Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222511
Misteri del chiostro napoletano 5 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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. - Allora i giusti gli diranno: Signore, quando, vedntovi affamato, vi abbiamo satollato?.... Ed il re loro risponderà: In veritià, ve lo dico, ogni qual volta l’avete fatto a taluno dei piccoli miei fratelli, l’avete fatto a me.» Da questi detti fu ispirato san Benedetto, allorchè scrisse nella sua Regola: «Quanti vi chiederanno soccorso, siano accolti come Cristo stesso; poichè vi dirà: Ospite fui, e mi avete aocolto.» Le anime si schiusero alla carità, dacchè la carità s'incarnò in Gesù Cristo. Da quel punto la beneficenza si organizza in grandi proporzioni: erigonsi ospizi, costruisconsi foresterie, si fondano ordini ospitalieri; i trovatelli, gli orfani, i malati, i poveri, i vecchi, i ciechi, gl'invalidi, i naufraghi trovano speciali rifugi. La vera ospitalità, l'ospitalità dogmatizzata, l'ospitalità sociale vede la luce sulla culla stessa del cristianesimo, e si esercita a favore degli esseri deboli od infelici, che il mondo pagano opprimeva o distruggeva. Presso gli antichi la donna non era altrimenti considerata, che come un semplice strumento di produzione: gli stessi filosofi la giudicarono un essere incompleto. Il cristianesimo rivela la missione di lei, che consiste nella carità e nella devozione. In Inghilterra, in Germania, o presso i popoli dove il cattolicismo sollevasi al livello del secolo, la Sorella di carità assiste i malati, conforta i sofferenti, prodiga loro ogni cura nelle malattie più schifose. La figlia di san Vincenzo di Paola visita dì e notte il vecchio infermo, medica le sue disgustevoli piaghe, soccorre il moribondo, oppure, divenuta madre, senz'aver cessato d'esser vergine, riscalda nel seno suo l'abbandonato bambino. Partecipi della cristiana carità si fanno pur i forestieri, e gli stessi pagani. È rimasto il bel nome di Maria del Soccorso alla fondatrice d'una pia congregazione di donne, che si dedica al sollievo de' poveri stranieri. Le religiose Betlemmite facevan voto di servire i poveri malati, ancorchè infedeli, ed a' giorni nostri la fama di madamigella Nightingale risuona caramente sì nell'antico che nel nuovo emisfero. «Non v'ha forse nulla di più sublime e più toccante in terra, dice un eminente filosofo, quanto il sagrifizio, che un sesso delicato fa della giovinezza, della bellezza, spesso dell'alta nascita, per sollevare negli spedali quell'ammassamento di umane miserie, di che lo spettacolo è tanto umiliante all'orgoglio, quanto ributtante a' nostri sensi.» Da questa carità, divinizzata da Cristo, inculcata, da Benedetto, umanamente praticata dal clero dell'incivilita cristianità, quanto lontani sono i frati e le monache dell'Italia meridionale! Dice di loro un antico proverbio, suggerito dall'esperienza: «Si uniscono senza conoscersi, convivono senz'amarsi, muoiono senza piangersi.» Pochi proverbi sono nella bocca del popolo più veraci di questo: «La religione di que' Tartufi non è, che un oggetto di biancheria: lo indossano, e se lo levano a lor talento: quando è sudicio, lo mandano alla lavandaia.» Chiesi l'ufficio d'infermiera, e l'ottenni di leggieri, poichè la maggior parte delle monache lo ricusavano. Ve n'erano talune, che non eransi degnate mai di esercitarlo, come altresì ve n'erano dell'altre, le quali, perchè affette da mali cronici, non vedevano le loro compagne da due o tre anni. - Nel corso della malattia, e dopo la morte, si suol tessere il processo della suora: gran parte della giornata è spesa nel commentario. Si discute per qual fallo Domeneddio le ha mandata tale o tal altra sofferenza, e quindi la si colloca all'inferno od al purgatorio a seconda delle rispettive passioni. Il triennio della rigorosa badessa non aveva piaciuto alla comunità. Nelle sue veci fu a pieni voti (meno il mio) eletta la frivola maestra. Una delle precedenti badesse, che molti cordogli avea sofferti durante il suo governo, venne in quel mentre a morire. La malattia fu dolorosa, l'agonia lunga e terribile. Affollate intorno al letto di morte della misera, le monache si dicevano ad alta voce: "Soffre così, per cagione del suo pessimo badessato: Dio la castiga." Venne a morte una vecchia conversa, la quale aveva portata una piaga, che dal tallone estendevasi al ginocchio. Mentre io la medicava, suonò il divino ufficio. M'affrettai a scendervi, ma perchè la medicatura prese del tempo, trovai la recita del coro incominciata, benchè non vi salmeggiassero che cinque sole monache, essendo le altre disperse pei confessionali e pei parlatorii. Fui censurata dalla badessa per quell'opera di carità; mentre alle altre, che scandalosamente stavansi infrangendo la discipline, non ebbe nulla a dire. È usanza nel monastero che le morte, dopo vestite, si pongano in terra: reliquia pur questa delle basiliane tradizioni. Quattro converse sono destinate a quest'ufficio. Una di esse, demonio sotto le forme di monaca, non voleva una notte d’estate interrompere il riposo del proprio letto per apparecchiare l'estinta compagna. L'ammoníi vivamente, e s'alzò; ma, afferrato il cadavere per una gamba, e furiosamente trascinatolo in mezzo della stanza, disse crucciata: "Per la Madonna, non sapevate far così?" Lo scoppio, che fece il capo della trapassata nel battere su' mattoni, mi fa tuttavia raccapricciare: i becchini userebbero agli appestati più carità! Ricorsi alla badessa contro quell'atto inumano: "Quest'affare" rispose, "riguarda più la coscienza della converse, che il mio governo: d'altronde, fanno tutte così." Questa medesima conversa menava la domenica una povera cieca alla messa. Infastidita di tale ufficio domandò di esserne esonerata; ma non essendo stata esaudita, un giorno precipitò la vecchia cieca dall'alto delle scale. L'infelice per quella caduta morì. Un'altra volta percosse sulla faccia un'inferma, perchè spesso domandava di essere voltata di fianco nel letto. Reclamai alla badessa, acciocchè quel mostro di barbarie avesse tutt’altro incarico, meno quello di assistere alle inferme. - Non fui ascoltata. Havvi in Napoli un numero esorbitante di dame e di damigelle, residenti nei differenti monasteri, consevatorii e ritiri della città: oserei dire esservi pochissime famiglie, che non abbiano uno o più membri del sesso debole depositati, come oggetti di manomorta, in que' ricettacoli delle domestiche superfluità. - Una signora, da più anni ritirata in un convento, fu colpita da apoplessia. Non rimessa interamente, un giorno stramazzò a terra. Al rumore della caduta, accorsa una giovine conversa, e trovatala sola, tutta intrisa di sangue, la sollevò da terra e la ripose sul letto. Per quest'atto doveroso fu sgridata dalla superiora. "Doveva dunque lasciarla morire in terra?" domandò la conversa. "Dovevi chiamare un'altra signora ritirata; quelle della stessa classe se la intendono meglio tra di loro." Nè meno prive di misericordia e di compianto sono le esequie delle monache. Un lutto sincero, un rimpianto cordiale, il tributo di alcune lagrime sulla tomba di una defunta compagna, sono in convento fenomeni più rari di quello che nel mondo lo siano le commozioni suscitate dal teatro. L'apatia, che presso gli stoici era virtù, presso le monache è effetto di calcolo e d'egoismo. - È uso sotterrare le morte per lo più nella mattina: non sì tosto il cadavere è calato nella fossa, suona il refettorio, e guai alle converse, se, per motivo del funerale, i consueti maccheroni hanno avuto soverchia cottura! Bastano questi cenni intorno alla carità per le inferme ed al rispetto per le morte: ora riferirò qual cosa di relativo ad un'altra specie di carità. Una contadina, chiuse nel chiostro la propria figlia, graziosa giovinetta di dieiott'anni, non volendo darle per sposo il giovane che quella amava. La badessa, condiscendente verso quante avevano voto nella elezione triennale, usò massimo rigore a quella contadinella, non propensa alla schiavitù monastica, ed ancor meno avvezza all'atmosfera, non ventilata del convento. Una sera, mentre le suore erano a cena, essa discese per attingere l'acqua. - Non ritornò: si manda in cerca di lei, non si rinviene in nessuna parte. Metà per nostalgia, metà per amoroso cordoglio, erasi essa precipitata nel pozzo. Le monache corrono alla porteria, e fanno entrare degli uomini, che per buona sorte estraggono viva ancora la giovinetta. La badessa, invece di profondere a quella misera i conforti che reclamava la circostanza, la confinò in un remoto gabinetto, condannandola ad un mese di detenzione; ma la mattina appresso, nell'aprire l'uscio, la reclusa fu trovata morta, appesa per la gola ad una fune. Per conservare intatto l'asse paterno all'erede maschio, un'agiata famiglia aveva monacato le due prime figlie, e riservava alla terza la medesima sorte. La fanciulla è a quest'uopo da' genitori condotta in Napoli fin dall'anno duodecimo di sua età, e l'accompagna al cenobio un cane barbone, ch'essa ha preso da piccolo ed allevato con amore singolare. Giunto il momento del distacco, quest'amico inseparabile non sa persuadersi che conviene dalla diletta padroncina inevitabilmente disgiungersi. Più caldo nell'affetto suo che non sono gli stessi genitori, li lascia volgere il tergo a ciglia asciutte, e quando nel parlatorio non ravvisa più l'oggetto della sua devozione, si mette a guaire lamentevolmente, come per supplicare la giovinetta ad affrettare il ritorno. Non avendo i cani accesso nel convento, il frate portinaio lo discaccia a calci; ma l'animale, indifferente ai maltrattamenti che riceve, ratto ritorna al sito ove ha veduta l'amica per l'ultima volta, ed ivi, sdraiato sul lastrico del portico,intirizzito dal freddo, non fa che ululare a segno da straziar le viscere. All'ora in cui si chiudono i cancelli messo fuor della porta, passa l'intera notte a lamentarsi; ma l'indomani, mosso il vicinato a pietà, gli reca del pane e delle carezze. Il cane rifiuta e quello e queste, nè cessa di piangere. Pianse senza tregua per due giorni e due notti, mentre in alto l'educanda rimaneva non meno inconsolabile. Alfine, di quel dramma tediate le monache, deliberarono di troncarne il filo sollecitamente. Il povero cane ucciso, chi sa come, fu, al mattino del terzo dì, trovato morto..... all’orlo del sepolcro vivo della sua padrona. Al tempo del debole governo di mia zia, una monaca volle congedare la sua conversa per prenderne un'altra che più le aggradiva. La conversa, che non poteva capacitarsi di ciò, si buttò più volte a' piedi della padrona, ma la trovò inesorabile: ricorse al frate confessore di quella, ma pur senza profitto. Al penultimo giorno del servizio sparì; si cercò dappertutto, in ultimo si scese nelle cantina: erasi rannicchiata sotto un ammasso di fascine. La padrona ordinò che la fosse tirata di là sotto, e a viva forza trascinata alla porteria. La poveretta, che urlava come matta, nel passare innanzi ad una cappella, gridò imprecando: "Signore, muoia chi ci ha colpa!" Per una curiosa combinazione, tre mesi dopo, il monaco cadeva in Via dei Tribunali colpito da morte istantanea. Due converse servivano la medesima padrona: una era giovane, l'altra vecchia. La prima, piuttosto sguaiata e pazzarella, non potendo più lungamenbe tollerare le ammonizioni dell'attempata, concepì lo scellerato disegno di farla morire, condendole l'insalata coll'olio di verderame. L'infelice, travagliata da vomito e da acerbissime doglie viscerali, stava vicina a perire, senza che alcuna di noi ne penetrasse la causa. Per buona ventura accortosi il medico dell'agente deleterico e praticata una visita minuziosa nella cucina, vi trovò l'olio divenuto verde per un pezzo di rame in esso intinto. I rimedi giunsero opportuni, e la vecchia fu salva. Non rifinirei mai se volessi qui raccontare tutti i tratti d'inumanità, che all'insaputa delle leggi dentro i recinti del chiostro impunemente si commettono. Viva tuttora conservasi nella memoria del pubblico napoletano la ricordanza de' sotterranei scoverti l'anno 1848 nel monastero de' Gesuiti (evacuate pel loro esilio) e dell'ossuario di neonati rinvenuto in una di quelle orride cripte. Ma io non voglio citar avvenimenti, di cui pur non possa guarentire la realtà; perlochè tralascio gli ulteriori esempi, e passo ad altro argomento di non minor rilievo.

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Abbiamo discorso abbastanza della missione drammatica del confessionale e delle dottrine dualistiche dei confessori: facciamo adesso un'escursione breve sulla parte teatrale dei chierici. Quattro giovinotti dediti al servizio della chiesa, aspiravano al sacerdozio. Non sì tosto avevano presi gli ordini sacri, dovevano uscirne, per essere surrogati da altri, a meno che protezioni d'alta sfera non li avessero trattenuti nell'uffiziatura a detrimento d'invecchiati predecessori. Più giovani, più fortuna. Questi chierici avevano le loro protettrici nel chiostro. E il protettorato d'una monaca vale qualcosa! Parecchi ricchi gentiluomini ed ecclesiastici napoletani testarono ab antico in favor di San Gregorio Armeno de' legati per uso di patrimoni, di cappellaníe, di maritaggi, di atti di beneficenza. Erano adunque fortunati i chierici che avessero potuto ispirare amicizia alle monache potenti di quel luogo: il traffico de' voti nel ballottaggio del badessato, le abilita al godimento di molti privilegi, uno de' quali si è pur quello di dispensare a seconda del loro gusto cotesti benefizi. E però il chierico protetto è sicuro di acchiappare presto o tardi il patrimonio e la cappellanía, nel qual caso la protettrice fa sovente a proprie spese la festa della prima Messa; e mi rammento di un tale chierico, divenuto, Dei gratia, prete, il quale, per essersi addentrato nella benevolenza della patrona, si ebbe non solamente gratis le spese della festa, ma eziandio un sontuoso banchetto in casa sua per 24 persone, apportatogli dalla carrozza in livree di gala, che la monaca chiese in prestito dalla propria famiglia. La badessa approvava tali scandalose prodigalità, anzi le fomentava dicendo: "Io pure ho fatto lo stesso; scapriccitevi, povere ragazze! in fede mia, si è fatto sempre cosi." Per altro inculcava loro fra' denti di non fare in mia presenza ostentazione di quelle stoltezze: al che assentivano le suore, avvedutesi ch'io non voleva punto conformarmi al loro modo di pensare e di operare. Egli è perciò, che al vedermi comparire innanzi interrompevano sempre i loro ragionamenti, e nel mandare il suddetto pranzo al prete si studiarono d'impiegare le più minute precauzioni, acciocchè la lautezza rimanesse sconosciuta a me. Usavano nella Settimana Santa di acconciare magnificamente una parte del coro per eseguirvi, in memoria del fatto evangelico, la funzione della lavanda dei piedi. Erano collocati sugli altari i simboli della Passione, unitamente a tutta l'argenteria, particolate di ciascheduna delle monache, mentre un'infinita quantità di ceri illuminava la scena. Dirò scena, o commedia? Duolmi di adoperare in divini argomenti la seconda denominazione. Ma che cosa infatti di più comico, di più ridicolo, di più profano al pudore cristiano, del vedere un Gesù Cristo perfettamente liscio e sbarbato in volto, con veste e forme femminili, nell'atto di lavare i piedi a dodici apostole in sottanino ed in calzette di seta? Scommetto che se i Mormoni dell'America, quei comunisti ed eretici dannati, venissero a penetrare che la Chiesa romana suole trasformare in tal modo il Figlio di Dio, non esiterebbero un istante di ritornare a braccia aperte in seno al cattolicismo. I quattro chierici morivano dalla pietosa voglia di vedere scalze le sante apostole. A notte avanzata del giovedì santo, quando il tempio fu chiuso agl'incirconcisi, e che pur io mi fui ritirata, poggiarono ad una delle grate del coro la più lunga scala della chiesa, e coll'aiuto di questa montarono sul cornicione del coro medesimo, ove preso posto, si fecero spettatori e sovente confabulatori del dramma. - È ben vero che le cose passarono tranquillamente, nè si ebbe a deplorare alcun disordine. Io ne conosceva il progetto sin dal giorno innanzi, e mi ritirai prima del solito per lasciarle libere. - Erano allora decorsi otto anni, dacchè io era entrata nel chiostro; ed in questo intervallo non avevano giammai scorta in me la benchè minima inclinazione per un prete, per un monaco o per un chierico; neppure pel mio confessore, il quale, nonostanbe la persistente mala voglia che gli dimostrava, ostinavasi, or sotto questo or sotto quel pretesto, a farmi scendere nel confessionale spesso spesso. Non già perchè il mio cuore a ventisett'anni fosse morto all'amore, o perchè avessi aspirato al selvatico onore di farmi rigido Catone dei poveri innamorati: no, davvero; ma mi disgustava la loro ipocrita e simulata bacchettoneria: quel voler ostentare delle virtù ed un candore che non avevano; mi disgustava la persecuzione che movevano a qualcuna delle loro compagne, se per caso stranissimo avesse questa concepito simpatia per un uomo che non fosse sacerdote od avviato al sacerdozio. Queste finzioni, questi egoismi di casta, e non altro, io detestava. Che se avessero francamente mostrata la loro debolezza per tale o tal altro prete, per tale o tal altro chierico, io le avrei con pari franchezza compatite, come avvenne più volte con qualche educanda, monaca o conversa che mi aveva confidato il segreto della sua fragilità; le avrei compatite con quel cuore propenso a' sentimenti di umanità, partecipe delle debolezze di sua natura, con quel cuore sensibile, che sotto la ruvida lana tuttavia batteva..... Una volta era desso in procinto di rinfiammarsi (non per un religioso) chiesi soccorso a Dio, e Dio ne spense le faville. Una passione di quella sorta non avrebbe fatto che aggravare la mia sventura. Egli era un medico; l'amai per ispontanea ispirazione, l'amai nei più reconditi penetrali dell'affetto, innanzi che la ragione se ne fosse accorta. In grazia del mio ufficio d'infermiera lo vedeva spesso: spesso nella cella dell'inferma l'accompagnai con gli occhi umiliati a terra, col sentimento dell'abdicazione che avevo fatta ad ogni commozione tenera, col convincimento che sotto il voto della monastica castità, spregevole sarei stata da lui reputata, ove uno sguardo solo mi avesse tradita. Ah, chi non ha indossato il cilicio non sa quanto sordo alle invocazioni del cuore sia l'isolamento del cenobio! Non comprese egli i miei sforzi a reprimere que' palpiti ribelli, nè per conseguenza conobbe il mio trionfo. - Tanto meglio! Seppi più tardi, che il suo cuore era dedicato ad altra donna meno disgraziata di me. Egli morì nel fior degli anni, sul più bello della sua carriera..... Fu egli compianto dalla giovane che amava? Ritorniamo al racconto. Passati due anni nel suddetto ufficio, fui nominata sagrestana; era l'incarico che più degli altri metteva la monaca in contatto coi preti. Opinarono allora parecchie suore che avrei finito coll'amarne qualcuno; altre, più svelte, si strinsero in congiura per farmi cadere. La sagrestana mia predecessora, nel darmi la consegna dei sacri arredi, mi disse che dei quattro chierici, uno solo essendo esatto nelle sue incombenze, di lui specialmente doveva servirmi. Era quella monaca, una buona ed onesta donna, sicchè seguii il suo consiglio. Frattanto le congiurate seguivano con ansietà i miei passi, per assicurarsi se, e come, e quando sarei caduta nel tranello. Che importava se il loro campione era di più che volgare figura, di crassa ignoranza, di molta rozzezza? Nel servizio della sagrestia io gli aveva data la preferenza: consolante augurio! Era ben naturale che su di lui si concentrasse l'azione della trama. Di quante iniquità non è cagione l'ozio! Le suore della consorteria trovarono di sovente una qualche scusa per iscendere al comunichino, e dire al chierico: "Ora te ne puoi star contento, eh?" "Perchè?" "Perchè hai avuta una sagrestana giovine e svelta." Unaltra volta gli dicevano: "Che fortuna!" "Perchè?" "Si dice che la sagrestana trovi molti requisiti nella tua persona." "Che idea strana! Da che lo desumono?" "Dalla premura con che ti chiama in preferenza degli altri chierici; dalla fiducia che ti mostrò consegnando ogni cosa a te." Come altrove ho detto, soffriva io molto di nervi: le convulsioni mi si erano rese periodiche. Ad ogni mia indisposizione, lo chiamarono al portello, e con impudenza di cortigiane gli recarono saluti a nome mio. - Nè qui l'impudenza si fermò: perocchè, immaginato e steso sulla carta un vigliettino con sotto il mio nome di battesimo, glielo fecero, non so per qual mezzo, venire in mano. In pari tempo m'involarono un tenue oggetto di biancheria, e in nome mio glielo presentarono. La testa del povero giovine cominciò a vacillare. Se ne avvidero quelle, allorchè, annunziatogli ch'io mi stava gravemente inferma, ei si cavò di tasca la pezzuola per asciugarsi gli occhi, nè potè altrimenti nascondere il suo travaglio. "È cotto di lei!" Dissero allora fra loro, stropicciandosi le mani, e gongolando di gioia. Ma della comica passione del chierico ben anch'io mi avvidi, non appena convalescente e rientrata nell'uffizio. Saputo l'imbroglio del viglietto e del donativo, alle intriganti monache scagliai le più energiche rimostranze: a lui feci tosto conoscere che lo scritto era falso, e che l'oggetto, a nome mio presentatogli, mi era stato poc'anzi preso dal fagotto della lavandaia. Costui masticò male la dura rivelazione: s'impegnò a restituirmi il foglio necessario alle ricerche che mi era prefissa, ma fosse per altrui suggerimento, fosse per ispontanea riluttanza, non me lo diede. Fatto sta che quel poveretto erasi ben bene innamorato di me. La sua faccia era divenuta secca allampanata: il naso affilato, gli occhi infossati. La sua bocca, naturalmente grande, avea per lo smagrimento, prese le proporzioni di quella della lucertola. - Io lo rimproverai spietatamente. "Sciocco," gli dissi, "non intendi che sei divenuto lo zimbello d'una brigata di monache, non meno pazze che insidiose, le quali, nell'atto di prendersi beffe della tue ingenuità, vorrebbero inoltre cogliere un più grande vantaggio, quello di dare argomento di molestia a me, ed ancora, se fosse possibile di abbassare qui dentro la mia riputazione a livello della loro? Rientra in te stesso, raffrena gli stolti desiderii, e bada d'ora innanzi a comportarti più saggiamente nel disimpegno de' tuoi doveri, se non vuoi perdere il pane e l'onore." Rispose, riconoscere ormai l'eccesso della propria follia: non esser però egli stesso l'autore di quella malaugurata passione, ma sì le tali e tali monache che a poco a poco glie l'avevano insinuata nel cuore: alla fin fine, l'amor suo aver toccato tale grado di intensità, da non rimanergli più veruna speranza di poterlo signoreggiare. "In tal caso," ripresi io, "non ti resta che un solo scampo: duro sì, ma inevitabile." "Parlate! Legge suprema sarà per me il vostro consiglio." "Le celie di quelle donne sono zampate di tigre; oggi ridono della tua semplicità, domani ti scaveranno la fossa. Ascolta il mio consiglio: cercati la sussistenza in altra chiesa, e portami al più presto la tua rinunzia." Il tuono secco e reciso di questi miei detti contrastava coll'interno senso di compassione che mi destava un avvenimento diretto a togliere il pane a quel povero tribolato. Quest'abboccamento, che durò appena 10 minuti, e finì pel chierico in uno scoppio di pianto, venne interrotto dall'arrivo del sagrestano. Convinta però che le monache covavano un reo progetto, e dolente per altra parte di rovinare quel giovine il quale altra colpa non aveva che quella d'esser un po' stolto, deliberai di troncarla con un mezzo più consentaneo alla pietà. Recatami dalla badessa, la pregai a nominare in vece mia un'altra sagrestana, dopo l'infermità non sentendomi io in forze da sostenere i pesi di quell'uffizio. - Costei rispose non giudicar la mia salute tanto rovinata quanto piaceva a me di rappresentarla; non esservi, d'altronde, esempio che una monaca si fosse dimessa dalla carica senza finire l'anno d'uso. Il mio confessore, al quale l'affare dispiaceva, unì le sue alle mie preghiere per indurla a cedere; ma, inflessibile alle reiterate domande, ella perseverò nel rifiuto. Stizzita però dalle mie moleste insistenze, mi disse un giorno: "Ma, insomma, perchè vuoi lasciare il posto? Perchè qualche pazzarella ti accusa di amoroso commercio col chierico? Quanta sei minchiona! Forse lei stessa, forse le altre ancora non hanno fatto, non fanno e non faranno sempre lo stesso? A tali cianciafruscole, se hai granello di buon senso, non devi badare!" Le cose camminarono così, finchè l'episodio non fu giunto a spontaneo scioglimento. Un giorno, mentre io cantava in coro, il chierico innamorato svenne in chiesa per la commozione. La chiesa era affollata: nacque un bisbiglio da non dirsi. I preti nella sagrestia si turbarono,i chierici se la godevano, le monache, calata la maschera, scaricarono sulla loro vittima le farétre, sclamando ad una voce: "Quanto è ridicolo! quanto è stupido!" Poi soggiungevano: "La santa Messa è mutata in commedia.... queste scene fanno vergogna al convento." Di lì a non molto trovai il chierico che si struggeva in pianto. "Siamo congedati tutti quattro noi chierici," mi disse con voce interrotta dal singhiozzo. "È mai possibile?" "Pur troppo. Dio mio, che sarà di me!" "Tutti quattro congedati! Hai dunque trascinato anche i colleghi nella tua rovina?" "No: la rovina sarà soltanto mia. Gli altri tre se ne vanno per pura apparenza: fra poco ritorneranno, io solo non ci ritornerò più." "Fanno bene a congedarti con tal garbatezza," conchiusi io. "Me ne duole cordialmente, ma la tua situazione in questo luogo era divenuta insopportabile." Gli abitanti delle contrade vulcaniche sono pieni di fuoco al pari de' loro vini; ed io son Napoletana. Accesa di sdegno, mi portai subito dalla badessa; le espressi la mia compiacenza, pel congedo de' chierici, ma non lasciai di redarguirla dell'ostinata renitenza nell'occasione precedende della mia rinunzia. "Se aveste accettata la mia dimissione, quando con tanta insistenza ve la chiedeva," le dissi con vivacità, "non vi sareste trovata oggidì nella crudele necessità di mettere ad effetto un provvedimento, che tornerà a scapito non meno del vostro monastero, che di quei poveri giovani. Ma ciò che è fatto, non si disfà. Un solo schiarimento mi resta a chiedervi, e questo si riferisce particolarmente al mio personale decoro. È reale, è positivo, oppur è solamente simulato il complessivo congedo di tutti quattro i chierici? In altre parole, vi riserbereste forse in petto il disegno di richiamare fra poco tre di loro, per infliggere l'esclusione ad un solo?" "No," rispose essa. "Il cielo non voglia! Comune e definitiva è, e sarà per tutti, l'esclusione!" "Avrete bastante fermezza da resistere ai maneggi delle monache che li proteggono?" Ci trovavamo presso una cappella, dedicata alla Vergine. La badessa si volse verso l'immagine, e levando le mani al cielo: "Giuro," disse, "per Maria santissima, che nessuno di loro ritornerà." "Ed io giuro," soggiunsi, "che se uno di loro entrasse per una porta, io uscirei subito da quell'altra!" Ci separammo in pace. Ma la povera donna era più di parole che di fatti. Ella contava i voti che le si rendevano indispensabili alla riconferma nel badessato. Di lì a otto giorni i tre chierici ritornarono. Nè a questo si ristrinse l'intrigo; tentò inoltre la consorteria di spandere sul mio portamento un'ombra di denigrazione. A che non giunge la perfidia fratesca! Quegli dei quattro chierici, che di fatto era espulso dalla chiesa, fu da' confessori e dai monaci della chiesa stessa denunziato al cardinale; il quale, con altrettanto smoderato desiderio di arrendersi alla voglie delle sue creature, l'obbligò a deporre l'abito clericale. L'abbadessa aveva mancato al suo giuramento: io volli mantenere il mio. Quel giorno fermai incrollabile nell'animo la risoluzione di lasciare ad ogni costo un luogo, dove ribollivano le macchinazioni e traboccava il fiele dell'invidia.

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Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.

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"Abbiamo qui parecchi libri devoti: ne potrete leggere quanti vorrete." Il cerchio della mia vita si ristringeva sempre di più. Le domandai quali fossero gli ordini precisi sul conto mio. "Ordini rigorosi," rispose. "Proibito di vedere, o di parlare con chicchessia; non potete ricevere nè i parenti, nè gli amici, nè i conoscenti vostri, nè tanto meno gli estranei che venissero per avventura a cercar di voi; anzi, per tôrre il caso d'un'intelligenza clandestina, vi sarà assolutamente proibito d'affacciarvi alle finestre, di salire al terrazzo, di passare pel parlatorio. E per colmo di severità...." "Vediamo quando la finirete!" interruppi. "Non vi sarà permesso d'avere persona alcuna al vostro particolare servizio." "Di grazia," le dissi, "come si chiama questo vostro locale?" "Il ritiro di Mondragone." "Sarebbe meglio chiamato il carcere del Santo Uffizio! Sapreste dirmi ancora, se vi sarò ritenuta per lungo tempo?" "Chi lo sa! Potreste starci e due e tre e cinque e dieci anni, a volontà de' superiori; per avvezzarvi più presto alla pazienza, dovreste smettere la speranza d'uscirne presto" "Non mi nascondete la verità vi prego! Sono forse condannata a vita?" "Raccomandatevi a Dio, e pensate all'anima vostra!" "Basta...!" gridai. E a queste parole caddi priva di sentimento sul mattonato. Riaperti gli occhi, mi trovai sdraiata sul letto, e nuovamente sola. Notai allora con raccapriccio un disordine nelle idee, un intorpidimento della ragione, di cui, volendolo pure, non poteva indagar la causa. Ch'io fossi smarrita di mente, ne aveva chiara coscienza; - ma quell'aberrazione donde mai proveniva? Era essa l'effetto del deliquio? era dell'eccessivo cordoglio? Oppure derivava essa dalla contusione riportata alla testa, cadendo sopra i mattoni? Quanto più mi sforzava di riafferrare il timone della ragione che di mano mi sfuggiva, tanto m'avvedeva ch'io non ne era più padrona come prima: fiacco il discernimento, confuse le rimembranze, perturbati i sensi, tutte le facoltà scombussolate. E nel centro di quel caos un'idea fissa, sovraneggiante, una immagine molestissima come un martello tormentoso: l'uomo ch'io aveva amato tanto passionatamente, Domenico, fattosi prete e vestito da prete, parevami che stesse in atto di leggermi la sentenza di morte. Comincia da questo momento, e continua per qualche tempo non facile a determinare, un periodo della mia esistenza, oscillante ad intervalli fra il senno e lo sconcerto delle facoltà mentali. Risparmierò al lettore la noia che il racconto de' miei delirii gli recherebbe; ma nel continuare il filo della narrazione con uguale esattezza e pel solo dovere di non interporvi nel mezzo una lacuna, siami lecito di premettere qui una preghiera; e questa è, ch'io non sia aggravata della responsabilità d'alcuni atti commessi negli intervalli di quella forsennatezza, atti, che citerò per dovere di fedeltà, ma la cui riprovevole natura sono io la prima a deplorare. .............................................................................................. .............................................................................................. Sullìimbrunire entrò col lume una conversa, e le tenne dietro la priora, munita di sali e di caraffini, che volle farmi odorare. Le dissi aver immaginato, e voler mettere in esecuzione un mezzo, che deluderebbe la pubblicità del mio supplizio. Il tuono serio e cupo con che espressi quest'intendimento la fece ridere. Era una donna sotto i quaranta, fresca e vegeta ancora, ed affabile anzi che no. Il mio stato la muoveva a pietà, poichè non si riguardava di rivolgermi parole di compassione; ma, non meno tenera della sua carica, aspirava all'approvazione de' superiori eseguendo pedantescamente i loro oidini. Tale ingrata incombenza, io, nel suo caso, non l'avrei accettata. Più tardi mi fece portare una scodella di brodo: la rifiutai. La notte che seguitò fu la più angosciosa della mia vita: vera agonia di morte. M'alzai più volte per rinnovare la preghiera a Dio di conservarmi sana la ragione. Fatto giorno, mi portarono il caffè: lo rimandai non tocco, e così fu rimandato anche il pranzo! Due ore dopo vennero i miei bagagli. La priora mi consegnò una lettera di mia sorella, già aperta da lei. Quanto blandite furono le pene mie dalla notizia che Maria Giuseppa era stata, dopo l'interrogatorio, consegnata a suo zio! Aggiungeva mia sorella d'aver già scritto a nostra madre, la quale, informata dell'avvenimento, non avrebbe mancato di chiedere una udienza dal re. - Il capo mi girava, la mano rifiutavasi a scrivere. Cionondimeno con poche righe l'avvertii, che, per timore ch'io non reclamassi al papa o ad altra autorità superiore, le mie lettere venivano aperte e lette: badasse dunque a ciò che scriverebbe. Il giorno appresso ricomparve all'uscio l'antipatice figura del superiore ecclesiastico. A quella vista mi sentii ribollire il sangue, ed incapace di frenare il traboccante sdegno, proruppi in imprecazioni contro il cardinale e contro il re: strana accoglienza ad un direttore della censura pubblica! Don Pietro Calandrelli credette di poter imporre silenzio a me, come lo faceva ogni giorno agli autori di grammatiche e di dizionari: ben lo sa egli se lo feci chetare, io! "Ritengo," gli dissi, "per insulto la visita di preti censori ed inquisitori. Liberatemi dunque della vostra presenza se non volete ch'io ricambi insulto per insulto." "L'ingiusta collera," rispos'egli, "non vi permette di vedere che oltraggiate i vostri benefattori; quando sarete calmata da questo stato d'irritazione, verrà a trovarvi anche Sua Eminenza." Indietreggiai d'un passo, e puntando l'indice, "Ditegli che non ardisca, perchè diverrei una tigre!" esclamai. Il prete si volse alla priora: "La è pazza davvero," disse: "andiamo via!" Quest'epifonema del prete diede il tracollo al disordine delle mie idee. - Sono dunque realmente pazza! - andai dicendo fra me. Erano scorsi intanto quattro giorni, dacchè perseverava a rifiutare ogni alimento. Una lunga malattia di languore non mi avrebbe più profondamente incavate le gote; il volto era divenuto del colore del bronzo; il bianco degli occhi, di quello dello zafferano. Se mi coricava, in cerca d'una tregua all'orrenda fissazione che mi perseguitava, eccomi di bel nuovo innanzi l'immagine di Domenico prete, nell'atto di spedirmi al patibolo. Insomma, priva d'un solo barlume di speranza, inferma di corpo e di spirito, io invocava ad ogni istante o una morte immediata o la restituzione della libertà. Al sesto giorno le forze per alzarmi di letto mi mancavano, nè per questo condiscesi a pigliare i rimedi che la priora mi suggeriva. L'indomani fu mandato per il medico; era il dottor Sabini, cuore aperto, e, come seppi dipoi, caldo di generoso amor di patria. Udito dalla priora il racconto de' miei mali, e come io m'ostinava a ricusare qualunque nutrimento: "Tanto meglio," osservò: "più giovevole, che dannoso riuscirà il digiuno alla sua salute; appena sarà cessata la febbre, la forzeremo a cibarsi." Chiese il calamaio per una ricetta; lo trattenni colla mano per impedirglielo. "Perdereste il tempo," gli dissi; "sono fermamente risoluta di non prendere alcun rimedio. Voi siate pure il ben venuto, se vi conduce l'umanità; ma se venite a prestarmi i soccorsi della vostra professione, io vi congedo al momento!" Non aveva finito di parlare, quando riapparve all'uscio la testa del prete superiore. "Signor Sabini," disse, senza oltrepassare la soglia, "il cardinale vuol sapere da voi lo stato dell'inferma." A quella voce agitandomi convulsa nel letto, gridai quanto n'aveva in gola: "Via di qua, papasso mascherato!" "Calmatevi, per carità!" mi disse il Sabini. - "Signor cavaliere," soggiuuse rivolto al messo del cardinale, "l'inferma è affetta da una febbre nervosobiliosa, febbre complicata con qualche sintomo di congestione cerebrale. Se ella sarà docile alle mie prescrizioni, e soprattutto se vorrà rinunziare al pensiero d'attentare a' propri giorni per mezzo dell'inedia, spero che potremo superare l'infermità." A questi detti il prete varcò la soglia, ed entrato nella camera, che a rapidi passi prese a misurare, "Come!" esclamava, "come! vorrebbe ella dunque cessar di vivere! Signora priora," soggiunse in un tuono rauco ed imperioso, che richiamava la memoria di Torquemada "levate subito da questa stanza ogni oggetto pericoloso!" Il regio revisore aveva adocchiato i miei bauli, e mirava ai libri, ch'erano, a suo credere, ben più pericolosi dell'arsenico, e mettevano in pericolo cosa più preziosa della mia vita. Per evitare un violento conflitto, volli passare in altra stanza, mentre la priora e il prete assistiti da altre persone si preparavano alla visita dei bagagli. Si cominciò dalla camera, che fu esplorata per ogni buco e bucolino; impadronitisi poi delle chiavi, nella speranza di sorprendere qualche documento relativo a segrete società, m'aprirono le casse, esaminarono i sacchi, visitarono le cassette, spinsero l'esame per fino ne' penetrali della biancheria. I soli oggetti che attirarono l'attenzione loro furono alcuni volumi di stampa forestiera, fra' quali, mi rammento, il libro sopra Dante di Ozanam, l'altro sull'educazione di Tommasèo, gl'Inni Sacri del Manzoni, ed un carme alla Libertà di Dionisio Salomos, eminente poeta della Grecia moderna. Fatta questa cattura, l'odiosità della ricerca fu adonestata col sequestro di coltelli, forchette, forbici, d'un temperino, e di altre cose consimili. Il nemico del vocabolo eziandio scendeva le scale quand'io rientrava nella mia camera. Voltosi con un amaro sogghigno, in cui balenò tutta l'ingenita sua malvagità, "Con vostro buon permesso," disse, "riporterò a Sua Eminenza, vostro e mio benefattore, che tolti vi sono i mezzi di attentare alla preziosa vostra esistenza." E detto questo, scese la scala. Sfuggì per altro alle loro indagini un fascio di carte ben altrimenti pericoloso. Io era sicura che senza la mano d'un uomo del mestiere non avrebbero scoperto il ripostiglio contenuto in uno dei bauli. Ma di ciò a suo tempo. Sabini ogni mattina presto veniva a trovarmi. La forte complessione m'aiutava a superare quella lotta fisica e morale, cui ogni altra donna avrebbe forse dovuto soccombere. Nondimeno m'astenni tenacemente da ogni qualsiasi alimento, ed il medico si avvide che la mancanza di cibo andava scemando le mie forze con sempre maggiore rapidità. La mattina dell'undecimo giorno mi ritrovò in uno stato d'estrema depressione; io non poteva più alzare il braccio smunto, e solamente a sollevare il cape dall'origliere sveniva. Tanto inoltrata era l'estenuazione, che divenuta incapace di scendere dal letto, io non poteva, com'era solita, mettere la sera il chiavistello all'uscio di quel tugurio. Sabini per salvarmi immaginò un pietoso ripiego. Governatore del ritiro era un Caracciolo, principe di Cellamare, di cui egli era ugualmente il medico. Più d'una volta ei mi aveva detto che aveva tenuto parola di me col principe. Una mattina, adunque, ridendo e stropicciandosi le mani, "Allegra, signorina," mi disse: "vi porto buone nuove!" Fatto uno sforzo, mi volsi a lui. "Ieri sera," soggiunse, "il principe vi raccomandò caldamente alle autorità, le quali condiscendono, appena convalescente, di farvi uscire." Il cuore mi cominciò a battere tanto forte, che non so come non rimanessi colpita da sincope. "Dunque sarò scarcereta!" dissi, sforzandomi di riprendere la lena che mi mancava, e di stendergli la destra. "Di certo," riprese egli: "e però bisogna rimettersi in forze, poichè non voglio che, uscita di qui, facciate paura alla gente. Presto, signora priora, fatele portare del brodo." Un momento dopo la conversa ne portava un poco, che il medico stesso, sorreggendomi sul capezzale, con carità paterna mi faceva prendere a cucchiaiate. Alla terza cucchiaiata la vista mi si offuscò, e prima di potermi rimettere sul guanciale rigettai quella magra e scarsissima sostanza. "Lasciamola in calma," disse Sabini: "troppo avanzata è la spossatezza. Ora le scrivo un calmante che le somministrerete ogni mezz’ora." Io m'era lasciata prendere all'esca; più del brodo e della ricetta m'avevano rianimata le parole del medico. Il giorno appresso stava meglio: continuavano tuttavia a funestarmi le apparizioni, effetto dello sconcerto mentale: ma la speranza, supremo specifico, qual sollievo mai non reca al disperato? Dopo quattro giorni il miglioramento era grande; il sesto Sabini chiese al parlatorio le mie nuove, ma non salì. Sul finire della settimama io ricominciava pian piano a cibarmi..... ma frattanto Sabini non si faceva rivedere. Mossane qualche lagnanza alla priora, ottenni che fosse richiamato. Ei venne alfine. Com'ebbe avuto contezza della mia salute, gli domandai del giorno in cui mi sarebbe stato comunicato il permesso d'uscita. Ei mi rispose in termini evasivi: non mi tolse la speranza della redenzione per non farmi ricadere, ma disse non potermene precisare il momento..... Ohimè! Ivi a poco acquistava l'amara certezza d'essere stata pietosamente ingannata. Piansi come donna non ha pianto mai; nuovamente mi diedi alla più smoderata disperazione, non seppi a qual estremo partito appigliarmi, ma non ebbi più il coraggio o la pusillanimità di troncare i miserandi miei giorni per mezzo del digiuno. In questo mentre mia madre era tornata da Gaeta. Informata dalla sorella che le lettere mie subivano al parlatorio una sorte pari a quella che in tutti gli uffici postali del Regno subiva la corrispondenza del pubblico, mi rese conto del suo operato in termini del tutto inintelligibili. Ma l'inciampo non mi scoraggì. - Ben conoscendo l'altiera e risoluta indole di lei, poteva io dubitare che dopo l'affronto ricevuto fosse ella donna da starsene colle mani alla cintola? In uno de' miei lucidi intervalli (e ne aveva allora di più frequenti) concepii un ingegnoso sotterfugio. Domandato alla priora chi avrebbe preso cura della mia biancheria, ed avuto in risposta che le sue converse non avevano il tempo, ne feci un fagotto per mandarla in casa di mia madre, e nella cocca annodata di una pezzuola avvolsi un biglietto, col quale chiesi contezza di ciò ch'ella aveva operato per me. La biancheria mi veniva restituita tre giorni dopo; e nello stesso nodo trovai la risposta. Scriveva mia madre: «Avere parlato col re ed anche colla regina: entrambi aver detto doversi la faccenda trattar piuttosto coll'arcivescovo, non essendo use le Loro Maestà d'immischiarsi in affari di Chiesa: credere del rimanente le medesime, che il suonare l'organo o il cantare i vespri fosse occupazione più confacevole ad una monaca, che non il cospirare all'aria aperta coi nemici del trono e dell'altare.» Verun dubbio dunque restava; non più un solo, ma due poteri locali mi tenevan dietro: la polizia e l'arcivescovado. A dire il vero, i sospetti della polizia borbonica non erano ingiusti. Sortito avendo dalla natura bollenti passioni, immaginazione mobile, volontà forte abbastanza da lottare contro le seduzioni del sentimento e contro la corrente delle abitudini, io ho mirato alla reintegrazione della libertà nella terra nativa, prima ancora che la storia romana e gli annali delle nostre repubbliche mi avessero ammaestrato sui destini di essa. I libri, i giornali, il consorzio degli uomini di tempera vigorosa, soprattutto l'ammirando esempio degli altri popoli più di noi inoltrati nella carriera della civiltà, fecero divampare nell'animo mio quel fuoco sacro dell'amor patrio. Da quel punto presi ad esecrare l'aquila imperiale, e i principotti suoi satelliti, e la depravazione del nostro sacerdozio e la strisciante cortigianeria dei nostri baroni con quell'odio stesso, odio inesorabile, con che i Saraceni furono detestati dagli Spagnuoli e i Turchi da' Greci e i Russi da' Polacchi e la pirateria barbaresca da tutta quanta la cristianità. Nè, ambiziosa d'aggregarmi pur io all'apostolato di sì nobile missione, cessai d'allora in poi di cercare all'ombra della cocolla quel centro occulto di operazioni, che metter potesse in esercizio la mia operosità. Picchiai lungamente senz'aver risposta, ma finalmente mi venne aperto. Scorsero allora per me momenti d'esaltazione e d'entusiasmo, nei quali ebbi l'arroganza di credere, che se tutte le donne pensassero e sentissero a modo mio, neppure una sola oste barbarica sarebbe mai calata in Italia, od almeno l'Italia l'avrebbe da lungo tempo finita coll'opera devastatrice dei tiranni. Non erano dunque privi di fondamento i sospetti della polizia; ma chi l'aveva messa sulle mie traccie? Io non lo so, nè m'importa saperlo. Comunque siasi, io perdeva l'ultima speranza di riveder la luce. A questi motivi di sconforto un altro e più irritante mi sopravvenne. Reluttando agli ordini replicati della curia di rindossare l'abito monastico, io ricevei l'ordne perentorio di riprendere lo scapolare entro tre giorni, sotto l'alternativa di vedermi confinata in un ritiro di provincia, e passare il resto della mia vita nella separazione illimitata da' parenti e dal mondo. Rindossare quell'odiata insegna dell'inerzia, dell'ignoranza, dell'egoismo inalzato a dignità di dottrina! Ricadere per sempre, e senza speranza di riscatto, sotto la verga d'un'ignorante, fanatica badessa! Seppellire nel marciume d'un chiostro murato e ferrato la voce della ragione, del cuore e della volontà! A questa orribile idea la mia povera mente, già sconcertata, subì l'ultimo crollo. Ho detto che in un ripostiglio del mio baule stava nascosta qualche cosa, che sfuggì alla perquisizione de' preti. Quel segreto conteneva un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola, oggetti appartenenti ad un mio cognato, e da lui a me dati in deposito sin da quando io dimorava nel conservatorio di Costantinopoli. Era la notte del 16 luglio, un'ora prima della mezzanotte. Dopo d'aver piegato il ginocchio appiè del letto e innalzata la preghiera de' moribondi al Dio della misericordia, scrissi l'ultima lettera a mia madre, lettera palpitante di affetti e tutta bagnata di lagrime. Io le diceva: ..................................................................................................... «Ah, all'enormità delle mie pene non presterà fede, se non chi ne abbia provata una parte! Esistere e credere di sognare: quel perpetuo affannarsi a sormontare il cavallone che v'incalza, e sta per ingoiarvi, senza speranza alcuna di riguadagnar la riva: quell'essere sepolto vivo e risvegliarsi inchiodato nel buio della bara, ah, mamma, credetemi, sono tormenti atroci! » Cara mamma, questa vita che voi mi deste, altro non è più per me che un supplizio. Che vale l'esistenza, se è cieca di libertà e di coscienza, se è condannata all'atrofia, mentre le altre creature di Dio respirano il nativo elemento, libere, prospere e sane quanto gli uccelli dell'aria? Siate perciò la prima a perdonarmi, e vogliate difendere la mia memoria, quando l'unica traccia, che lascerò al mondo di me, sarà la vostra commiserazione!» Terminata la lettera, che, tutta bagnata di lagrime, deposi aperta sul tavolino, aprii il baule, e tratto dal segreto lo stile, mi ferii il fianco.... - Oh, tu che leggi, non mi condannare! compiangimi; rianda colla mente tutti i miei patimenti, mettiti nel mio miserissimo stato, e piangi con me, che pure scrivendo di questo orribile momento, mi sento profondamente commossa. Ah sì, io avevo tanto patito e patito, che il lume della ragione era spento! Perdonami, lettore, come spero m'abbia perdonato Iddio! Il polso debole e tremante diede poca forza al colpo: una stecca di balena fece scivolare il ferro, che strisciando sulla pelle, la sfiorò. Avrei forse rinnovato il colpo, ma l'orrore e il ribrezzo che mi fece il freddo della lama, mi risvegliò da quel delirio. Non fa parte della legge divina anche l'istinto della propria conservazione? La voce interna che al disperato grida: Consèrvati! - non è forse quella d'un angelo custode, che il cielo invia? Lo stile mi cadde di mano: io mi posi tutta tremante a sedere. Non era scritto che dovessi morire, in un accesso di demenza, omicida di me medesima. Vissi, piansi, patii ancora; e ne sia lode alla divina Provvidenza, io sopravvissi a quell'èra d'ignominia e di servaggio! Nuovi tormenti m'aspettavano. Non paghi i preti d'avermi costretta ad incapperucciarmi nuovamente, vollero pur menarmi per confessore un religioso di loro fiducia, il padre Quaranta, Agostiniano. Trattandosi d'un'anima dannata, la cui conversione non avrebbe forse mancato d'essere ascritta a miracolo, scelsero quel religioso, come colui che, salito in grido d'ineluttabile facondia e in odore di santità, di leggieri avrebbe vinta qualunque resistenza. Risolvei di non portarmi al confessionale. Quaranta mi fu condotto in camera tutti i giorni, a mio dispetto, e ad ore indeterminate. Era egli un vecchierello smemorato, navigante a gonfie vele alla volta dell'imbecillità, il quale, troppo occupato del fervorino che recitava tutto d'un fiato e a modo di scatola musicale, dimenticava da un momento all'altro le mie obiezioni. Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i beneci effetti dell'ultima crisi nella mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta. "Poichè tanto lo decantate, tenetevelo per voi," risposi al prete superiore; "se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta." La priora m'aveva tenuto parole d'un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir Messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano. Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d'illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l'incombenza, purchè non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana. Gli feci sapere ch'io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne. Ma la scelta di quell'egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina. Ne conseguiva che diametralmente opposta a' sentimenti del subalterno essendo la condotta de' superiori, indarno avrebbero questi tentato di penetrare per mezzo del confessore nell'anima della penitente. Senonchè, vergognosi essi stessi d'una disapprovazione che nulla poteva giustificare, furono più tardi costretti a rivocarla; e per tal modo, ne' sinceri conforti profusimi da quel buon vecchio, ebbi la prova consolante che il Cielo non mi aveva del tutto ritirata la sua clemenza. Ma lo ripeto, un malanno porta l'altro. Il generale Salluzzi, che in tante e tante occasioni mi aveva dato prove di paterno affetto, fu, dopo gli ultimi avvenimenti, sì severamente redarguito per la protezione che accordava ad una monaca cospirante contro il principe e ribelle ai voleri della Chiesa, ch'ei non osò più chiamarsi amico mio. Oltre questa perdita, che m'arrecò non piccola mortificazione, il re mi sospese ancora un assegno di annui ducati 60, ultimo mezzo del mio sostentamento. Di lì in poi, nonostante i sussidi della famiglia, furono molte le mie ristrettezze. Obbligata a farmi tutto da me stessa, benchè non assuefatta, per un'estate intera mi ristrinsi al solo pane, e per companatico a qualche frutta, serbando la carne alle domeniche. In quanto alla mia sequestrazione, essa fu completa nei primi sei mesi. Ad eccezione del medico che in sul principio mi visitò, non mi venne fatto vedere per quel tratto di tempo altra figura umana, fuorchè quella sgradevole di preti, di monaci e di monache; cosa che mi costrinse a carcerarmi nella propria stanza, e mi ridusse al compiuto isolamento. Un solo filo di comunicazione mi conservava ancora in relazione col mondo di fuori: era l'involto della biancheria, prezioso messaggiero e confidente, che mi tratteneva in sicuro carteggio con la madre. Coll'aiuto di pochi e scelti libri quale noia non si rompe, quale tristezza non si dissipa, qual muto orrore non è rianimato? Defraudata di quest'innocuo sollievo, mi fu giuocoforza ricorrere alla lettura che fornirmi poteva Mondragone. Nè mi pento d'averla accettata, anzi conserverò particolare memoria della Vita delle sante Martiri che vi trovai: libro interessante che ho letto riletto più volte con edificazione e diletto grande. La casta poesia, il puro e santo zelo di quell'èra cristiana mi serviva di calmante nella lotta interna che m'agitava. Ammirabile secolo di riscatto, in cui la donna, da ardente fede, da speranza, da carità sublimata, non solamente contese all'uomo il privilegio dell'eroismo, ma col sagrifizio della giovinezza, della beltà, degli averi, e della stessa esistenza, colla pratica d'ogni virtù seppe ancora eclissare e modestia di gerarchi, e dottrine di scuola, ed elucubrazioni di teologi. Chi può negare che uno fra i più maravigliosi prodigi della rivelazione sia questa novella devozione della donna alla riforma della società, al rinnovamento del genere umano? E questa fede, quest'abnegazione, che trae la femmina dal gineceo, per menarla gloriosa sul rogo, non è ella già degna di ammirazione, più che non lo sia l'eroismo, in grazia del quale sono i nomi d'Epaminonda e di Scipione celebrati nelle pagine di Plutarco? Questi e non altri esemplari vorrei che con mano diurna e notturna svolgessero le nostre giovinette! Che non oserebbe, a che non riuscirebbe anche la donna de' nostri giorni se quella fede pigliando per modello, deponesse, quasi offerta di primizie, il fiore degli affetti sull'altare della patria? Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l'animo, m'isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili! Ecco come mi rialzerete dall'inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell'incivilimento! Nelle ore d'ozio (e quante non ne dovetti passare in più di tre anni d'assoluto sequestramento!) materia di grata distrazione mi somministrarono gl'insetti, soli viventi compagni del mio deserto. Quante ore non passai assorta all'isocrono rosicchiare del tarlo nel fracido tavolato delle porte e del soffitto! Quante volte non tesi lungamente l'orecchio a' gorgheggi d'un canarino, la cui prigione, per quanto facessi, non m'era dato di discernere, ma la pazienza e la giubilante superiorità del quale io invidiava dal fondo del cuore! In tempo d'estate e d'autunno una porzione del mio scarso pane era religiosamente riservata alle formiche. Adescate dalla mia ospitalità, esse affluivano in differenti repubbliche e sotto capi differenti nella mia stanza, ne prendevano imperturbato possesso, si aprivano ingressi ed uscite a piacimento, montavano in lunga schiera su per le pareti, o in diverse tribù affollandosi a me d'intorno, facevano a gara l'una coll'altra per la briciola che porgeva loro. Altra volta mi divertiva, a guisa di Silvio Pellico, a contemplare la lotta della mosca caduta nelle granfie del ragno, e a quella vista ricordava la massima di Anacarsi: «che la giustizia d el principe è tale di ragno: i piccoli insetti vi restano avviluppati e catturati, i grossi la squarciano e se ne vanno.» - In tempo d'inverno poi, quello che più d'ogni altro m'aiutò a passare le lunghe ed insonni nottate fu l'esercizio mnemotecnico. A forza di moltiplicare a mente de'numeri determinati, corroborai talmente la memoria che pervenni a trovare il prodotto di due fattori di cinque cifre ciascuno. Ma riprendiamo il filo del racconto. Era già molto tempo che procedeva regolarmente il carteggio clandestino, quando m'accade di trovare nel nodo della pezzuola un dispaccio del seguente tenore: «Cerca d'ottenere un abboccamento dal nunzio apostolico: è persona dabbene. Lo potrai fare per lettera, che manderai a me.» L'abboccamento fu domandato, e prestamente ottenuto. Il nunzio venne a Mondragone non sì tosto ebbe ricevuta la mia lettera. All'annunzio della visita d'un funzionario tanto eminente della Santa Sede tutto il ritiro andò in trambusto. La priora, propensa ad arrogarsi l'onore della visita, corse precipitosa al parlatorio. Ma quale fu il suo stupore sentendo che il ministro del Sommo Pontefice domandava della sua prigioniera! Nell'incertezza se dovesse farmi scendere al parlatorio, o piuttosto rispettare la proibizione, la povera donna rimase di sasso, nè seppe che rispondere al funzionario. Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscíi ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tuono altiero alla priora: "Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego." Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce: "E se fosse pazza un'altra volta?" Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece le più alte maraviglie al racconto della mia Odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l'aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l'immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore. Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache. Approssimatami al crocchio: "Non vi date pena dell'avvenuto," dissi sorridendo alla prepositessa: "mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io." Non riusciva nuova alla priora quest'aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l'abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l'impertinente.» La priora fece nota al prete superiore l'avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme. Lo ricevei seduta ridendo, guardandolo a traverso, e dondolando una gamba sull'altra: "Chi vi ha dato l'ardire di scendere al parlatorio, nonostante gli ordini dell'arcivescovo?" "Ardire fa rima con dormire," risposi. "Sapete, mannaggia! che avendo fatto i voti, dovete prestare cieca ubbidienza a' superiori che Dio vi ha dato?" "Presso quale Evangelista si trova scritto che il Nostro Signore m'abbia dato per superiore il reverendo cavaliere Don Pietro Calandrelli?" "Io sono vostro superiore in nome della santa Chiesa cattolica." "Che cosa intendete per Chiesa cattolica?" "Intendo, signora mia, la padrona dei re, la rappresentante di Dio sulla terra: dico la Santa Sede, e l'intero cattolicismo che le ubbidisce." "Non credo nella Santa Sede, con vostro buon permesso." "Dunque voi non siete cattolica?" "Se quello che voi chiamate cattolicismo in mano al papa, ai cardinali, ad altri vescovi e preti non dovesse essere altro che un mezzo d'industria, una macchina d'ignoranza e di servaggio, per fermo, io non sarei cattolica!" "Che cosa dunque sareste?" "Cristiana; e ci guadagnerei un tanto." "Uh, che orrore, che orrore!" gridò: "Sareste voi protestante?" "Scismatica?" soggiunse la priora. "Nè l'uno, nè l'altro," ripresi io; "sarò cristiana di quel rito che favorirà la civiltà, il benessere, la libertà de' popoli. Ecco la fede mia, che pur sarà la fede dell'avvenire." "Voi siete una religiosa empia e sacrilega! - Signora priora, vi raccomando di badare bene, che il contagio di tali opinioni sataniche non infetti le giovanette innocenti del ritiro." "Non temete," soggiunsi io: "qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me." Ben lontano però eravamo ancora da tale meta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poichè Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano: "Maronna delle Grazie, salva l'anima sua! Dio mio, convertila!" Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si potè sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l'inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di decenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell'ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni. Ma io che m'aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio. Nella piega d'un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall'impazienza, schiuse il corpo del delitto. "Finalmente," disse alla priora, "il topo è nella trappola!" E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a leggere ad alta voce.... Alla quarta linea divenne pallido; a mezza lettera gli morì la voce fra i denti: e seguitò a leggere solamente cogli occhi; In quel foglio io aveva scritto di lui ogni ben di Dio: gli davo dell'impudente, dell'ubriacone, del seduttore, del tanghero; eravi, fra le altre cose, ricordato un fatto vero: cioè, che venendo ogni dopo pranzo avvinazzato, egli chiamava ora l'una ora l'altra delle monacelle nella propria stanza, e vi rimaneva lungo tempo da solo a solo col pretesto di farsi aiutare a recitare l'uffizio. La lista del bucato terminava col seguente epigramma:

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Una suora giovane, tarchiata, brunetta, dagli occhi vispi, dal riso pronto, tiratami in disparte: "Spero," mi disse, "che di quanto abbiamo discorso, e saremo per discorrere in seguito, non ne vorrai far cenno alla badessa tua zia." Venuto l'indomani il confessore, e fattolo partecipe delle pene che mi angosciavano, egli mi dichiarò che nel monastero faceva mestieri comunicarsi quasi tutti i giorni. Lo supplicai di volermi esentare da tale usanza, credendo di non potermi accostare al divino benefizio, senza far precedere la confessione. Ebbi in risposta, che sul principio almeno dovessi comunicarmi due volte per ogni settimana: più tardi poi mi sarei conformata alla comune consuetudine. Poichè scesi nel comunichino, la conversa di mia zia Lucrezia suonò il campanello per far venire il prete colla pissida. Era un uomo di 50 anni incirca, di forte corporatura, rubicondo in faccia, con un tipo di fisonomia altrettanto volgare quanto ributtante. M'appressai al finestrino per ricevere l'ostia, chiusi naturalmente tenendo gli occhi. Posta che mi fu sulla lingua la particola, e nell'atto stesso di ritirarmi addietro, sentii sulla guancia diritta l'impressione d'una mano che mi carezzava. Aprii gli occhi; il prete aveva già ritirate le dita.- Credetti d'essermi ingannata, nè ci pensai più. Al giorno della seconda comunione, dimentica di quanto era avvenuto nella prima, io riceveva la particola ad occhi chiusi, secondo il precetto. Questa volta sentii stringere leggermente il mento, e nel riaprire gli occhi, vidi il prete guardarmi fiso fiso, e colle labbra propense all'ilarità. Non vi era più dubbio: la carezza della prima, la stretta della seconda volta non erano effetto del caso. La donna, figlia d'Eva, è più dell'uomo punta dalla curiosità. Mi venne in mente di collocarmi in un sito appartato, donde potessi scorgere se il prete libertino soleva far lo stesso alle monache; lo feci, e rimasi convinta, che le sole vecchie andavano immuni da quella carezza; tutte le altre lo lasciavano fare a suo agio, anzi nel dipartirsi gli facevano la riverenza. - È questo il rispetto, dissi fra me, che i ministri e le spose del Signore hanno pel sacramento dell’Eucarestia? Lasciano dunque il mondo le educande, per venire a prendere in questa scuola siffatte lezioni di costumatezza e di castità! La sfera frattanto del mio isolamento ristringevasi di giorno in giorno. La mia perseveranza nel dichiarare di non volermi monacare irritava le religiose tutte. Esse, concordi in questo disegno, davano la colpa al mio confessore che, a loro dire, non sapeva, persuadermi ad abbracciare la vita claustrale. "No, non è buono per te quel confessore," mi andavano ripetendo; "e la prova patente della sua incapacità fassi vedere nella brevissima durata della sua operazione. Egli ascolta, e non parla; dunque, privo di spontanea attività, si contiene in uno stato di passiva udizione. Ti ha egli, per esempio, significata la diversità che passa fra la vita dei mondani, la cui maggior parte piomba nell'ombre eterne, e quella dei religiosi, che quasi tutti si salvano?" Le monache non si davano pace: questa mi esortava di qua, quella mi catechizzava di là, tutte dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione tiravano argomenti, onde esorcizzare lo spirito maligno che m'ispirava avversione insormontabile per la loro società. Una fra le altre, chiamata Maddalena, la più fanatica, veniva ogni sera nella stanza della zia Lucrezia, coll'intento di convertirmi a tutto costo. Poichè vide anche questa tornati infruttuosi gli assalti sofistici della sua logica, "Vuoi farmi un piacere?" mi disse. "Parla," risposi. "Attendo domani il mio confessore; quel canonico ha la dottrina di san Tommaso d'Aquino e le virtù di san Francesco Caracciolo tuo progenitore. Una conferenza con lui ti strapperebbe certo dall'ostinazione che t'abbrutisce." "Ma, santo Dio! che cosa dovrò dirgli?" "Gli esporrai le ragioni per cui abborrisci lo stato monastico, e udrai le sue risposte." Conoscendo ch'io non aveva intenzione di arrendermi, "Sai tu," soggiunse, "che Iddio, avendoti allontanata dal mondo per farti entrare in questo santo rifugio, ti ha data una prova di bontà, affinchè molte altre donzelle tue pari ne possano profittare? Egli un giorno ti chiederà conto del disprezzo mostrato all'immenso suo benefizio. D'altronde, non è egli meglio purgare la coscienza dagli scrupoli, consigliandoti coi servi di Dio? Almeno, compito quest'ultimo dovere, la Provvidenza non ti biasimerà d'incuria, se persisterai nel tuo proponimento." Cotesti ragionamenti reiterati tutte le sere con crescente incalzare di loquacità, l'atmosfera oppressiva del chiostro, la mia giovanile età, l'ignoranza della pretesca e della monacale impostura, infine l'educazione, che mi rendeva pieghevole ai superiori e cortese con tutti, mi fecero condiscendere alle sue premure. La mattina seguente Maddalena mi conduceva gongolante di gioia dal suo dotto reverendo. L'esultanza e la sollecitudine di quella monaca mi parvero un indizio rassicurante. - Se nelle sue relazioni col prete, mi dissi, vi fosse per avventura alcun che d'equivoco, m'avrebbe ella fatta di sì buon grado compartecipe della sua felicità? - "Non sei curiosa di vedere l'effetto d'un'efficace confessione?" mi domandò essa, qualche momento prima d'introdurmi nel gabinetto. "Curiosa in superlativo grado!" risposi sorridendo. Ed infatti, la situazione mia somigliava a quella d'una sepolta viva, che, ridesta dal letargo, va brancolando intorno alle tenebrose catacombe, ove si vede chiusa, in cerca d'un'eventuale uscita. Il canonico era un uomo di 40 anni, e aveva un aspetto pieno d'espressiva mobilità. Se non era un gesuita, nessuno più di lui sarebbe stato degno di divenirlo. Dopo molti complimenti e riverenze, mi domandò flebilmente il nome, l'età, la condizione, e simili altri particolari. Poi, piegando l'una gamba sull'altra e stropicciandosi le mani, mi disse: "Suppongo, signorina, che abbiate deliberato di farvi monaca." "No, reverendo." "E perchè?" "Perchè la clausura m'opprimerebbe soverchiamente." "Coll'andar del tempo vi abituerete a questa dolce prigionia per modo da non potervene più separare. Non siete dunque entrata di vostro piacere nel convento?" "No; forzata da mia madre." "Ah, forzata dalla mamma! (breve pausa, durante la quale il prete sembrò immerso in profonda meditazione). Ditemi un po', signorina, avete mai fatto all'amore?" "Due volte." "Qual era il vostro fine nell'amoreggiare?" "Sposare l'oggetto amato." "Questo, e null'altro? Vogliate aprirmi senza riserva il vostro cuore." "Non ho avuto per mira che il solo matrimonio." "Avete inviate o ricevute lettere da' vostri amanti?" "Mai." (mi ricordai del viglietto di Domenico) "Avete avuto ambasciate verbali?" "Neppure." (oziose interrogazioni!) "Come dunque hanno avuto termine i vostri amori?" "Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

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