera più atta a far maturare la messe della virtù e della sapienza popolare e metter lei sopra un trono. Invece non è così, si direbbe anzi che sia tutto il contrario; e ciò si spiega colle premesse; ma tocca in gran parte ad esse di distruggere la continuità di quel giudizio ingiusto; e non sarà loro difficile se sapranno, prima di entrare nel gran meccanismo dell'educazione nazionale, di che fardello si gravino le spalle e quanto sia faticoso ufficio e di che lagrime grondi e di che sangue. Se l'educatrice ha una posizione difficile in società e nella scuola, ne ha una non meno grave nei collegi e nei convitti, in genere nella vita di reclusione. La vita delle recluse, specie di quelle che sono già adulte e quindi restìe al vivere in comune, è degna di uno studio di importanza capitale. I rapporti tra le maestre e le scolare e tra esse e il mondo sono tanto complessi, da non poter essere accennati che sommariamente. La prima necessità è di rendere i collegi e i convitti così lieti e sereni da impedire la noia, da evitare il pettegolezzo, da rendere tranquillo e calmo l'ambiente. Se l'istitutrice deve evitare con ogni fatica le predilezioni anche involontarie, deve altresì invigilare a che le allieve con contraggano intimità troppo sentimentali, e quelle disposizioni alla sensibilità eccessiva che deprimono il carattere e tolgono il concetto del vero nei cuori della gioventù. Anche il così detto parlatorio deve essere accomodato di guisa che le anime giovanili possano espandersi lietamente, impedendo le esagerazioni, ma coltivando la naturale confidenza dei figliuoli verso i genitori. Infine i collegi debbono essere case di educazione, con regole fisse, ma con spontanea naturalezza nei modi e negli affetti. E i convitti, come lo dice il nome, luoghi in cui si convive transitoriamente, vale a dire grosse famiglie in cui l'urbanità, la tolleranza reciproca, i servigi scambievoli hanno una impronta regolamentare indispensabile pel migliore andamento dell'azienda e per un raccoglimento necessario alla conquista d'un titolo accademico; ma che ospitano appunto delle persone già sul limitare della vita; non possono avere quelle discipline fisse e rigorose e strette, che si addicono ai collegi propriamente detti. Le convittrici e i convittori degli istituti normali e superiori debbono essere le custodi di loro stesse: nel loro tratto cortese e educato saranno escluse le parole vivaci, i nomignoli impertinenti, le consorterie o le ostilità aperte o i maneggi sotterranei. Lo studio in comune, il pasto in comune, le passeggiate in comune possono essere altrettante discipline morali e sociali; e l'aiuto, l'emulazione, perfino la lotta urbana nelle difficoltà scolastiche, altrettanti ammaestramenti civili per l'esercizio pratico della vita. L'istruzione in sè e per sè, non vale nulla; la trasformazione sociale si è effettuata, le idee si sono moltiplicate; le nazioni sono divenute intelligenti; ma si sono staccate man mano dai loro sentimenti e gli entusiasmi salutari le hanno abbandonate. E così questa grande rivoluzione intellettuale ha stipato i cervelli senza fecondarli e minaccia di abbandonare i popoli alla follia della loro intelligenza. Ora è all'educatrice che è riservato il Sursum corda! E questo otterrà per sè e per gli altri non colle pedanterie scolastiche, coll'orpello d'una laurea, colla vanità d'una patente, colle pretese di un titolo rimbombante, colle arti o colle scienze o col sapere la storia greca, romana, la teoria darwiniana o fare dei versi; ma coll'essersi assimilati gli studi che nel campo morale e intellettuale le vietino le mode bizzarre negli abiti e le maniere virili o scomposte, o sconvenienti. Questa salutare assimilazione le indicherà quella perfetta educazione civile, la quale irradiandosi da lei porterà ne' suoi discepoli l'urbanità, e spronerà allo studio, al rispetto delle consuetudini paesane e delle altrui opinioni e condurrà le giovani menti a venerare in essa non soltanto il sapere ma la virtù; onde poi accoglieranno nei cuori quel possente anelito, per cui la civiltà si diffonde, si stabilisce e rende meno aspro e meno difficile il vivere in comune. PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 11

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Una signora di spirito da cui abbiamo preso molte norme per la compilazione di queste regole, vorrebbe delle danze nelle nozze, non fossero che quattro salti, una sauterie come dicono i francesi, per finire la gioventù lietamente. Ma non è regola da darsi. Lunch, rinfresco, gran ballo, o colazione o pranzo, questo è nelle tradizioni e nel costume delle famiglie. Se c'è pranzo, la sposa prende posto fra il padre e il suocero, e lo sposo tra la madre e la suocera di fronte ad essa; e la sposa viene servita prima di tutte le altre signore, anche le più qualificate. Se c'è ballo è aperto dalla sposa coll'ospite che si desidera onorare di più; ed è essa che manda ad invitare gli uomini che desidera facciano parte della quadriglia d'onore. Infine gli sposi si ritirano gli ultimi dal ballo e ricevono i saluti di tutti i convitati, che si affrettano a partire poco dopo la mezzanotte. Se le nozze si fanno il mattino e gli sposi partono dopo il lunch, gl'invitati li conducono alla stazione facendo dei saluti di una brevità eccezionale, senza chiasso e con discrezione. Al loro ritorno gli sposi fanno le loro visite di dovere insieme. Le antiche famiglie non permettevano che le giovani maritate uscissero di casa sole troppo presto, neppure per andare alla chiesa. Ora vanno sole anche le fanciulle, come ci hanno insegnato gli stranieri, specialmente tedeschi, inglesi e americani, e noi non sapremmo che dire. L'andar soli o accompagnati è un caso soggettivo e ciascuno fa quel che crede il meglio. La partecipazione si fa negli otto giorni che seguono le nozze, badando di non dimenticare nessuno; dal fornitore dei dolci e dalla modista al principe del sangue se si ha l'onore di essere conosciuti, tutti debbono essere a parte del lieto avvenimento; solamente se ci sono persone elevatissime, la partecipazione è scritta a mano in lettera chiusa. Le partecipazioni sono così elementari nella forma e nella sostanza che un semplice litografo le può indicare. La carta a mano non squadrata all'uso pergamena è la più indicata nelle partecipazioni signorili. Non potremmo far a meno di notare qui le nozze d'argento, che si celebrano venticinque anni dopo il matrimonio e le nozze d'oro dopo cinquanta. Sono feste piene d'una poetica tenerezza e che rischiarano gli orizzonti nel vespro e nel tramonto della vita. A queste feste interverranno i parenti, gl'intimi, i figli e i figli dei figli sino alla quarta generazione secondo l'augurio biblico fatto nel dì del matrimonio. Esse saranno placide, ma non per questo meno liete; esse avranno la loro sanzione gaia e solenne nell'aver mostrato che il tempo e la convivenza anzichè rallentare hanno stretto i vincoli, per cui l'umanità contenuta entro i limiti d'una morale piena di provvidenza ha fortificato i caratteri ed elevato i cuori. I babbi e le mamme, nel raccogliere al loro desco i figliuoli e i nipoti caveranno fuori i loro vecchi gioielli, i loro abiti più sfarzosi a cui sarà permesso perfino un po' di civetteria giovanile; si arriverà al ballo. Nelle nozze d'argento il padre apre la festa colla figlia maggiore o colla moglie di suo figlio, la madre col figlio maggiore o col genero. Nelle nozze d'oro i nonni prendono, per fare un giro, i più piccoli dei loro nipoti o pronipoti e la chiudono prima della mezzanotte con un giro fra di loro, in cui si legge in fondo il pensiero soave e melanconico che se si potesse ricominciare la vita, malgrado tanti piccoli malintesi, malgrado talvolta i dolori e le lagrime, essi vorrebbero pure scegliersi ancora; e rispondere così ai caratteri privi di poesia e ai cuori privi d'entusiasmo, che la indissolubilità del matrimonio è la base di ogni più schietta serenità e di ogni più alta morale, perchè riassume l'unità delle forze della famiglia e non fa diminuire il rispetto pei figli verso i genitori, nè arrossire i genitori de' proprii figliuoli incontrandoli per via. Onora il padre e la madre tua acciocchè tu viva lungamente sulla terra. È a questo patto che si possono celebrare le nozze d'oro, la poesia immortale delle anime ferme, pure e nobili.

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Senza contare che ora il mondo non è più per certe classi, diremo, semoventi, che una gran nazione, in cui tutto ciò che è bello o che lo pare, tutto ciò che è moderno ed è elegante viene universalmente adottato, è una regola di buona educazione il cercare di saperne almeno i tratti generali, per non fare la figura di provinciali quando per caso ci si trova immischiati; dobbiamo notare che questi usi stranieri ora diventati abituali nel commercio della vita quotidiana, appartengono alle razze latine e anglosassoni, con assoluta divergenza dalle consuetudini teutoniche o slave o orientali o semite, razze infine tutte colle quali abbiamo avuto, se non maggiore, certo uguale scambio di prodotti e obbligo di convivenza e di adattamento. E mentre, per tacer d'altro, nei secoli passati la Lombardia, il Napoletano e la Sicilia si erano assimilate le costumanze spagnole e francesi, i Tedeschi in genere e gli Austriaci in particolare, non poterono mai rendere famigliari i loro costumi nel Veneto e in Lombardia, nè nelle provincie pontificie, nè a Parma, nè a Modena, dove avevano autorità di governo, dazi doganali proprii, magistrato stipendiato e magistero e polizia a' loro ordini e principi di sangue imperiale senza controllo nè contrappeso. Questa refrattarietà, per dir così, a certe usanze; questa assimilazione di certe altre senza pregiudizio del vero carattere popolare, è dunque un sintomo delle tendenze nazionali verso gli affini o consanguinei, che rivela un sentimento inconsapevole, quasi istintivo, della nostra razza. Tutti i popoli finiscono le loro cerimonie più solenni a tavola, cominciando dagli eroi di Omero che mangiavano de' buoi arrostiti e scendendo giù alle nostre cene fredde, in cui i tartufi e gli zuccherini mantecati sono inaffìati dallo Champagne; ma la birra nel paese dei grappoli, la patata nel granaio di Roma non ebbero mai fortuna. Questo esordio ha per iscopo di constatare le usanze francesi e inglesi e perfino americane nei pasti leggeri e nelle partite di piacere, in uso attualmente in Italia, e di renderne la pratica meno difficile nello scambio delle cortesie famigliari. Il déjeuner (colazione) a mezzogiorno ha un carattere di grandissima intimità e non se ne fa l'invito che in campagna o al forestiero che viene per caso nella vostra città per soggiornarvi pochi giorni. L'invito alla colazione è un imbarazzo, non solo perchè occupa molte ore della giornata, di quelle che sono date generalmente a occupazioni comuni, ma perchè oltre al lasciarne vuote molte altre che seguono la partenza degli ospiti, presenta una maggiore difficoltà di preparazione. Nella colazione o déjeuner quasi tutti i cibi che la compongono possono essere posti sulla tavola con ordine e simmetria insieme al dessert. Le pietanze non possono mai essere con salse liquide calde e in generale sono di quelle cotte nel piatto. Se invece del brodo o della minestra leggerissima si servono le ova a bere, sarà bello di porle in una canestrina imbottita di dentro e coperta da una coltre di seta trapunta e ornata di merletto o di aspetta ricamata. Gli ovaroli sono disposti in un vassoio di riscontro alle chicchere del caffè che si serve a tavola, come pure il caffè col latte o il thé, secondo il menu abituale delle famiglie. Ma in quel menu non entrerà mai il gelato, il quale ha bisogno di un forte pasto per la reazione dello stomaco. Qui è l'igiene che viene in soccorso dell'eleganza e del buon gusto. Il fìve o' clock tea (il thé delle cinque) è una tazza di thé che le signore offrono alle persone le quali vanno a visitarle nel loro giorno. Qualche volta il five o' clock ha un accompagnamento di musica, canzonette o romanze al pianoforte, non mai grande musica nè pezzi concertati, ed è fatto in modo che ciascuno possa andare a prendersi il suo thé, il quale delle volte non è neppure thé, alla tavola del buffet in un angolo della sala o nel salotto vicino se la gente è molta, il che spesso accade. La tavola ha una tovaglia di Fiandra ricamata magari a colori di bucato (rosso e turchino), guernita di merletto nazionale e ha delle vere pile di piccole salviette a frangia per i consumatori; ci sono dei piattini di dolci fini, di gateaux alla vaniglia, dei frutti canditi, dei bicchieri iridescenti, delle bottiglie bianche di vini preziosi e rari, e anche la cioccolatiera fumante. Le posate sono da dessert possibilmente di vermeil pei frutti canditi; i piattini dorati e leggeri, di quei piattini che il Ginori sa rendere oggetti d'arte; e sono levati appena la persona se ne sia servita. La padrona di casa, senza allontanarsi troppo dal suo posto di centro, si muove sempre e incoraggia gli altri a circolare e a servirsi, nel che non mancano aiuti, benchè l'ora non sia italiana. Ma la compagnia dispone alla gaiezza e il decreto è firmato anche dagli stomachi guasti. Il pique-nique in origine non era che un pranzo di comunella e si fa generalmente alla campagna; ciascuno si porta un piatto, chi le frutta, chi i dolci e chi il vino ; poi si fissa una specie di menu per indicare l'ordine. Questo pranzo di comunella è in verità di assai cattivo gusto: perchè si stabilisce una uguaglianza un po' libera che dà luogo a familiarità da evitarsi; poi è assai facile che l'amor proprio dell'uno o dell'altro ne rimanga offeso. C'è chi mangia più e chi meno, chi odia l'arrosto e chi l'adora, chi non beve che vino scelto, chi non può cambiarlo, chi vuole le torte e chi i pasticci. Le signore specialmente si guarderanno dall'immischiarsene. Queste comunelle si possono fare per i poveri, come quella specie di lotterie a cui in Francia si dà il nome di cagnottes e che ancora non si sono introdotte da noi; a perdere e vincere, un quissimile di pari e dispari. È da notare che i piques-niquese le cagnottes li avevano anche i Romani con la cena collaticia e i Greci con l'eranos a scopo appunto di carità. Le nostre fragolate di beneficenza, le bicchierate d'onore, le lotterie e i balli di carità sono grandi piques-niques senza libertà e senza che lo spirito vada compagno alla lettera di quella legge di umanità che serve loro di maschera. Divertirsi per far limosina, che poi o non si riesce a fare o si fa imperfettamente e insufficientemente, è un uso cioè che finirà come l'abuso del caffè, secondo le parole di Madama di Genlis, a cui la pietà vera, quella che scende consolatrice e salutare, rimane estranea. Piques-niques dunque in una forma o in un'altra sono da evitarsi, perchè non conformi alla vera eleganza nè alla gentilezza dei costumi, che vogliono un solo padrone a tavola, al ballo, in casa, in giardino, perchè è meglio aver l'obbligo di esser grati, che il diritto di godere e di biasimare altrui; ed è appunto il nuovo significato che si dà al pique-nique attuale fra le persone educate. Pranzo o merenda in campagna, dove anche il padrone interviene insieme a' suoi invitati. Il lunch dall'Inghilterra passando per la Francia ci è giunto alquanto trasformato; esso sarebbe la fine di una mattinata musicale o d'una scampagnata, o, in una parola, d'un ricevimento diurno. Spesso è un buffet intorno al quale si mangia in piedi, ma è preferibile far sedere le signore a tavola, mentre gli uomini possono mangiare stando in piedi, o fare tante piccole tavole in cui sedere alternativamente, e meglio ancora e più conforme all'indole italiana, che ama i proprii comodi, sedersi alla tavola lunga, ogni signora avendo un cavaliere che la serve e facendo così a meno delle precedenze, salvo per la padrona di casa, che segna sempre il centro della tavola. Il lunch è dunque una specie di merenda italiana, di collation francese, l'intermezzo tra la colazione propriamente detta e il pranzo serotino. La tavola è coperta di frutta, di gelatine, di creme, di pasticcetti freddi, di gateaux finissimi, di ameringhe, di biscotti inglesi, di sandwiches, di originalità, per così dire, distinte e straordinarie. Sono ammessi i vini liquori e lo Champagne. Questo genere di ricevimento è peraltro libero, ed è facile ai gentili accomodamenti, come quelle famose leggi che non avendo articoli ben definiti si prestano a interpretazioni elastiche e compiacenti. Il lunch fa parte di quelle che si chiaman garden parties, scampagnate, partite di caccia, caccia alla volpe, dove prendono parte, ohimè, anche le signore. Il mondo ha ben cambiato, nè ciò può fare meraviglia. Le università sono piene di donne, il giornalismo è pieno di donne; e perfino ne è piena la politica. La repubblica in Francia si lamentava di non aver donne e Madama Adam fondò la Nouvelle Revue per tenere testa alla Revue des deux Mondes. Nel suo salotto si conobbero Thiers e Gambetta e si fece e si disfece più d'un ministero. Non è dunque fuori di natura che le donne prendano parte a queste gare platoniche e divertenti di caccie e di balli campestri. Allora il lunch deve essere in permanenza, poichè, qualunque sia lo scopo di queste scampagnate, l'aria libera aguzza l'appetito e la grande luce non si compiace della soverchia etichetta e delle ciere sentimentali. Le antiche fiorentine non sdegnavano neppure esse le scampagnate. Cesare Guasti e Isidoro Del Lungo ne illustrarono con amore e sapere le gesta, quando Alessandra Mazzinghi degli Strozzi e Isabella Guicciardini, lasciando la lettiga come troppo molle e delicata, salivano i colli di Valdarno sulla mula a curare le derrate in villa e a far spinare e conciare il lino, perchè messer Carlo Guicciardini, consorte onorando, e Filippo degli Strozzi fuoruscito, non avesser pena di quattrini e di calzature. E allora le ville gentilizie accendevano i falò in segno di allegrezza per onorare madonna e il suo seguito, che venivano di Firenze a praticare l'utile dulci. Ma i tempi sono mutati e di quelle feste italiane semplici abbiamo fatto i lunches, i garden parties, i piques-niques e le caccie alla volpe. Sono venute poi di moda altre cose strane: il pattinaggio, vecchio divertimento rococò, a cui si prestava anche l'infelice Maria Antonietta negli anni ultimi del suo regno. Il freddo che fa soffrire e fa morire i poveri può essere pei ricchi una sorgente di divertimento: e ciò, nell'epoca dei Comitati di beneficenza, suggerirebbe ad un filosofo molte gravi riflessioni. Il pattinaggio, le corse, i tornei di scherma, e in genere tutto quello che si chiama lo sport è entrato nei costumi delle donne. Non è loro proibito di parteciparvi, purchè vi mantengano una castigata discrezione e moderazione. Esse poi se ne valgono qualche volta pei loro Comitati di beneficenza, che ne parrebbe l'appendice e che se non altro nobilita i divertimenti. Anche i Comitati di beneficenza fanno parte della moda: la carità all'antica è rimasta la privativa di qualche animo tenero e pio, che non può lottare contro le sventure accumulate nelle grandi città. Le signore che appartengono a questi Comitati debbono però mantenere in essi l'antico sentimento pietoso, scendere fra i poveri, maestre e infermiere, consolatrix afflictorum, spogliandosi di una emulazione inutile colle uguali o di quella superiorità che è offensiva per gli infelici. Esse debbono nel lavoro collettivo evitare qualunque pretensione; portare nelle adunanze non solo il contingente del loro denaro e delle loro questue, ma quello della carità veemente e impersonale, rendendo conto dei soccorsi dati e ricevuti e non avere renitenza alcuna a eseguire gli ordini emanati dalla presidenza, discutendo con urbanità, proponendo con mansuetudine, rinunciando volonterosamente a quelle idee che potessero non garbare alle maggioranze, a cui spetta il decidere, dacchè i voti si contano e non si pesano; e le decisioni da adottarsi sono sempre quelle che hanno ottenuto il maggior numero dei suffragi. E giacchè ci si presenta questa nuova parola - Comitati di beneficenza - organizzati, sotto leggi morali ormai stabilite dalla consuetudine e anche un pochino dalla moda, non sarà inutile del tutto fermarci sopra il pensiero. Un tempo la beneficenza era individuale secondo la carità che ispirava i cuori. Diventò collettiva nelle corporazioni religiose, e specialmente dopo S. Francesco d'Assisi che alla mondezza del cuore e del costume volle compagno il soccorso accomunato nella limosina di tutti e di ciascuno. Poi venne man mano trasformandosi fino a che il pensiero moderno, le condizioni cambiate dell'umanità tutta intera, trovò con Herbert Spencer la formola nuova di un nobile sentimento antico - PIGORINI-BERI C., Le buone maniere, 14 altra cosa è la giustizia e altra cosa è la beneficenza. Queste due virtù furono a così dire disciplinate e stabilite non soltanto per essere impartite su coloro che soffrono e piangono, ma per prevenire e provvedere e infine soccorrere. Il pensiero moderno istituì sotto il simbolo di quella Croce a cui non si pagava un tempo nessuna tassa mensile - la Croce rossa, la verde, la bianca, la turchina, e perfino la Croce d'oro. Ci sono le Casse di previdenza per la vecchiaia, per l'infanzia abbandonata, per la maternità, pei caduti, pei rigenerati; le Società di temperanza, i baliatici, il patronato scolastico, quello dei liberati dal carcere; ci sono le Società cooperative; quelle di Mutuo Soccorso; i dormitori pubblici, la mutua sussistenza, i dispensari medici, gli ospedali, i conservatorii, gli asili infantili, e una miriade infine di istituzioni benefiche e morali, in cui le donne sono chiamate a prestare il loro concorso morale e materiale fin dove le loro forze lo permettono. Un bell'esempio di carità a' suoi tempi fu dato dalla Marchesa di Barolo a Torino, che dopo aver consolato gli ultimi giorni di Silvio Pellico, consacrò le sue ricchezze e la sua stessa persona al sollievo degli infelici e alla riabilitazione dei colpevoli, con istituzioni che sono in gran parte ancora moderne, per quanto ispirate da convinzioni di esclusività troppo assolute. Quello che colle sue immense ricchezze potè fare questa nipote del gran Colbert, che fu chiamata una santa moderna; quello che potè compiere col suo genio, colla sua virtù, colla sua dottrina, colla sua annegazione, col sagrificio della sua gloria e della sua fortuna, Maria Gaetana Agnesi, oggi possono compierlo lo sforzo e il contributo di tutti, mediante questi Comitati a cui nei piccoli e nei grandi centri le donne debbono dedicarsi, senza trascurare le occupazioni e le discipline domestiche. È il massimo degli errori quello di credere e di pensare che non si possa accudire all'uno e all'altro di questi doveri. Non è anzi che sapendo ottemperare al primo dei doveri che è quello della famiglia, che si può portare nel seno dei Comitati di provvedimento, di prevenzione e di beneficenza, lo spirito alacre e fecondo per un lavoro utile e proficuo a vantaggio di tutti. Ricordarsi sempre che la Beecher-Stowe, e sarà utile ripeterlo ad ogni momento, pensò e scrisse il suo libro per cui la croce potè brillare sul petto dei poveri negri redenti, facendo sola la cucina di casa. Il compito più oneroso, quanto a fatiche materiali per le adunanze, per le compilazioni dei verbali, per la verifica dei conti, delle bullette, e infine per quanto riguarda gli uffici di segretari e di amanuensi, è riservato alle giovinette, le quali senza petulanza, senz'albagia, con discrezione e modestia possono partecipare alle discussioni, anche se avessero carattere morale assai delicato, salvo sempre la verecondia e la fede, come diceva Epitteto; poichè ormai le giovinette hanno la mente aperta a sentire e a comprendere molte cose, che soltanto una trentina di anni fa si ignoravano completamente. Anche questo è un portato dei tempi. Ogni cosa sotto il sole ha il suo tempo, dice un saggio sublime; si può preferire più un tempo che un altro, ma bisogna rassegnarsi al proprio. Solo è a desiderarsi che le costumanze non ammolliscano i costumi e resti incolume il sentimento dell'austerità nazionale.

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Questo lo abbiamo veduto nelle massime della saggezza, riportate fedelmente nel capitolo antecedente. La morale umana, è stato detto già tante volte, non risponde a nessun codice; essa è indefettibile come la luce: ci possono essere dei costumi paesani, rurali, cittadini, campestri, inglesi, francesi, italiani, tedeschi, russi; ma una bella azione sarà dappertutto considerata come bella. Le usanze invece mutano, e dice un proverbio, paese che vai usanza che trovi. Non bisogna però dimenticare che la scelta è anch'essa in natura e che ognuno è in libertà di scegliersi le proprie usanze, le quali perchè sono scelte è presumibile siano le migliori. E l'uomo ha inventato la parola selezione naturale, poichè ha veduto la natura viva, forte, irresistibile scegliersi il posto per la conservazione e l'accrescimento delle sue infinite e mirabili specie. La filosofia detta positiva ha errato, quando ha trasportato dal campo materiale al campo filosofico e morale le sue formole scientifiche; ma ha errato in quanto ha voluto o cercato di dare una soluzione materiale alla sensibilità istintiva della razza umana, mentre egli è colla nostra sensibilità morale che abbiamo potuto scoprire le leggi fisiche; con questo soltanto non avremmo mai al certo potuto scoprire quelle morali che illuminano i cuori e gl'intelletti degli uomini, e li fanno mirare in alto alla ricerca degli ideali della virtù e della bontà. Ma questo errore non è che uno spostamento, a così dire, dei confini di questa grande ipotenusa della vita: poichè tanto il mondo morale come il mondo materiale dipendono tutti due da un solo sapientissimo ordine, di cui al certo e provvidenzialmente non troveremo mai la formola, ma che dà ragione alla grande verità scientifica della scelta e quindi della libertà di scegliere. Noi non sappiamo perchè il polline vagabondo di un fiorellino vada a fecondarne un altro lontano, in mezzo a cento della stessa specie: esso se lo è scelto. La natura non fa nulla a caso: la sua legge non è bruta: è sapiente, è divinatrice, è eterna. Il vero è che noi non sappiamo nulla di tutto questo, e che il nostro orgoglio scientifico è riassunto tutto nella sublime parola di Laplace, il quale dopo aver scoperto la pluralità dei mondi, esclama adorando: Ciò che noi sappiamo è ben poca cosa, ma ciò che ignoriamo è immenso. Ora è indubitabile che questa potenza sconosciuta della scelta c'è: noi scegliamo il buon seme, noi scegliamo la buona qualità delle cose; un bravo capitano sceglie i migliori e più forti uomini; e diciamo soldati scelti, qualità scelta, uomo scelto, e diciamo pure modi scelti. Il saper vivere si compone di pensieri, di parole, di opere e di omissioni, proprio come si dice nel catechismo. Del resto catechizzare, secondo la Crusca, vuol dire ammaestrare uno a fare e a dire una cosa. E la Crusca, che coloro i quali parlano leggermente e quindi leggermente pensano, trovano sempre addietrata e polverosa e stantìa e pedantesca, è il forziere in cui stanno riposti i tesori dell'antica sapienza paesana, la quale, all'esattezza del vocabolo univa la gentilezza della forma, e sotto la semplicità della forma lasciava apparire la fortezza del carattere nazionale. Senza la lingua, cioè senza la parola, non ci sarebbe stata la patria. E l'unità nazionale ha dovuto cominciare a formarsi sulla punta della penna di Dante, per poter compiersi con la punta della spada di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Il pensar bene, il parlar bene, l'operare saggiamente e l'evitare di fare cose volgari o villane o spiacevoli o sgradite ai nostri simili, omissione questa altrettanto lodevole quanto è da biasimarsi quella di non soddisfare i nostri doveri sociali, sono gli elementi principali di una squisita e civile educazione. In ciò consistono le buone maniere, le quali giovano non meno a' possessori di esse, come dice il Maestro, che la grandezza dell'animo; ed essendo esse alla portata della nostra mano, ed essendo noi nella necessità di valercene più spesso coi nostri simili, ci inducono a valutare ad una grande altezza le parole, gli atti e i modi, mediante i quali ci è permesso di entrare fra le persone bennate e mantenerci in loro compagnia, senza loro molestia e con nostra soddisfazione.

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Le sedie volanti (trotteuses) sono le sole mobili in una sala di gente educata; e tutta insieme nella eleganza può non esser ricca e piacere più di una galleria, perchè può rivelare il famoso comfort degli Inglesi, il comodo antico di noialtri italiani che per un pezzo abbiamo insegnato agli stranieri a star bene, senza avere per questo minore buon gusto o minore ricchezza di loro. Soltanto è da evitare una cosa a cui tutti, seguendo le idee del tappezziere che ha il suo menu come il cuoco, non prestano abbastanza attenzione; bisogna guardarsi dal falso lusso, dalle pretese di eleganza, dalle oleografie e dai falsi ricami, dai falsi merletti e dalle false faenze e dai falsi bronzi, dai fiori di carta e dai gessi dorati di porporina. Nessuno può immaginare l'effetto grottesco di quelle belle arti d'imprestito, di quelle aspirazioni al gusto artistico o alla ricchezza, col combattimento dell' economia e della povertà che ricorda quei famosi versi satirici:

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Siamo passati di volo sui piccoli balli, i festini antichi a cui un tempo le fanciulle non intervenivano che sotto certe cautele, e non abbiamo parlato dei grandi balli che sono la stessa cosa, con qualche impegno di più e qualche gaiezza di meno. I balli grandi e piccini esigono la presentazione alle signore e signorine, prima di potere invitare alla danza: per una presentazione alle signorine sarà di obbligo che l'uomo si faccia presentare prima alle mamme o a chi le rappresenta e avere il permesso di ballare con esse. L'uomo sarà rispettoso e la donna contenuta: egli non cingerà la signorina alla cintura, ma le porrà la destra aperta nel mezzo delle spalle e colla sinistra terrà appena, lontano dalla sua persona, la destra di lei. Una signora non potrà rifiutarsi di ballare con alcuno dei signori presentati a meno che il suo carnet non fosse tutto impegnato. Se avesse per qualche particolare e grave cagione dovuto rifiutare un ballerino, non ballerà più per tutta la sera con alcuno e si ritirerà presto. Essa non si abbandona al suo cavaliere, ma tiene il capo un po' a sinistra in alto e poggiando la mano sinistra sulla sua spalla. Non dà in custodia ad alcuno fuorchè a sua madre o ad altra signora il suo ventaglio o il carnet: non ciarla, non ride troppo, non si permette curiosità o dimestichezze e non deride quelle che hanno pochi inviti e stanno a sedere aspettando la buona fortuna. La quale vien dormendo, come dice il proverbio; e chi ha spirito anderà a dormire il più presto possibile, anzichè fare il viso lungo o rider giallo o malignare invidiosamente contro le preferite. In queste regole generali di ben condursi nelle diverse contingenze della vita sociale non è da trascurarsi neppure quella che chiameremo l'etichetta del sigaro e del tabacco. Non occorre dire che noi intendiamo sempre che queste due droghe come il cognac e il rhum e in genere le cose alcooliche sono riservate agli uomini, come quei gabinetti di storia naturale in cui è scritto sulla porta: Le donne non entrano qui. Non si entra mai in casa altrui fumando nè sigaro, nè sigaretta e tanto meno la pipa. Si può fumare dopo un pranzo, un convito, un lunch, col permesso e anzi coll'offerta della padrona di casa; ma non mai nel suo salotto particolare o in una sala da ballo. I francesi, come hanno introdotto l'uso in Italia della salle à manger (sala da pranzo), hanno anche portato quello del fumoir (fumatoio). Se quest'ultimo salottino non esiste, sarà bene di fare come gl'inglesi: fermarsi nella sala da pranzo intanto che le signore vanno nel salotto. Pei fumatori ci sono usi singolari in tutti i paesi del mondo; noi non guarderemo nei paesi che quantunque originarii del tabacco non possono passare per modelli di civiltà fumatrice, cominciando dalla Spagna la più civile e finendo all'isola di Cuba la più barbara, in cui si dà all'ospite quasi l'avanzo della fumata, come per dirgli: Tieni, è buona! In Ispagna, dice la baronessa Staaffe, che fa testo di eleganza, il padrone accende il suo sigaro e dà al vicino il proprio fiammifero, evidentemente per togliere ad esso l'odor di zolfo. In Francia invece si accende sempre il fiammifero per l'ospite e gli si dà perchè se ne serva; ed egli lo restituisce ancora acceso. L'abitudine di cercar fuoco dal sigaro del vicino è un'usanza troppo americana, per poter essere adatta ai nostri costumi. E una cattiva educazione che mette troppo vicini due aliti, due visi, e fa fare specchio degli occhi. Tanto peggio poi chiedere fuoco ad uno che si incontra per la strada: ciò può produrre degli accidenti spiacevolissimi per parte di chi non vuol essere conosciuto. Questo servigio nell'etichetta del s igaro è l'indizio di una spensieratezza inescusabile; ad ogni modo nessuno può, richiesto, esimersi dal concederlo; le persone per bene si guarderanno dal chiederlo e richieste si guarderanno bene dal negarlo, come succede in tante altre cose nella società. In viaggio, anche nei vagoni dei fumatori, se c'è una signora se ne chiederà licenza. Ci sono degli esseri timidi che non sanno mai scegliersi un vagone, un posto in un tram o in un omnibus e non arrivano mai a salirvi in tempo. Di questi era il Renan, chiamato a Parigi l'uomo del tram. Il tabacco da fiuto non si offre mai ad alcuno; è un'offerta da sagristia che non entra nella buona educazione; e per questo appunto che non può offrirsi, è la sola cosa che può chiedersi da tutti. Le solite contraddizioni della vita, che noi ci contenteremo di constatare senza discuterle, perchè il mondo è fatto così, ed è di queste piccole transazioni e convenzioni che si compone la società costituita in tutti i tempi, in tutti i luoghi e perciò anche in Italia e in questo secolo XX.

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Non per nulla uno scrittore francese, le cui sventure uguagliano le colpe e ce le fanno compatire se non perdonare, ha detto che siamo un po' tutti figli del primo libro che abbiamo letto. La parola scritta o parlata ha una straordinaria potenza: essa può rivelare al cuore dell'uomo il bene e il male, l'amore e l'odio; sollevarci ai casti pensieri, schiuderci gli abissi della colpa; insegnarci la virtù o il vizio, la deprecazione e la bestemmia: può farci nascere e farci morire. Importa dunque sommamente all'educatore il riserbo della parola: l'abitudine di sceglierla, il non dire che delle parole belle, il che vuol dire delle parole buone: poichè, badiamo, la bellezza e la bontà nell'ordine morale sono due cose eguali, identiche; noi non arriviamo al buono se non perchè prima di apparirci buono, ci apparve bello: e non cerchiamo il vero se non perchè innanzi di apparirci tale, ci apparire prima bello e poi buono; il che vuol dire che la parola ce lo rese intelligibile e apprezzabile. E la parola bella esige una inflessione di voce pacata, dolce, calma, quasi armoniosa: e armoniosa diventa anche se manca di qualche tono, quando il pensiero di renderla mite e diremo anche carezzevole, viene in soccorso al difetto della natura; e così noi, come per la luce del petrolio che è bianca mettiamo un riverbero turchino, il colore che manca, al fine di averla perfetta, per la mancanza d'una nota, che renderebbe la voce aspra o spiacevole, dobbiamo mettere la nota della bontà, che uguaglia tutto e colma tutti gli abissi. La voce aspra o adirata è indizio di animo non cattivo, ma privo di gentilezza. Anche il rimprovero va contenuto dall'austera disciplina e dall'impero sopra sè medesimo. La parola anche buona coll'accento vibrato, irritato, strozzato dalla collera diventa un'arma micidiale che colpisce senza commuovere e senza persuadere: come il tono fa la musica, così l'inflessione fa la parola, o piuttosto fa il sentimento della parola: i grandi oratori, i grandi attori, i grandi capitani debbono in gran parte all'inflessione della loro voce i trionfi e le vittorie; e le grazie d'un linguaggio affettuoso e tenero come quello della madre e della nutrice, calmano i pianti dei fanciullini addolorati, a cui la dolce eco risuona nei cuori inconscienti, eppure già amareggiati dai loro dolori infantili. Noi siamo soliti a sorridere di quei dolori che ci sembrano tanto piccoli e insignificanti: eppure ogni cosa è ragguagliata alla potenza di cui uno è capace; e colui che soffre sa lui quello che soffre: a noi tocca di non inasprire le pene di alcuno, e la voce che sa scendere consolatrice in un cuore afflitto è la musica più sublime che possa udirsi da orecchio umano.

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che bel piacere vi abbiamo procurato noi! Voi non ci aspettavate ed eccoci qui: due posate di più, una scodella di minestra e un piatto di buon cuore, e a noi ci basta! - Ma se basta o piace a questo ingenuo fabbricatore di piaceri estemporanei, novantanove su cento dispiace maledettamente a colui che lo riceve senza averlo desiderato e senza esserci obbligato. Non c'è cosa che annoi di più al mondo di essere sorpresi in casa propria; e il solo piacere che si procura al nostro ospite quando si fa così, è quello che scriveva quell'amabile e spiritosa Madama di Sévigné alla Signora di Grignan sua figlia: il momento di veder partire la persona che vi ha fatto una improvvisata così deliziosa. E tutte queste diverse gradazioni d'un sentimento egoistico e superbo e molte altre derivate e espresse secondo gli intelletti e i caratteri, costituiscono la famosa categoria dell'inopportunità, che rende amaro ogni piacere, vi raffredda la parola e l'affetto, e vi farebbe diventare volentieri eremita, se anche l'eremitaggio non avesse i suoi indiscreti e i suoi inopportuni, come disse il Maestro, e come abbiamo anche noi ripetuto più sopra.

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Gli epistolarii degli uomini famosi o grandi possono servire come studii psicologici, storici, letterari, bibliografici, non mai di modelli per scrivere quello che abbiamo nel cuore. Gli epistolarii del Leopardi, del Foscolo, del Giordani, ecc., sono state delle indiscrezioni in cui nessuno, e neppure chi li scrisse, ebbe a guadagnarci letterariamente e moralmente; quello del Giusti, uno dei migliori di quanti ne son stati pubblicati sin qui in Italia, è un libro di lettura amena e istruttiva, sul quale si possono fare degli studi di lingua, ma che non ha nessun carattere di quella preziosa intimità, per cui solo una donna nel mondo potè essere insigne - Madama di Sévigné; alla quale le lettere piene di pitture, di notizie, di sentimenti improvvisi, di affetti spontanei e di impressioni semplici, esposte con arguzia di forma e venustà di stile e di lingua, aprirono le porte del tempio degli Immortali in Francia. Le lettere di Madama di Sévigné hanno esercitato in Francia un'influenza salutare pel loro carattere di intimità. Le lettere dei Francesi sono difatti tutte d'una grazia e d'uno spirito che i nostri letterati anche i più grandi non hanno mai raggiunto: ma quale persona vorrebbe soltanto immaginare che i suoi segreti intimi potrebbero essere dati in pasto al pubblico? I Francesi hanno nel sangue il gusto della conversazione, la quale oggi in Italia noi non sappiamo più fare: e la lettera non è infine che un monologo discreto e pieno di pensieri. Essi sentono in sè stessi quel che ha detto egregiamente uno dei nostri più insigni scrittori e docenti, il Chiarini, che in una lettera c'è sempre non solo la personalità di chi la scrive, ma anche un po' quella di chi la riceve: ed è ciò che ha reso immortale la gentile dama francese del secolo XVII, la quale dirigendosi alla signora di Grignan, una figlia elegante d'una madre illuminata, casta, serena, arguta e coltissima, sapeva metterci quel tanto di mondano che poteva temperare la rigidezza del costume, quel tanto di arguto che potesse rallegrare una materia qualche volta mesta e melanconica, quel tanto di grazia e di bontà che poteva far passare un consiglio profondo o un biasimo severo. L'ideale dello stile epistolare non è stato raggiunto in Italia; forse gli s'avvicina quel poco che fu pubblicato di Massimo d'Azeglio, che sarebbe il modello Sévigné delle lettere intime, se la politica non entrasse per una buona parte (buona per dir cattiva) nelle alchimie di quei giorni in cui egli le scriveva. Del resto si vedono lettere bene scritte, molte, ma scritte bene, poche: in generale sconfinano, non sono spontanee e risentono sempre d'un frasario cavato fuori dagli archivi polverosi, in cui si rivela la mancanza assoluta della buona conversazione in Italia. Per scrivere una bella lettera in cui appaia netto, spiccato e corrente il pensiero e a cui le donne sarebbero specialmente chiamate, bisogna saper pensare e parlare come parlavano e pensavano Madama di Sévigné e Madama di Grignan, Massillon e Marco Minghetti, Larochefoucault e Cesare Correnti, Pascal e Massimo d'Azeglio.

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Ma a quei desinari lieti e festosi ciascuno ci sa stare da sè, se è vero quello che abbiamo affermato, che le regole di civiltà si sono accumulate. Le buone creanze sono sempre le stesse, meno le sorprese della moda, la regolarità del servizio, l'eleganza degli utensili, la ricchezza dei cristalli, delle stoviglie, dell'argenteria. E in verità, ci sono case elevatissime in cui essendosi conservati i costumi semplici, anche una tavola suntuosa può restare perfetta senza formalismi esagerati. Allora la copia delle vivande viene come un altro elemento di buon umore, anzi ne è il fondamento; e il bis in idem accresce la cordialità e l'espansione. Ciò non dispensa dalle regole d'una scrupolosa civiltà, ma la rende meno pedantesca e più famigliare; i discorsi sono meno studiati e forse meno eleganti, ma per compenso più vividi, più espansivi, più spontanei. Nel contegno un po' più libero, si legge un grande bisogno di essere sinceri e di farsi reciprocamente delle cose gradite; ma nessuno può dispensarsi dalle regole generali di quella prudenza e di quella compostezza a cui la libertà non toglie nulla di civiltà e di grazia. Se anche i movimenti sono più rapidi, la parola è sobria e misurata, e la rapidità poi non esclude la gentilezza. A queste cose i giovani saranno stati addestrati nelle famiglie e nelle scuole, nei collegi e nei convitti, dove cominciano le prime battaglie del vivere in comune, dove essi debbono prendere le prime buone abitudini di cui valersi nella vita avvenire. Il refettorio è anch'esso una scuola; tanto è vero che negli antichi educandati, quasi sempre tenuti da religiosi, una volta si leggeva durante il pasto. Nessuna cosa dell'educazione è senza il suo perchè filosofico: quella lettura non voleva soltanto impedire la conversazione: voleva che non si battessero troppo i cucchiai sulla scodella, che non si masticasse troppo rumorosamente, che, tanto coloro i quali servivano quanto coloro i quali comandavano, s'avvezzassero a farlo con quella misura che impedisce la confusione ed evita il disordine. Il pranzo alla buona non ha altre regole che la diligenza, la puntualità, l'abbondanza e la cordialità più schietta, senza pretese, dove l'uomo si dia per quello che è, e dove la tavola non obblighi le persone a star pigiate, il che si verifica quasi sempre. Parrebbe che la cordialità dovesse escludere il bisogno di spazio, ma ciò purtroppo non è, come sappiamo. Ora il difetto di comodo a tavola è un supplizio indicibile e il dottor Raiberti ha su questo capitolo delle pagine felicissime. E anche questo è una mancanza di tatto sociale contro cui bisogna tenersi in guardia; poichè dal desinare alla buona si può passare d'un tratto al banchetto politico, al banchetto sociale, al banchetto scientifico; e nessuna cosa è più facile che quella di portarci delle maniere PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 6 volgari, o ridicole, o screanzate che non provano nulla a nostro vantaggio. Se noi abbiamo insistito di preferenza su questo particolare della tavola, cercando di darne, comecchè sia, delle norme generali, egli è che lo abbiamo reputato una delle parti più importanti del modo di ben condursi in società. Il movimento intellettuale e politico contemporaneo ha reso tutto accessibile a tutti: un uomo d'ingegno e operoso può da un momento all'altro salire da una umile posizione ad un immenso potere, ad una posizione piena di splendore. Dall'università alla reggia, al parlamento, alle sale dorate delle feste cittadine o artistiche o scientifiche, l'uomo moderno può entrare colla testa alta e col cuore libero. Ma se ha potuto raggiungere questo culmine a cui i nostri padri mirarono indarno; se ha l'onore di poter sedere nei parlamenti, di entrare nei saloni, di aspirare alla potenza di fare leggi, di istruire popoli, e di raggentilirli colla sua presenza, ha altresì l'onere di ragguagliarsi a coloro che hanno delle buone abitudini, e di curare tutti quei particolari che il Castiglione ha indicato essere indispensabili ad un cavaliere perfetto, e il Fleury, il Fénelon e perfino il Rousseau hanno prescritto ad ogni donna che aspiri ad essere gentile. La quistione dello stare a tavola è complessa: complessa per parlare e tacere opportunamente: per trovare discorsi da essere profferiti senza tema di spiacere a qualcuno: per escludere la religione e la politica: per bandire la maldicenza, per mantenere desto il buon umore senza ricorrere a scherzi di cattivo genere o a parole scorrette; per non far girare sconvenientemente il piatto in segno di un falso rispetto, che diventa una molestia di più: per non sporcarsi o sporcare la tovaglia, per non toccare colle dita le vivande, per non lasciare le posate sul piatto se si è in una casa alla buona, o per lasciarcele quando è noto che ciò si può fare senza incomodo del servizio. Una donna anche se vecchia non farà mai un brindisi a tavola. Un toast non sarà mai portato senza che il padrone o la padrona di casa ne diano l'assenso anche semplicemente col movere del capo: ma una signora che si alzasse con un bicchiere in mano sarebbe grottesca e contro il costume, il quale vuole che la donna accetti l'omaggio e non lo faccia ad alcuno, e non permette gli atti virili come il fumare, lo schermire e il vociare in pubblico. Lo spostamento scandaloso che si è fatto e si fa delle attitudini femminili, trasportandole dal campo casalingo a quello pubblico, è una rivoluzione violenta che falsa il carattere della donna, ne deturpa il costume, ne corrompe il cuore e la lancia in una atmosfera nocevole a sè stessa, alla famiglia, alla patria, all'umanità.

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Passa l'amore. Novelle

241818
Luigi Capuana 8 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Don Emanuele tirava su una gran presa di rapè, dava due stizzosi colpi di ripulita al naso col fazzoletto di cotone azzurro, socchiudeva gli occhi e stava ad ascoltare, interrompendolo di tanto in tanto: - Ma di questo abbiamo già ragionato avant'ieri! - Sì, sì, dal punto di vista.... E spiegava da qual punto di vista; ora però egli guardava la questione dal lato opposto. - Capisco; andiamo avanti! Una lesta presa di rapè, una nuova stizzosa ripulita al naso col gran fazzoletto di cotone azzurro tenuto a portata di mano sur una coscia, indicava la crescente impazienza di don Emanuele. Ma il barone non si scoraggiava. Tutta la sua persona pareva curvarsi, ridursi piccina; le braccia accostavano i gomiti ai fianchi per attenuare i gesti, le spalle si stringevano, la voce si affievoliva in un mormorìo, perchè il suono delle parole penetrasse negli orecchi senza recar disturbo. Egli sapeva di non essere più uno di quei clienti che possono imporsi ai loro avvocati, ai loro procuratori legali in virtù dei ben pagati onorari e dei futuri vistosi palmari dopo vinta una lite; era invece un cliente che doveva farsi ascoltare quasi per carità, per tolleranza, facendosi far credito su l'avvenire, giacchè la signora baronessa e i suoi figli avevano voluto così! Non li nominava mai; ma in certi momenti, quando una circostanza lo costringeva a guardare, non ostante il suo stoicismo, alla miserabile condizione a cui era stato ridotto, lui, don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa, un impeto selvaggio gli saliva dalla pianta dei piedi su su per tutto il corpo fino al cervello, quasi fiamma che lo avvolgesse rapidamente o volesse riversarsi attorno per distruggere gli ingrati! Oh, essi non si rammentavano più se egli esistesse! E non potevano ignorare che egli viveva di carità, quasi soffrendo la fame, tra privazioni e umiliazioni di ogni sorta! Eppure non facevano nemmeno la ipocrita finzione di sottomettersi, di chiedere perdono, di volerlo strappare alla puzzolente tana che lo ricoverava la notte.... Nemmeno quella ipocrita finzione! Sapevano benissimo che egli li avrebbe scacciati via, che non avrebbe accettato mai niente da loro, che non li avrebbe mai perdonati!... Ormai egli lasciava che la maledizione di Dio si aggravasse su coloro che un giorno avea chiamati col dolce nome di moglie, e di figli! Il terreno si sarebbe sprofondato sotto i loro piedi sacrileghi, presto o tardi, e li avrebbe inghiottiti! E in questi momenti di impeto selvaggio il vecchio, già curvo, dimagrito, sfigurato, si trasfigurava in quella putrida tana illuminata dalla famosa candela di sego; rizzava orgogliosamente la testa, levava in alto le braccia invocanti il terribile gastigo di Dio, che non poteva fallire; ed egli stesso talvolta aveva sgomento della grand'ombra della sua persona che si agitava su la parete squallida e nuda, quasi apparizione evocata dal terribile scongiuro di lui! Un giorno - oh, finalmente! - un giorno egli sarebbe riapparso in quei desolati stanzoni del suo palazzo, ma vittorioso, con pieno diritto di autorità e di comando, padrone di Cento-Salme strappato al marchese di Camutello; e senza una parola, con un solo gesto, avrebbe scacciato via, anzi spazzato via tutti coloro che non erano degni di portare l'onorato e altero nome dei Zingàli; e vi si sarebbe rinchiuso, solo, come in una fortezza; e avrebbe trasformato quella desolazione in una reggia, quasi con un colpo di bacchetta fatata!... Non avrebbe avuto soltanto Cento-Salme, ma cinquantamila onze di rendite mal percepite dal marchese di Camutello! Cinquantamila onze, in oro, in argento!... Un fiume di denaro sonante, che egli avrebbe potuto spendere sùbito, a dispetto di tutti, senza che più nessuno potesse avere la tentazione di farlo interdire.... Ecco se era stato pazzo! Ecco se aveva farneticato intentando la lite, adoprando tutte le risorse di casa per questo scopo supremo! E si stendeva sotto le coperte del misero lettino, spegnendo la candela di sego, continuando nel buio il fantastico sogno che gli aveva fatto assaporare con gusto, come cena squisita, quel po' di pane e di formaggio risparmiato da quello che avrebbe dovuto essere il suo pranzo a mezzogiorno!

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Quando abbiamo gli occhi chiusi s'inciampa: è destino. Non è una buona ragione per non dire agli altri: - Aprite gli occhi! Qui c'è da inciampare. - - Ma anzi, eomare, in questo caso voi prendereste la ragazza per mano e la condurreste proprio dov'è l'inciampo. Vediamo.... - Insomma, che cosa pretende voscenza? - disse bruscamente compare Nittu. - Mia figlia non è più sotto tutela; ha ventidue anni compiuti. Vada a buscarsi il pane dove vuole. Io ne ho appena tanto che basti per me. Mi dispiace che voscenza si sia dovuto incomodare a venire fino a qui. Sa eome mi ha chiamato mia figlia? Padraccio scellerato!.... Sa come ha chiamato mia moglie? Se lo faccia ripetere da lei stessa.... Non ne parliamo più. Ha altri comandi da darmi voscenza? Mi chiamano lo Storto.... e ci ho piacere. Non mi raddrizza nessuno. Storto son nato e storto voglio morire!

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Il sindaco che, quantunque nipote di carrettiere (e non figlio come diceva donna Beatrice nei momenti di stizza), era un furbo di tre cotte, alla prima seduta del Consigllo, appena ii cavaliere entrò nella sala, gli andò incontro, gli strinse la mano, si rallegrò di vederlo colà,; e, tràttolo in disparte, gli disse: - Caro cavaliere, noi non abbiamo mai combattuto voi, ma le persone che vi stavano attorno. Ed oggi infatti il Consiglio saprà darvi il posto che meritate. Quella domenica sera nelle sale del Fascio ci fu gran baldoria per la nomina del cavaliere ad assessore. Donna Beatrice avrebbe vuotato non una due botti, e finito anche le provviste di fichi secchi e di noci, tanto era contenta. Ma la mattina dopo disse al marito: - Ora basta; siete assessore. Pensate a vostra figlia piuttosto. Don Mimmo volle fare l'assessore davvero. Poteva servire due padroni? E dovette per forza trascurare il Fascio. Cipolla n'era dispiacente più di tutti. Non più marce, non più scampagnate e il cavaliere spesso spesso ora lo mandava in campagna a lavorare come prima. I Reduci borbottavano: Come? Ancora focatico? Ancora dazio di consumo? Il cavaliere aveva promesso che entrando in Consiglio avrebbe detto, avrebbe fatto! E che cosa diceva? Niente. E che cosa faceva? Peggio degli altri. Ora si era messo a perseguitare la povera gente con la scusa che avevano usurpato qualche palmo delle strade comunali di campagna! Perchè non cominciava dai galantuomini? E c'era il Bracco che soffiava nel fuoco. Il Bracco si era iscritto nel Fascio da pochi mesi, appena tornato dal reggimento, e parlava come un libro stampato col lei, col mica, col ciao, e bestemmiava alla toscana, alla piemontese, alla romana, da far rizzare i capelli. Raccontava, a quattr'occhi, ora in questo, ora in quel crocchio, che a Palermo stavano per fare il comunismo e dividersi le terre e i quattrini dei signori tanto per uno, com'era giustizia. - Domineddio ci ha fatti tutti eguali; perchè i ricchi debbono mangiare come porci e noi morire di fame? Giustizia? Non ce n'è; dobbiamo farcela con le nostre mani. Fascio dei Reduci, Circolo degli Agricoltori, Circolo degli Operai avevano fraternizzato dopo che il cavaliere era entrato a far parte della Giunta Comunale. E il Bracco, che aveva poco da lavorare col suo mestiere di sellaio, passava le giornate nei locali del Fascio e dei Circoli, a fumare, a sputacchiare, a far prediche ascoltate meglio di un predicatore, perchè col predicatore non si discorre e con lui si poteva chiedere schiarimenti, fare obbiezioni, e gridargli bravo, quando esclamava, col rinforzo di una bestemmia della sue: - Faremo il comunismo anche noi! Fascio? Circoli? - ripeteva ironico. - Ma li hanno messi su per comodo loro, per avere i voti. Che cosa siamo? Pecore? Schiavi? I consiglieri dovremmo esser noi, non loro. Ora, avete inteso? aggravano il dazio di consumo. Dicono: "Ci vogliono quattrini!...,, Ma che cosa ne fanno? Si bevono il sangue di noi poveretti!... Faremo il comunismo! Dapprima lo avevano ascoltato con diffidenza, quasi con terrore ma ora aveva fatto scuola, e Cipolla si era legato con lui, e soffiava, sottomano, anche lui nel fuoco del malumore che covava, covava, e già mandava fuori un po' di fumo. Il cavaliere se n'accorse la sera che, dopo tanto tempo, volle fare una delle sue solite conferenze nel locale del Fascio. Correvano attorno voci paurose, minacciose. I contadini facevano capannelli nella Piazza Grande, e quando il sindaco passava tra i crocchi, non si cavavano più il berretto per salutarlo, non si voltavano nemmeno; e le trombe non erano più là pronte agli ordini del Cipolla per fare il saluto reale al cavaliere, che passava davanti al Fascio, senza fermarsi, andando al Municipio anche lui. Cipolla soltanto gli faceva il saluto militare, per abitudine; Cipolla che pensava notte e giorno al pezzo di terreno che gli sarebbe toccato in sorte, quando avrebbero fatto il comunismo o la repubblica, che per lui volevano dire la stessa cosa. Il cavaliere dunque quella sera si trovò davanti a una trentina di persone, scarso uditorio, e non tutte del Fascio, ma del Circolo degli Agricoltori e dei Circolo degli Operai, venuti colà più per curiosità che per altro. Voleva appunto parlare di quelle voci paurose e minacciose, ma ebbe la sorpresa di sentirsi interrompere dal Bracco: - Non vogliamo più dazii! E tutti e trenta gli uditori erano scoppiati a parlare assieme, facendo una gran confusione, senza nessun rispetto dell'oratore che avea dovuto abbassarsi a discutere con loro. - Non più dazii? È presto detto! Ma.... - Non vogliamo più dazii! Il cavaliere, indignato, avea risposto: - Il Municipio saprà fare il suo dovere! Ed era andato via. Neppur Cipolla lo aveva accompagnato fino a casa.

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Che cosa ne abbiamo di questa vitaccia, se non.... - Zitto! Rispettate il luogo dove siete! Se l'aspettava. Non gli dispiaceva per lui, ma per quella disgraziata, che a quest'ora andava per le bocche di tutti gli sfaccendati di Ràbbato. Avrebbe dovuto dunque gettarla in mezzo a una via o consegnarla con le sue stesse mani al cavaliere? Ma che doveva importargli dei pettegolezzi, delle calunnie della gente? Male non fare, paura non avere. Intanto la ragazza era in salvo. Povero don Pietro! Se in quel punto avesse avuto la visione di quel che accadeva in casa sua! Se avesse visto che la Trisuzza, mentre donna Ortensia badava in cucina, afferrava lesta lesta la mantellina di panno, se la buttava in testa e scendeva a due a due gli scalini! Tinu Mendola, appoggiato alla cantonata, l'attendeva da un quarto d'ora; e appena ella uscì dalla porta le fe'cenno di seguirlo da quel lato del vicolo.

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Non abbiamo parenti, nè prossimi, nè lontani! E quando l'ufficiale postale gliela consegnò, ella la voltava e rivoltava; quei cinque sigilli di ceralacca rossa le sembravano una stregoneria. - L'apra, la legga lei - disse all'ufficiale postale. Le tremavano mano e voce nel porgergliela. Se lo divorava con gli occhi, ansiosa, con un groppo alla gola senza sapere perchè, mentre colui scorreva le quattro pagine fitte del foglio, scotendo la testa quasi leggesse cose strane. - È del padre, - disse finalmente l'ufficiale postale, supponendo ch'ella dovesse sùbito capire. - Quale padre? - Del padre del vostro trovatello. Dice che viene a riprenderlo. Sposa la madre, lo riconosce.... È Giudice di Tribunale.... Vi compenserà di tutte le spese.... Arriverà tra otto giorni!... Rosa gli spalancava gli occhi in viso, pallida come un cencio lavato, incredula, aspettando che colui le dicesse; Vi ho fatto un brutto scherzo. Ma quegli insisteva, ripetendo: — Vi compenserà di tutte le spese. Ella era istupidita; aveva una gran confu- sione nella mente, .e il cuore le batteva violen- tissimo nel petto, quasi stesse ì ì per scop- piarle. Possibile? Riprendere il bambino? Fra otto giorni?... E la legge? E la giustizia? No, non era possibile! — Ha letto bene, voscenza? -- balbettò. — Fatevela leggere da un altro! E andò via barcollando, con la fatale lettera in tasca. Ma .lungo la strada cominciò a capire. La cosa però le sembrava così enorme, che non voleva crederla. Come? Si poteva dunque buttar via la propria creatura, e poi, quando altri l'aveva allevata, cresciuta, educata, quando altri le voleva più bene dei parenti sciagurati che se n'erano sbarazzati appena mèssala al mondo, questi potevano presentarsi e dire: - Dateci quel bambino; è nostro! - la legge lo permetteva? Ah, voleva vederla! Voleva vederla! Non c'era Dio in cielo, nè Madonna, nè santi, se questa mostruosità poteva accadere! Ah, voleva vederla, se i carabinieri sarebbero venuti a strapparli di tra le braccia la creatura ora sua! Le lagrime le inondavano il viso, ed ella non pensava ad asciugarselo; non si accorgeva di trascinare lo scialle cascatole dalle spalle; gesticolava, mostrava i pugni a colui che doveva arrivare fra otto giorni.... - Che vi è accaduto, comare Rosa? - Niente! Niente! Andava quasi di corsa, e davanti a casa sua, visto Nino che faceva il chiasso con gli altri ragazzi, lo prese per un braccio e lo trascinò dentro e chiuse la porta con tanto di stanga. - Perchè, mamma? - Niente! Niente! Lo baciava, tenendolo stretto stretto tra le braccia, su le ginocchia, quasi dietro l'uscio ci fosse già colui che doveva venire a riprenderglielo. E lo tenne così fino a sera; e quando suo marito picchiò all'uscio, chiamando: Rosa! Rosa! - ella impose al ragazzo: - Non ti muovere di lì! E scese la scala, rivolgendosi indietro più volte, per timore che il ragazzo non la seguisse. - Vogliono levarci il figlio! - disse al marito, scoppiando in pianto dirotto. - Chi? - Suo padre! Ha scritto una lettera! Dapprima il pover'uomo credette che sua moglie fosse impazzita. E alzò le spalle, dicendole: - Sciocca! E tu ti figuri che è facile? Guardava anche lui, diffidente e irritato, la lettera che sua moglie avea cavata di tasca. E stava a sentire a bocca aperta, come un ebete, quel che Rosa gli riferiva, interrotta da singhiozzi, strappandosi di tratto in tratto i capelli: - Verrà fra otto giorni.... È Giudice di Tribunale.... Sposa la madre! - Zitta! Zitta, pel ragazzo! Dammi quella lettera; vò a consultare mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sa più di un avvocato.

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Gli abbiamo dato il sangue nostro; lo abbiamo tirato su con tante cure, con tanti stenti; lo abbiamo mandato a scuola.... Se fosse stato mio figlio lo avrei condotto a zappare e ad arare con me, a fare il contadino come me.... A questo, invece, libri, quaderni, penne!... Che non avremmo speso, per lui?... E ora?... - E ora il padre vi darà un compenso per tutte le spese da voi fatte; non volete capirlo? - ripeteva l'avvocato un po' stizzito che il contadino dalla testa dura gli ripetesse sempre le stesse cose. E, tornati a casa, la moglie si dava una nuova pelata, dalla disperazione; il marito, buttatosi sur una seggiola, coi gomiti su la tavola e la testa fra le mani, borbottava: - Com'è vero Dio, lo ammazzo questo infame! Il figliuolo ora è nostro! Ma alla vigilia dell'arrivo di colui che aveva distrutto con un foglio di carta tutta la loro felicità, marito e moglie erano talmente accasciati sotto il peso della convinzione di non potere far niente, poichè la legge voleva così, che pensavano di buttarsi ai piedi di quel Giudice di Tribunale, appena fosse comparso, e pregarlo e scongiurarlo!... Chi sa? Forse, sapendo che il ragazzo era ben collocato, si sarebbe lasciato intenerire. Tanto, che bene poteva volergli lui a un bambino non veduto neppure una volta? - E se il ragazzo non volesse andare col padre sconosciuto? Se volesse restare per forza con noi? Per un istante credettero che questa era la soluzione più giusta. - S'interroghi il ragazzo: scelga lui! - Parlavano a voce alta, quasi il Giudice di Tribunale fosse davanti a loro. E Rosa attirava Nino tra le gambe, gli lisciava i capelli, lo prendeva pel mento e gli domandava: - Chi vuoi per padre e madre, noi o.... altre persone? - No, non può capire. Glielo dico io. Il ragazzo, un po' stupito, serrato tra le gambe di colui che egli credeva suo padre, stava a udire, intento. - Se venisse uno e ti dicesse: - Sono tuo padre io, tuo padre davvero; vieni con me; lascia questi qui! - tu che faresti?... - Sto qui, con voi! Chi deve venire? - Nessuno! Angelo santo, parla Gesù Cristo con la tua bocca! Rosa se lo mangiava dai baci. - Ecco: così! S'interroghi il ragazzo; scelga lui! E la mattina dopo andarono a ripeterlo anche all'avvocato. E dall'avvocato chi c'era? Colui, il Giudice di Tribunale, vestito tutto di nero, alto, magro, con la barbetta rossa e gli occhiali!... Un tradimento! C'era da attenderselo! Giudici? Avvocati? Farina dello stesso sacco. Ma Rosa non si perdette d'animo; scattò: - Figlio vostro? Chi Io dice? Ve ne siete mai ricordato in tredici anni? Siete venuto solo, perchè avete la faccia più tosta di quella di vostra moglie. Perchè non è venuta anche lei, la mammaccia snaturata?... Ora che si fa sposare, ora soltanto si ricorda che c'era una sua creaturina buttata alla ventura pel mondo!... L'avvocato tentava di farla tacere, di calmarla. - Ebbene, no; non ve lo voglio dare il ragazzo! Che potrete farmi? Mi manderete in carcare? Ci dovreste essere già voi e da un pezzo!... E invece è lui che manda in carcere la gente! Ecco la giustizia! No, non glielo voglio dare! È inutile, signor avvocato!... - Ma non vedete che piange? - le disse l'avvocato. Infatti quel signore biondo, vestito di nero, piangeva, coprendosi la faccia con le mani, singhiozzando: - Avete ragione!... Avete ragione!... Ma le circostanze!... Ah, se sapeste!... Rosa, a quella vista, rimase interdetta, e diede un'occhiata al marito. - Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio! E prèsala per mano, la conduceva via più morta che viva, senza un singhiozzo, senza una lagrima, ripetendole con voce grave: - Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio! Dal loro dolore misuravano il dolore di quel padre che veniva in cerca di suo figlio dopo tredici anni! E si sentivano messi alla pari, e riconoscevano finalmente che era giustizia che il figlio fosse reso al padre. Come sarebbero rimasti loro due? Come voleva Dio! Se il ragazzo fosse morto, non sarebbe stato peggio? - Sublimi! sublimi! - diceva l' avvocato, raccontando la scena. - Glielo condussero lì, glielo spinsero tra le braccia. - Purchè qualche volta si ricordi di noi! - Non chiesero altro, poveretti. Parevano gente a cui venisse strappato il cuore! - Ve lo manderò una volta all'anno, per la villeggiatura! - Ah! - esclamarono marito e moglie. - Non ho mai visto espressione di gratitudine più viva e più intensa negli occhi di creature umane. Sublimi! Sublimi!

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Abbiamo camminato due giorni, notte e giorno, senza fermarci un minuto. Da queste parti non veniamo mai; non c'è boschi, non c'è montagne.... Vita da bestie.... Destino, signor don Pietro! E così, quando càpita qualcuno deve compensarci. Uno paga per tutti.... Che è stato? Scattava da sedere per affacciarsi alla finestra, sentendo bestemmiare uno dei suoi, giù, davanti a le porte della massaia. - Permetta, torno subito. Don Pietro rimase inchiodato su la seggiola, tendendo l'orecchio; e si sentì venir meno udendo tra i singhiozzi la voce della Trisuzza che diceva: - È mio marito! Si accostò alla finestra senza osare di affacciarsi. Uno dei briganti raccontava: - In fondo alla grotta; quel signore li aveva chiamati e poi aveva finto di non aver trovato nessuno; ma io sono furbo. E li ho scoperti, nella seconda grotta.... Vi si entra per una buca. La porto via con me questa ragazza. Non piangere, bella figliuola! Ti parerò di orecchini e di anelli come una Madonna dell'altare. - Siete maritati? - domandava il capo. - Eccellenza.... - Lascia stare l'eccellenza.... - Eccellenza, - replicava Tinu con voce piena di paura, - dobbiamo sposarci tra poco. - Poichè non siete ancora marito e moglie.... Su, non piangete! Nessuno vuol mangiarvi. Nessuno vi torcerà un capello.... Dunque, don Pietro vi conosce? Meglio. E chiamò forte: - Signor don Pietro! Alla vista della Trisuzza accoccolata per terra, col viso in lacrime e i capelli discinti, egli si sentì invadere da gran coraggio, e scese giù in fretta quasi per difendere una persona che gli apparteneva strettamente. - Signori miei!... Signori miei!... - balbettò. - A cavallo, su, a cavallo! - gridò in quel punto uno dei compagni sbucato dalla siepe vicina, e che doveva essere stato in vedetta. I cinque corsero alla stalla dove i cavalli erano pronti insellati, e li trassero fuori. Uno tirava per la briglia anche la mula di don Pietro. Colui che aveva scoperti la Trisuzza e Tinu nella grotta, afferrò per una mano la giovane. - È persona di casa mia, - disse don Pietro; - lasciatela stare! E Scosse quell'uomo pel braccio, senza neppure riflettere a quel che faceva. - Via! Non è tempo da ragazzate! - disse il capo. - Mezza parola di don Pietro è comando.... Non dubiti voscenza!... E anche per la mula.... Tra due o tre giorni l'avrà consegnata fino a casa; pel momento.... Necessità non abita come suol dirsi. Ci si è spedato un cavallo.... E tu ringrazia don Pietro.... E anche voi, bella figliuola!... E tutti zitti! Nessuno ci ha visti!... voscenza mi permetta di baciarle la mano. E prima di saltar a cavallo, il capo baciò riverentemente la mano a don Pietro che, commosso, gli diceva: - Il Signore vi aiuti! Il Signore vi aiuti! Don Pietro, il massaio, Tinu e gli altri contadini stettero a vederli allontanare, senza dire una parola, stupiti di essersela cavata quasi con niente. Don Pietro guardava con invidia la mula che ora trottava allegra dietro i cavalli.... come invanita di trovarsi in compagnia di quei focosi animali. E quando i briganti sparvero tra le querce della vallata, don Pietro e gli altri trassero un respirone. - È la seconda volta che mi càpita in vita mia! - esclamò il massaio Marrana. - Che possiamo farci? Si presentano, armati fino ai denti.... Hanno voluto da mangiare, da bere.... È carità anche questa, povera gente! E poi i carabinieri ci accusano di essere manutengoli!... Chi vorrebbe averci che fare? Ma con queste persone non si scherza; qualcuno veramente disgraziato.... La mula, vedrà, gliela manderanno flno a casa. Sono uomini di parola. Quando il capo seppe da me che c'era voscenza.... Don Pietro non stava a sentirlo; guardava Trisuzza che piangeva silenziosamente col viso tra le mani, accoccolata per terra, compreso da un sentimento di profonda pietà, misto a qualcosa ch'egli non sapeva distinguere bene che cosa fosse; ed era anche sdegno contro Tinu Mèndola ritto, là, accanto alla porta, a testa bassa, accigliato, in attesa della lavata di capo che sapeva di meritare. Infatti don Pietro si rivolse a lui: - E hai avuto coraggio di negarmelo? Perchè? Che intenzioni ti passano per la testa? Vedi in che stato l'hai fatta ridurre? Non si riconosce più. - Ma.... voscenza non ha altro a cui pensare? - rispose Tinu senza alzare la testa. - Me la vedrò io con lei e con suo padre. - Belle parole ti scappano di bocca! Lo senti, tu che ti sei lasciata lusingare? Lo senti? Intanto io ti conduco via, da tuo padre che mezzo istupidito dal dolore.... - Ma.... voscenza non ha altro a cui pensare?... - replicò Tinu con la stizza nella voce. - Gliela ricondurrò io da suo padre. Bisogna intendersi con lo Storto. Dice che vuole ammazzarmi.... Se c'è chi si lascia ammazzare! Pelle per pelle! - Minacci anche? - voscenza lo compatisca, - entrò in mezzo massaio Marrana. - I giovinastri del giorno d'oggi parlano a casaccio; non sanno quel che dicono. Ormai il fatto è fatto; bisogna rimediare.... E poichè ci mette le mani il signor don Pietro, lascia fare a lui che ha cervello più di te e buon cuore più di tutti. La Trisuzza era in casa di voscenza e in casa di voscenza ritornerà. È inutile che tu smanii e storca gli occhi. Solamente voscenza deve adattarsi al basto delle nostre bestie; non abbiamo sella noi. - Te ne vai? - disse Tinu vedendo che la Trisuzza si rizzava in piedi, aiutata da massaio Marrana. - Te ne vai? Bada! Non mi vedrai più! Ella continuava a singhiozzare col viso tra le mani, e scoteva desolatamente il capo, atterrita della minaccia. - Bada! Non mi vedrai!

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All'eta che abbiamo parlo anche per me - certi spropositi bisogna evitarli! Pur troppo, a quell'età, -pensava don Pietro, - bisognava evitare ben altri spropositi! Pur troppo, quando non si commettono sciocchezze in gioventù, si corre pericolo di commetterle, e peggio, nella vecchiaia! A poco a poco gli si schiariva la mente; gli appariva netto, preciso lo stato del suo cuore, gl'incuteva terrore. Dunque, proprio verso la fine della sua vita, egli stava per dimenticare ogni dovere di onest'uomo, e insidiare l'onore di una ragazza che si era affidata alla carità di lui? E aveva avuto l'ipocrisia di fingere di voler sottrarla alle insidie del cavalier Ferro! Aveva avuto la spudoratezza di andare a toglierla di mano a colui che, presto o tardi, sarebbe suo marito, col bel pretesto di sollecitarli a mettersi in grazia di Dio! Tutta quella carità.... oh, Madonna santa!... tutta quella carità era dunque vilissima menzogna.... per coprire brutte intenzioni?... Ma no! Ma no! Aberrazione d'un istante! Fragilità umana! Domani sarebbe andato a buttarsi a' piedi di padre Francesco per confessarsi e farsi dare la penitenza.... Com'era accaduto, Signore? Com'era accaduto? Povero sant'uomo! Cercando di scorgere come era accaduto, riandava il breve passato: rivedeva la Trisuzza in maniche di camicia, col collo e le braccia ignude, col fazzoletto legato attorno alla testa per ripararsi dalla polvere, col petto ansante dalla fatica, e indugiava, inconsapevolmente, e riassaporava, inconsapevolmente, il fascino di quella rude giovinezza, che cantiechiava spazzando, spolverando, e che non parlava più di Tinu Mèndola e pareva di compiacersi di restare in casa di don Pietro a disobbligarsi, poveretta, del bene che le aveva fatto e di quello che egli mostrava intenzione di farle! Per questo non si era indignata del bacio; per questo non aveva sospettato!... Ah, quel cattivo soggetto di Tinu Mèndola! La vera colpa era tutta sua! Se avesse sposato sùbito, se ora non volesse afferrar pel collo lo Storto e strappargli la dote per la figliuola! E anche lo Stortaccio! - Neppure una buccia di fava! - Pensava forse di portarsi via la roba all'inferno dove andrà, certamente, pei suoi peccatacci? - Il sant'uomo se la prendeva con gli altri per scusarsi davanti alla propria coscienza, per giustificarsi. E all'alba, quando donna Ortensia picchiò all'uscio per portargli il caffè, era già tranquillo e non si maravigliava della gran tenerezza che gl'inondava il cuore per la poveretta che si era levata da letto anche lei e restava fuori dell'uscio, accorsa premurosamente ad informarsi come stava il signor don Pietro. - Non è niente! Mi sento bene.... Prendete un po' di caffè pure voialtre. Donna Ortensia era accigliata, con tanto di muso; le si leggeva in viso che aveva qualcosa da dire, e che la presenza della Trisuzza le impediva di parlare. La condusse via, con la scusa del caffè, e poco dopo tornò sola. - Non per mescolarmi dei fatti di voscenza, - cominciò, - ma è vero che.... quegli orecchini glieli ha regalati lei? - Glieli ho presentati io, ma il regalo viene da altri. - Non per mescolarmi dei fatti di voscenza.... Voscenza è padrone di fare e disfare in casa sua, con la sua roba. Se però voscenza crede che io non sia più buona a servirla, me lo dica; io le lascio ii posto. Questo è il ben servito!... Dopo tant'anni!... - Siete impazzita? - Le ragazze del giorno d'oggi hanno più malizia delle volpi. Non le è riuscita con Tinu Mèndola, che si è cavato il capriccio e non vuol più saperne, e chi sa che cosa si messa in testa! Vogliono approfittare della bontà di "voscenza, lei e i suoi parentacci che l'hanno indettata.... Quando mai, voscenza? Ha fatto la vita di un santo.... Nessuno può saperlo meglio di me. Ora intanto.... - Siete impazzita, vi domando? Era abituato alle prediche di donna Ortensia, le sopportava pazientemente, sapendo che colei parlava per affezione non per interesse. Spessissimo egli aveva dato retta alle osservazioni, ai suggerimenti di lei che lo mettevano in guardia contro gli eccessi del suo buon cuore e le astuzie di coloro che chiedevano soccorso. E se n'era trovato benissimo. Ma questa volta gli sembrava che donna Ortensia andasse troppo oltre, sospettando cattivi propositi in quella poveretta e disgraziata. Se mai.... Ma neppur lui, no Fragilità, aberrazione di un momento! E per ciò aveva ripetuto quel: - Siete impazzita? - con tal tono di voce, che donna Ortensia si era sentita chiudere la bocca, quasi don Pietro gliel'avesse tappata con una mano. Egli era rimasto a letto un'altr'ora, stizzito contro la vecchia che cominciava ad abusare della tolleranza di lui. Date un dito a certe persone e si prendono tutta la mano! Stizzito un po' anche contro se stesso perchè non stava su le mosse, sentendo di là il rumore che la Trisuzza faceva dando gli ultimi colpi di spolveratura nelle stanze ormai ripulite, ravviate e che quasi non sembravano più quelle di prima. Era deciso di lasciarla fare sola, e di uscir di casa senza neppure rivederla. Aveva in testa il disegno di quel che doveva fare nella giornata, per finirla una buona volta e togliersi quella tentazione dagli occhi, giacchè era una tentazione continua, ne conveniva. Quando però fu sul punto di andar via, si lasciò guidare dalle gambe che lo portarono di suo malgrado. La Trisuzza era nell'ultima stanza in fondo e appena lo scorse gli venne incontro. Don Pietro guardava attorno, approvando con la testa: - Brava! Brava davvero! - Oggi donna Ortensia sarà contenta: ho finito. - E lasciala cantare! E per aggiungere maggior significato alle parole, spinse una mano a farle una carezza a una guancia, e poi l'altra mano per accarezzarle l'altra guancia: - Brava! Brava davvero! - E le mani, indugiando, gli tremavano. La Trisuzza lo guardava negli occhi e tentava di scansarsi, ripetendo, tanto per dire qualcosa: - Donna Ortensia sarà contenta!

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