Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219980
Storie d'amore e di dolore 2 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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- — Ma, benedetta figliuola, — ribatteva Giulio Sermanni — non capisci che abbiamo finito proprio in questo momento e che un boccone di più ci rovinerebbe? - - Malanno in forma di demonio tentatore! — le schiccherò Montazzi, lanciandole, con un bacio, una pallottolina di pane tra' merletti del seno. — Non dubitate, vi raggiungiamo più tardi; in tanto, divertitevi, e lasciateci prendere in pace, senza strilli, senza urtoni, questa povera tazza di caffè...- - C'è anche Mimì d'Oro? — chiese Bertino Fragni accendendo un avana. - E allora, addio — ripetè in fretta, come per concludere, la giovane donna. Così dicendo, infilò di nuovo la mano inguantata nel braccio del suo accompagnatore, un ufficiale, ed aprì, per andarsene, la porta del gabinetto riservato, in cui cenavano bonariamente que' tre amici maschi, desiderosi di star tranquilli. Nel gabinetto a canto era già cominciato un baccano di voci e di risa da frastornare una caserma: baccano caratteristico che rivelava subito di quali mondani e semimondane si componesse la comitiva colà raccolta. Giulio Sermanni seguì con gli occhi l'onda di damasco e di trine che spariva dietro l'uscio; ne ascoltò un istante il fruscìo su 'l tappeto del corridoio; poi, appoggiati i gomiti su la tavola, in atto confidenziale, scrollò leggermente il capo. - Povera Matilde! — susurrò quasi a sè stesso. E voltandosi a' suoi commensali: - Chi direbbe, vedendola adesso — soggiunse — che quella stessa Matilde io l'ho conosciuta tale da far invidia alle mie sorelle e alle vostre, tanto era una cara e santa ragazza? — Bertino inarcò le ciglia ed allungò le labbra con una smorfia buffa imitata da un attore di operette, e Montazzi si lasciò sfuggire un: — Ah, da vero? — pieno d'educata incredulità. Ma Giulio Sermanni, con la sua tradizionale poesia, quando aveva fatto tanto d'entrar nel campo del sentimento, non lo abbandonava a quel modo senza un po' di sfogo, e specialmente dopo aver sorbito qualche bicchierino di più. — Sì, da vero. Matilde dieci anni fa era magra, bruna, palliduccia. Abitava in una stamberga attigua alla mia, nelle soffitte d'un vecchio palazzo a Porta Genova, e a traverso l'assito che ci separava ella poteva, osservando dalla mia parte, godersi lo spettacolo d'una confusione di tele, di cartoni, di gessi, in mezzo ai quali io badavo a tirar giù alla brava pennellate e freghi di matita. Ma aveva altro da pensare, poverina! In vece, per conto mio, quando udivo il suo passo svelto su' mattoni o la sua fresca vocetta che rispondeva al brontolìo della madre, non mi facevo per nulla scrupolo di curiosare dalle commettiture del legno nella camera della mia vicina. Questo accadeva sempre di mattina presto, o di sera. Nelle altre ore del giorno, silenzio perfetto: meno lo strascicar lento delle ciabatte della vecchia e la sua tosse ostinata. La ragazza, ch'era giornante da una sarta, s'alzava nel cuor dell'inverno verso le sei. Acceso un lumicino che spandeva su l'oscure pareti un barlume fioco fioco da stanza mortuaria, indossava un vestito a quadrelli che nella notte le aveva servito da coperta, e, ancor tutt' assonnata, si scioglieva le trecce guardandosi in un pezzo di specchio rotto che s' appoggiava su le ginocchia. Aveva de' capelloni lunghi, folti, bellissimi, ma che una volta acconciati non facevano più nessuna figura, perchè se li spartiva lisci lisci a sommo del capo, e se li fermava di dietro, come stretti da una morsa, con un brutto pettinaccio sdentato. Terminata quest'acconciatura, ella si metteva a spazzar la camera, a spolverare i tre o quattro mobili tarlati che c'eran dentro, ma pian pianino perchè non si destasse la madre, che russava ancora, raggomitolata in una specie di canile; poi, aperta la cassetta Contessa Lara. 9 del tavolino, prendeva da un foglio mezzo lacero un cucchiaio di caffè di ghiande, e lo metteva a bollire sopra un veggio. Questo modo di riscaldarsi lo stomaco era l'unico lusso di Matilde, allora! — Montazzi inghiottì quattro o cinque sorsi di chartreuse tutti di seguito, astrattamente, e Bertino Fragni s'accostò più che mai alla tavola. II pittore riprese: — Dopo queste faccende, la ragazza trottava lesta lesta verso il suo magazzino e fino a un'ora di notte era tutta una tirata di lavoro. Spesso, al suo ritorno, c'incontravamo per le scale. Io scendeva per recarmi in Galleria, al Gnocchi, dove s'era formata una combriccola di glorie in erba cui davamo il nome pomposo di cenacolo. C'era un po' di tutto: pittori, scultori, musicisti, uomini politici, e non mancava nè anche qualche poeta di genere pornografico; però una razzamaglia di buon umore e con un certo bagaglio di talentaccio, più che altro poi di sfacciataggine. On ne doutait de rien! Bisognava sentir che teorie strampalate, che sublimi paradossi difesi a forza di pugni su' tavolini!... Basta, so che adesso darei molte opere mie che il pubblico loda e paga, per l'entusiasmo pazzo d'una di quelle ore giovenili. Matilde, lei, povera piccina, saliva al nostro quinto piano intirizzita dal freddo, e ravvolta in uno scialletto a maglia che a pena le copriva le braccia; ma era un amore con quel visino livido sotto la paglia d'un cappello scolorito e sbertucciato da chi sa quanti acquazzoni, con quelle dita che facevan capolino in cima ai guanti, tutte rosse per le punture dell'ago e pe' geloni; era un amore tutta impacciata a dissimular sotto le gonnelle troppo corte i tronchi di certi stivaletti larghi e sformati dove il pieduccio le ballava; sicchè ci avevo preso gusto a fermarla. - Buona sera, come sta? Ha fatto tardi, eh? O non ha paura a girar sola a quest'ora? — Quasi sempre le stesse domande e sempre le stesse risposte: - Grazie, sì, stava bene. No, paura no, perchè sceglieva le strade con molti lampioni. Nel carnevale, si sa, c'era il lavoro a monti in magazzino, e non si poteva finir prima. Ma non era mica stanca! Quando si fatica si dorme meglio, nevvero? Buona notte, grazie. - - Buona notte! — E, sorridendo, correva su tutta contenta di appendere a un arpione lo scialletto a maglia e il cappello di paglia, e di mangiar finalmente quel po' di minestra su l'acqua che la mamma avea preparata. Qualche sera, quando la porta di Matilde s'era gia richiusa, io rientravo dietro a lei zitto e cheto nella mia stanza, e mi godevo un quadretto da innamorare un pennello fiammingo. Al lume d'un mozzicone di candela di sego infilato nel collo d'una bottiglia posta in mezzo alla tavola, cenavano le due donne: la vecchia, faccia caratteristica della popolana dalle fattezze ruvide, accentuate, con una pezzuola di cotone a fiorami gialli in testa, legata sotto il mento, e una a fiorami rossi incrociata su 'l seno, piegava il naso fin quasi al piatto, biasciando lentamente i bocconi; la giovanetta, con una cornice di capelli bruni su la fronte, due begli occhi d'un grigio d'acciaio brunito, allargati dalle ciglia lunghe, col profilo regolare, si coloriva e pareva rianimarsi al caldo della zuppa fumante. In un angolo della stanza brillava la nota rossa di qualche tizzo acceso dentro un fornello di terra; a una parete era un'asse con sopra un boccale e de' piatti sbocconcellati ma lucidi, puliti; più là il letto, con a capo un gran ramo d'ulivo ombreggiante una Madonna di carta colorata e un quadretto nero con una medaglia al valor militare: memoria del padre morto in guerra: una reliquia. Matilde, mangiando, raccontava il gran da fare che c'era in magazzino. Madama era diventata più stucca, più rigorosa che mai. E certe volte si metteva a descriver minutamente un abito che avea finito in giornata; era d'una signora forestiera, chi diceva una marchesa, chi una mantenuta, non si sapeva. — Eh!... Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — filosofava tra un sospiro e l'altro la madre, scrollando la faccia ossuta. La ragazza terminava a dire: — Bisogna veder che vestito!... — E l'idea di quei monti di stoffe dalle morbidezze di velluto, da' riflessi di raso, di quell'onde di tralci e di merletti in cascate d'argento, era il contrasto più forte, l'antitesi più potente che si potesse opporre a quell'interno miserabile. Un giorno, il proprietario del nostro palazzo fece sloggiar le mie vicine co' loro quattro stracci, per un'unica, ma valida ragione: non avevano pagato l'affitto. Questo io lo seppi qualche giorno dopo dalla portinaia, che mi raccontò per filo e per segno tutti i fastidi sofferti da quel galantuomo del padrone per dare lo sfratto alle due donne. La ragazza, quando caricavan la roba sur un carretto a mano, stava lì ferma al portone con gli occhi rossi, più muta e più sbiancata d'una statua.... Ma, Dio mio, certe cose si sanno senza imparar l'abbaco! O che forse credevan di stare in casa gratis? Quanto a mance, non c'era pericolo che cascasse mai un soldo; po' poi la Matilde doveva guadagnar bene in quel gran magazzino... E la degna portinaia concludeva con una strizzatina d'occhi: — Quando si è giovani si trova sempre da far bene. - - Dove mai sarà andata a finire la povera Matilde? — mi domandavo io con un certo senso di tristezza. Passò più d'un anno senza che rivedessi la sartina. Non la cercai, è vero, perchè non c'era nulla di comune tra di noi; ma di tanto in tanto quella sua figura patita ed ingenua mi tornava nella memoria; massime poi da quando nella sua camera era venuta a star una famiglia d'operai carica di bambini che vociavano e piagnucolavano in tutte l'ore del giorno e della notte; a segno che una bella volta dovetti prender io pure le mie carabattole e andare ad alloggiare altrove. Ora, sentite. Una sera, al Gnocchi, mentre me ne stavo secondo il solito in mezzo al così detto cenacolo, viene una coppia, maschio e femmina, a sedersi al tavolino dirimpetto. Il maschio mostrava una cinquantina d'anni. Alto, con la barbetta ancora biondiccia tagliata corta e un po' calvo, con modi riservati, magari freddi, aveva in tutta la persona un'eleganza esotica, da gentiluomo russo o svedese. M'era ignoto. La femmina, in vece, mi ricordava un viso da me conosciuto, ma non mi sovvenivo nè dove nè quando. Bruna, snella, con due lunghe trecce penzoloni su le spalle, indossava un vestito d'ultima moda fatto di seta e di velluto color lontra: un vestito da signora autentica. Ma in pari tempo erano in lei delle stonature da non isfuggir a un occhio pratico di donne: per esempio, un cappello con delle penne rosee troppo vistose, e brillanti agli orecchi, al collo, ai polsi; sopra tutto poi una larga striscia nera giro giro agli occhi. Che volete? Sarò retrogrado, ma per me, lasciando da parte le voluttuose usanze orientali, ho un'idea fissa: le donne oneste non si tingono. Poi questa donna rideva, rideva da bimba sguaiata, e mangiava per due. Guardandola bene ravvisai la Matilde. Passarono circa altri quattro anni e la rividi quando proprio non mi ricordavo più che fosse al mondo, un inverno, di carnovale, ai veglioni della Scala. Ella tornava allora da Vienna o da Parigi dov'era andata a scuola; portava una parrucchina fulva come il granturco e s'era ingrassata a furia di mangiar dolci e di girare in carrozza. Aveva una stupenda pariglia di sauri e degli abiti di trine vere. — Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — aveva filosofato sua madre. Un amico comune mi presentò alla nuova stella, una sera, al Manzoni. Per me pure, in tanto, era girata la ruota. Le mie tele cominciavano a vendersi bene; nel mio studio era già una profusione alla Makart di ninnoli eleganti e d'oggetti d'arte, e più d'una volta Matilde mi ha fatto volentieri da modella per raffigurare qualche baccante. Entrava da me con un incantevole sorriso com'è entrata or ora qui; toccava tutto, curiosava dovunque, poi sedendosi a canto a me mentre lavoravo, si metteva a narrarmi — chi sa perchè - le sue tante avventure amorose, con la franchezza, con l'abbandono d'una folle compagna d'infanzia. - Ma un amore non l'ho mai avuto, sai! — mi disse una volta facendosi triste d'un tratto; poi scrollò le spalle e soggiunse: - Chi sa se l'amore esiste! — Cosa strana! Matilde non ha mai voluto convenire d'esser lei la mia piccola vicina della soffitta a Porta Genova. Quando io, talvolta, gliene ho parlato, massime ne' tempi a dietro, insistendo su' particolari delle nostre prime relazioni e facendogliene vedere il lato gentile, ella protestava energicamente ch'io non l'avevo mai conosciuta, e al fine indispettita, nervosa, mi piantava lì senza salutarmi. Sostiene d'esser nata a Torino e di non saper nulla de' propri genitori. Un giorno, mi ricordo che a questo proposito fui crudele con lei; guardandola fisso fisso le chiesi a bruciapelo: — O della medaglia al valore ch'era a capo del tuo letto, che cosa n'hai fatto? — Ella impallidì, e mi rispose soltanto con una occhiata: un'occhiata che non dimenticherò più. Fu la sua sola vendetta, povera Matilde! - Il fragore delle voci e delle risa misto a un tintinnio di posate e di cristalli cresceva nel gabinetto a costo, simile alla marea. Sermanni ascoltava astrattamente; non parlava più. - Andiamo! — disse Bertino Fragni,voltandosi agli amici. Montazzi si versò dell'altro liquore. - Eh, che volete farci? Questa è la vita — dichiarò come per rispondere al baccano della vicina comitiva e al silenzio improvviso del narratore; quindi soggiunse a mo' di morale: - Matilde, però, nel suo genere, è una buona diavola. - - Dieci anni fa era un angiolo — pensava Giulio Sermanni. - Andiamo, andiamo! — ripetè Bertino — lo sapete che di là ci aspettano. Accesero degli altri sigari; s'infilarono i soprabiti e uscirono. Ma il pittore si fermò di botto. - Scusatemi se non vengo con voi — disse a' due giovanotti maravigliati. — Ho da fare. Proprio vi giuro che non mi sarebbe possibile.... — I compagni protestarono forte. No, perdio! che non doveva lasciarli. Che c'era di nuovo? Qualche convegno amoroso, si capisce. Ma per quella volta la sua bella poteva aspettare!... E a troncare il battibecco, Bertino spalancò l'uscio della stanza dove avea luogo la cena ed annunziò il tradimento meditato dal Sermanni. Allora sì che fu un vocio da stordire; e Sermanni era già in fondo al corridoio quando una donna mezz'ubriaca, con gli occhi lustri, con le labbra ardenti, gli corse dietro incespicando nello strascico di damasco del proprio vestito, e tra risa sgangherate gridò: — Disertore! disertore! — buttandogli il suo bicchiere colmo di sciampagna.

. - Sicuro ch'è mio marito; ci abbiamo anche un figlio: volete più bella prova? — rispondeva l'altra con quel riso che si poteva interpretare in qualunque modo. - Sora Rosa, le giuro che siamo sposati in chiesa e al Comune, quanto è vero che questo è un innocente — asserivo io prendendo in collo il mio bambino, che già aveva imparato a conoscermi e mi tendeva le braccia. Allora la vedova pronunziava un: — Sarà vero, sarà... — così pieno di dubbi e così canzonatorio che mi veniva voglia di darle una manata in faccia. Tinuzza, lei, quasi ci si divertiva, perchè il suo carattere non somigliava al mio. - Hai fatto presto da vero a farti l'amorosa! - mi dicevano i miei compagni, quando invece d'andar con essi a passeggio e poi finire in qualche osteria fino all'ora della ritirata, li lasciavo appena vedevo spuntar mia moglie che mi veniva incontro su 'l marciapiede dirimpetto. - Accidenti, che bella biondina! — esclamò una volta un sergente furiere di cavalleria col quale m'ero accompagnato per istrada. Era anche lui del mio paese; ma faceva già il militare da qualche anno. Ci eravamo rintoppati per caso, e non ci pareva vero di chiacchierar un po' dei parenti e degli amici lasciati là giù. - È Tinuzza, — risposi, — o che non la riconosci? - Chi, Tinuzza? - Tinuzza, Agata Lo Santo, quella ragazzetta che stava vicino a casa mia. - Corpo! — bestemmiò maravigliato. - Com'è cresciuta in un momento e come s'è fatta bella! - In un momento, no, — osservai io - ne son passati degli anni! Tinuzza s'era unita a noi, dietro un mio cenno, e rideva di Puddu Cassione, che la guardava mordendosi i baffi e mormorando: - Passa, passa il tempo! - Son vecchia, lo so — disse lei, forse per il gusto che provava a farsi ripetere che, crescendo, s'era fatta bella. Lui rise rumorosamente, col petto da colosso che gli sussultava. - Corpo! ci voleva un bel coraggio a chiamarsi vecchia a quindici o sedici anni: quanti ne poteva avere? - Ne ho diciotto, — fece gravemente Tinuzza, come se ne avesse confessati cinquanta. Ridemmo tutti. Cassione le domandò poco dopo: - Non per offendervi; ma come mai vi trovate?... Io l'interruppi: — A Roma, eh? Ci si trova perchè è mia moglie: ci siamo sposati or son sedici mesi. Allora, dopo le solite esclamazioni e i rallegramenti d'uso, Cassione sentenziò che tutti e due, tanto io quanto lei, avevamo fatta una corbelleria delle più grosse. S'intende non aver giudizio, ma a quel punto, corpo! E rideva, corrucciandosi di quell'inesperienza da ragazzacci che ci doveva trascinare a tanti guai. Passeggiammo per circa un paio d'ore tutti e tre in fila, un po' fuori d'una porta, un po' in città; e s'entrò in un'osteria, dove mangiammo un piatto di fettuccine al sugo. Avvicinatasi l'ora della ritirata, si accompagnò Tinuzza a casa. Io stavo in pena per il bambino, che quel giorno era stato affidato alla sora Rosa. Tinuzza invece, non ostante che lo allattasse, non sembrava ricordarsene; a segno che le feci un rimprovero, e ci lasciammo piuttosto freddi su la soglia della portineria. — Vedi quanto sei stupido! — mi disse mia moglie il giorno dipoi. — Ciccu sta più volentieri con la sora Rosa che con me. Iersera l'ho trovato che dormiva. Essa gli aveva dato da succhiar un torrone. Così la vita andò avanti per noi un certo tempo. Tinuzza guadagnava qualcosa presso due o tre famiglie dove la portinaia le aveva trovato da cucir da uomo; io, che non ispendevo un soldo quando non ero con lei, le mettevo in mano la mia misera paga della cinquina; e co' denari portati da casa si campava da gente onesta. Il mio maggior piacere era di fuggir l'oppressione, la monotonia del quartiere, e andarmene in campagna insieme alla mia sposa e a mio figlio, ch'ella portava in braccio. Là ci mettevamo in libertà, su qualche prato. Lei posava a terra il bambino, che scherzava co' più alti fili d'erbe smossi dal vento, con qualche insetto che passava, co' fiori, che più gli piacevano quanto più eran coloriti; teneva la boccuccia aperta, serio, e metteva un suono inarticolato di maraviglia e di desiderio tendendo la mano grassa, tutta pozzette, per afferrar quel che vedeva anche lontano. Sdraiato accanto a lui, io gli facevo il solletico su le gambe sotto i calzerotti a rigoline, e, mentr'egli si rovesciava su la sottana di sua madre, ridendo, da pazzarello, e mostrava quattro dentini bianchi come il latte appena spuntati, la mia mano saliva, saliva su fino alle coscette, e allora ci ravvoltolavamo insieme, come due cani. La sua passione erano i bottoni della mia giubba; li toccava; ci si specchiava il visetto roseo che appariva lì su l'ottone allargato e gonfio come una palla. - Una seconda volta Merulla sostò per asciugarsi Contessa Lara. 18 gli occhi. Bella Madre! che c'era da fare? Ormai era andata com'era andata. — Dopo una di queste gite all'aria aperta, sembra che il mio piccino prendesse dell'umidità. Tanto è vero, che il giorno dopo piagnucolò di continuo; nè latte nè minestra gli volevano passare dalla gola; la madre gli canterellava per acquetarlo — così mi raccontò — ma lui non potè prender sonno. E scottava, tutto rosso. La sora Rosa, donna d'esperienza, dichiarò che aveva un febbrone. Dire come rimanessi io a queste notizie, non avrei saputo nè anche allora; figuriamoci adesso, che son passati tanti anni... e tante cose! Mi prese un tremito come a un ragazzino che ruba la prima volta, e dopo aver baciato e ribaciato quel povero angiolo, che mi lasciava su le mani e su la bocca un'impressione come di metallo scaldato, tornai al quartiere, più stordito d'un ubbriaco. Anche il giorno dopo, in piazza d'armi, barcollavo; toccai appena qualche boccone del rancio e, quando fui libero, corsi a casa. Il bambino stava peggio. Mi parve che Tinuzza me l'annunziasse con tanta indifferenza, che mi misi a insultarla. — O che forse non è sangue tuo, che stai lì così come se morisse la gatta? Lei alzava le spalle, mostrando di compatir me come un esaltato e di non saper che fare alla creatura: gli dava la zinna, e lui non la voleva; gli dava la farinata, lo stesso; aveva anche chiamato il medico; o che cosa doveva far di più? Io stavo intontito a guardare il mio bimbo. Mi ero seduto su la sponda del letto e gli appressavo la bocca su le labbra enfiate da cui usciva un alito infocato. Lo chiamavo: Ciccu, Ciccu! Non apriva nè pure gli occhi! Il catarro gli serrava la gola per modo che, respirando penosamente pareva rantolasse. — Senti, io stasera non vado alla ritirata. M'infischio di tutto, io! Tinuzza si stizzì. Che diamine! O non c'era lei? Per un po' di mal di gola, una semplice frescata, far tutto quel diavoleto! E s'io insistetti dal canto mio, lei insistè più ancora. Diceva fra i denti: — Maledetto il momento che fu generato! — Ma non si spiegava chiaro per paura di me, sapendo che adoravo il bambino. Quando furono le sette, mi si piantò davanti; disse ruvidamente: - Senti che sona! Insomma, vai o non vai? Per me, se ti ficcano in prigione poco m'importa; ma deve importare a te, che non potrai più mettere il naso fuori. E di Ciccu, di', chi ti dà notizie, allora? Io, lo sai che in quartiere non ci vengo; già, neppure mi farebbero passare. In quel momento un urto convulso sollevò il pettuccio del piccolo malato; la tosse che doveva uscire a colpi non trovava in quell'esserino la forza per isfogarsi; lui si dibatteva, si lamentava, soffocato.... Io me lo presi in braccio, e sollevandolo cercavo di farlo star un po' meglio; ma inutilmente spalancava gli occhi, apriva la boccuccia: il catarro gli metteva in gola come un involto di bambagia. A momenti la faccia gli diventava livida. Come un pazzo, per lo spavento che mi morisse lì per lì fra le mani, lo posai di nuovo su 'l letto e corsi in cerca d'un medico. In due farmacie mi fu impossibile trovarlo. Nella terza, un grosso dottore stava seduto sur una poltrona e parlava di politica col ministro del negozio, quietamente. Quando mi videro arrivare così trafelato e che gli raccontai il fatto, il medico s'alzò, rivolse ancora quattro parole al farmacista a proposito del discorso da me interrotto, e mi seguì fino a casa. Visitato il piccino, disse che si trattava di crup; scrisse in fretta una ricetta e promise di tornar al mattino presto. — Vai o non vai? — mi chiese Tinuzza forse preoccupata della punizione che doveva aspettarmi. Diedi un altro bacio, un altro sguardo in cui lasciavo l'anima mia a quel povero corpicino scarlatto per la febbre, e a capo basso, di corsa, tornai al quartiere. Prima che ne varcassi la cancellata, sonava il silenzio. Andai in prigione, si capisce. La vita militare non conosce riguardi. Il regolamento... non esiste altro al mondo. Allora scrissi due righe a Tinuzza. Ero disperato, mi sarei dato la testa contro i muri: le dicevo che per cinque giorni avrei dovuto star chiuso senza veder nè lei nè il bambino; il bambino sopra tutto mi premeva; badasse a curarlo, a non fargli mancar nulla, a chiamare il medico quante volte al giorno c'era bisogno; magari ci fosse voluto tutto quel poco che avevamo in casa; vendesse pure anche la biancheria, non m'importava, per amor del bambino. II domani, questa lettera fu rimessa a mia moglie da un mio compagno informato della faccenda. II caso volle — dico il caso, vede, signora, non dico la fortuna — ch'essendo quella la mia prima punizione, mi venisse diminuita da cinque a tre giorni. Avevo un capitano ch'era un cuor d'oro, ecco come fu. Appena fuori di prigione, all'ora dell'uscita, mi precipitai a casa. Il cuore mi batteva; mi sembrava che i miei piedi si mangiassero la strada. Bella Madre! Come l'avrei trovato, il bambino? Penetrai come un fulmine in portineria, e mentre cercavo d'aprir uscio di camera di mia moglie, la sora Rosa, tutta turbata, me ne tratteneva. - Non entrate, per carità, che fate ? La sor'Agata non c'è, — diceva essa balbettando - aspettate, aspettate ! - Perchè non c'è Dov'è andata ? O non è malato il bambino ? La vedova mi guardava, smarrita. - Ma che cosa è accaduto, per la Madonna? — urlai io inferocito — voglio saperlo ! La sora Rosa mi s' era avvicinata, più pallida d'un cadavere; mi prendeva per le braccia ; mi faceva de' cenni senza significato, e tremava, tremava sempre più. Io la respinsi, buttandola da parte, e dati alla porta un paio di colpi di spalla con tutta la mia forza , apersi. Volevo veder il mio Ciccu ; non intendevo ragione. Ma il bambino non c'era; il letto era vuoto : soltanto un po' acciaccato sur una sponda. Vidi Tinuzza mezzo svestita, con una treccia de' suoi capelloni biondi disfatta su 'l petto; e vidi Puddu Cassione, che cercava nascondere la sua alta statura dietro certe gonnelle di lei attaccate a un chiodo su 'l muro. C'erano su la tavola due bicchieri di vino quasi vuoti. Mi bastò un'occhiata per capir tutto. - È morto, è vero, è morto?... — mugghiai peggio d'un bufalo. Lei si coprì la faccia con tutte e due le mani. Non rideva più. - È morto, e to fai la.... — Prima di finir la frase le avevo piantata la mia daga nella gola. Nella confusione che seguì, il furiere se l'era svignata. - Il barcaiolo tacque. Il crepuscolo s'oscurava diffondendo una tinta di mistero su la distesa enorme dell'acque. La signora sollevò la testa; quel dramma semplice e plebeo l'aveva scossa. - Perchè, — diss'ella — condannarvi a una così lunga reclusione quando c'erano tante attenuanti in vostro favore? - Ero soldato — spiegò lui; — e poi dicono che non li avevo sorpresi proprio su 'l fatto. Insomma ci sono, e pazienza — concluse filosoficamente. - E dovrete restarci ancora un pezzo? — chiese la signora. - Altri dieci mesi soltanto. - Poveretto! Non vi parrà vero d'uscire! — fece ella, tutta intenerita. L' ex bersagliere gettò indietro la testa e respirò fortemente, come se i polmoni gli si aprissero a un'aria balsamica, nuova. - Sfido io! — diss'egli. — Vado subito a far la pelle a Puddu Cassione.

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