Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbiamo

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Il Plutarco femminile

218218
Pietro Fanfano 8 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Uomini di altissima fama, come ho detto, ci si dilettarono, e ne proposero essi stessi da sciogliere; e pare che la pigliassero sul serio davvero, se non dice le bugie Plutarco quando racconta che Omero morì dalla stizza di non aver potuto indovinar quell'enimma propostogli da certi pescatori: Que' che pigliammo andarono in malora, que' che non pigliammo gli abbiamo noi. Si ricordano poi Ataneo, da Suida, e da altri parecchj, enimmi di Demetrio Falareo, di Platone, di Apollonio Tianeo, di Pitagora, d' Ansonio, di Diomede, senz' altri infiniti; ed è noto sino ai fanciulli l' enimma di Virgilio: Dic quibus in terris. Ci� mostra che simili esercizj d' ingegno non erano riputati nè vili nè dannosi, se non hanno sdegnato almeno ci sollazzarvisi uomini di tal qualità. Gli enimini più antichi sono sparsi per le opere degli eruditi; ma una formale raccolta ne fece quell'antico poeta latino, passato alla posterità sotto il nome, vero o finto che sia, di Simpòsio. Quegli enimmi sono in esametri assai eleganti, dati fuori la prima volta in Roma nel 1581, con le stampe di Zanetti, da Giuseppe Castello, dedicatola a Tommaso Avalo marchese di Pescara. Ciascuno enimma è di tre versi; ed inoltre alla eleganza vera del dettato, ve ne ha parecchi ingegnosi quanto mai si può dire. Se il lettore erudito vuol avere un saggio, ed anche eserciravi l' ingegno, eccone qui uno, preso come vien viene, che è il quarantesimo: Grande mihi caput est, intus sunt membra minuta: Pes unus solus, sed pes longissimus unus; Et me somnus amat, proprio nec dormio sommo, Ma lasciamo stare gli antichissimi Greci e Latini: lasciamo stare anche l' accenno di questi ghiribizzi, che pur si trova negli antichissimi nostri, come appresso Dante nel madrigale: o tu che sprezzi la nona figura, e presso al Barberino in quel suo giuoco di parole l' erbette son tre lettere, cioè l' R (er) B (be) T (te); per venire al secolo XVI, dove essi presero del campo e moltiplicarono, così in Italia come in Francia. Fino da' primi anni del secolo suddetto, in un libro di calligrafia stampato a Roma, si vede un bell' esempio di Rebus, un intero sonetto composto di figure da tradursi poi in parole. Questo, ch' io sappia, è il primo esempio, salvo la scrittura geroglifica, di giuoco sì fatto; ma non vi è per altro qualificato col nome di Rebus, il qual nome fu trovato in Francia non pochi anni dappoi, forse e senza forse dalla voce latina rebus, ablativo plurale di res, perchè le idee significami rebus non verbis, con cose e non con parole. Ed in Francia più che altrove ebbero corso allora tali bizzarrìe con altre simili, delle quali ci ha un proprio trattato, col titolo Bigarrures du seigneur des Auards, curioso e raro libro, di cui è pregio dell' opera il dar qui breve descrizione. È un grazioso e rarissimo volume, stampato a Parigi nel 1585, in-16, sul cui frontispizio leggesi la seguente cobbola: Tel fora la niche à ce livre, Voyant ce mot de Bigarrures, Que le lisant par adventure Dira qu' il est digne de vivre. L' autore chiama in esso a rassegna tutti i modi di enimmi, grifi, rebus, equivoci, anagrammi, logogrifi, acrostici, ed infinite altre allitterazioni usate fino d' allora; ne fa di ciascuno una breve storia, di ciascuno ne dà parecchi esempj, formando così un libro di circa 500 pagine, che certo è dei più adattati a far passare piacevolmente le ore d' ozio anche alle persone erudite. Primi sono i Rebus detti di Piccardia: poi i rebus per lettere, come sarebbe: g.a.c.o.b.i.a.l. J' ai assez obei a elle; e quelli per figura con note musicali, come appunto si vedono adesso in tanti periodici di Francia e d' Italia. Tra gli anagrammi, ve ne ha degli ingegnosissimi; e così tra' giuochi di numeri, e tra gli epitaffi giocosi, co' quali si chiude il libro. Ho accennato qua sul principio che esercizj di ingegno a questa maniera si accettarono per il passato anche nei corsi di pubblico insegnamento; e di fatto è singolare un' opera composta dal Padre Antonio Forti gesuita, e stampano, a Dillingen nel 1691 col titolo di Miles rhetoricus et poeticus, che è un vero e proprio trattato dell'arte rettorica, della quale opera è parte formale questa della materia onde qui si ragiona, e vi se ne danno precetti ed esempj. Comincia dagli anagrammi cui egli definisce un parto più della fortuna e dalla fatica che dell' ingegno: ne discorre lo stile, i vizj e le virtù; ne reca parecchi esempj, molti dei quali sono veramente curiosi, come Laudator-adulator, Stefano protomartire-santo morto fra pietre; chè santo Stefano fu veramente lapidato. Agli anagrammi seguitano gli eco, gli epitaffi, gli enimmi, ecc., il tutto co' suoi precetti, vizj e virtù, e di tutti biasimatone lo abuso. Gli enimmi per altro furono quelli che ebbero maggior corso e più largo; ed è dilettevolissima un' opera stampata a Francofort sino dal 1599 col titolo di Aenigmatographia, dove, per cura di Niccolò Reusnero, si fa una compiuta storia dell'enimma appresso gli antichi, e si raccolgono quelli de' principali autori del suo tempo, che di quel tempo sono i principali eruditi e letterati. Il volume, che si avvicina alle 500 pagine, si chiude con una parte riservata ai logogrifi, che occupano un cento di pagine, tra' quali ce ne ha de' veramente ingegnosi e graziosi, degni al certo che io ne dia qui un saggio a' letterati intelligenti: Si caput est currit; ventrem coniunge, volabit; Adde pedes comedes; et sine ventre bibes. (Muscatum - Mus - Musca - Muscatum - Mustum) Odasi anche quest'altro, il quale potrebbe chiamarsi logogrifo anagramma: Mitto tibi navem prora puppique carentem; Mitto tibi metulas; erige, si debitas; che vuol dire ti mando nell'ave, perchè navem, toltogli la prima e l'ultima lettera, resta ave, parola di salutazione; e perchè la voce metulas raddrizzata, cioè letta a rovescio, fa salutatem. Presso gl'Italiani per altro furono in voga nei passati secoli i soli enimmi poetici, il più illustre scrittore dei quali fu Antonio Malatesti fiorentino, amico di Milton, la cui Sfinge, che sono tanti sonetti e stanze enimmatiche, ebbe lodi meritate da molti valentuomini, dal Redi specialmente; ed ebbe varie edizioni, fra le quali una di Milano compiutissima, fatta pochi anni addietro, con una assai lunga prefazione dettata da me, con tutto che alla stampa del volume io non attendessi, come si dà ad intendere nel frontespizio. La Sfinge del Malatesti è cosa troppo nota, da dovermi qui brigare di darne notizia ai lettori, che già ne sapranno quanto me: dirò solamente che appena fatta quella edizione di Milano, capitommi un codicetto del secolo XVII, contenente sonetti enimmatici del Malatesti, parecchi dei quali, anzi il più, sono inediti; e non pochi di quelli, già stampati sotto forma di Stanze, si veggono quivi ridotti a Sonetti; nè dispiacerà, mi penso, di averne qui un esempio. La stanza 8ª della parte III, sezione 2ª, così dice nella stampa:

La prova di ciò ch' io dico l' abbiamo apertissima nel verbo fare, il quale, come ho detto, è contrazione del verbo facere, e nella sua conjugazione molte voci le ha da facere, come faceva, facessi. Ora queste voci facessi, faceste e simili si possono usare, specialmente in poesia, come procedenti dal contratto fare; e allora come dovrassi dire, io fasti, voi faste? Risponda." La signorina stava dubbiosa a rispondere, nè sapeva risolversi; pure disse: "Fasti e fassi mi paiono voci strane per facesti e dicesti. "O dunque come si direbbe, volendole usare contratte? Non altrimenti che festi e fessi, è vero? "Sì, signore. "Ma, secondo il suo modo di argomentare, se dare e stare fa dassi e stassi, anche fare dovrebbe far fassi. "Conosco, disse allora la signorina, di aver detto un bello sproposito, e me ne rendo in colpa. "La colpa, conchiuse il maestro, non è sua; ma di quel valentuomo che primo volle difendere tale sproposito. Questo fatto per altro le serva di ammaestramento a non lasciarsi sopraffare da certi uomini. Tutti coloro che nelle cose scientifiche o letterarie hanno la smania di farsi autori di un sistema, tra molte cose ottime ne mescolano parecchie tutte cervellotiche; e volendo tirar tutto a quel loro benedetto sistema, e di ogni cosa render ragione secondo esso, dicono castronerie da pigliarsi colle molle, che poi traggono in errore gi' incauti. Di ciò potrei dar molti esempj, e raccontar molti fatterelli piacevoli; ma ora è tardi, e gli serberemo a miglior occasione."

Pagina 158

Io non voglio troppo distendermi in questo argomento per non urtar nessuno; ma, tornando alle donne, farò loro notare, che ninna di esse ne abbiamo veduta o ne vedremo eccellenti in architettura. Perchè? perchè l' architetto, per essere eccellente, bisogna che faccia molti e molti studj aridi e uggiosi, ai quali le donne malagevolmente danno; perchè insomma all'architettura non basta il solo ingegno.... Ma voglio aver detto abbastanza che il dir di più. in questa materia si disdirebbe al luogo e alla occasione presente." Quella signorina, che aveva mosso la questione, si appagò del modo col quale il maestro l' aveva sciolta. Allora venne fuori un' altra, e domandò: "Signor maestro, le dispiacerebbe di chiarirmi un dubbio? "Volentieri, dica pure. "Ho udito che ella, volendo significare il suo pensiero circa alla cagione, perchè ci sono state tante donne pittrici, ha detto io come io, mi pare. Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

Pagina 178

dalla servitù che sventuratamente noi altri italiani abbiamo incallita nell' ossa; il qual sentimento di viltà non ci lascierà per avventura, nè anche se torneremo ad esser popolo libero, e sciolto da ogni predominio straniero Il buon maestro fu profeta. Ora siamo liberi, siamo una gran nazione ma le cose nostre dispregiam come prima, e ci facciamo mancipj ora di questa gente, ora di quella nazione, o nella lingua o nelle fogge, o nella politica..... Lo vuol vedere che bella roba noi vagheggiamo, e come scioccamente si dà la preferenza al piombo francese sopra l' oro e le perle italiane? Mi ascolti. Toelette significa in francese piccola tela, e quella specialmente con la quale è coperto il tavolino, ove le donne stanno ad acconciarsi. Ora veda ingegno de' Francesi, e ricchezza della lor lingua! Toelette indica per essi, non solo la tela, ma il tavolino su cui la tela sta distesa, e di più lo specchio, le spazzole da capelli, le pettiniere... ecc. - Toilette indica la stanza! dove la donna sta ad abbigliarsi. - Toilette indica parimente il compiuto vestiario ed acconciamento di una signora!!! Domando io se sciocchezza maggiore si può nè anche immaginare? E pure anche noi Italiani toelette qui, toelette là che è un vero vituperio! Vediamo un po' se la lingua italiana ha nulla di meglio. Dante, parlando di una antica matrona fiorentina, disse:

Pagina 252

E questa servitù bisogna comportarla, come quella che è necessaria; nè fa vergogna come l'altra servitù volontaria dell'usar voci e modi francesi quando gli abbiamo più belli e più efficaci nella lingua nostra. Potrebbe l'Italia tornar quando chessia padrona di sè stessa; e liberandosi della servitù politica, potrebbe anche liberarsi da questa moda; ma chi sa,.."Le parole del maestro si vede facilmente dove andavano a parare. Ora l' Italia è libera: è studiosissima di promuovere ogni industria. O che sarebbe cosa impossibile il potere, se non tòrre di mano alla Francia lo scettro della moda, il farsene regina essa in casa sua, immaginando fogge e nomi a suo talento, ogni cosa italiano? Ci sia una, o due, o tre signore, che promuovano la impresa; chiamino in soccorso ed artisti e letterati: facciano il loro giornal delle mode italiane, col figurino italiano, con linguaggio italiano; e non, come già. si è cominciato a fare, copiando goffamente i Francesi. Si metta a profitto tutto ciò che ci offrono le belle tradizioni nostre, le nostre arti, le nostre industrie; e volendo per davvero, si potrà subito liberare la Italia dal gravissimo tributo che paga per questo capo alla Francia, e col tempo potrà per avventura riceverne da altre nazioni. In potenza ci è tutto qua da noi: resta che ci sia una tenace volontà da recarlo in atto. La direttrice, sapendo di che ardenti spiriti fosse il maestro, e dubitando che gli uscisse di bocca qualche cosa da poter avere de' dispiaceri per parte della polizia, o da esser poco opportuno il dirle alle signorine, gli tagliò le parole; e bel bello uscendo da quell' argomento, entrò in altre cose, finchè venne il tempo di andarsene.

Pagina 263

Salita essa al luogo solito, incominciò con voce soavissima: "Quando la nostra buona direttrice ci propose di fare questo settimanale esercizio, io con altre compagne mie, si mormorò un pochino, e si disse che poco sarebbe stato utile, e meno che utile, dilettevole; ma ora abbiamo toccato con mano che ci s' ingann�; ed io forse più volonterosa delle altre vengo qui a parlarvi di Battista Malatesta, secondo mi ha comandato, e segnatamente la via colei che di noi tutte è, non so qual più mi dica, se madre o maestra. "Questa madonna Battista dunque tu la meraviglia del suon tempo; e vivendo in sulla fine del secolo XIV, quando appunto fiorivano il Boccaccio ed il Petrarca, di ambedue questi grandi ebbe la stima e l'amicizia; e il Petrarca le scrisse un volume, confortandola a continuare nello studio delle buone lettere. Era figliola di Guido da Montefeltro signore d'Urbino, e fu moglie di Galeazzo Malatesta signor di Pesaro; ma lei, piuttosto che invanirsi della nobiltà e della potenza, pregiava la virtù, che si acquista con lo studio e con le magnanime opere, e tutta si diede alle più gravi discipline; e benchè fosse bellissima di corpo, lo fu però ssai più di animo; ed ebbe ingegno quasi divino. Molto sapeva delle lettere, con un parlare così puro e netto, non solo nel latino, ma anche nel volgare, che fu tenuta trapassare di lunga mano ogni altro che si trovasse a quel tempo. Fece assai orazioni latine molto belle all' imperator Sigismondo e a molti cardinali, delle quali alcuna ella stessa ne recitò con tanta grazia sua e con tal meraviglia d' ognuno, che fu tenuta un altro Demostene. Seppe molto di filosofia, e ne disputò dottamente: sopra la sacra scrittura compose due libri, che furono allora lodatissimi: Scrisse diverse epistole, tra le quali una a papa Martino in lode del suo pontificato, che, non solo fu tenuta cosa eccellente dal Papa e dal Collegio dei cardinali, ma il Papa istesso ne fa ricordo in una sua lettera: e detti, anche versi italiani pieni di affetto e ricchi di ogni pregio. Cosa può desiderarsi di più in una donna? Ma tuttavia madonna Battista non istava a ciò contenta; e se aveva gran fama nelle lettere, voller anche quella estimazione che viene dalle virtù civili e domestiche. Lei benigna, lei clemente, lei instancabile nel far beneficj: poco curante dei ricchi vestimenti nè di andar pomposa, in ogni cosa teneva la via del mezzo, perchè in tali vanità non giudicava essere la dignità delle donne. Con maggior prudenza del marito governava lo Stato e i sudditi, i quali l' adoravano: morto il marito, visse parecchi anni in pudica ed onesta vedovanza; e finalmente si fece monaca nel monastero di Sant'Urbano dell'Ordine di Santa Chiara, dove finì il resto de' giorni suoi." Questa volta gli applausi di tutte le ragazze vennero dal cuore; nè vi fu veruna che facesse niuna osservazione, e così la direttrice come il maestro, che mai non mancava a questi piacevoli ritrovi, lodarono il discorso della Isotta, non solo rispetto al modo com' era scritto, ma ancora rispetto alla composizione sua, cioè al suo ordine e alla sua disposizione. Il maestro per� non potè tenersi che non dicesse alla gentil giovinetta: "La mi dica un po' signorina: ella, che tanto è studiosa, massimamente dello scrivere schietto e netto, perchè si mostra poi così vaga di certi modi, contrarj non solo agli insegnamenti de' maestri; ma poco accetti anche dal buon uso di chi vuol essere bel parlatore, come, per esempio: Si fece, si disse per dicemmo e facemmo; cosa per che cosa: lui e lei per egli ed ella; il francesismo lo per tale; o pare altresì che se ne compiaccia?" E la signora Isotta, peritosamente rispose: "Ho sentito dire che l'astenersi da questi modi è pedanteria: che nell'uso ci sono; che anche il Manzoni, racconciando alla toscana i Promessi Sposi ve gli ha messi sempre..." "Al Manzoni, replicò il maestro, ciascun italiano che abbia sentimento del buono e del bello, si deve inchinare con atto di riverenza e d'amore; ma non resta, per questo che anch'egli non possa, travedere, in alcuna cosa. Benchè qui, piuttosto che travedere, non ha fatto altro che dare un po' troppo retta a qualche Toscano, che gli ha dato ad intendere, esser quei dati modi nell'uso comune di tutti i ben parlanti di Firenze; ed egli, che in Firenze non è stato tanto da potersene accertare, è scusabile. Ma ella è toscana, e per di più anche fiorentina; e sa che quei solecismi, se qualche volta si odono sulla bocca del popolo, non si odono però nè sempre nè da tutti; sa che nel linguaggio familiare si comportano molte cose, anzi ci stanno bene, che per� disdirebbero in una scrittura di grave argomento; o sa per esperienza propria che, anche nel parlare familiarissimo, il più dii tali solecismi calzano ottimamente in un caso, e in altri casi fanno bruttissimo sentire. Deve per ultimo sapere, e se non lo sa glielo dico io, che la popolarit� nello scrivere, come or si dice, non si acquista ruzzolando tra' cenci de' plebei, secondo che alcuni credono, ma con lungo ed assiduo studio, ajutato dall'ottimo ingegno. Il Manzoni è chi è; e tanti sono i pregj delle opere sue, che questi nèi non le deturpano punto; ma l'imitarlo qui, dove si mostra uomo come gli altri, non facendosi punto prò dei grandi suoi pregi, che tanto lo levano sopra gli altri, questo è da chi ha smarrito il senno, o da chi non l'ha mai avuto. Ella per tanto, che il senno lo ha così eletto, si guardi dall'abuso di queste coserelle, e ne sarà lodata da tutti i buoni e da tutti gl'intelligenti, nè potrà biasimarla nessuno, nemmeno tra coloro che pendono alla licenza in materia di lingua."

Pagina 29

In queste cinque domeniche abbiamo udito raccontar molti atti di valorose donne, che fanno vergogna a molti signori uomini: o perchè dunque ci ha essere chi s'ostina a dire che noi altre donne non siamo buone a nulla, e che si dee pensar solamente a far la calza, a cucire e a badar a casa? questa è una bella soverchieria... "Signorina, interruppe la direttrice, coloro che dicono, le donne non esser capaci di ogni atto virtuoso come gli uomini, sono stolti; ma anche più stolti sono coloro che vorrebbero le donne capaci di ogni pubblico ufficio, pareggiandole in tutto e per tutto agli uomini. Ci pensi un pochino e mentre quieta, e vedrà che, se la natura ha fatto la donna diversa dall' uomo, destinandola a far figliuoli e ad allattargli, è segno che anche l' ufficio loro debb' essere diverso nella umana compagnia; e come la cura del governo familiare, e tutte le arti donnesche sono essenziali al buon vivere civile, così, facendo uomini anche le donne, una delle due, o gli uomini dovrebbero essi attendere a quelle arti, operando contro l' ordine della natura; o il viver civile diventerebbe una confusione orribilissima. Non si nega che sieno degne di eterne lodi le donne, che si rendono eccellenti o nelle arti, o nelle scienze, o nelle lettere; ma guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse! Il mandato della donna è sublime, chi sappia valutarlo: siamo noi donne quelle, che, attendendo alla prima educazione de' fanciulli, mettiamo loro in cuore i semi delle cittadine virtù, i quali poi fruttano a tempo e luogo gloria ed onori: siamo noi altre donne che temperiamo le troppo accese passioni, che facciamo parer più leggere le gravi cure de' nostri uomini... Io non posso stendermi ora di più su questa materia. Creda a me, signorina: pensi ad animo quieto, e ci pensino tutte le sue compagne, a queste mie parole; e se loderanno ed ammireranno sempre quelle donne delle quali ogni domenica qui si celebrano le virtù, potranno menar vanto che anche le donne sono capaci de' più nobili atti virili, e con l' esempio di esse tureranno la bocca agli stolti, che dicono il contrario; ma ne conchiuderanno per altro, che al bene ordinato viver civile, giovano molto più quelle che intendono il mandato loro proprio, e cercano di essere buone spose e buone madri.

Pagina 34

Accetti dunque la piccola mortificazione da lei meritata; e si acquieti nella certezza che, ed il signor maestro, ed io, e queste sue compagne le vogliono l'istesso bene, e non mutiamo per nulla la opinione che abbiamo di lei, come fanciulla di buon ingegno e studiosa." La Isabellina con amorevole sorriso baciò la mano alla direttrice: le altre fanciulle furonle attorno con parole e con atti di conforto e d'amore; e così finì quella mattina la conversazione.

Pagina 47

Cerca

Modifica ricerca