Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204881
Metz, Vittorio 4 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Mentre Raul e il capitano Squacqueras si avvicinano alla buia sagoma del tempio incas che si stagliava contro il cielo illuminato da una mezza luna, poiché come autori e lettori abbiamo il privilegio di essere invisibili agli occhi dei protagonisti dei romanzi, approfittiamone per penetrare nel tempio senza pericolo di ricevere una botta in testa all'improvviso. Già, perché il tempio del dio Quetzatlcoal (che razza di nomi vanno a trovare in America per i loro antichi dei! Viva la faccia dei nostri antenati antichi romani che chiamavano i loro Giove, Minerva, Giunone, Apollo o Venere e non con dei nomi che sembrano un refuso tipografico), il tempio del dio ecc, ecc. (non abbiamo nessuna voglia di tornare indietro a vedere come diavolo lo abbiamo scritto) era abitato. Infatti nell'interno del tempio, davanti ad una statua riproducente ancora una volta il serpente piumato, un gruppo di incas seguiva attentamente le manovre di un signore in abito sacerdotale che sopra un altare di pietra si stava preparando a tagliare il collo ad un tacchino. E seguivano i suoi movimenti con grande attenzione non perché temessero che si mangiasse il gallinaccio tutto lui, ma perché l'uccisione di quel volatile costituiva una cerimonia sacra, in sostituzione dell'abituale sacrificio umano in uso fra quelle antiche popolazioni, dato che nessuno degli incas presenti, maschi o femmine, si era offerto gentilmente per farsi tagliare la gola dal coltello di pietra del sacerdote. E c'è da capirli perché ormai gli incas, quasi completamente distrutti dagli spagnoli, erano rimasti in pochissimi e alla pelle ci tenevano estremamente se non altro per la continuazione della stirpe. Il gran sacerdote, tagliato il collo al tacchino nonostante le vive proteste del povero gallinaceo, aveva appena incominciato a spennarlo con una velocità che denotava in lui una grande pratica in questo genere di esercizio, quando arrivò di corsa una fanciulla vestita da sacerdotessa. "Gran sacerdote," annunciò "due stranieri vestiti da ufficiali spagnoli stanno attraversando la città morta, venendo verso il tempio..." Veramente non disse proprio così, ma emise soltanto una serie di suoni gutturali che avevano appunto questo significato. E noi approfittiamo ancora una volta della nostra facoltà di scrittori di tradurre tutte le lingue vive o morte di questo mondo, per fingere di aver capito tutto e riferirlo al lettore. "Maledetti!" esclamò il gran sacerdote serrando le pugna. "Non sono ancora sazi d'oro!" "Credi che essi sappiano che nei sotterranei del nostro tempio è nascosto il favoloso tesoro che i nostri padri hanno trasportato qui dal lontano Perù "Gran sacerdote," annunciò "due stranieri vestiti da ufficiali..." per sottrarlo all'avidità dei conquistadores?" "Questo no!" rispose il gran sacerdote."Comunque potrebbero trovarlo se si mettessero a frugare nel tempio..." "Bisognerebbe impedir loro di entrare" suggerì la sacerdotessa. "Ahimè, gli spagnoli hanno armi d'acciaio, mentre le nostre o sono di legno-ferro, o sono d'oro che è un metallo tenero... È per questo che i nostri padri comandati dal povero Montezuma sono stati sconfitti da quel maledetto Pizzarro... No, no, lasciamoli entrare..." "Per ucciderli nel sonno?" domandò la sacerdotessa con un lampo crudele negli occhi. "Non occorre ucciderli" rispose il sacerdote mentre una scintilla di malizia si accendeva nei suoi occhi. "Li spaventeremo a tal punto che non soltanto fuggiranno via da questo luogo, ma riferiranno agli altri spagnoli che in questo tempio ci sono gli spiriti maligni... Così nessuno verrà ad importunarci e il favoloso tesoro degli incas sarà al sicuro... Andiamo, ragazzi!" Fece per avviarsi verso una porta che conduceva nei sotterranei, quando ci ripensò e tornato verso l'altare acciuffò il tacchino, esclamando: "E questo jelo lasciavo qui? Ma che sso'matto? Questo me lo pappo io, me lo pappo!" E uscì seguito dagli altri. Non vi meravigliate se l'ultima battuta il sacerdote l'ha pronunciata in dialetto romanesco, ma sembra che gli antichi incas lo parlassero correntemente. Infatti, una volta, visitando Cinecittà, abbiamo sentito un gran sacerdote incas parlare con perfetto accento trasteverino, senza che il regista lo riprendesse minimamente. Gli incas erano appena scomparsi oltre la porta, che dall'ingresso del tempio entrò Raul il quale, convinto che il capitano Squacqueras fosse dietro di lui, stava parlando da solo come uno scemo. "Avevo ragione... Si tratta proprio di un tempio incaico... Guardate quel mostro felino-gorgonico in ceramica colorata... È simile a quelli che ho veduto in un mio recente viaggio nel Perù meridionale... E guardate quel sole che rappresenta il totem degli incas, come il puma rappresentava quello dei chanca e lo smeraldo dei manta..." Poiché il capitano non gli rispondeva, Raul si voltò e non vedendo nessuno si mise a chiamare in tono irritato: "Capitano Squacqueras! Capitano!" Il capitano Squacqueras fece prudentemente capolino dalla porta principale del tempio. "Cosa c'è?" domandò cautamente. "Perché non venite avanti?" gli domandò Raul. "Sto indietro" rispose il capitano Squacqueras "per guardarvi meglio le spalle..." "Non ce n'è bisogno!" lo rimbeccò Raul. "Il tempio è deserto... E, come vi stavo dicendo, si tratta proprio di un tempio degli antichi incas." Indicò la statua del dio. "Infatti" continuò "vedete? È dedicato a Quetzaticoal, dio dell'aria..." Poiché il capitano che era venuto un po'in avanti, approfittando del fatto che Raul si era voltato per indicargli l'idolo, stava cercando di riguadagnare la porta, Raul lo richiamò indietro. "Be', e adesso dove andate?" "Visto che il tempio è dedicato al dio dell'aria, vado a prendere una boccata d'aria" rispose il capitano Squacqueras. "Tanto per gradire i prodotti del luogo, no?" "Non vorrete farmi credere, spero, che avete paura di qualche idolo di pietra..." disse Raul disgustato. "Non possono farvi alcun male..." "Fate che vi cadano sopra un piede e poi vedrete se fanno male o no!" "Comunque," disse Raul "noi ci accampiamo qui..." Rabbrividì leggermente. "Però" osservò "fa freddo... Bisognerebbe accendere un bel fuoco..." Vide della legna accatastata in un angolo, presso l'altare del sacrificio. "Oh!" esclamò. "Qui c'è della legna... Aiutatemi a raccoglierla e a farne un bel mucchio, qui..." Mentre il capitano Squacqueras lo aiutava nella bisogna, Raul si guardò intorno. "Ecco, così!" disse, smettendo di accatastare la legna... "E adesso, andiamo a vedere se riusciamo a trovare qualche cosa da mangiare..." Fece per avviarsi verso la porta interna dalla quale poco prima erano usciti gli incas. Il capitano che, evidentemente, non aveva nessuna voglia di addentrarsi ancora di più nei bui meandri del tempio, tentò di tergiversare. "In un tempio abbandonato?" obiettò. "E che cosa si può trovare da mangiare in un tempio abbandonato? Soltanto qualche colonna... E io, a dire la verità, le colonne le trovo un po'pesanti..." "Qualche tacchino selvatico potrebbe aver fatto il suo nido qua dentro, quindi ci potrebbero essere delle uova" disse Raul. "Oppure ci potrebbe essere ancora del mais..." "Mais? Mais mangiato mais in vita mia!" "Il mais è il granoturco... E il granoturco si conserva a lungo... Chi ha abbandonato questo tempio potrebbe averne lasciate delle provviste..." gli espose pazientemente Raul."Il granoturco si può macinare e farne della polenta..." "Polenta? Molto bene!" esclamò il capitano Squacqueras."La polenta non mi dispiace, soprattutto se è un po' lenta... Sì, la polenta un po' lenta, mi piace... Vamos!" I due scomparvero oltre la porta interna mentre dall'ingresso entravano l'uno dietro l'altro Giovanna con la spada snudata, il maggiordomo Battista, Nicolino e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. "Qui non c'è nessuno..." disse Giovanna, parlando a bassa voce. "E allora è meglio che non ci stiamo nemmeno noi..." disse Nicolino, che non aveva meno paura di quel luogo del capitano Squacqueras. "Andiamocene!" "Ma allora" domandò Giovanna a Battista" i nostri guerrieri indiani dove diavolo si sono cacciati?" "Mi sia consentito il dire" disse Battista" che forse, spaventati alla vista delle rovine di questa città morta che molto probabilmente essi credono abitate dagli spiriti maligni, se la siano, mi si permetta la parola, squagliata..." "Pensare che sembravano così contenti di seguirci a Maracaibo per prendere d'assalto la città" esclamò Giovanna. "Comunque è stata una fortuna trovare questo tempio abbandonato sulla nostra strada... Siamo al coperto e potremo riposare in santa pace..." "Eh, giusto in santa pace" balbettò Nicolino. "Qui mi sembra di essere in un ci... ci... ci... ci..." Spaventato dal suono della sua stessa voce, Nicolino sobbalzò, gridando: "Mamma mia, la civetta!" "Ma no" lo rassicurò Jolanda. "Siete voi che balbettate!" "Ah, già è vero" disse Nicolino un po' rassicurato, ma non troppo. "Dicevo che mi sembra di stare in un cimitero qui, con tutte queste statue... Perché non ce ne andiamo?" "Se la nonna ha deciso che dobbiamo rimanere qui, è qui che bisogna fermarci" disse Jolanda. "Del resto" disse il maggiordomo "ti faccio osservare che è per colpa tua che abbiamo sbagliato strada..." "Colpa mia?" "Certamente... Tu che sei o per lo meno dovresti essere un vecchio lupo di mare ci avevi detto che per andare a nord bastava seguire la stella Venere..." "Come, Venere?" disse Nicolino. "Io ho detto la stella po... polare..." "E la stella popolare, quella nota a tutti, non è forse Venere, conosciuta anche come Vespero e Lucifero?" "Ma io" tentò di giustificarsi Nicolino "non volevo dire popolare, volevo dire po... polare..." "Appunto, Venere!" "Forse lui voleva dire la stella polare..." intervenne Jolanda. "È vero, nostromo?" Nicolino annuì vivacemente col capo. "Ecco, sì!" esclamò. "Ci mancava solo questo!" sbuffò il maggiordomo. "Possibile che devi balbettare sempre?" "Non sempre... So... solamente quando pa... parlo..." "E allora parla il meno che sia possibile!" lo ammonì Giovanna."E quando lo fai, cerca di non balbettare..." Quindi il maggiordomo, voltate le spalle al mortificato nostromo, si rivolse a Giovanna indicando il mucchio di legna fatto da Raul e dal capitano. "Signora contessa," disse "vedo che qui c'è della legna... Posso accendere il fuoco? Servirà per tenere lontane le belve..." "Certo, Battista, grazie... Tanto più che ho un po'di freddo..." Mentre Battista batteva l'acciarino per accendere il fuoco, Giovanna continuò: "E anche un po'd'appetito..." Battista smise di soffiare sulla piccola fiamma che cominciava a levarsi, crepitando, dal mucchio di legna e si alzò in piedi. "Provvedo subito, signora contessa... Spero di poter trovare tanto da riuscire ad improvvisare una piccola cena..." Nicolino, ancora mortificato per il rimprovero che gli avevano mosso poco prima i suoi compagni, intervenne timidamente: "Fuori," disse "ho visto delle piante cariche di comeri e poni..." Il maggiordomo, stupito, aggrottò le sopracciglia. "Comeri e poni?" ripeté. "Strano... Non ho mai sentito nominare dei frutti simili..." "Eppure ci sono" insistette Nicolino. "Li ho visti io... Comeri e poni..." "Non so proprio che cosa siano" disse il maggiordomo. 6. Giovanna "A meno che tu non voglia dire cocomeri e poponi..." Nicolino annuì con la testa, felice di essere stato capito. "Eh, sì!" esclamò. "Proprio quelli!" "E perché, allora, hai detto comeri e poni?" "Eh, già!" disse ingenuamente Nicolino. "Se dicevo cocomeri e poponi la contessa mi strillava perché non vuole che balbetti!" "Quosque tandem, Nicolino, abutere patientia nostra?" proferì gravemente Battista, alzando gli occhi al cielo. Quindi, rivolto alla vecchia: "Col suo permesso, vado a vedere, signora contessa..." "Vengo con voi, Battista" disse Giovanna."Vieni anche tu, Jolanda..." "E a me, mi lasciate solo?" balbettò Nicolino spaventato. "Vengo anch'io con voi!" I quattro uscirono all'esterno, mentre dalla porta che conduceva nei sotterranei entravano il giovane Raul e il capitano Squacqueras che trovarono il tempio vuoto. Essi portavano in due una specie di grosso paiolo di rame pieno d'acqua e delle uova di tacchina. "Avete visto, capitano?" disse Raul. "Un po'di uova le abbiamo trovate... Adesso..." Si interruppe vedendo il capitano che fissava il fuoco acceso con espressione spaventata. "Che c'è?" gli domandò. Poi avvedendosene anche lui: "To', il fuoco si è acceso da solo!" Il capitano Squacqueras si riscosse dal suo stupore e si avviò a passo svelto verso l'ingresso del tempio. "Proprio così, mio giovane amico" disse. "Io torno subito..." "Ma no, venite qui, capitano... Forse il fuoco lo avrò acceso io senza avvedermene..." "Me ne sarei accorto io, giovanotto... Quando vedo accendere un fuoco ci sto molto attento perché penso che ci sia qualcosa da mangiare..." "E allora," domandò Raul "come spiegate questa faccenda?" "È chiarissimo, giovanotto, chiarissimo..." E il capitano pronunciò rapidamente uno dei suoi soliti sillogismi: "Il fuoco si è acceso, acceso è il tramonto, il tramonto avviene al calar del sole, il sole illumina il nostro pianeta, il pianeta è della fortuna, la fortuna arride agli audaci, gli audaci non hanno paura di nulla, di nulla sono fatti gli spiriti, ergo: il fuoco è stato acceso dagli spiriti..." "Ma no, si tratterà di un caso di combustione spontanea... Approfittiamo che il fuoco è acceso per far cuocere queste uova..." Raul aiutato dal capitano collocò la pentola sul fuoco e ci mise dentro le uova. "Ecco fatto" disse. "E adesso torniamocene nei sotterranei..." "A che fare?" domandò il capitano. "Non mi piace andare sottoterra..." "Non piace a nessuno, ma dove sono le uova ci potrebbe essere anche la tacchina selvatica che le ha fatte..." "Le tacchine sono un po' piccole per il mio appetito" disse il capitano. "Ma le uova sono di tacchina, cosa sperate di poter trovare di diverso?" "Fra le tacchine ci può essere sempre qualche taccona" osservò il capitano. "Andiamo a vedere..." I due erano appena usciti per la porta che conduceva nei sotterranei, quando da quella che comunicava con la foresta vergine, rientrarono Giovanna con i suoi compagni. Mentre Nicolino aveva le braccia cariche di grossi frutti, Battista teneva una sorta di lucertolone per la coda. "Non sapevo che i cocomeri e i poponi crescessero in America" stava dicendo Jolanda. "Effettivamente" rispose Battista "il cocomero, il cui nome scientifico è Cucurbita citrullus, è una specie originaria dell'Africa meridionale, ma questi, che gli spagnoli chiamano angurie, crescono qui e il loro nome latino è Cucumis anguria... In quanto a questo altro frutto che il nostro Nicolino ha chiamato popone non avendo potuto, nel buio della foresta, vedere altro che le sue dimensioni e il suo colore arancione, si tratta effettivamente dell'ananas che rassomiglia più ad una pigna, come potete costatare, che ad un melone, tanto che gli spagnoli lo chiamano appunto piña." "Ma," domandò Nicolino "si mangia? Si mangia?" "Carlo V a cui fu portato dai primi esploratori del continente americano ne diffidò e non volle nemmeno assaggiarlo, ma Cristoforo Colombo, che ne mangiò, lo trovò squisito..." "Come fate a saperlo?" domandò Giovanna. "Cristoforo Colombo non ne ha fatto alcun cenno nei suoi diari..." "È una cosa di cui si parlava spesso nella nostra famiglia..." rispose Battista. "E come mai se ne parlava?" domandò Jolanda. "Cristoforo Colombo" dichiarò Battista con semplicità "era mio zio!" "Vostro zio!" esclamò Jolanda ammirata."Allora voi sareste..." "Don Battista Cristóbal Colón, duca del Cipango, grande ammiraglio per diritto ereditario dell'Oceano e cavaliere di Speron d'Oro..." "E vi siete ridotto a fare il cameriere!" "Come tutti sanno mio zio morì in miseria a Valladolid" disse Battista. "E poi facendo il cameriere ho scoperto anch'io un nuovo mondo: quello dell'umiltà e della rassegnazione!" "Nobile cuore!" esclamò Jolanda commossa. "Be'" disse Battista riscuotendosi. "Cambiamo discorso... È stata una vera fortuna che la signora contessa abbia potuto uccidere con un colpo di spada quest'iguana..." "Eh, sì," disse Nicolino "poteva morderci..." "Ma no!" esclamò il maggiordomo. "È stata una fortuna perché l'iguana è squisito..." "Co... come?" balbettò Nicolino. "Vorreste mangiare questo lucertolone schifoso?" "La sua carne è molto apprezzata dagli indios bravos" interloquì Giovanna. "Essi dicono che essa, quando sia lessata, ricordi quella del pollo..." "Bisogna vedere di che razza di pollo si tratta" disse Nicolino. "Può darsi che intendano parlare del pollo andato a male... Mangiano spesso la carne marcia quelli lì!" "Comunque, possiamo provare" propose Battista. "Peccato che non ci sia una pentola per farlo lesso... Be', adesso che succede?" domandò vedendo che Nicolino con gli occhi sbarrati stava guardando verso il fuoco. "C'è la pentola, c'è!" esclamò Nicolino. "Eccola lì..." Giovanna si avvicinò e guardò nel paiolo. "È vero," disse"e dentro ci sono delle uova... Chi può averle messe a bollire?" "Io dico che sono gli spiriti..." esclamò Nicolino. "Macché!" rispose Giovanna."Sarà stato qualche viandante. In fondo quello con cui incomincia questo romanzo, non si sa dove sia andato a finire..." "Mi sia consentito il dire" suggerì Battista "che forse quel viandante spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni potrebbe essere arrivato benissimo fin qui... E che forse si sta aggirando nei pressi in cerca di qualcosa da mangiare anche lui..." "Andiamo a vedere" disse con improvvisa decisione Giovanna. "Sono curiosa di conoscere finalmente uno di questi misteriosi viandanti... Intanto quest'acqua che bolle è proprio quello che ci vuole per cuocere l'iguana... Buttatelo dentro, Battista, e andiamo a fare il giro del tempio..." Il maggiordomo obbedì e Giovanna con Jolanda si avviò verso l'uscita, Anche il maggiordomo, sistemato l'iguana nella pentola, fece per andarsene, ma Nicolino gli si appiccicò alle costole. "Un momento," supplicò "non mi lasciare qui solo..." E uscì insieme a lui sulle piste di Giovanna. Immediatamente, dalla porta che conduceva nei sotterranei entrarono Raul e il capitano. Raul aveva in mano la grossa tacchina che abbiamo già visto maneggiare dal gran sacerdote degli incas. Costui, molto probabilmente, nel sentire avvicinarsi i due, si era nascosto abbandonando la tacchina spennata dove si trovava. "Che cosa vi avevo detto?" stava dicendo Raul. "Che ci doveva essere per forza qualche tacchina da queste parti... Però, non capisco come mai sia già morta e spennata..." "Forse," opinò il capitano, allegramente, "avvilita di essere diventata completamente calva si è suicidata..." Raul lo guardò con sorpresa: "Come?" esclamò. "Non avete più paura come poco fa? Non pensate più che possa essere stato qualche spirito?" "La carne fa quasi sempre dimenticare lo spirito" sentenziò il capitano Squacqueras. "Date qua, che la metto a bollire..." Tolse la tacchina dalle mani di Raul e stava per immergerla nella pentola, quando, nel guardarci dentro, sbarrò gli occhi farfugliando: "Oh, sant'Ambrogio! Aiuto!" "Che c'è?" domandò Raul avvicinandosi... Il capitano indicò a Raul l'iguana la cui testa mostruosa sporgeva dalla pentola e sembrava lo stesse fissando con i suoi occhi bianchi che erano schizzati fuori dalle orbite. "Un drago!" strillò il capitano con tutto il fiato che aveva in corpo."Un mostro che mi guarda!" "Ma no!" esclamò Raul. "È soltanto un innocuo iguana... È inoffensivo da vivo, figuriamoci così, mezzo cotto!" "E che cosa sta facendo là dentro? Il bagnetto?" "Sarà caduto nella pentola dal soffitto del tempio che è tutto rotto... Ce ne potrebbe cadere qualcuno in testa... Facciamo una bella cosa, capitano: andiamo di là, dove c'è il tetto sano..." Il capitano Squacqueras indicò le angurie e gli ananas. "Un drago!" strillò il capitano... "Qui ci sono anche delle frutta che prima non c'erano..." "Forse erano cresciute sul tetto e l'iguana, cadendo, se le è trascinate dietro... Comunque, siano le benvenute anche loro... Prendete su tutto e andiamo di là..." I due raccolsero le frutta e impugnarono la marmitta, il capitano per un manico, Raul per l'altro, ed uscirono dalla porta che conduceva nei sotterranei. Provenienti dall'esterno entrarono gli altri quattro. "Macché!" stava dicendo Giovanna. "Fuori non c'è nessuno..." "Si vede che quel viandante, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, è andato a finire in bocca a qualche giaguaro, signora contessa..." suggerì Battista. "La pepé!" disse Nicolino. "Cosa stai dicendo?" gli domandò Battista, guardandolo malamente. "La mammà!" farfugliò ancora Nicolino. "Il papà..." "Ma che diavolo dici?" gli dette sulla voce Battista. "La pe... pentola!" riuscì finalmente a spiccicare Nicolino."La ma... marmitta... Il pa... paiolo! Non c'è più... È sparito!" "E allora" concluse Giovanna "non c'è niente da fare, vuol dire che nel tempio c'è gente..." "Potrebbero essere il Corsaro Blu e il Doppio Barbanera Illustrato" esclamò Jolanda con la voce piena di speranza. "Sono scomparsi così misteriosamente dal villaggio indiano, quella sera!" "La pepé!" disse Nicolino. "Macché!" esclamò Giovanna. "Debbono essere morti, divorati dalle fiere..." "Spero di no, nonna!" disse Jolanda. "Se sono mo... morti è peggio" balbettò Nicolino "perché potrebbero essere i loro fantasmi..." "La cosa migliore da fare" decise Giovanna "è di cercarli dappertutto... Facciamo una cosa: dividiamoci... Io e Jolanda andiamo di qua," e così dicendo indicava una specie di cunicolo che scendeva a mezzo di una scala di pietra verso il basso, "Battista va ancora a vedere fuori..." "E io?" domandò Nicolino. "Voi restate qua" ordinò Giovanna. "E ci resto di sicuro se mi lasciate qui solo... Ci resto secco..." "Non fate lo sciocco, nostromo... Dovete restare qui per bloccare l'uscita del tempio..." E Giovanna, senza più curarsi del nostromo Nicolino, cominciò a scendere la scala, mentre Battista usciva all'esterno del tempio. Nicolino cadde a sedere su una pietra asciugandosi il sudore. "Oh, mamma mia!" gemeva piano piano. "Oh, mamma mia bella... Povero me!" Era così intento a compiangersi da non avvedersi che alle sue spalle una grossa pietra stava girando su dei cardini invisibili scoprendo un passaggio segreto nel cui vano apparve una figura gigantesca alta per lo meno due metri e mezzo, ricoperta da un lungo mantello intessuto di piume e con la testa di serpente. Accanto all'orripilante figura era la sacerdotessa che sussurrò: "È solo..." "Vado" disse l'orripilante figura che parlava con la voce del gran sacerdote avanzando verso Nicolino. Con un lungo stelo che aveva in mano prese a vellicare l'orecchio di Nicolino che, credendo si trattasse di un insetto, lo scostò con un gesto della mano borbottando: "È pure pieno di zanzare, qui... Però, almeno le zanzare sono vive... Volano, ronzano, ti succhiano il sangue..." Ci ripensò... "Ti succhiano il san..." ripeté "e se si trattasse di un vampiro?" Nicolino, terrorizzato, si voltò piano piano e si trovò davanti, improvvisamente, quella specie di spettro. Aprì la bocca per gridare ma nessun suono usciva dalla sua strozza. "A... a... a..." riuscì soltanto a dire dopo un enorme sforzo. "Maledetti sacrileghi!" tuonò invece la strana figura con voce sepolcrale. «Abbandonate subito questo tempio che avete profanato e lasciate dormire in pace le anime dei nostri morti!" Così detto si voltò e se ne andò maestosamente per dove era venuto. Nicolino avrebbe voluto gridare, ma se riuscì finalmente a dire "Aiuto" lo disse così sottovoce che non si sentiva affatto. "A... a... aiuto!" sussurrò. Finalmente, non riuscendo proprio a gridare, afferrò il suo fischietto da nostromo che gli pendeva dal collo e portatolo alle labbra ne trasse due o tre sibili tremolanti. Il maggiordomo Battista arrivò di corsa. "Ma che succede?" gli domandò. "Cosa credi di essere a bordo della Tonante?" "Un fa... fa... fa..." mugolò Nicolino. "Un fagiano?" "No, un fa... fa... fa..." "Un falco?" Nicolino fece disperati cenni di diniego. "Un fa... fa... fantasma!" esplose finalmente. «Ma fammi il piacere!" scattò Battista. "Avrai avuto un'allucinazione..." "Non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tre... tre... tre..." Poiché non riusciva a vincere l'impuntatura, Nicolino muoveva vivacemente la mano in su e in giù come se stesse giocando alla morra. Il maggiordomo, lì per lì, distratto, lo assecondò: "Quattro!" gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"

"Come se questo non bastasse," sospirò Jolanda "in questi quattro giorni di assedio abbiamo consumato tutti i viveri che erano nel tempio..." "E io" disse Nicolino "ho una fame da lupo... Oh, Dio, dov'è?" "Che cosa?" gli domandò Giovanna. "Il lupo..." "Lo avete nominato voi, imbecille!" "Ah, già!" esclamò Nicolino, rassicurato. Giovanna si rivolse al gran sacerdote. "È possibile" gli domandò "che siano finiti tutti i viveri qua dentro?" Il gran sacerdote incas, seduto in terra davanti ad un vaso di coccio, stava aspirando qualcosa per mezzo di una lunga canna. Egli sollevò la testa e soffiò fuori del fumo, rispondendo: "Finito tutto, vecchia di ferro... Ma a me non importa nulla..." E avvicinata una delle estremità della cannuccia al vaso di coccio, ne aspirò con voluttà una boccata di fumo. "Ehi, di'un po', gran sacerdote... Che stai facendo con quella cannuccia? Qualche magia?" gli domandò Giovanna, guardando le sue manovre con diffidenza. Il gran sacerdote indicò il vaso fumante. "No," rispose "ho messo qua dentro delle foglie secche e ne respiro il fumo... Ciò toglie l'appetito..." "E come si chiama questa pianta?" domandò Nicolino incuriosito. "Tabacco" rispose il gran sacerdote. "Se è vero quello che afferma quest'uomo," osservò il maggiordomo Battista "a portar questa pianta in Europa ci sarebbe da far fortuna..." "Macché, non attaccherebbe!" esclamò Giovanna. "Ve lo immaginate che cosa accadrebbe se le persone andassero in giro gettando fumo dalla bocca e dal naso come i draghi?" Nicolino si avvicinò al gran sacerdote. "Sentite, io adesso, siccome non ne posso più dalla fame, ci provo... Come si fa?" "Ecco, con questa cannuccia," rispose il gran sacerdote, porgendogliela, "aspira il fumo e gettalo fuori... Prova anche tu, vecchia di ferro..." Incuriosita, anche Giovanna si avvicinò e prese una cannuccia in mano. Gli altri fecero altrettanto. Nicolino provò ad aspirare il fumo, ma questo gli andò per traverso facendolo tossire maledettamente. "Aiuto!" esclamò con voce strozzata. "Soffoco!" Giovanna provò anche lei, riuscendo a fumare benissimo. "Ma no, mica male, invece" disse. "Riprovate e provate anche voi... Tu, no!" disse rivolta a Jolanda che aveva preso anche lei una cannuccia. "Non sta bene che una ragazza della tua età fumi..." "Mi sia consentito il dire che il fumo di questa erba distende i nervi" disse Battista "e placa effettivamente i morsi della fame..." "Visto che l'arrosto non c'è, bisognerà accontentarsi del fumo" disse filosoficamente Nicolino riprovando a fumare e riuscendo a tirare due o tre boccate. Un po'storditi dal fumo, i quattro non si avvidero che il gran sacerdote, la sacerdotessa e gli altri incas stavano approfittando della loro disattenzione per avvicinarsi alla porta segreta, far girare il sasso sui suoi invisibili cardini e uscire silenziosamente, mentre la porta di pietra si richiudeva dietro di loro. Sullo spiazzo del piccolo accampamento che i soldati spagnoli avevano improvvisato nei pressi del tempio per tenerne d'occhio la porta d'ingresso, il capitano Squacqueras, che aveva trovato delle grosse palle che sembravano di corno fra le rovine della città incas, si stava esercitando con Raul al gioco delle bocce. Lanciata la prima, aveva impugnato una palla più grande e aveva tentato di farla accostare al boccino, riuscendoci abbastanza bene, quando il boccino si aprì, tirò fuori quattro zampette e un musetto appuntito e si allontanò dalla boccia, tornando ad appallottolarsi poco lontano. "Eh, no!" esclamò il capitano Squacqueras, rivolto al giovane Raul."Qui si bara!" Un po'storditi dal fumo, i quattro non si avvidero... Si rese improvvisamente conto dell'enormità della faccenda e sbarrò gli occhi. "Ma quel boccino aveva la testa e le zampe," balbettò "e pure la coda." "Per la semplice ragione che non è un boccino, ma un animale" gli spiegò Raul ridendo. "E non mi dicevate nulla! Avrebbe potuto mordermi!" esclamò il capitano diventando pallido. "Si tratta soltanto di un innocuo armadillo" lo rassicurò Raul. "Si appallottola così rinchiudendosi nel proprio guscio semplicemente perché ha paura di voi." "Allora, siamo pari!" disse il capitano allontanandosi prudentemente dagli altri armadilli appallottolati che erano ammucchiati ai suoi piedi. In quella il sergente Manuel, con una mezza dozzina di soldati, si avvicinò spingendo davanti a sé il gran sacerdote degli incas e la sacerdotessa, mentre i soldati facevano altrettanto con gli altri incas. "Capitano!" chiamò. "Capitano!" "Che c'è?" domandò il capitano sobbalzando. "Abbiamo catturato questi nativi mentre sbucavano da un'apertura nascosta da quella specie di piramide. Un passaggio segreto, credo..." "Ah, sì? Ah, sì?" esclamò il capitano. "E dove conduce questo passaggio segreto?" domandò al gran sacerdote. "Nel tempio del dio dell'aria..." rispose il gran sacerdote. "Vogliamo provare ad entrare?" propose il sottufficiale. "Non credo che sia prudente," obiettò il capitano "dato che conduce al tempio del dio dell'aria, niente di più naturale che vi siano delle correnti..." "Potremmo penetrare nel tempio e prendere di sorpresa gli assediati" propose il sergente Manuel. "Io penso che sia meglio aspettare questa notte" opinò il giovane Raul... "Ecco, bravo!" approvò il capitano Squacqueras. "Aspettiamo la notte... La notte porta consiglio e il consiglio potrebbe essere quello che è meglio lasciare perdere e andarcene via di qui... Intanto, tenete d'occhio i prigionieri che non scappino... Da queste parti, la tentazione di scappare è forte, fortissima, direi quasi che è contagiosa... Andate e, in quanto a voi..." Si rivolse agli incas: "Machilei, bambu, tanchini, paraguai, sakanali" disse. "Cosa avete detto?" "Non lo so" rispose il capitano. "Quando parlo incaico non mi capisco..."

"Abbiamo affondato or non è guari tutta la flotta dei filibustieri e abbiamo purgato tutto il Caribeo da pirati, corsari, bucanieri, filibustieri e schiumatori dei mari..." "E l'esercito che assediava Maracaibo?" "Pol-ve-riz-za-to!" scandì il capitano Squacqueras. "Infatti, come potete constatare, appena arrivato qui mi sono dovuto cambiare perché i miei abiti erano ancora pieni di polvere..." "Ditelo al Viceré, capitano..." esclamò Trencabar, tutto contento, accompagnando il capitano verso il tronetto. "Il Viceré? Molto bene, benissimo!" esclamò il capitano. E avvicinatosi a don Miguel, lo interpellò con disinvoltura: "Come va, Vice Maestà?" "Perché mi chiamate Vice Maestà, capitano?" disse il Viceré in tono piuttosto seccato. "Oh, bella, se foste il Re vi chiamarci Maestà, ma siete il Viceré, come volete che vi chiami? Vice Maestà, oppure Vice Sire, Vice Monarca, e se preferite Vice Sacra Corona!" "Capitano," gli sussurrò il conte di Trencabar "gli spetta l'Altezza..." "Gli spetta l'altezza? In questo caso" esclamò il capitano osservando il Viceré che era piuttosto piccolo di statura "permettetemi di dire che non gliel'hanno data..." E il capitano rise a piena gola del suo scherzo, mentre il Viceré, toccato nel suo difetto, aggrottava sempre più le sopracciglia. Il capitano continuò: "Comunque, ho il piacere di comunicarvi, Altezza, che i corsari sono stati da me distrutti completamente e che il Mar dei Caraibi è stato decorsarizzato e depiratizzato completamente... Non più filibustieri, bucanieri e simili insetti, mercé il corsaricida Squacqueras!" Leggermente annoiato dalla lunga tirata del capitano, il Viceré sbadigliò portandosi educatamente una mano davanti alla bocca. "Bene," disse "vi ringrazio in nome di Sua Maestà il Re Cristianissimo per tutto ciò che avete fatto... Vedo con piacere che potrò dormire i miei sonni tranquillo... Giusto sono stanchissimo per il lungo viaggio..." Saltò giù dal trono, mentre il conte di Trencabar gli diceva premurosamente: "Vi accompagno nella vostra camera, Altezza..." "Buonanotte a tutti, signori" disse il Viceré, sbadigliando ancora. E si avviò dietro il governatore mentre gli invitati si inchinavano rispettosamente al suo passaggio. Con la scarsa educazione che lo distingueva, il capitano Squacqueras che si sentiva al centro dell'attenzione generale per il racconto che aveva fatto delle sue immaginarie imprese, gli gridò dietro: "Buonanotte, Altezza! E se sognate dei pirati, vuol dire che state male di stomaco perché di pirati non ce ne sono più".

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"Credo che abbiamo trovato ciò che stiamo cercando..." "Il favoloso tesoro degli incas?" domandò il Pirata Col Coperchio esultando. "No, signor Romoletti, il luogo dove potremmo trovare mia nonna... Ella non può essersi diretta altro che qui, dopo la sua fuga... Con il tesoro degli incas avrebbe potuto acquistare una flotta ed arruolare dei mercenari con i quali continuare per suo conto la guerra contro gli spagnoli come era sua intenzione..." Si rivolse al Pirata Meno Un Quarto. "Voi, signore, montate lassù, per favore" gli disse indicandogli una sorta di alta piramide la cui cima sovrastava quella degli alberi. "Per vedere da che parte è il tempio incas?" "Per vedere da che parte è mia nonna, signore..." "M'importa assai della nonna!" scattò il Pirata Meno Un Quarto. "Vi prego, signore, montate..." Il Pirata Meno Un Quarto soggiogato dallo sguardo ipnotico del Corsaro Nero (egli, oltre l'occhio d'aquila, l'orecchio della volpe, l'agilità della tigre e il naso del bracco aveva anche lo sguardo fascinatore del pitone il che lo faceva essere una specie di giardino zoologico), cominciò ad arrancare su per le scale della piramide incas con la sua gamba di legno. Arrivato in cima si rivolse al Corsaro Nero. "E adesso che debbo fare?" "Avete buona vista?" gli gridò il Corsaro Nero. "Vedo un passero lontano un miglio" rispose il Pirata Meno Un Quarto. Si portò vivamente la mano sull'occhio buono come se questo fosse stato colpito da qualche cosa. "Corpo di mille pescicani!" esclamò. "Adesso non lo vedo più..." "Che cosa?" "Il passero... Mi è passato sopra e mi ha tappato proprio l'occhio buono!" Si stropicciò l'occhio con forza. "Oh," esclamò. "Meno male." "Vedete nulla?" gli domandò il Corsaro Nero. "Un luccicar d'armi nella boscaglia... Sono soldati spagnoli..." "E che cosa fanno?" "Rotolano delle botti!" rispose il Pirata Meno Un Quarto. "E che è la vendemmia?" esclamò il pirata Catenaccio. "Credo di sapere perché vengono con delle botti... Scendete, signor Pirata Meno Un Quarto e noi, nascondiamoci! Vedremo se è il caso di attaccarli o no!"

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Una famiglia di topi

205075
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Ormai abbiamo trovato dei padroncini che ci colmano di buone grazie, e che s' ingegnano di farci dimenticare tutte le pene sofferte nella nostra vita da zingari. - Ragù, rassicurato su l' avvenire, dichiarò, volgendo qua e là la testina con gli occhi lucenti che piacevano tanto a Caciotta: - Adesso, se avremo dei figli, non ci metterà più paura l'idea che i nostri piccini facciano una vita di stenti, di pun- zecchiature e di fame!... - Caciotta accostava allo sposo il musetto col naso mobile, tutto roseo in mezzo alla raggiera dei lunghi baffi (tra' topi, curiosa! hanno i baffi anche le femmine), e già sognava le gioie d'una famigliuola di topolini, che Rita e Nello avrebbero saputo educare con ogni cura e ogni gentilezza. A poco a poco Ragù s' era pienamente ristabilito in salute. I fianchi, prima scarni, che gli facevano due incavi, s'eran venuti arrotondando; il pelo, che prima qua e là gli mancava, gli era ricresciuto raffittendosi per modo, che Rita appena gli ci poteva passare il pettine, e doveva contentarsi di spazzolarlo come un piccolo manicotto. Siccome la contessa Sernici non intendeva che i suoi ragazzi trascurassero gli studi, così essi s' occupavano di Ragù e di Caciotta nelle ore di ricreazione. Gli era allora che si faceva la pulizia; gli era allora che insegnavano ai topi a seguirli come cagnolini da una stanza al- l' altra, a prendere il cibo dalla bocca, come due piccioni, e altri simili garbi. Con gli antichi esercizi non li affliggevano più: non si parlava, certo, di scegliere il biglietto verde o color di rosa della sorte. Soltanto Nello aveva detto: - Sarà bene, però, che Ragù non si dimentichi a dirittura del fucile. Chi è stato soldato, non è vero, mamma? dev'esserne contento. - Contento e superbo; - rispondeva la contessa. - Ma il povero Ragù ha presa una malattia sotto le armi, e ora, Nello mio, bisogna che tu lo consideri come un veterano inutile al servizio. - Poi soggiungeva sorridendo : - Piuttosto, se Ragù e Caciotta avranno dei figli, faremo militare un di que' piccolini. -

Pagina 33

Cipí

206540
Lodi, Mario 4 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
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Ora che abbiamo la prova e che abbiamo individuato il nostro nemico, dobbiamo trovare il modo di cacciarlo via. — Cacciamolo subito! — disse uno. — Ricordate che il mostro ha un becco uncinato e artigli potenti contro i quali nulla possono il nostro piccolo becco e la nostra forza, — avvisò Cipí. — Ma noi siamo tanti! — esclamò Chiccolaggiú con gli occhi stravolti. — Spargeremo dell'altro sangue! — ammonì Passerì. — Compagni, un'idea! — esclamò Cipí. — Sentiamo! — dissero i passeri stringendosi attorno a lui. — Il mostro ha bisogno di mangiare perché, come avete visto, non è vero che si nutre di ombre di comignoli; ebbene, noi dobbiamo fare un patto: nessuno deve piú incantarsi alle sue parole e nessuno degli altri passeri deve venire sul nostro tetto di notte, e se vorrà venire noi lo cacceremo a beccate! Cosí, preso dalla fame, il mostro se ne dovrà andare, se non vorrà morire nel buco. — È giusto! — disse Cippicippi, — ma bisogna essere tutti d'accordo. — Chi accetta la proposta venga con me, - disse Cipí volando sul grande albero. Tutti lo seguirono. Sul grande albero si stabilirono i turni delle sentinelle e cosí per una, due, tre, cinque, dieci notti, quando il signore della notte mandava fuori le stelline a dire: — Venite con noi nel regno della felicità, venite... venite... — nessuno l'ascoltava e guai a chi si avvicinava. La dodicesima notte, sfinito dalla fame e pieno di vergogna, il mostro dovette cedere: usci dal buco, prese il volo, spari silenzioso nella notte e da quella volta non lo videro mai piú.

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Abbiamo trovato la fila dei chicchi gialli! Fatti il gozzo intanto che ce n'è! Allora anche lui si mise a raspare, a estrarre i buoni chicchi gialli e a mangiarli. E intanto raccontava ai compagni la sua avventura: — Che paura poco fa...! Guardate qui! — e mostrò il didietro spennato. — Cipí ha perduto la coda! — Chi è stato? — dicevano. — È stato quell'antipatico animale coi baffi, — spiegò Cipí, — fingeva di dormire, pareva morto, io mi sono avvicinato per vedere se aveva gli artigli e lui, zaff!, mi saltò addosso e mi strappò la coda. In quel momento i passeri smisero di ascoltare, spiccarono un volo basso e andarono in fondo al campo. — Dove andate? — disse Cipí, guardandosi attorno incuriosito. I passeri non si vedevano piú, ora: ma si vedeva avanzare in mezzo al campo un uomo col tubo luccicante fra le mani. Cipí si uni ai compagni e disse loro: — Perché avete tanta paura? È ancora lontano, lui non sa volare... per prenderci deve venire molto vicino... A quelle parole soltanto alcuni passeri e una passeretta restarono accanto a Cipí, gli altri frullarono via, impauriti dai passi dell'uomo che s'avvicinava sempre piú. — Che fifoni! Io... — raccontava Cipí sbirciando con un occhio l'uomo e con l'altro i chicchi, — ... io quello l'ho visto da vicino, in fondo al buco nero. Ero ancora piccolo allora, ma ce l'ho fatta lo stesso, perché lui non è svelto come noi! — Si è fermato! — osservò la passeretta. — Punta il tubo luccicante verso noi! - esclamò un passero pieno di paura. — Dio mio, cosa fa? — gridò la passeretta correndo vicino a Cipí. Ma Cipí non ebbe il tempo di rispondere, perché all'improvviso scoppiò un formidabile tuono che fece scappare tutti gli uccelli. Nello stesso istante Cipí si trovò stordito dentro un nuvolo di polvere e quando si rialzò vide accanto a sé la compagna con un'ala spezzata. — Cipí, aiutami, non posso piú volare... - piangeva. Lí vicino un passero era steso nel solco, con le ali aperte e tremanti; aprì con sforzo il becco dal quale usciva un filo di sangue e con un soffio di voce sussurrò: — Cipí... — ma non poté aggiungere altro, perché in quel momento stralunò gli occhi, il suo corpo ebbe un brivido e restò là stecchito. Intanto l'uomo si avvicinava correndo; allora Cipí spiccò il volo gridando alla compagna ferita: — Forza, scappa, non farti prendere! In fondo al campo c'è un cespuglio, andiamo là! La passeretta con grande sforzo si trascinò fin là e si nascose in un cespuglio fitto, accanto a Cipí. L'uomo in quel momento raccolse l'uccellino morto, mentre Cipí, che dal cespuglio lo osservava, pensava: «Per colpa mia... è morto per colpa mia...» E per la prima volta nella sua vita sentì nel cuore un profondo rimorso e scoppiò in pianto.

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Noi abbiamo fame, non possiamo aspettare! — gli risposero. — Anch'io ho fame, — gridò Cipí, — ma non dobbiamo perdere il lume della ragione. Vediamo prima se c'è pericolo! — Vedete là, — disse Beccodolce con l'acquolina in bocca, — è grano scelto... ce n'è per tutti! Sul pavimento del porticato infatti, sotto una gabbia per pulcini sollevata da una cordicella, c'erano manciate di chicchi dorati che parevano dire: beccatemi. Beccodolce osservò: — La gabbia è alzata, ci si passa...! — Io vado! — esclamò l'ultimo nato di Piumaleggera. Cipí si oppose: — Un momento compagni! Ieri, gabbia e cordicella c'erano? — Ieri non c'era niente, — spiegò Beccodolce che veniva spesso in quel cortile. — Stiamo attenti allora! Meglio la fame che la morte! — disse Cipí preoccupato. E Passerì: — Quella cordicella dove va? — Nella tana dell'uomo, — osservò Beccodolce. In quel momento Cipí gridò: — Attenti! C'è lui! Spaventati, i passeri lasciarono la pianta e volarono sulla gronda. E da lí videro la testa dell'uomo, che affacciatosi alla finestra, si era subito ritirato. — Amici, qui c'è pericolo, andiamo via! - disse Cipí. — Noi abbiamo fame! — piangevano i giovani passeri. Passeri aggiunse: — Se noi andiamo là sotto a beccare il grano, lui tira la cordicella e noi restiamo intrappolati. — Ma io ho fame! Ho tanta fame! — Siate forti! Venite con noi in cerca d'altro cibo! — gridarono Cipí, Passeri e Beccodolce, ai passerotti affamati. - Io muoio di fame... io ci vado! — piangeva uno. — Io non ne posso più! — si lamentava un altro. Tre passerotti cedettero: spiccarono il volo, si calarono vicino alla gabbia, s'infilarono sotto e beccarono. Alla finestra era riapparsa la testa del nemico e nello stesso tempo la cordicella oscillò. — Scappate! — gridò Cipí ai tre passeri. Ma essi, invece di scappare, dissero agli altri: — Ah, com'è buono! Venite anche voi! Allora quasi tutti i passeri si avvicinarono alla gabbia. — Vedete? Non succede niente! — disse uno dei tre, — provate anche voi! A uno a uno i passeri presero coraggio e cominciarono ad entrare. — Dio mio, — gemeva Passeri, — ora si fanno prendere. E Cipí gridava: — Entrate uno alla volta, non tutti assieme! Attenti! Ma i passeri, spinti dalla fame, non capivano piú nulla: entravano e beccavano avidamente i bei chicchi saporiti. A un certo punto, trac! La corda scattò e la gabbia si abbatté sul pavimento facendone prigionieri una dozzina. Subito usci sghignazzando l'uomo, che ad uno ad uno li catturò e li ammazzò. Beccodolce e le altre mamme gridavano disperate, ma ormai non c'era piú nulla da fare. — Bisogna cercare dappertutto senza stancarsi, — disse Cipí, — bisogna andare dove non c'è pericolo e resistere di piú alla fame! Poi, insieme con Passeri e con i superstiti parti in esplorazione.

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Passerí disse: — Noi passeri del tetto abbiamo sempre avuto fiducia del signore della notte e ci sembra impossibile che sia un assassino. Io e te l'abbiamo visto, ma gli altri che cosa hanno visto? Niente! Fin che non avranno prove, non crederanno! — Ma gliel'ho detto io che l'ho visto! - brontolò Cipí. — È troppo poco per far cambiare idea agli altri... quando anche loro vedranno, crederanno. — Però potevano fare a meno di dire che sono un bugiardo! Io ho detto la verità per il bene di tutti! — Sii calmo, Cipí, vedrai che la verità presto o tardi viene sempre a galla... piuttosto diamoci da fare per cercare delle prove! — Viva le cose giuste! Via gli imbroglioni dal nostro tetto! — esclamò Cipí. E cominciò subito a insegnare ai suoi figlioli le storie vere della sua vita che li facevano restare a becco aperto. Narrava che cosa accade a chi precipita nel buco nero della torre fumante e a chi fugge dal tetto quando c'è la guerra dei nuvoloni, narrava che l'animale baffuto finge di dormire ed ha gli artigli affilati (e mostrava il didietro ancora graffiato); insegnava a stare alla larga dall'uomo, specie quando ha fra le mani la canna lucente (e mostrava le cicatrici di Passerí); diceva che le stelle del cielo non vengono a giocare sul tetto coi passeretti (e mostrava il buco dicendo: là c'è l'orco dal becco uncinato che ammazza chi si incanta!). Però raccontava anche le storie belle delle cose del mondo: i vestiti colorati che gli alberi mettono in primavera, il festival delle api, la vita e la morte di Margherí e le altre incantevoli storie della vita. Poi li portò a visitare i posti dove gli altri passeri facevano i nidi e cosí parlava con tutti: con quelli degli altri tetti, con quelli del giardino, con quelli della torre, e a tutti chiedeva: — Scappano di casa i vostri passeretti? — Scappare? Cosa vuoi dire? — gli rispondevano. — Qui da voi c'è un signore della notte? — Chi è? — domandavano. — Felici voi che non lo conoscete! — gridava Cipí. Un giorno capitò sui tetti di un castello antico. — Scappano di casa qui? — Ahimè, siamo disperate! — gridarono alcune mamme. — Tutti i giorni se non è uno, sono due che se ne vanno. — Tutti i giorni? Vorrete dire tutte le notti! — precisò Cipí. — È vero, spariscono di notte. Ma tu come lo sai? — Ditemi continuò Cipí— c'è vicino a voi un signore della notte? — Ne abbiamo due, — risposero le mamme, perché la nostra famiglia è grande ed uno non basterebbe a consolare le povere madri disperate! Cipí si arrabbiò, ma poi, ricordando le parole di Passeri. (bisogna portare le prove), si calmò. Intanto le mamme lo supplicavano: — Se sai dove sono andati i nostri figli, dillo! Non farci stare in pena! — I vostri figli vanno a finire nella pancia dei signori della notte! — gridò e le lasciò là con tanto d'occhi per la sorpresa. Mentre tornavano una voce li chiamò: — Ehi, voi! Cipí e i figlioli si voltarono e si trovarono accanto un passero arrabbiato che disse a Cipí: — Io sono del castello antico. Mi hanno detto che sei venuto là a dir male di chi ci protegge! — Anch'io prima credevo che i signori della notte fossero amici, e poi ho scoperto che uccidono i passeretti che credono nell'incantesimo! — rispose Cipí. Quel passero allora si buttò con impeto su Cipí e con un colpo di becco gli strappò alcune piume: — Toh, bugiardo! — gridò. — E guai se lo dici ancora! Cipí, attaccato all'improvviso sbandò, ma subito riprese il volo diritto e rispose: — E la verità! Ma quello, picchiando come una furia gli diede un'altra beccata e stavolta gli fece sanguinare il capo. — Smettila... torna a casa se no... — ammonì Cipí. — Provati! — urlò minaccioso quell'uccello slanciandosi col becco aperto su Cipí. Ma questa volta Cipí non si lasciò sorprendere: con una finta evitò l'attacco, si alzò di scatto, piombò come una saetta sull'avversario e lo beccò: — Vattene! — gli gridò. Quello, irato, si gettò a becco aperto su Cipí. Ma ancora una volta Cipí riuscí a schivarlo, ad alzarsi, a piombare in picchiata e a dargli un'altra beccata sul dorso. E cosí cominciò una furibonda lotta che i tre piccoli seguivano da lontano, timorosi di vedere da un momento all'altro il papà cadere morto. Poco dopo invece si vide il passero prepotente, con le piume scompigliate, fuggire gridando: — Basta! Basta! Mi arrendo! Cipí lo lasciò andare e quello se ne fuggí scornato e rabbioso verso il castello antico. I figlioli fecero festa a Cipí e a casa raccontarono a Passerì la splendida vittoria di papà. Ma Cipí era molto triste. Disse: — Poveretto... ora odierà me e non capirà piú chi è il suo nemico... Una passera chiacchierona che aveva visto la lotta da lontano, andò da Cippicippi e dalle altre mamme a raccontare l'accaduto e diceva: — Quel Cipí non mi piace. Oltre che bugiardo s'è fatto anche prepotente. Ha picchiato uno del castello antico che non gli aveva fatto niente, poverino! Da quando gli è venuta la mania contro il signore della notte è proprio diventato cattivo! Le idee moderne lo hanno rovinato!

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Lo stralisco

208394
Piumini, Roberto 5 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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  • UNICT
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— Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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Abbiamo ogni tipo di colore. Il burban tuo padre ha fatto arrivare per noi gli oli e le polveri colorate piú preziose tra quelli che i mercanti portano dalla Persia con i cammelli. — Non intendevo questo, Sakumat. Io chiedo se... siamo sicuri delle cose da dipingere. — Abbiamo qualche idea, Madurer. — Si, certo. Ma non bisogna sbagliare. — Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare? — Perché se sbagliamo... se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre. Sakumat alzò una mano. Disse: — Invece possiamo sbagliare, Madurer. Basterà tenere gli occhi aperti, e accorgersi degli errori. Forma cancella forma, e colore copre colore. Però ora bisogna cominciare. Se non cominciamo non possiamo fare le cose giuste, e nemmeno quelle sbagliate. — Sí, — disse il bambino, — hai ragione. — E dunque, da dove cominciamo? Quale parete dipingiamo per prima? — Questa. No... quella! Oppure... Vedi, Sakumat? Sbaglio già adesso, e non abbiamo nemmeno cominciato! — Non stai sbagliando, Madurer. Stai decidendo. Questo è sempre difficile: ma si può fare. Sakumat attese in silenzio. Il bambino si era fatto molto serio. — Cominciamo da questa parete, — disse poi, — qui, a destra della porta. — Bene. E cosa dipingiamo? Ci fu altro silenzio. Madurer si leccava le labbra e respirava profondamente, con gli occhi spalancati. Sakumat teneva le mani appoggiate su un cuscino, davanti a sé. — Abbiamo parlato di molti luoghi, ricordi? — disse. — Sí, ricordo. Ma aspetta un poco, per favore. È proprio difficile scegliere. — Noi non abbiamo fretta, Madurer. Nessuna fretta davvero. — Cominciamo con la montagna. Ricordi quando abbiamo parlato del prato fiorito e del pastore Mutkul? Facciamo la montagna dove vive Mutkul! — Quella soltanto, Madurer? — No, certo! Anche le montagne intorno. Non tutte le montagne del mondo... Facciamo delle montagne. Sakumat non chiese altro: si mise al lavoro. Con un carboncino tracciò le linee di una grande vallata, schizzando vette rocciose intorno. Indicò con tratti leggeri le zone di bosco, definí sul fondo della valle i campi coltivati. Tratteggiò un gruppo di case di pietra e una strada che si arrampicava sul monte, sparendo a tratti in avvallamenti pietrosi. Dietro di lui Madurer guardava incantato. Ogni tanto si spostava inquieto, seguendo con il capo e il corpo i segni del carboncino sulla parete. Poi, calmato, sedeva sui cuscini e osservava a occhi socchiusi, godendosi le svelte aggiunte di Sakumat, ammirando il nascere ed ampliarsi degli spazi nella pittura. — Quello che cosa è, Sakumat? — Forse è un macigno. O una capanna. Vuoi che sia una capanna? — Ma può essere una capanna? — Certo. È vicina al grande campo... Può essere la capanna del contadino. — Però, Sakumat, è davvero una capanna? Tu volevi fare la capanna? Sembra un macigno. — È solo uno schizzo, Madurer. Niente è ancora finito. Potrebbe essere un macigno. E può essere la capanna del contadino. Il pittore, con tocchi leggeri, aggiunse qualche segno, e formò l'immagine della capanna. — È la capanna di un amico di Mutkul! — sbottò entusiasta Madurer. — Come si chiama? — chiese Sakumat senza voltarsi, — non ricordavo che Mutkul avesse un amico. — Nella storia non c'era, infatti! Però Mutkul poteva avere un amico contadino, vero? — Certo che poteva. Era un uomo socievole, anche se stava bene con le sue capre e il suo cane. — Allora facciamo che si chiamava Insubat! — Sí: questa è la capanna di Insubat. Aveva molte pecore, Insubat? — No, perché non era un pastore: era contadino. Aveva un bue per tirare l'aratro e anche un asino vecchio dal muso peloso. Sakumat schizzava rapidamente. — Ecco, questo è il piccolo recinto per il bue e l'asino, — disse, — è qui, dietro la capanna. Madurer si era di nuovo alzato e guardava ansioso la parete. — E la capanna di Mutkul, dove la mettiamo? — Ci penseremo oggi, Madurer, — disse il pittore, — ora siamo un po' stanchi. E fra poco arriverà il burban. Piú tardi, nel pomeriggio, mentre sfogliavano insieme un libro che mostrava molti insetti dalle lunghe zampe, il bambino chiese: — E il grande macigno, Sakumat? — Quale macigno? — Quello che... Quello che poteva essere un macigno, e dopo è diventato la capanna di Insubat. Quello che non era ancora la capanna... Il macigno che avrebbe potuto esserci, insomma... — Sí, ricordo. Cosa vuoi sapere? — Dov'è? — Non so, Madurer. Non esisteva ancora... C'era qualcosa, là, e abbiamo deciso che è la capanna di Insubat. C'è solo la capanna di Insubat. — Ma avrebbe potuto esserci anche il macigno, vero? E se non c'è, dov'è? Voglio dire, non esiste proprio per niente? Non c'è? Sakumat stava per rispondere, ma si trattenne. Tacque per qualche istante. Poi disse: — Forse è dall'altra parte della montagna. È sul lato che non vediamo. Madurer prese a sfogliare il libro. — Facciamo che è dall'altra parte della montagna, — disse, — quella dove ci sono anche i ladri di bestiame. E proprio in un bosco di cedri. Non è mai completamente illuminato dal sole, perché i rami dei cedri sono fittissimi. — Allora deve essere un po' coperto di muschio, - disse Sakumat. — Di che colore è il muschio? — chiese il bambino, continuando a sfogliare il libro. — Io ho letto che è verde. Ma è verde come questa farfalla? È verde cosí il muschio? — Un po' piú scuro. Assomiglia al verde di... questa parte del disegno. Ma ci sono molti tipi di muschio, e certamente esiste un muschio piú chiaro. Forse esiste un muschio dello stesso colore della farfalla. — Tu l'hai visto? — No. Non c'è molto muschio, in questa regione. Ma piú a sud, e anche a nord, fra le montagne alte, se ne trova moltissimo. Cosí dicono i viaggiatori. Madurer alzò la faccia. — Se esiste davvero, — disse, — e se la farfalla ci va sopra, nessuno la può vedere, perché ha lo stesso colore. — Sí, è cosí, — disse Sakumat, — come la lucertola sulla roccia. Madurer rise brevemente. Poi disse: Tu credi che la farfalla sappia di esistere, quando è sul, muschio verde chiaro? Anche Sakumat rise. — Sí. Credo che sappia di esistere allo stesso modo di quando vola, o è in riva a una goccia d'acqua... — Io invece credo che lo sappia un po' meno, — disse Madurer, continuando la sua risata leggera.

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Non come quelli che abbiamo fatto sulle montagne e le colline, però. Quelli sono visti da lontano. Io vedevo un prato con erba e fiori molto vicino. — Un prato grande e vicino, — ripeté Sakumat. — Si, come un mare, ma vicino, capisci? Tutto intorno, in modo da esserci in mezzo. Di essere dentro. — Cosí dipingeremo un prato, Madurer. — Ma c'è una cosa. C'è una cosa che ti devo dire... Però ora ho molto sonno. Te la dico dopo, Sakumat. Qualche volta, durante le attese, il pittore non uscva dal palazzo. Percorrendo corridoi e scale, per i quali aveva assoluta libertà di movimento, raggiungeva una torre non altissima ma decisamente piú elevata di ogni altra costruzione del villaggio, e guardava il volo degli uccelli. Li guardava cosí a lungo e attentamente che, tornando nelle stanze di Madurer, e trovandolo ancora addormentato, disegnava su grandi fogli di pergamena la traccia di quei voli, in larghi scarabocchi a nessun altro comprensibili. Poi piegava i fogli, e li riponeva nel basso scaffale della prima stanza. Spesso, al risveglio, come se durante il sonno avesse vissuto una curiosità, Madurer chiedeva che il letto fosse spostato da una all'altra delle stanze dipinte, oppure orientato diversamente, in modo da aver di fronte ora le montagne, ora la pianura e la città assediata, o le colline deserte, o la nave pirata nel suo mare cangiante, o il puro orizzonte marino. — Cosa mi volevi dire sul nuovo prato, Madurer? - chiese Sakumat. — Sarà bellissimo, vero? Io lo penso bellissimo. — Credo che sarà bello. Facciamo buone cose, di solito, tu ed io. Ma avevi qualche altra cosa da dirmi, ricordi? — Sí. Non è molto facile. Non vorrei che fosse troppo faticoso, per te. Sakumat sorrise e aspettò senza parlare. Il bambino riuní le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre. Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendo o no, Madurer li imitava. — Ricordi la nave, quando arrivò? — disse. — Certo che la ricordo. — Voglio dire, ricordi che si fece vicina a poco a poco? Al principio c'era quel puntino lontano, e non sapevamo nemmeno che era una nave... Sí, ricordo bene. — Poi diventò grande, e cosí si vedeva che era una nave. — Sí. Prima viaggiava solo di notte, — sorrise Sakumat, — poi decidemmo di incoraggiare la ciurma... Il bambino aveva la fronte corrugata, come per uno sforzo. Sakumat tacque, e aspettò. — Io vorrei che anche per il prato fosse cosí, — disse Madurer tutto d'un fiato, aprendo un poco le dita sulla coperta. Sakumat alzò un sopracciglio. — Se penso che vuoi una nave che arriva lentamente sul prato, penso giusto o sbagliato? — disse. Madurer rise. Si sollevò nel letto e si appoggiò ai cuscini. Ormai era tornato abbastanza in forze, e la carnagione, naturalmente non troppo colorita, aveva perso tuttavia il pallore della malattia. — Sbagliato! Volevo dire che mi piaceva moltissimo vedere la nave avvicinarsi. E anche il prato, mi piacerebbe vederlo crescere piano piano. — Vuoi che lo dipinga lentamente? — No... Vorrei proprio che fosse un prato che cresce. Prima con l'erba corta, poi più lunga... Prima i fiori, come si dice, acerbi? E poi maturi. Capisci? — Adesso ho capito, — disse Sakumat. — E si può fare? — Sí. Ma ci vorrà tempo. — Prima delle montagne dicevi: «Abbiamo tutto il tempo, Madurer!» — fece il bambino, tentando di imitare la voce del pittore. — È vero. Abbiamo tempo, — disse adagio Sakumat, — tutto il tempo che ci è dato, l'abbiamo. — Puoi chiamare i servi, per favore? Vorrei far portare il letto nella terza stanza. Voglio dormire li, mentre cresce il prato. Anche tu ci dormirai? — Mmh... Alla mia età, un prato può essere troppo umido, di notte, Madurer! — fece Sakumat. — Ma visto che il prato crescerà lentamente, forse mi potrò abituare. Quando, piú tardi, venne il burban a trovarlo, il bambino parlò a lungo con lui del nuovo progetto. Il padre disse che era una splendida idea. — Nemmeno il burban di Ankara ha un prato in casa! — disse. Poi Madurer si addormentò. — Amico mio, quanto tempo occorrerà per dipingere il prato, come lui vuole? — chiese il burban a Sakumat. — Come vuole lui... almeno quattro mesi, signore. Forse cinque. — E questa è l'ultima stanza. Quattro mesi sono sufficienti... — disse Ganuan. — Posso chiedere sufficienti a cosa, signore? — Ad allargare l'alloggio di mio figlio. Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.

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Ma abbiamo da lavorare ancora sulle nostre figure, Madurer. Ho delle idee, ma devo pensarci meglio. Come capitava a te prima di decidere il prato, ricordi? — Si. — Intanto, finché non ti alzerai, leggeremo delle fiabe, e guarderemo le figure dei libri. — E faremo qualche disegno sulla pergamena? — Se non ti stancherà troppo. Ti insegnerò a dipingere gli uccelli. Ma nei giorni seguenti le forze di Madurer non furono sufficienti a disegnare. Sakumat gli lesse molte storie, parlando con lui delle vicende e dei personaggi. Notava intanto come la forza stentasse, molto piú della volta precedente, a ritrovare le strade nell'organismo del piccolo. Ma il pensiero di Madurer, tra un riposo e l'altro, era rapido e desto. Soltanto, a tratti, lo prendeva una specie di distrazione, un momento di assenza, nel quale gli uscivano parole svagate, forse senza significato: come se il suo stesso pensiero, imprendibile, le facesse risuonare senza i legami del linguaggio. Anche i sonni diurni diventarono piú lunghi e insistenti. — Costruire nuove stanze è una buona idea, — disse Sakumat. — Ma io ne ho una migliore. — È quella a cui hai pensato in questi giorni? — Sí. E mentre ci pensavo diventava piú bella. — Allora dimmela, Sakumat. — Ecco: se noi continuiamo ad allargare le pareti, non potremo piú dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo. Madurer taceva, attentissimo. — Insomma, credo che queste pareti ci. bastino, - disse Sakumat. — Ma sono complete! — osservò Madurer. — Il Tigrez è grande nel mare, e piú grande non potrebbe diventare. Il prato è completamente fiorito. C'è anche lo stralisco che brilla di notte. Che altro possiamo dipingere? Sakumat giocava parlando con le mani del bambino, come spesso faceva. — Ricordi come abbiamo dipinto le cose, Madurer? — disse, stringendogli un po' piú forte le dita, — come era piccola la nave, all'inizio? E com'era acerbo il prato? — Si, li abbiamo fatti poco a poco. Piano piano. — E ricordi una cosa ancora piú antica? Che il mondo non fa salti, e non si ferma? Madurer rimase in silenzio, soppesando fra le sue dita piccole quelle piú grandi del pittore. — Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? — disse. — Possono continuare, sí. E cambiare. Se noi vogliamo. — Cambiare come? Diventare più belli? — Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita. Il bambino sembrò affaticato. Stava rientrando nel torpore. — Sí, facciamo cosí, — disse, — poi mi spiegherai, come... Anche per Sakumat era stata una conversazione faticosa. Ascoltò il respiro fragile del bambino assestarsi in cadenza piú regolare. Poi chiuse gli occhi. Come dalle ferite di un ramo, dalle palpebre chiuse uscivano lacrime chiare.

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. — Ma è il momento ora di parlarvi della ragione per cui io e gli Anziani della Serenissima vi abbiamo convocato. Forse, avrete pensato, vi si vuole affidare un lavoro in uno dei nostri bei palazzi... Invece è cosa diversa, e benché nessuno vi possa imporre quel che la vostra volontà non accetti, la richiesta che stiamo per farvi è per la Repubblica di grande impegno e valore, e non vi parrà giustamente altro che lode e privilegio il fatto che sia rivolta a voi. I due fratelli pittori tornarono a guardarsi per un istante, e come erano abituati da sempre in un attimo si lessero sotto la compunta tranquillità, e la rispettosa curiosità dei volti, la scintilla di un sorriso, un complice ammiccamento sul procedere ampolloso del Doge. — Del resto, fratelli Bellini, — continuò il Reggitore con un movimento delle bianche mani, — alla fine di tutto uno solo di voi sarà impegnato... Ma ora vi dirò piú chiaramente. Gli Anziani, nei loro scranni ai lati del Doge, presero fiato nello stesso momento, come i cantori all'inizio di un inno: e per un attimo ai due fratelli pittori parve che il resto del discorso sarebbe stato davvero cantato da tutti quei vecchi in palandrana. Invece il Doge riprese da solo: — Il Sultano dei Turchi, Imperatore Maometto, che vive e regna a Costantinopoli, e con il quale la Serenissima ha da anni rapporti di pace ed alleanza, ci manda a chiedere un pittore, il piú valente che abbiamo, per un'opera nel suo palazzo. Sebbene non ufficialmente, ci fa sapere che quest'opera sarà un suo ritratto, e verrà esposto a venerazione sopra la porta interna del Palazzo Imperiale. Voi sapete piú di me, maestri, come gli usi e la religione dei musulmani non favoriscano la rappresentazione delle figure umane... Pare dunque che non ci siano nelle terre dell'Islam artisti capaci d'altro che meravigliosi ornamenti. La richiesta di un pittore capace ci è giunta in modo solenne e direi quasi pressante, tale da non permetterci dubbi né esitazioni. Né dubbi o esitazioni abbiamo avuto, del resto, nel pronunziare subito i vostri nomi: però ne abbiamo ancora, e non sono risolti, su a chi di voi chiedere e affidare l'opera... Il Doge tacque, volgendo ai lati lo sguardo lungo le due file di Anziani, come per raccogliere il loro consenso a quanto diceva. Poi tornò a vagare con gli occhi dalla faccia di Gentile a quella di Giovanni, che restarono in silenzio, ben convinti che il discorso non fosse finito. — Insomma, benedetti figli di Jacopo, — disse il Doge unendo le mani quasi a preghiera. — C'è stata una discussione molto appassionata, che vi risparmieremo: dovete solo sapere che i nostri venerabili Anziani, animandosi nel descrivere e commentare la bellezza delle vostre opere, e le qualità del vostro tocco, eran diventati come i ragazzini delle sponde che gridano durante le gare sul Canal Grande... Presi da discreto disagio, i due fratelli lo sciolsero in una risata, a cui si unirono gli Anziani, come a premiare la bonomia del Doge. — Alla fine, — disse il Signore facendo abbassare subito la voce di tutti, — alla fine ci siamo detti: scelgano loro. Piú di tutti noi, voi sarete rispettosi della vostra differenza, e generosi nella decisione. Scegliete dunque, maestri, chi di voi, se vorrà, potrà svolgere questo incarico prezioso, per il quale è annunciata, naturalmente, una generosa ricompensa. Non bisogna che lo facciate subito, s'intende. Il Doge tacque. Senza guardare il fratello, Giovanni prese la parola. — Illustre Signore, e voi nobili Anziani, non mi occorre consultare mio fratello Gentile io lo indico senza dubbio, e subito, come il piú adatto alla missione, la cui proposta onora anche me. Io non voglio, e certo nemmeno lui, discorrere qui, per questa ragione, sui diversi modi della nostra arte: cioè di come io penso e faccio le opere di pittura, o di come le pensa e fa lui... Se voi avete discusso, se vi siete accalorati, è stato vostro diritto e gioco: ma noi, quando insieme scoprimmo sotto lo sguardo amoroso e leale di Jacopo nostro padre, le diversità del nostro stile, subito le accettammo ed amammo come fossero parte dell'uno e dell'altro: in tale modo che mai ne vorremmo o sapremmo fare oggetto fra noi di discussione, e tanto meno di preferenza e contesa. Altre ragioni, in verità decisive, spingono invece a scegliere Gentile per questa missione: accade infatti che, come forse sapete, io stia in pieno lavoro alla Scuola Grande: e ad un punto tale che, interrotto o affidato ai soli aiuti, il danno sarebbe irreparabile, e la spesa rovinata. Un viaggio come quello che proponete, poi, richiede forza e buona salute: e io, benché qualche anno più giovane di mio fratello, sono di natura piú fragile e malsana. Vado soffrendo da mesi un perfido male ai piedi, che mi costringe a dipingere seduto, e non mi permette di sopportare altri viaggi che quello da casa mia a San Marco... Gentile ha tempra robusta, adatta ai viaggi, e per di piú ha da pochi giorni dato l'ultima pennellata al Salone del Maggior Consiglio, proprio oltre quella parete. Egli è dunque libero da impegni presenti, e nessun contratto lo lega per i prossimi mesi. Infine, rivelo che in un periodo della giovinezza in cui io ero affidato a una balia a Treviso, a causa della mia debole salute, Gentile ebbe una balia turca qui a Venezia, che gli raccontava storie dell'Oriente e gli insegnò la misteriosa lingua di Costantinopoli. E Gentile cosí bene l'apprese, che sempre era lui ad accompagnare nostro padre Jacopo alle fiere di piazza, dove i mercanti del Levante vendono terre colorate e i preziosi pennelli damasceni. Vedete dunque, Signore e Venerabili, come sembra che la stessa mano di Dio si sia mossa a indicare quale di noi due possa, se vorrà, prendere la via. E Giovanni, sbirciando questa volta Gentile con un sorriso truffaldino, abbassò la faccia come colui che umilmente s'apparta. Gentile sorrise. Il Doge, guardandolo, lo incoraggiò a parlare. — Signore illustre, e Anziani venerabili, — disse il pittore, — nonostante quello che mio fratello ha detto, pur accettando come sacra e benedetta la differenza delle nostre pitture, io sono nell'animo convinto che egli sia miglior pittore di me. Tuttavia, quello che lui dice sul corso dei nostri lavori, sul suo malanno, e sulla mia conoscenza della lingua turca, è la verità. Inoltre, io non nego che un viaggio nelle terre d'Oriente molto mi piacerebbe, giacché ricordo le storie che non solo la balia turca, ma nostro padre ci raccontava: storie di cavalieri e cavalli straordinari, di leoni e deserti, stupende magie e musiche, damigelle incantate. Io e Giovanni lo ascoltavamo in silenzio, seduti ai suoi piedi, con la schiena contro il muro del campiello ancora caldo di sole: e l'odore salato del canale diventava per noi il profumo dei porti d'Oriente. Alla fine, ricordi, Giovanni? nostro padre diceva: «E domani, pesciolini, ve ne conterò una nuova! » Giovanni Bellini, che durante il racconto di Gentile aveva mutato la sua espressione allegramente cospirativa in una di intensa e commossa memoria, alzò verso il Doge gli occhi rossi di pianto. — Miei cari, miei cari, — disse il Signore, sporgendosi in avanti sullo scranno, dopo una pausa rispettosa, — mi sembra che quello che occorreva sia ottenuto. Giovanni non può, e non vuole. Gentile vuole e può. A voi va bene, a noi va bene: anche all'illustre Maometto piacerà.

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L'idioma gentile

209777
De Amicis, Edmondo 6 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Ma mille volte nella vita il primo giudizio che facciamo dell'ingegno, della cultura, del grado d'educazione d'una persona, si fonda (e sia pure a torto sovente, ché questo cresce valore all'argomento) sopra il suo modo di parlare, e anche su poche parole che le abbiamo udito dire, sopra mia sgrammaticatura, sopra un'espressione ridicola, sopra l'ignoranza d'una parola comune. Ma ella stessa, signore, ella che dice che le parole non importano, quando occorre di parlar la prima volta con una persona che le ispira reverenza, e di cui le preme d'acquistarsi la stima e la simpatia, ella stessa, sempre, anche inconscientemente, s'ingegna di parlar meglio del solito, scegliendo i vocaboli con cura e filando i periodi con garbo! O come si può dire: - Che cosa importano le parole?

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Ora, dei cinque modi, che abbiamo visti, di studiare la lingua, tu domanderai quale sia il meglio. Il meglio, a mio parere, è il sesto. Voglio dire un metodo, il quale raccolga quanto v'è di buono in quei cinque. Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le voci e le locuzioni che ci riescono nuove e che ci vogliamo appropriare, cercando di fissarcene nella mente, senza l'aiuto della penna, il maggior numero possibile, con quanto occorre del testo a chiarirne bene il significato e a farne sentire tutto il valore; mandar a memoria poesie e squarci di prosa, nei quali al pregio del pensiero o del sentimento e alla bellezza dello stile sia congiunta una particolar ricchezza di lingua; notare il meglio del materiale che si ricava dalle letture, dividendolo e raggruppandolo intorno a certi soggetti, perchè riesca più facile ritenerlo e ritrovarlo; esercitarsi, scrivendo, a maneggiare il materiale raccolto con abbozzi di componimenti, di periodi, anche di semplici frasi, che siano come i bozzetti che buttare giù i pittori per acquistare la padronanza della tavolozza; e leggere ad un tempo, rileggere, studiare il vocabolario. Quest' ultimo studio ti raccomando in particolar modo, perchè è quello che più difficilmente s'inducono a fare i giovinetti. Ma occorre intendersi bene. Una trentina d'anni fa, con uno scritto diretto particolarmente ai giovani, io raccomandai la lettura del vocabolario. Nel corso di questi trent'anni parecchi mi scrissero, e altri mi dissero presso a poco quello che segue: - Abbiamo seguito il suo consiglio, o meglio, ci siamo provati a seguirlo; ma non c'è riuscito di tirare innanzi: la lettura del vocabolario ci addormentava; ci vuole una pazienza di Benedettini per reggerci; abbiamo smesso. Ecco. Rispondo prima di tutto che senza pazienza non si riesce a imparar la lingua in nessuna maniera, e che la pazienza di studiare il vocabolario l'ebbero scrittori di grande ingegno, come il Manzoni che postillò la Crusca per modo da non lasciarne cedere i margini, Teofilo Gautier, che teneva il vocabolario sul tavolino da notte, Gabriele d'Annunzio, che legge persino dei vocabolari tecnici, dalla prima all'ultima parola. Rispondo in secondo luogo che quella è una lettura che non va fatta a modo dell'altre. Se tu ti metti a leggere il vocabolario come un romanzo o una storia, con l' idea di correrlo tutto d' un fiato, per finirlo il più presto possibile, e liberarti dalla fatica, non solo ti farai nella mente una grande confusione, senza cavarne alcun frutto; ma non reggerai a leggerne una decima parte, si capisce, chè t'ammazzerà la noia prima d'arrivarci. È una lettura che si deve fare a poco per volta, a pezzi e bocconi, con l'animo tranquillo, quando ci si ha disposto lo spirito, e non di corsa, ma a rilento, accompagnandola passo per passo, come ti disse Vocabolarista, cori un lavoro di memoria, di ragionamento e d' immaginazione. Bisogna, insomma, mettersi alla lettura e procedervi per modo, che quello studio finisca a poco a poco con non più richiedere uno sforzo di volontà, e diventi una consuetudine, cessi d'essere una fatica, e si muti in un piacere. Dirai: - È presto detto. Hai ragione: è presto detto. Ebbene, farò qualche cosa di più. Ti propongo di fare, una prova insieme. Pigliamo, per esempio, il Novo dizionario italiano del Petrocchi: una lettera qualunque, la lettera P, e leggiamola tutta. M'ingegnerò di farti vedere come si deve leggere il vocabolario, o, per dir meglio, ti farò vedere come io lo leggo, in che maniera mi ci diverto e c'imparo, che è la maniera in cui mi pare che anche tu ti ci possa divertire, imparando; e nel far questo, userò con te la più grande sincerità, come con un compagno di scuola: ti confesserò le mie ignoranze, i miei stupori e i miei dubbi, che ti gioveranno forse, se te ne ricorderai, nelle tue letture avvenire. Sarà una prova un po' lunghetta, benchè io proceda alla lesta, omettendo le parole più comuni, e anche molte che non son tali , e un gran numero di vocaboli tecnici e storici; ma ci occorrerà spesso di ricrearci divagando e scherzando. All'opera, dunque. Apro il secondo volume, alla lettera P. Incominciamo. Ma no. Tu avrai bisogno di respirare. Svaghiamoci prima insieme con qualche personaggio ameno: con un nemico del vocabolario, questa, volta, per non uscir d'argomento.

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Vedi, nel breve tratto percorso, quante parole abbiamo trovate, che ci hanno destato un ricordo storico, portato l'immaginazione in ogni parte del mondo, a cose remotissime di spazio e di tempo, dalle palafitte lacustri dell'età preistorica alle architetture palladiane, dai paleosauri fossili ai bacilli del Pacini! Abbiamo visto passare la paggeria pomposa delle Corti, i principi orientali portati in palanchino, i trionfatori romani in veste palmata, i giovani greci lottanti al Pancrazio, e dame e sonatori di lira e poeti tragici e ninfe cacciatrici di Diana ravvolte nella palla, e i lottatori delle feste panatenée in onor di Pallade, e i Bolognesi antichi plaudenti alla battaglia d'ova e di porci della Pachetta. Ci son balenati dinanzi Attilio Regolo, che con le palpebre arrovesciate, spasimando, guarda il sole, e Carlomagno circondato di Paladini, e i Palleschi e i Piagnoni, partigiani e avversari dei Medici, e i Francesi caduti nel sangue delle Pasque Veronesi, e Paisanetto, la maschera genovese, e Pantalone, la maschera veneziana, e Pantagruele, figlio di Gargantua; e di là da questa maravigliosa processione, una fuga di palazzi famosi, i palmizi ridenti di Liguria e di Sicilia, e il Palatino e il Panteon e le paludi Pontine e l'orizzonte immenso della Pampa. Pensasti mai, leggendo altri libri, a tante cose e così diverse in così breve tratto di lettura? E quante n' ho tralasciate! Ma

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Quante cose, oltre la lingua, in quest' altro breve tratto che abbiamo percorso, e in altre poche pagine che possiamo precorrere con lo sguardo! Armati ad ogni passo: Pentacontarchi, Peltasti, Petardieri, Pretoriani; magistrati romani, con la pretesta strisciata di porpora, plaudenti ai gladiatori dal Podio; e poeti e re e numi e genti d'ogni età e d'ogni latitudine, dai Pelasgi ai Lapponi.... che fabbricano pane con la corteccia del PIN DI RUSSIA. E che strana processione, Pilade, Pilato, Pindaro, Plinio, re Pipino, Petrarca, Platone, Plutone! Abbiamo visto Pegaso trasvolare nelle nubi, passare il pétaso alato di Mercurio, Psiche spiar le forme dell' amante incognito, Ulisse sterminare i Proci, Teseo giustiziare Procuste, Pirra far degli uomini coi sassi, Progne cangiarsi in rondine e Proteo in cento forme, e Perillo fabbricare l'orrendo bue ciciliano, rogo e tomba di bronzo di corpi vivi. Abbiamo visto fender l'acque le piroghe degl'Indiani, scorrer sull'Egeo la nave capitana del Morosini il Peloponnesiaco, errar sul Ponte Eusino l'ombra d'Ovidio; e Aristotele passeggiare nel Peripato e la procuratessa Grimani in piazza San Marco; e meditar sulla pila Alessandro Volta, e fuggire dalle Tuileries la testa a pera di Luigi Filippo; e lontano, verdeggiar nell'azzurro i giardini pensili di Babilonia e la vetta del monte Pimpla, sacro alle Muse. Che fantasmagoria, per gli Dei Penati!

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Vedi che vasta e succosa e dilettevole lettura e quella del Vocabolario, e immagina quanto avrai imparato quando su tutte le lettere dell'alfabeto avrai fatto il lavoro che abbiamo fatto insieme sopra una sola, ma con più attenzione, e smettendolo e ripigliandolo a intervalli, dopo ciascun dei quali ritornerai all'opera con maggior curiosità e con più vivo ardore e con la mente meglio esercitata a scegliere, a osservare e a imparare. Sei persuaso? E dopo questo, se qualcuno ti dirà che a leggere il Vocabolario si muor di noia e si sciupa il tempo e il cervello, mandalo.... alla lettera P.

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Delle moltissime parole che non sappiamo molte le abbiamo lette o intese dire; ma non ci sono rimaste nella memoria perchè non abbiamo fermato su esse, neppure un momento, l'attenzione. Bisogna dunque, ogni volta che ci cade sott'occhio o ci viene all'orecchio una parola non compresa nel nostro vocabolario abituale, guardarla in faccia come si guarda una persona sconosciuta che ci si presenti, fare un atto della volontà per ritenerla, metterci sopra, per così dire, il suggello del nostro pensiero. Se, leggendo o ascoltando, avessimo fatto questo, non dico sempre, ma soltanto una volta su cinque, anche senza ricorrer mai alla penna, avremmo tutti nella memoria molte centinaia di vocaboli di più di quelli che possediamo. Poi: ogni volta che discorrendo ci manca una parola per designare una data cosa, prender nota nella nostra memoria di quella mancanza, e ripararvi quanto prima ci è possibile, cercando quella parola. Ogni volta che ci càpita alle mani o ci si presenta in qualunque modo un oggetto usuale od insolito, domandare a noi stessi, non solo se lo sapremmo nominare a chi non lo conoscesse, ma se glielo sapremmo descrivere nominando le sue varie parti, e, non sapendo, cercare il nome delle sue varie parti, per metterci in grado di descriverlo. Ogni volta che troviamo in un libro una parola nuova, della quale non comprendiamo il significato, non cercarla immediatamente nel vocabolario, chè, trovata così subito senza fatica, non ci rimane impressa; ma pensarci un po', cercare d' intenderla da noi stessi, segnarla nella nostra mente con un punto interrogativo; al quale essa rimarrà poi attaccata come a un gancio quando sapremo che cosa significa, perchè non si dimenticano mai le parole nuove sulle quali s'è esercitata la curiosità, e di cui c'è costato qualche sforzo l'apprendere il senso. Ma questo non basta. Tu, che sei sulla via degli studi, devi fare questo studio in forma ordinata e metodica. Proponiti, da principio, d' imparare i nomi di tutte le cose che t'occorre ogni giorno di vedere, toccare, adoperare. Prendi uno di quei Prontuari dove son registrati tutti i nomi degli oggetti d'uso domestico, con la descrizione di ciascun oggetto, la quale comprende i nomi d'ogni sua parte. Comincia dalla roba che porti addosso, per poi passare alle cose che hai sempre tra mano, ai mobili delta tua camera, alla mensa, allo scrittoio, agli arredi e utensili di tutta la casa, alle varie parti della casa stessa. Va' innanzi con ordine, a poco a poco, fissandoti d'imparare ogni giorno un certo numero di nomi. Non ti costerà alcuno sforzo il ritenerli, avendo sempre sott'occhio le cose a cui si riferiscono, e a ritenerli t'aiuterà il dirli spesso a voce alta, con pronunzia netta. Passerai poi dalla casa al cortile, al giardino, a tutti gli annessi e connessi della casa, e poi alle varie parti della città e ai luoghi e ai servizi pubblici, e alle arti e ai mestieri più comuni. E non considerar neppure come uno studio quest'occupazione; fattene uno svago dello spirito. E ogni volta che te ne sentirai un po' svogliato, pensa che ciascuna delle parole che ti si stamperà stabilmente nella memoria ti risparmierà mille volte, nel corso della vita, un'incertezza, un impaccio, una piccola vergogna; che mille volte la cognizione di una data parola ti toglierà, nel parlare e nello scrivere, un intoppo, il quale romperebbe il corso del tuo pensiero e la foga del tuo discorso; che ogni vocabolo che s'impara,- anche se paia superfluo, è come uno di quegli utensili da nulla, dei quali non s'ha bisogno quasi mai, ma che una o due volte in molt'anni son necessari, e se non si ritrovano, non si sa che pesci pigliare. E poi vedrai che anche questo studio, che ora ti par materiale, ti darà sodisfazioni che non t'aspetti. Quando il tuo corredo di vocaboli sarà già considerevole, t'accorgerai che ogni nuova parola ti rimarrà impressa assai più facilmente che per il passato, perché in quel particolare esercizio ti si sarà fortificata e fatta tenace la memoria mirabilmente. Riconoscerai, quando potrai nominare molte cose e particolari di cose di cui prima non sapevi il nome, di quanti giri di parole, di quante definizioni e descrizioni e lungaggini, che prima non potevi scansare, potrai far di meno parlando, e che nuovo sentimento di libertà e di sicurezza avrai nel parlare, non essendo più impensierito di continuo e dal timore d'inciampare nell'impedimento d'una cosa comunissima, che tu debba nominare e non sappia, o nella necessità di fare una svoltata e col discorso per non averla da nominare. E vedrai quante volte, dopo che ti ci sarai avvezzato E per proposito, ti sarà un passatempo piacevole, trovandoti ad aspettare in qualche luogo, come un'officina o una bottega o una sala, rifar nella tua mente la nomenclatura di tutte le cose che avrai dintorno; e come ti divertirai E a osservare gli artifizi curiosi coi quali la gente s'ingegna, nella conversazione italiana, di nascondere la propria ignoranza dei vocaboli più necessari, e di farsi in qualche modo capire; e che piacere sarà per te in molti casi il levar d'impaccio chi parla, anche persone d' età maggiore e e di cultura superiore alla tua, porgendo loro gli spiccioli per le minute spese del discorso. Mettiti dunque a questo studio, non con l'impazienza di chi ha uno scopo immediato; ma tranquillamente, adagio adagio, nei tuoi ritagli di tempo, contentandoti di poco ogni giorno, e rimarrai maravigliato ben presto della quantità di materiale linguistico, che senza fatica, quasi senz'avvedertene, ti troverai accumulato nella memoria.

Pagina 90

Il libro della terza classe elementare

210511
Deledda, Grazia 13 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Noi, invece, abbiamo questi doni preziosi. Preghiamo, dunque, o fanciulli. Il fanciullo che prega dà lode a Dio, fa sorridere Gesù, dà letizia agli Angeli, dà refrigerio alle anime dei suoi poveri morti, fa contenti i suoi genitori, abbellisce tutta la sua giornata.

. - Domani mattina che è domenica, bagno, Messa, e poi verrai, a casa nostra - disse il babbo di Sergio - E siccome abbiamo avuto questa discussione su Porta Pia verrete da me, nel mio studio, e cercherò di mettervi d'accordo. Tu, Cherubino, chiama anche Anselmuccio. - Ma Anselmuccio è zoppo! - disse con cattiveria Cherubino. - Che vuol dire? Appunto per questo bisogna aiutarlo, fargli compagnia, consolarlo. Sopratutto senza farsene accorgere. - rispose con dolcezza il padre di Sergio: e passando la mano sui capelli sporchi e ispidi di Cherubino aggiunse: - Ti piacerebbe che io dicessi che anche la tua testa è zoppa?

Pagina 16

Dunque sta bene che abbiamo a chiedergliene perdono nella preghiera. Dice il proverbio: - Peccato confessato è mezzo perdonato. - Questo con gli uomini; ma con Dio, peccato confessato, con vero pentimento, è perdonato. Però, affinchè il Signore abbia a perdonare a noi, è necessario che noi prima perdoniamo a chi ci ha offeso. Questa è una condizione rigorosissima e necessaria. E difatti, in che modo placherà il padre quel figliuolo che non vuol fare la pace col suo fratello? Un compagno, dunque, ci ha offeso? Ebbene, cosa ci costa perdonargli? La gioia serena del perdono ci metterà il cuore in pace. E non solo si deve perdonare, ma anche pregare di cuore per i nostri offensori. E questa è tutta una carità che porta sempre buon frutto da raccogliere in Cielo.

Pagina 171

- Il Figliuolo di Dio si è fatto uomo, prendendo un corpo e un' anima, come abbiamo noi, nel seno purissimo di Maria Vergine, per opera dello Spirito Santo.

Pagina 175

Abbiamo ammirato, in Gesù, il Maestro Divino; ammiriamo ora la sua divina potenza.

Pagina 190

. - Signore, non abbiamo nulla, - risposero gli Apostoli. - C'è solo un fanciullo che ha cinque pani e due pesci: ma che cosa sono mai per una moltitudine come questa? Gesù si fece portare i cinque pani e i due pesci; e, dopo aver alzato gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò, li fece distribuire alla folla. Allora si vide il miracolo! Erano circa cinquemila uomini; e quel pani si moltiplicarono così che tutti ne ebbero a sazietà, e avanzò tanta roba da riempire dodici canestri.

Pagina 191

Questa è l'umile ma divina origine della Chiesa, alla quale noi abbiamo il grande onore e la grande consolazione di appartenere.

Pagina 195

Anselmuccio gridò: - La sua storia è così interessante che non abbiamo voglia di nulla. - Sì - disse Chérubino - è vero. Sergio guardò Cherubino con molta allegria e gli volle un gran bene. - Chi comandava quell'esercito? Chi lo sa di voi, saputelli? - chiese all'improvviso il signor Goffredo. I ragazzi si guardarono in faccia, non poterono trattenere quella risatina dell'ignoranza che io ben vi conosco e rimasero in silenzio. Cherubino però, da quello sconsigliato che era, alla fine esclamò: - Giulio Cesare! - Come è possibile che quell'esercito di bersaglieri, con cannoni, fucili, fosse comandato da Giulio Cesare che è vissuto più di venti secoli prima? Perchè non impari ad essere più cauto, prima di fare un'affermazione? Cherubino però, e ci dispiace dirlo, fu convinto soltanto quando udì il seguito dell'appassionato racconto del signor Goffredo che diceva: - Sulle mura di Porta Pia vi erano i soldati del Papa. Vi fu un giorno di trattative, il giorno 19: ma visto che quei soldati, per onore, non volevano cedere Roma, il 20 cominciò il bombardamento delle mura. I colpi di cannone atterrarono un tratto di mura circa cento passi a destra di Porta Pia. Sarebbe stato più facile abbattere la Porta, davanti alla quale era stato innalzato un terrapieno per difesa. Ma quel generale Raffaele Cadorna, che tu Cherubino non ricordavi, preferì lasciare intatta la bella opera d'arte. - Raffaele Cadorna è parente del Maresciallo Cadorna, che ha combattuto nella nostra Grande Guerra? - interruppe Sergio. - Si: il padre. Quando fu aperta la breccia i soldati di Raffaele Cadorna si lanciarono all'assalto. Si vedevano in testa gli ufficiali con la sciabola in pugno, scintillante come un lampo, i trombettieri con la cornetta squillante fra le labbra gonfie, i bersaglieri, i fantaccini con le bocche rotonde, aperte nel grido della lotta. Vi furono caduti da una parte e dall'altra. La breccia fu conquistata. Durante questo episodio Pino, dopo aver detto al padre «Vado sino a Porta Pia e ritorno», aveva compiuto un atto eroico. Vi era una sorgente d'acqua nella campagna (in una località che oggi è un popoloso quartiere) che i nemici tenevano sotto il tiro delle loro artiglierie per impedire che i bersaglieri assetati potessero attingere. Era facile dall'alto delle mura scorgere i soldati del Cadorna che si sarebbero avviati alla sorgente e quindi fulminarli; di notte quel luogo dov'era l'acqua era continuamente fatto segno ai colpi di cannone.

Pagina 21

Gli scrittori che abbiamo ricordato cercarono di diffondere questa verità. Essi volevano persuadere di due cose i principi che regnavano in Italia: concedere maggiori libertà ai propri sudditi; aiutare con le proprie milizie quello di essi, che si fosse assunto il maggior peso della prima guerra per la riscossa nazionale.

Pagina 220

Ma tutta la legna che abbiamo raccolta è umida e non è possibile accendere un po' di fuoco. Sulla paglia umida, infatti, giaceva un fascista con la testa nascosta dalle bende: le bende erano state strappate dalla camicia di un camerata. Tutti aspettavano l'alba, che sarebbe sorta livida.

Pagina 34

Ebbene, i nuovi numeri che ora abbiamo incontrati, cioè duecento, trecento, quattrocento, cinquecento, seicento, settecento, ottocento e novecento, si rappresentano 200., 300, 400, 500, 600, 700, 800 e 900; mentre il numero mille si rappresenta con 1000. 8. Il successivo di cento è cento e uno, e se ci poniamo a contare da cento e uno in poi, abbiamo, prima di arrivare a duecento, i numero cento e uno, cento e due, cento e tre..... cento e nove, cento e dieci, cento e undici, .... cento e novantanove. Essi si chiamano centouno, centodue, centotrè .... centonove, centodieci, centoundici, ....., centonovantanove; e si indicano scrivendo: 101. 102, 103. . , 109, 110, 111,....199. Essi sono tutti i numeri interi maggiori di 100 e minori di 200. In modo simile si vede che i numeri interi maggiori di 200 e minori di 300 sono duecento e uno, duecento e due, duecento e tre... duecento e nove, duecento e dieci, duecento e undici, ..... duecento e novantanove, i quali si chiamano duecentouno, duecentodue, duecentotrè,...., ducentonove, duecentodieci, duecentoundici,...., duecentonovantanove; e si indicano scrivendo: 201, 202, 203,....209, 210, 211,..., 299. Così continuando, si trovano i numeri: trecentouno, trecentodieci, trecentonovantanove, quattrocentouno,..., quattrocentodieci,..., quattrocentonovantanove, cinquecentouno, cinquecentodieci, cinquecentonovantanove, seicentouno, seicentodieci, seicentonovantanove, settecentouno, settecentodieci, settecentonovantanove, ottocentouno, ottocentodieci, ottocentonovantanove, novecentouno, novecentodieci, novecentonovantanove, che si rappresentano con: 301, 310, 399, 401, 410, 499, 501, 510, 599, 601, 610, 699, 701, 710, 799, 801, 810, 899, 901, 910, 999. 9. Si consideri uno qualunque dei numeri a tre cifre; per es., 327 (leggi: trecentoventisette). Esso è trecento, venti e sette; ma trecento è 3 centinaia, venti è 2 diecine, e sette è 7 unità, dunque possiamo dire che: 327 è 3 centinaia, 2 diecine e 7 unità. Così: 485 Leggi: quattrocentoottantacinque. è 4 centinaia, 8 diecine e 5 unità, 906 Leggi: novecentosei. è 9 centinaia, 0 diecine e 6 unità, ecc., ecc. Perciò, per un qualunque numero a tre cifre, la prima cifra (a partir dalla sinistra) si dice la cifra delle centinaia, la seconda si di la cifra delle diecine e la terza, la cifra delle unità. Per il numero 1000, 1 si dice la cifra delle unità di migliaia; le altre tre sono, successivamente, la cifra delle centinaia, quella delle diecine e quella delle unità. Invece di una unità, una diecina, un centinaio o un migliaio si dice anche una unità (intera) del 1°, 2°, 3° o 4° ordine. Quindi si dirà, per es., che per 825Leggi: ottocentoventicinque. 5 è la cifra delle unità del 1° ordine, 2 la cifra delle unità del 2° ordine, 8 quella delle unità del 3° ordine. Ma dunque: Quando uno degli interi, ora introdotti, è espresso in cifre, la cifra, che contando da destra verso sinistra occupa il 1°, il 2° o il 3° posto, rappresenta unità del 1°, del 2° o del 3° ordine. 10. Disporre in colonna più numeri dati, espressi in cifre, significa scriverli su altrettante righe diverse per modo che capitino in una medesima colonna le cifre che rappresentano unità del medesimo ordine. Così qui a fianco sono disposti in colonna tanto i numeri 106, 24, 341 e 1000; quanto i numeri 304, 6 e 34. 106 304 24 6 341 34 1000

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. - Senti, - dice in confidenza - contentati di un piccolo uovo di vero cioccolato: perchè quello è di cartapesta e lo abbiamo messo per mostra. E la mamma compra a Valeria un bel piccolo uovo da cinque lire aggiungendo - Vedi come le apparenze ingannano.

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Per esempio: io e la mia famiglia abbiamo fame o dobbiamo naturalmente lavorare. Il padrone cattivo sfrutta questo nostro bisogno per pagarci poco e trattarci male. - E allora ho diritto di protestare. - No. Ora c'è la Carta del Lavoro. Che cosa è questa Carta? - disse con compiacenza Fafòn - È l'intervento dello Stato. Lo Stato fascista ha imposto questa regola: non ci deve essere sopruso fra il datore di lavoro e chi lavora. Una volta a salvaguardare i nostri interessi c'erano i sindacati di mille colori. Ora il sindacato ha un solo aspetto e una sola funzione: è fascista.

Pagina 99

La freccia d'argento

212093
Reding, Josef 4 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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- Abbiamo frugato dappertutto, ma non si è trovato niente! - risponde Alo mogio mogio. - Chissà che il trafiletto nel giornale della sera non porti un po' di luce in questa faccenda così oscura! Qualche ora fa ne ho informato per telefono la redazione. Non l'avete letto?... Aspettate? Ecco qua! Il cappellano pesca il giornale tra le carte della sua scrivania e legge un brano della cronaca locale:

. - Come le ho detto, non abbiamo ancora cominciato a costruirla. Al più presto potrà esser pronta un giorno prima della corsa. Pensi che non abbiamo neppure raccolto tutto il materiale! Ma da oggi lavoriamo a turni ravvicinati. La Freccia d'argento resterà dove l'avremo costruita, cioè nel vecchio capannone del club nautico, sul canale. Io penso che potrebbe venir esaminata il 29 aprile. - Di mattina o nel pomeriggio? - Le ore del mattino sono le madri di tutti i vizi, signor maestro! Diciamo piuttosto: nel pomeriggio. - E va bene. Ora dammi trenta pfennig come tassa di iscrizione. - Per la miseria! Meno male che Cosino mi ha dato gli ultimi sesterzi della cassa del gruppo. Io lo dico sempre, signor Brock: meglio una gallina oggi che un uovo domani! Ecco i trenta baiocchi! - Grazie tante. Eccoti la ricevuta. E allora: in bocca al lupo! - Andrà, andrà senz'altro, signor Brock! Arrivederla! - Arrivederci, Stucchino! Stucchino fa dietro-front e... si trova faccia a faccia con un perticone dallo sguardo bieco, che mastica senza posa. Quel tipo, insaccato in un doppiopetto troppo piccolo per lui, doveva essere là da un pezzo, dietro a Stucchino. Avrà udito certamente le informazioni precise fornite da lui. Seguito da quello sguardo sfuggente, Stucchino se ne va senz'ombra di sospetto: egli non ha notato il piglio torvo e minaccioso di quel lasagnone. I suoi passi si perdono nel lungo corridoio. Con noncuranza affettata, le mani sprofondate nelle tasche sformate dei pantaloni, lo spilungone si avanza fino al tavolo delle iscrizioni. Con voce nasale risponde alle domande che gli rivolge il maestro Brock. - Il nome della vettura? - Airone rosso! - Quello del pilota? - Ed-mastica-gomma! O anche Ede Ranzig, se preferisce! - Costruita da un ragazzo solo o da un gruppo? - Da un gruppo. - E quale? - La banda del Nord! - Quando sarà pronta la vettura e dove potrà venir esaminata per l'ammissione? - Per me possono venire tre giorni prima della corsa. La nostra carretta è già quasi pronta. La teniamo nella cantina del macello incendiato, nel Vicolo dei Bottai. E dica un po': quali altre macchine corrono, oltre alla «cassa d'argento», o come lo chiamano quello strano trabìccolo? E dove si trovano? - Segreto del comitato! Io non posso dir nulla - replica brusco il signor Brock. - Be', lasci stare! Bai bai! - Alt! Mi devi trenta pfennig come tassa di iscrizione. - Ecco il sonante! Ed-mastica-gomma estrae dalle misteriose profondità delle sue tasche tre monete da dieci pfennig e le spinge sul tavolo con le lunghe dita sudicie; quindi si allontana rigido sulle sue gambe legnose. Giunto fuori, spiaccica la cicca di gomma contro la parete e bofonchia velenoso, mentre il suo viso si contrae in un sogghigno: - In bocca al lupo, Freccia d'argento e Stucchino! In bocca al lupo! Prendetelo alla lettera, questo pio desiderio, proprio alla lettera, voialtri crociati che puzzate di latte! Il ghigno minaccioso non scompare dal volto di Ede, neppure quando si ficca tra i grossi denti gialli da cavallo una nuova gomma da masticare e scende incespicando le scale del Municipio.

Pagina 15

Abbiamo fatto tardi con quella baldoria... Il mio amico compiva gli anni, e ne abbiam fatto del mangiare e del bere! Ma che sciocco interrogatorio mi stai facendo! Sarò pur padrone di fare quel che mi pare, no? Stammi a sentire, Jörg! Oggi dopo pranzo, verso le tre, passa un momento da casa mia. Ho ancora là una latta d'olio. Io che corro devo andar più presto al raduno, e poi ho altri impicci da portarmi dietro. La corsa comincia alle tre e mezzo, lo sai... Naturalmente io devo essere in forma! - Va bene, Ed! Alle tre sono da te! - A quell'ora io sono già via. Tu vieni poi. La latta dell'olio è nella stalla dove tengo i miei attrezzi da lavoro. Sii puntuale, mi raccomando! - Non dubitare! - Allora io mi vado a buttare sul letto. È stata una nottata faticosa, te lo dico io! Ed-mastica-gomma insacca la testa fra le spalle, sprofonda le mani nelle tasche e scompare a gran passi dietro la cantonata più prossima. Jeirg rimane lì fermo, soprappensiero. Preoccupato, segue con lo sguardo il capo della sua banda. Poi si riscuote, scaccia tutti i dubbi e, fischiettando un'allegra canzoncina, prosegue indefesso la distribuzione dell'Eco del giorno di casa in casa.

Pagina 74

Guardie di frontiera e mitragliatrici non ne abbiamo mobilitate. Però la nostra polizia ha i cent'occhi d'Argo. Abbiamo pensato anche all'eventualità del sabotaggio e abbiamo preso i provvedimenti del caso. I boxes per le singole vetture sono sottoposti a una stretta vigilanza. - Lei mi toglie un gran peso dal cuore! - Bene, ora andate ai vostri alloggi. Guardate quanti altri aspiranti campioni fanno la coda dietro di voi! Oltre tutto dovete tenere in serbo le forze per la lotta di domani, che si prevede accanita. Arrivederci! I ragazzi se ne vanno ai loro alloggi. «Ostello della gioventù al porto», aveva detto quell'affabile signore del comitato... Ma che cos'è questo? Un ostello del genere i ragazzi non l'hanno mai visto, e tanto meno vi hanno pernottato! È una nave in piena regola. Un veliero a tre alberi, con sartiame e ruota del timone, con pennone e una polena rozzamente scolpita sul bompresso. Proprio come ai tempi di Störtebecker il pirata! Stucchino non si meraviglierebbe se, tutt'a un tratto, un paio di intrepidi pirati lanciassero gli arpioni d'arrembaggio e scavalcassero le murate, sguainando le sciabole lucenti. È un vero miracolo che l'audace pilota della Freccia d'argento, con quel suo capo tra le nuvole, non metta un piede in fallo nel salire la passerella e non precipiti nell'acqua salmastra del porto! Tutte quelle novità, quegli avvenimenti che si susseguono vertiginosamente hanno elettrizzato lui, Jörg e Hai fino alla punta dei capelli. A casa, nella cittadina di C., non si è del resto meno eccitati. Il padre di Stucchino, l'avvocato Ramthor, sfoglia nervosamente il radiocorriere per sapere a che ora, l'indomani, verrà trasmessa la cronaca sportiva. Infatti è annunciata una trasmissione del derby da Amburgo. L'avvocato ascolterà per la prima volta in vita sua una cronaca sportiva: una corsa a cui prende parte il suo figliolo non può lasciarsela sfuggire! Almeno con le orecchie bisogna che sia presente. Anche tra i crociati e i ragazzi della Stella del Nord l'eccitazione è al colmo, nell'attesa della trasmissione. E il cappellano Holk? Già, il cappellano!... Quando appunto stava mandando a monte tutti gli altri impegni, successe un piccolo dramma. Andò così: la presidentessa del club Signorine Ottocento venne ad interpellarlo tutta melliflua: - Reverendo, potrei pregarla di onorare con la sua presenza il nostro circolo, domani nel pomeriggio? Prenderemo insieme una tazza di caffè! Il cappellano rifiuta l'invito piuttosto bruscamente: - Sono dolentissimo, gentilissima signorina, ma io domani pomeriggio devo ascoltare la cronaca sportiva. - Cosaaa?! - La cronaca sportiva. - La cronaca sportiva?! - ripete la presidentessa, che quasi non connette più, tanto è sbalordita. - Lei, reverendo, ascolta la cronaca sportiva?! NOOO! - e se ne va via torcendosi le mani e barcollando, quasi avesse ricevuto una mazzata in testa. «...e coraggiosamente se la diede a gambe!» l'avrebbe burlata Stucchino. Nella segheria, il Segantino sta armeggiando intorno alla sua nuova radio. Come tutti gli apparecchi nuovi, anche questa sei-valvole ha i suoi ghiribizzi. E per la partita che deve disputarsi domani pomeriggio alla società bocciofila «Pinco Pallino», di cui fa parte, il Segantino ha mandato a dire che è dolentissimo, ma deve rinunciare. È la prima volta che manca a una partita da quando è membro della società: il motivo dev'essere ben grave!

Pagina 98

Tutti per una

214921
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Non abbiamo diritti sui figli - provò a dire Virgilio Zambelli, prendendola a braccetto. - E poi, loro devono pensare al futuro... - Anche noi dovremmo pensarci, ogni tanto - fece la Pinuccia, scontenta. - Siamo vivi, no? Perché ci siamo lasciati il futuro dietro le spalle? Perché? Neanche il professore lo sapeva. Ma sentiva che la Pinuccia, con la sua logica elementare e impietosa, aveva toccato il cuore del problema.

Pagina 62

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215268
Garelli, Felice 1 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
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Ebbene, gli stessi doveri abbiamo tutti verso la patria. Essa è la nostra madre comune; noi dobbiamo quindi amarla, onorarla, obbedirla, e con le opere farci degni di lei. Niuno può essere buon cittadino, se prima non è buon figliuolo. La patria si vergogna dei cattivi cittadini; come la famiglia piange pei figlioli che riescono male. Dunque tuo primo dovere è quello di essere onesto, e virtuoso. Un paese s'arricchisce, e prospera, se tutti lavorano; al contrario va in rovina, se è pieno di oziosi. Così la patria divien ricca e forte, se tutti i cittadini adoperano utilmente l'ingegno, e le forze. Son tanti i modi di giovare alla prosperità della patria. C'è posto per tutti; e ognuno deve occupare onoratamente quello che gli è assegnato. Il tuo posto, o giovinetto, è larghissimo. L'Italia ha nell'agricoltura la sua maggiore ricchezza. Perciò, tu imparando a ben coltivare la terra, migliorerai la tua condizione, e farai la fortuna della patria. Questa diverrà la più ricca nazione del mondo, come già ne è la più bella. La patria ha bisogno d'uomini in armi che la difendano dagli stranieri e dai nemici delle sue libertà; sceglie quindi, senza distinzione di nascita, i giovani più robusti per farne soldati. Quando sia il tuo turno, corri volonteroso alla chiamata, paga il tuo debito alla patria. Il disertore è un vigliacco, un infame; egli rinnega la patria, si rifiuta a servirla sotto le sue bandiere; è un traditore, e il disprezzo di tutti lo segue in capo al mondo. Per quanto sia doloroso il distacco da' tuoi cari, va dove il dovere, e l'onore, ti chiama. La famiglia, la madre ti saluterà con lacrime di gioia, se ritornerai al suo seno con la medaglia dei valorosi sul petto. Al tuo ritorno non parrai più quello. La vita militare con le sue fatiche, la disciplina, la devozione al dovere, la comunanza di gente d'ogni paese, ti restituisce alla famiglia migliore di prima, più robusto, più istruito, più educato. La patria è personificata nell'augusto Re Umberto che ci governa. Egli ha combattuto sui campi Lombardi, a fianco dell'immortale suo padre Vittorio Emanuele, per la indipendenza d'Italia; egli ha consacrato la sua vita al bene della patria; egli, Galantuomo come il padre suo, rispetta e fa rispettare le leggi fondamentali dello Stato. Merita quindi tutto l'ossequio, e l'affetto degli Italiani. Obbediamo dunque alle sue leggi, difendiamo il suo trono dai nemici, ricordiamo sempre che la bandiera del Re è quella della patria.

Pagina 56

le straordinarie avventure di Caterina

215700
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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Pagina 57

Quartiere Corridoni

217036
Ballario Pina 7 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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In Sardegna ne abbiamo moltissimo, depositato durante centinaia di anni, da milioni di corvi. - Sì, ma i corvi non sono passeri - brontola Luciana. Le compagne ridono. Avrebbe preferito farsi mancare di rispetto da un corvo?

Pagina 162

Abbiamo via libera verso l'America. Torna indietro a oriente, entra vittoriosa nel Canale di Suez, vi pianta la bandiera italiana: ecco aperta anche la strada per l'Impero. Quando la mamma ritorna, l'Italia è padrona assoluta del Mediterraneo e il bambino si sente nella pelle di un ammiraglio. Il Mediterraneo, se per gli altri è una via, per noi è la vita. MUSSOLINI

Pagina 196

. - E riflettiamo: il segno che abbiamo fatto con la destra sul nostro corpo ci ricorda la Passione e la Morte di Gesù in Croce, mentre le parole che abbiamo dette col labbro sono un atto di fede in una grande verità della Religione: l' Unità e la Trinità di Dio. Cioè: Dio è uno solo; Dio è onnipotente, è eterno, è immenso, e non può essere che uno solo. Ma in Dio vi sono tre Persone realmente distinte che si chiamano appunto: Padre, Figliuolo e Spirito Santo; e questo è un mistero, un grande mistero.

Pagina 225

Noi li conosciamo anzi, tutti abbiamo ricevuto il primo ch'è il più necessario: il Santo Battesimo. Appena nati, i nostri cari ci hanno portati alla chiesa, e mentre il sacerdote ci versava l'acqua sul capo e diceva le parole: - Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, - la grazia santificante adornava la nostra anima con una bella veste divina, e ci rendeva amici di Dio, figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo, eredi del paradiso. Da quel punto la Chiesa ci ha accolti: noi siamo divenuti cristiani. Alcuni di noi hanno ricevuto pure la Cresima. È il Vescovo che l'amministra. Con questo Sacramento riceviamo in modo speciale i doni dello Spirito Santo, e diventiamo soldati di Gesù Cristo, capaci di professare con coraggio la Fede di Lui.

Pagina 240

Pagina 31

Abbiamo voluto essere i primi... La mamma ride, soffocata dalle loro effusioni. - Infatti siete proprio i primi. È mezzanotte e un minuto.

Pagina 39

Gli dissero - Noi non abbiamo nessuna altra ricchezza che te. Tu ci dai la gioia, tu ci dai la salute. Il sole si commosse e tornò a splendere per tutti. Anche per i cattivi. I cattivi dovrebbero diventare buoni, vedendo quanto è buono il sole.

Pagina 98

Al tempo dei tempi

219279
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Non ti abbiamo dimostrato affetto? Non ti abbiamo fatto del bene? - Sì, sì, sì - rispose Ruggiero. - Siete bellissime, mi avete dimostrato molto affetto che vi contraccambio, mi avete fatto del bene di cui vi sono grato, ma.... - Ma? - ripetettero le sette Fate. - Ma non siete la Reginuccia. Lei, lei sola voglio per isposa. - Le sette Fate divennero a un tratto sette vipere. - Sentitelo, il presuntuoso! Vuole nientemeno che la Reginuccia! Ah! ah! ah! - e tutte e sette gli andarono a rider sul muso, canzonandolo. - Un bel cavaliere non può forse pretendere alla mano di qualsiasi principessa? - domandò il giovane. - Ah! ah! ah! cavaliere perchè ha il cavallo! Leviamoglielo! - E una delle Fate cavò fuori la bacchetta e disse - Comandiamo e vogliamo che il cavallo rompa la cavezza e fugga! - La Fata non aveva appena detto così, che si sentì giù un gran fracasso e poi lo sealpitìo di un cavallo in fuga. - Ah! ah! ah! - fecero le Fate - il cavallo è scappato e il cavaliere non è più cavaliere. E come farà a pretendere alla mano della Reginuccia? - Ruggiero, nel vedersi così schernito, andò su tutte le furie. - Maledette! Maledette, andatevene! - urlava. - Sì, sì, ma prima ti toglieremo quel che ti avevamo regalato, pezzente, - dissero le Fate, e tramutandosi a un tratto in civette gli s'avventarono alla faccia e si misero a strappargli a uno a uno i peli dei baffi e quelli della barba! Ruggiero cercava di difendersi e strillava come un dannato : - Ahi! Ahi! Ahi! - Quando lo ebbero tutto pelato e scorticato che faceva sangue da tutte le parti, lo buttarono in terra e due si misero a storcergli le gambe che gli avevano raddrizzate, due a spingergli le ossa per farlo ritornare piccino, e tre, perchè la fatica era maggiore, a rifargli la gobba e non si contentarono di fargliela di dietro, gliela fecero anche davanti. Poi, così conciato, lo abbandonarono, e volando via dal finestrone se ne andarono per non farsi vedere mai più! Figuratevi la rabbia del gobbo! Figuratevi le esclamazioni della sora Maruzza e della sora Leonora quando entrarono in camera di Ruggiero e lo videro ritornato come prima e anche peggio! Figuratevi i commenti del vicinato! Basta dire che Ruggiero non si alzò più, non si fece più vedere da nessuno e di lì a pochi mesi morì dalla rabbia. Il cortile dove le Fate ballarono si chiama ancora Lu curtigghiu di li sette Fati ed il perchè ve l'ho detto.

C'era due volte il barone Lamberto

219514
Gianni Rodari 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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. — Col suo permesso, signor barone, al pancreas abbiamo assegnato il numero undici. — Cosa mi dici! Il numero undici non è la cistifellea? — Cistifellea cinque, signor barone. Controlli lei stesso. — Non importa, Anselmo, non importa. Che tempo fa? — Nebbia, signor barone. Temperatura in diminuzione. Neve sull'arco alpino. — Sarà ora di andare in Egitto, eh? Il barone Lamberto possiede una villa anche in Egitto, a due passi dalle piramidi. Ne ha un'altra in California. E poi una sulla Costa Brava, in Catalogna, e una sulla Costa Smeralda, in Sardegna. Possiede pure appartamenti ben riscaldati a Roma, Zurigo e Copenaghen. Ma d'inverno, piú che altro, va in Egitto a cuocersi al sole le vecchie ossa, specialmente quelle lunghe, il cui midollo è tanto importante perché è la fabbrica dei globuli rossi e dei globuli bianchi. Cosí, anche quella volta vanno in Egitto. Però ci restano poco. Difatti succede che, durante una passeggiata lungo il Nilo, incontrano un santone arabo e fanno un po' di conversazione con lui. In seguito a questo incontro il barone Lamberto e il maggiordomo Anselmo volano in Italia con il primo aereo e tornano a chiudersi nella villa sull'isola di San Giulio, a fare certi esperimenti. Passa del tempo e non sono piú soli. Nelle

Pane arabo a merenda

219755
Antonio Ferrara 1 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
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Per fortuna noi a casa non abbiamo la tele.