Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La fatica

169748
Mosso, Angelo 25 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Ogunuo sa che anche nel cervello abbiamo un allenamento e l'esercizio ha una grande influenza per rendere più facile il lavoro intellettuale. Ad averne una prova basta rammentare ciò che Vittorio Alfieri scrisse Vita di Vittorio Alfieri, pag. 190. nella sua vita: "deliziosissimi momenti mi furono ed utilissimi quelli, in cui mi venne fatto di raccogliermi in me stesso, e di lavorare efficacemente a disrugginire il mio povero intelletto, e dischiudere nella memoria le facoltà dell' imparare; le quali oltre ogni credere mi si erano oppilate in quei quasi dieci anni continui d'incallimento."

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Richet ha dimostrato che abbiamo due meccanismi nervosi i quali indipendentemente dalla nostra volontà, regolano i movimenti respiratorî per raffreddare colla ventilazione il sangue. Il primo è fatto dai nervi sensibili che stanno nella pelle. "Se per un motivo qualunque, dice Richet, questo apparecchio periferico non funziona, la natura previdente ne ha preparato uno più centrale per la refrigerazione, che supplisce quando manca l’avviso dei nervi periferici. Questo apparecchio, che sta nei centri nervosi, è un apparecchio di precauzione che normalmente non deve funzionare, ma che può sostituire i riflessi prodotti dai nervi cutanei quando questi sono insufficienti od impediti a funzionare." Se un cane faceva per esempio 16 respirazioni al minuto, elettrizzando i centri nervosi in modo che si produca un aumento della sua temperatura, farà 340 respirazioni al minuto quando avrà, la temperatura di 42°, 8. È un alimento enorme, perchè il cane respira più di 22 volte più rapido che nello stato normale: ma quando l' animale si sarà raffreddato fino a 39°,7 farà ancora 240 respirazioni, cioè dodici volte più che nel principio. Vi è dunque una certa inerzia in questo congegno del raffreddamento per la respirazione, perchè un animale messo in un ambiente molto caldo non si mette subito a respirare con maggior frequenza, e non cessa immediatamente l'affanno quando si ristabilisce la temperatura normale.

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Kronecker aveva già osservato nelle rane, che la contrattura si produce sempre nel principio di una serie di contrazioni, che raggiunge presto il suo massimo, come abbiamo veduto ripetersi nell'uomo, e poi scompare. Ma basta un riposo di due minuti perchè la contrattura ricompaia. Adoperando una corrente elettrica di una intensità maggiore, il fenomeno della contrattura è più forte, come si vede nella seguente esperienza (figura 16). Il dito medio della mano sinistra, sostiene 200 grammi. Irritando direttamente il muscolo con una corrente indotta, succede una prima contrazione: quando cessa lo stimolo il muscolo non si rilascia più completamente. Dopo due secondi si ripete lo stimolo, il muscolo torna a contrarsi, ma non si rilascia completamente, e così il dito medio rimane flesso, e ad ogni stimolo si contrae. Dopo 16 contrazioni cessiamo di irritarlo, e allora nel muscolo cessa la contrattura e si distende lungamente come si vede nel tracciato. RichetCH. RICHET, Physiologie des muscles et des nerfs. 1882, pag. 78. aveva già fatto delle osservazioni assai importanti sulla contrattura nei muscoli dei gamberi. Egli trovò che non presentano più questo fenomeno quando sono stati lungamente in prigionia fuori del loro ambiente naturale. Anche adoperando

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Nel sangue abbiamo un corpo albuminoso liquido, che coagula senza bisogno di calore, appena viene fuori dai vasi sanguigni; nei tessuti dell'organismo vi sono altri corpi albuminosi egualmente liquidi che si rapprendono e divengono consistenti appena cessa la vita. La rigidità cadaverica è un fenomeno di coagulazione. Alcuni animali irrigidiscono rapidissimaniente; citerò le sardine, ad esempio. Mi ricordo che quando volevo studiare il sangne di questi animali, era quasi impossibile procurarmi delle sardine vive. Malgrado tutte le premure che si prendevano i pescatori della Stazione zoologica di Napoli, bastava tirarle fuori delle reti per metterle in un secchio d'acqua perchè subito morissero, e si facessero rigide. Volli andare io stesso sulla barca, perchè mi era venuto il dubbio che l' agitazione del vedersi prese nella rete, e i forti movimenti che facevano, potessero essere causa della loro morte. Vidi infatti che diventavano rigide in due o tre minuti. A questa rapidissima coagulazione della sostanza del tessuto muscolare, corrisponde un' alterazione rapidissima del sangue, cosìcchè non ci è modo di conservare i corpuscoli senza che essi perdano l’emoglobina o si scoloriscano. Direi che sono degli organismi fatti con cellule di un'estrema fragilità. Invece altri pesci resistono lungamente prima di divenir rigidi, e mi parve che nei pesci che hanno il saugue più resistente anche la rigidità fosse meno rapida. La coagulazione è dunque un fatto comune alle cellule dell' organismo ed è uno dei caratteri della morte. È stato il professor W Kühne che spiegò per primo il meccanismo intimo della coagulazione. Egli aveva osservato che i muscoli delle rane, tenuti al freddo irrigidiscono con grande lentezza, e che si possono congelare fino ad indurirli senza che perdano la loro eccitabilità quando si fanno disgelare. Kühne prendeva molti muscoli di rane, e nell'inverno dopo averli ripuliti bene del sangue e di ogni altro liquido albuminoso, che potessero contenere, li triturava alla temperatura di -7°, e li pestava in un mortaio. Li spremeva ad una temperatura di circa zero gradi, e li filtrava;il liquido ottenuto aveva un colore opalescente e alquanto giallo. Lasciandolo alla temperatura della stanza coagulava come il sangue. Alla sostanza coagulata Kühne diede il nome di miosina: il liquido che rimane è il siero dei muscoli. Collo stesso metodo, Halliburton estrasse dal coniglio e da altri animali a sangue caldo la miosina. Noi possiamo ritenere ora come dimostrato, che la massa principale dei corpi albuminosi e quindi anche della sostanza contrattile dei nostri muscoli è fatta di miosina. Quando osserviamo un cadavere, vediamo che il primo segno della rigidità comparisce nella mandibola. I muscoli che stringono i denti sono forse i più eccitabili. Anche nel tremito e nella febbre cominciamo a battere i denti, quando nessun altro muscolo è ancora invaso dal tremito. Nel tetano, la chiusura della bocca è pure uno del sintomi con cui esordisce questa terribile malattia. Il tempo nel quale incomincia la rigidità cadaverica, può variare da mezz'ora od un quarto d'ora, fino a ventiquattro ore. Se si tagliano i muscoli di un cadavere irrigidito, le articolazioni si trovano perfettamente mobili. Questo prova che la inflessibilità ha proprio la sua causa nei muscoli, e che non è succeduto alcun cambiamento nelle articolazioni per effetto della morte. Ho studiato col professor L. PaglianiA. Mosso e L. PAGLIANI, Critica sperimentale della attività diastolica del cuore. Torino, 1876, la rigidità, cadaverica nel cuore del cane, ed abbiamo veduto che talora essa comincia prima che il cuore abbia cessato di battere spontaneamente. È probabile che succeda lo stesso nel cuore nostro, e che quando si rallentano i suoi battiti nell'agonia, abbia già cominciato quel processo della alterazione del muscolo, che dovrà, farlo irrigidire. Per farci un'idea di questo fenomeno abbiamo fatto delle esperienze nel cane, dalle quali risultò che nelle quattro prime ore, eccetto dei movimenti fibrillari e delle piccole oscillazioni, il cuore, staccato dal corpo, rimane quasi immobile. Verso la quarta ora incomincia la vera contrazione della rigidità cadaverica, e questa in circa due ore raggiunge il suo massimo.

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Per servirmi di un esempio dirò che anche per il digiuno nel primo giorno si consumano dei materiali che abbiamo nel corpo, i quali sono diversi da quelli che spremeremo per così dire dai nostri tessuti negli ultimi giorni della inanizione. Ho detto che il nostro corpo risente un danno maggiore per il lavoro che fa quando è già stanco. Una delle ragioni di questo fatto è che un muscolo avendo consumata nel lavoro normale tutta l'energia della quale poteva disporre, si trova obbligato per un soprappiù di lavoro ad intaccare per così dire, altre provvigioni di forza che teneva in riserbo; ed a far questo occorre che il sistema nervoso lo aiuti con una maggiore intensità dell'azione nervosa. Ma quantunque lo sforzo nervoso sia più cospicuo, il muscolo stanco si contrae debolmente. Quando solleviamo un peso vi sono due parti che si affaticano: l'una è centrale, puramente nervosa, cioè la parte impulsiva della volontà, l'altra è periferica, ed è il lavoro chimico che si trasforma in lavoro meccanico dentro alle fibre muscolari. Kronecker aveva già detto che il peso non stanca ma che l'eccitamento stanca. Ho voluto provare se questa legge trovata nelle rane è pure vera per l'uomo. Adattai all' ergografo una vite, V (fig. 5. capitolo IV). Girando questa vite che passa dall'altra parte del montante I fra le due sbarre d' acciaio, nelle quail si move il corsoio N, si dà al peso un punto di appoggio più vicino alla mano: e il dito medio viene esonerato dal peso nel principio della sua contrazione. Se mentre il muscolo si contrae per fare un tracciato della fatica, noi giriamo avanti la vite V dell' ergografo, possiamo far sì che il dito lavorando, prenda il peso ad altezze successivamente minori. Scaricandolo a questo modo del peso, vediamo che nel principio quando il muscolo è riposato non si accorge della differenza. Il muscolo pare dunque indifferente al peso che solleva quando è nella pienezza delle sue forze. Una volta dato l'ordine al muscolo di contrarsi, questo produce il massimo del suo raccorciamento sia che il peso debba sollevarlo per tutta la contrazione, o solo durante una parte della medesima. In questa prima parte delle mie esperienze venne confermato quanto Kronecker aveva osservato nelle rane. Quando l' energia del muscolo è diminuita per effetto della fatica, il muscolo sente un beneficio se lo si scarica, dandogli un appoggio che lo liberi da una parte del peso. Chi dopo essersi affaticato solleva con stento 50 chilogrammi, troverà che uno di più è troppo pesante. Ma se non è stanco e ne solleva 80 o 100, uno o due di più oltre il cinquantesimo passano inavvertiti. Avremo occasione di esaminare meglio questo fatto, intanto possiamo, da quanto ho detto, paragonare i movimenti alle sensazioni. Vediamo ripetersi qui ciò che tutti abbiamo provato in un concerto, dove non ci accorgiamo se nell'orchestra vi sono 35 o 40 violini. Entrando in una sala sfarzosamente illuminata, non ci accorgiamo se le candele accese solo 90 o 100, ma quando non vi sono più che due candele accese, o due violini che suonano, ci accorgiamo subito se uno cessa di suonare o l'altra di splendere. Così noi intravediamo una prima legge della fatica e delle sensazioni, che cioè l'intensita loro non è del tutto proporzionale all'intensità della causa esteriore che le provoca.

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Che oltre la respirazione, vi siano altre cause capaci di produrre dei periodi nelle funzioni dei centri nervosi, lo abbiamo veduto or ora, perchè nella stessa respirazione vi sono dei periodi quando siamo distratti. Nel sonno profondo l'attività del respiro può venir interrotta regolarmente da delle pause che durano anche mezzo minuto. Dei periodi uguali si presentano pure nella tonicità dei vasi, e nella funzione del cuore. Fino dal gennaio 1884, in un lavoro che presentai alla Accademia dei Lincei, sulla respirazione periodica, avevo detto: "Ritengo essere una condizione naturale alla, vita dei centri nervosi che quando vengono destati dal riposo, non ricadano immediatamente nello stato primitivo, ma vi ritornino con una serie di oscillazioni, in cui l'eccitabilità cresce e diminuisce gradatamente." Tutti abbiamo provato nell'addormentarci (o quando ci svegliamo e dopo riprendiamo sonno) che vi sono delle idee e delle imagini che oscillano nel campo della coscienza, le quali appaiono e scompaiono fino che ci sfuggono del tutto. Quando di notte ascoltiamo i battiti di un orologio, o il rumore di una cascata, riesce a molti di accorgersi che vi sono dei periodi nei quali si rinforza, o si indebolisce il suono. E cambiando l’orologio non cambia la durata di questi periodi, perchè la causa è nel cervello. Studiando la circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, osservai degli aumenti e delle diminuzioni analoghe nella quantità di sangue che affluisce al cervello. Nel sonno il nostro respiro è regolare, ma basta fare un leggero rumore perchè succeda un arresto del respiro, poi una inspirazione profonda e quindi per alcuni minuti le respirazioni aumentano progressivamente in forza e poi diminuiscono, facendo una figura sul tracciato come la cuspide delle canne da organo, poi una leggera pausa, quindi un altro periodo, ed un terzo ed un quarto, dopo i quali la respirazione diventa uniforme. A questo fenomeno ho dato il nome di oscillazioni successive. L'energia dei centri nervosi, non si svincola sempre in modo continuo, ma tende a svincolarsi con dei periodi di maggiore o minore attività. Quando si turba l'equilibrio dei centri nervosi nascono delle oscillazioni che vanno gradatamente scemando, oppure diventano il principio di oscillazioni sempre più forti, come nel suonare una campana ogni trazione della corda accumula la forza che produce oscillazioni maggiori. Questo che dissi per la respirazione, serve pure per i fenomeni dell'attenzione e della fatica. Per convincersene basta fissare il sole od una candela nell'oscurità della notte, per stancare un punto della retina ed avere dopo una imagine successiva come effetto della fatica. Fissando questa imagine vediamo che essa scomparisce dopo un certo tempo e poi ricompare. E queste oscillazioni si ripetono per un tempo abbastanza lungo, fino a che scompaiono del tutto. Le medesime oscillazioni si percepiscono pure negli altri sensi. Quando si mette la fronte in contatto con una lastra fredda di vetro, per esempio dinanzi alla vetrata di una finestra, si sente che l'impressione del freddo dura per un certo tempo, dopo che è cessato il contatto col vetro. Questa sensazione non decresce uniformemente in intensità, ma si hanno delle sensazioni consecutive ora di caldo e ora di freddo; l'intensità della sensazione si rinforza quattro o cinque volte, poi cessa del tuttoBEAUNIS, Physiologie humaine, 1888. Vol. II, pag. 593.. Mi sono trattenuto a parlare alquanto estesamente di questi periodi perchè essi ci lasciano intravedere la rapidità colla quale si stancano i centri nervosi. Ritengo come molto probabile che la stanchezza in una cellula nervosa del cervello compaia dopo soli tre o quattro secondi di lavoro. L'attività, prolungata del cervello, malgrado questo esaurirsi rapidissimo dei suoi elementi, si spiega pensando che nelle circonvoluzioni cerebrali abbiamo due miliardi di cellule, e che queste possono supplirsi nei loro uffici. Già fino dal 1874 in una serie di osservazioni che ho fatto in Lipsia col dottor Schön avevo veduto che quando si copre un occhio e coll'altro, senza punto fissare, si guarda una superficie uniformemente colorata, come ad esempio il cielo, una nube od una parete imbiancata, il campo visivo si oscura e si rischiara a periodi regolari. Il campo visivo nell' oscuramento appare di un colore giallo verdognolo, talora azzurro, spesso di un colore indistinto. Questi oscuramenti hanno nelle varie persone una durata differente, e si ripetono in media da cinque a dodici volte al minutoA. Mosso, Sull'alternarsi del campo della visione. Giornale della R. Accademia di medicina di Torino, 1875. Vol. XVII, pag. 124..

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Che prevalga però l'eccitazione abbiamo troppi segni evidenti per poterlo negare. L'atteggiamento spesso di chi sta aspettando l'impressione di un suono, o di un segno, i movimenti della testa e l'espressione della faccia vi dimostrano che la natura dell'attenzione è strettamente collegata coi fenomeni motori. Vi sono delle persone molto eccitabili che soffrono di un tic convulsivo, per il quale contraggono i muscoli della fronte ed aggrottano le sopracciglia, oppure contraggono a scosse i muscoli della faccia: in esse le emozioni e l'attenzione rendono più forti e molto più frequenti le contrazioni dei muscoli. In alcuni l'eccitabilità nella sfera motoria diviene così grande che da loro molestia, tutte le volte che devono stare attenti. Ho conosciuto delle persone le quali nei momenti difficili di un'operazione chirurgica, senza aver alcuna paura, si mettevano a tremare. Negli esercizi pratici che fanno gli studenti nel mio laboratorio ho fatto spesso questa prova: mentre hanno in mano qualche strumento delicato, o stanno versando un liquido in modo che esca dal vaso un numero determinato di goccie, accade, se loro si raccomanda di stare bene attenti, che subito le mani comincino a tremare, e tutto vada alla peggio. Vi sono altri, come i fanciulli e le donne, che fanno delle smorfie quando concentrano la loro attenzione in qualche lavoro, allungano le labbra, aggrottano le sopracciglia; altri si grattano il capo, ed alcuni chiudono un occhio. Fechner descrisse uno stato speciale di tensione che noi sentiamo nella testa e particolarmente all'occipite, quando è più intenso il lavoro del pensiero. Un mio amico, che certo non aveva mai sentito parlare di questa sensazione descritta da Fechner, mi diceva che quando lavorava molto doveva smettere unicamente per questa molestia che sentiva nell'occipite, e che col riposo mentale essa scompariva sempre. Nell'attenzione abbiamo due fatti distinti: l'uno consiste nel rinforzare le rappresentanzioni interne, l'altro nell'impedire che le impressioni esterne giungano alla coscienza. Si può lavorare tra i rumori, ma certo costa più fatica per non lasciarci disturbare nel lavoro della riflessione. Tanto l'uno quanto l'altro di questi fatti fondamentali non sappiamo spiegarli. Forse è meno difficile comprendere come noi possiamo ridurre al silenzio altre impressioni più forti che agiscono sul sistema nervoso, mentre concentriamo l'attenzione su altre cose. Ma non sappiamo ancora decidere se sia questa parte che diminuisca o se non sia piuttosto la rappresentazione interna in cui si concentra l'attenzione quella che si rinforza. Certo gli organi di senso funzionano nello stesso modo tanto quando siamo distratti come quando stiamo attenti. Guardando fissamente un colore non ci sembrerà nè più chiaro nè più scuro per quanto sia grande lo sforzo della nostra attenzione. Si tratta qui di mutamenti che succedono nelle intime parti del cervello: e dobbiamo sperare che si riesca, a portar un po' di luce in questi fenomeni, che sono il fondamento della nostra vita psichica. BainBAIN, The psycho- physical process in attention. 1890, Part. II, P 154., Sully, Lange ed altri considerano l'attenzione come un fenomeno motorio e fondano questa ipotesi sulla stretta affinità che passa fra l'esercizio muscolare e quello mentale. RibotRIBOT, Psychologie de l'attention, pag. 32. si è pure occupato di questo importante problema; ed ecco come egli determina l'ufficio dei movimenti nell' attenzione. "Les mouvements de la face, du corps, des membres, et les modifications respiratoires qui accompagnent l'attention sont-ils simplement, comme on l'admet d'ordinaire, des effets, des signes? Sont-ils, an contraire, les conditions nécessaires, les éléments constitutifs, les facteurs indispensables de l'attention? Nous admettons cette seconde thèse, sans hésiter. Si l'on supprimait totalement les mouvements, on supprimerait totalement l'attention." Quando cogli occhi chiusi pensiamo ad una matita, dice LangeLANGE, op. cit., pag. 415., facciamo prima un leggero movimento cogli occhi che corrisponde alla linea retta, e sovente ci accorgiamo di un leggero cambiamento nella innervazione della mano, come se toccassimo la superficie della matita. Lange trovò che in lui, tutte le volte che pensa ad un circolo, succede sempre un movimento dell'occhio che corrisponde a questa figura; onde egli afferma senza reticenze ed esclusioni, che solo per mezzo delle contrazioni muscolari è reso possibile il pensiero. Quanto alle rappresentazioni astratte Stricker aveva già dimostrato in modo sicuro l' esistenza della parola interna. E ciascuno si accorgerà facendo attenzione a se stesso, che quando egli pensa a qualche cosa di astratto, pronuncia silenziosamente dentro a se stesso la parola che la rappresenta o che sente almeno la tendenza a pronunciarla.

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Per tali esperienze abbiamo potuto persuaderci che la fatica non scompare, e che a misura che uno va stancandosi si prolungava il tempo della reazione fisiologica e bastavano pochi minuti di riposo, perchè l'attenzione rendesse uno più pronto alla risposta, quando veniva eccitato da una corrente elettrica, che lo pungeva nella mano o nel piede. Fechner aveva già rilevato che l'attenzione non dipende da ciò che i nostri sensi funzionino meglio. L'occhio, come abbiamo detto, non diventa più sensibile per effetto dell'attenzione; gli oggetti non ci sembrano più chiari, nè le immagini successive, dovute alla stanchezza, non sono più durevoli. L'attenzione, come dice Exner, agisce sulle parti del cervello dove le impressioni dei sensi sono già elaborate psichicamente fino ad un certo punto.

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Oltre l'attitudine che abbiamo di vedere e di sentire le cose esterne, noi abbiamo l'attitudine di vedere e sentire le impressioni, che gli oggetti esterni hanno lasciato dentro il nostro cervello. La coscienza, come dice WundtOpera citata, p. 230., è la somma di tutte le rappresentazioni presenti contemporaneamente ed attive.Non è un vaso misterioso e trasparente, che contenga le immagini della memoria e della immaginazione, ma sono queste immagini stesse che si ridestano continuamente, che noi chiamiamo la coscienza; è il contenuto non il contenente che ci lascia l'impressione del nostro io.

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Ciò che chiamiamo immaginazione e vivacità dello spirito, è l'attitudine che abbiamo a svegliare rapidamente tutte le sensazioni semplici e complesse, le rappresentazioni, le emozioni, e gli stati psichici che dopo aver lasciato una traccia nel cervello erano rimasti come assopiti o semispenti. Abbiamo molti fatti i quali ci dimostrano che questo riaccendimento delle immagini ha luogo nei medesimi elementi nervosi, dove agirono primieramente le impressioni esterne. Se guardiamo una persona che ha paura del solletico, nel momento che fingiamo di toccarla, noi vediamo che essa prende l'atteggiamento e sta per difendersi, come se si riproducessero in lei coll'idea tutti i fenomeni che accompagnano il solletico. Montaigne ha scritto un capitolo interessante sulla forza della immaginazioneMONTAIGNE, Essais, pag. 45. dove dice: "Nous tressuons, nous tremblons, nous paslissons, et rougissons, aux secousses de nos imaginations: et, renversez dans la plume, sentons notre corps agité à leur bransle, quelquefois jusques à en expirer: et la jeunesse bouillante s'eschauffe si avant en son harnois, toute endormie, qu'elle assouvit en songe ses amoureux desirs." Nella immaginazione gli occhi della mente si rivolgono dentro e contemplano le impressioni che gli oggetti e le emozioni passate lasciarono nella memoria. Noi diciamo che sono poeti ed artisti quelli che sanno veder meglio queste immagini. Ad alcuni questa visione interna manca quasi completamente, altri invece hanno molta attittudine a risvegliare e studiare le memorie delle cose passate. Una grande profusione di immagini, di ricordi, di idee a poco servirebbe praticamente, se non avessimo la facoltà di scegliere fra esse, accostarle e ordinarle. In che modo però si faccia questa scelta, è difficile dire. Questo è uno dei punti dove i psicologi moderni fecero poca strada. Tutti ci siamo accorti che i fenomeni della memoria alcune volte si svolgono indipendenti dalla rostra volontà, e contro la rostra volontà, così che noi restiamo del tutto passivi, ed altre siamo noi invece che risvegliamo le idee e le associamo col lavoro della mente. MünsterbergH. MüNSTERBERG, Beiträge zur experimentellen Psychologie, Heft 1, pag. 67 e 72.dice "è possibile che la riproduzione delle immagini tanto quando è passiva, come quando è attiva, sia sempre un'associazione prodotta fisicamente, e che teoricamente non siano diverse, e solo appaiono differenti perchè una volta nel processo è mescolato un complesso di sensazioni che noi chiamiamo volontà, mentre che nell'altra volta manca; questo complesso di sensazioni potrebbe però esso pure essere un’ associazione passiva prodotta fisicamente, la cui influenza non è forse differente dall'influenza delle altre associazioni". Questo problema non può risolversi direttamente. Dalle ricerche che fece il prof. Münsterberg per trovare una soluzione in via indiretta risultò "che non vi è un limite che divida i processi psicofisici da quelli semplicemente fisici: i fenomeni più complessi della scelta volontaria sono essi pure dei fenomeni riflessi; e i fenomeni psichici che li accompagnano non hanno alcuna influenza apprezzabile. Il processo camminerebbe nello stesso modo anche se non fossimo coscienti dei membri intermedi; tuttociò che sapremmo, sarebbe egualmente una sensazione passiva, ed una riproduzione di sensazioni essa pure passiva, che la nostra coscienza percepisce senza poter intervenire nella loro successione". Tutto questo è vero; ma dobbiamo confessare francamente che qui vi è ancora una grande lacuna che la psicologia moderna non sa come colmare. Chiunque faccia attenzione a ciò che succede dentro di lui quando pensa, si sarà accorto che egli non assiste solo all'apparizione di immagini nel campo della coscienza, ma che egli stesso può raggrupparle, può svegliare altre idee, allontanarne alcune, e tutte ordinarle logicamente. La facilità che abbiamo di tirar giù uno scenario , levarlo e metterne un altro al suo posto, è la cosa più difficile a spiegarsi nel congegno delle nostre funzioni cerebrali. E più meravigliosa ancora, è la potenza che abbiamo di sospendere alcune volte tutta questa rappresentazione e di ottenere una pausa che dura qualche minuto. Della spiegazione di questi cambiamenti non abbiamo fino ad ora la più piccola idea. Secondo SpencerH. SPENCER, Principes de Psychologie, Tome II, p. 310. l'atto ragionevole deriverebbe dall'atto istintivo. Egli dice: "Le diverse divisioni che noi stabiliamo tra le nostre operazioni mentali, indicano solo delle modificazioni nei particolari, che servono a distinguere dei fenomeni essenzialmente simili; sono queste modificazioni che mascherano l'unità fondamentale di composizione di tutte le nostre conoscenze." "Il pensiero rimane dovunque identico non solo nella sua forma, ma anche nel processo. Il ragionamento il più elevato quando lo si considera sotto il suo aspetto fondamentale, è identico colle forme le più basse del pensiero, e identico all'istinto ed all'azione riflessa nelle loro manifestazioni anche le più semplici. Il processo universale dell'intelligenza è l'assimilazione delle impressioni. E le differenze che si manifestano nei livelli ascendenti dell'intelligenza dipendono dalla complessità crescente delle impressioni assimilate." Noi ci crediamo padroni del nostro io e delle determinazioni nostre, perchè ignoriamo i fenomeni psichici incoscienti, che precedono e determinano il nostro pensiero. Appena sentiamo che cessa in noi la facoltà di scegliere fra le varie idee che si affacciano alla nostra mente, appena cessa di essere cosciente il processo della rappresentazione che ci conduce ad un risultato psichico; appena un'idea s'impone e dura più dell'usato e ci sentiamo a lungo impotenti e passivi contro di essa, noi siamo pazzi.

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Noi abbiamo una sola parola per esprimere la fatica. La ragione di questa differenza è facile a comprendersi. Il deserto può essere piano, ondulato, montuoso, ricoperto di sabbia o di ghiaia o di roccie, secco od acquitrinoso, brullo per intero o con dei pascoli, e in una parola possiamo congiungere l'idea del deserto cogli attributi più svariati della natura: ma la fatica è un sentimento ed un fenomeno interno, che non presenta delle note caratteristiche e dei rilievi sufficienti da esprimere le varianti della sua fisonomia. Quando uno dice, fatica, voluttà, fame, sete, ognuno comprende a cosa allude e si può anche indicare il più ed il meno con degli aggettivi, ma non possiamo paragonare la esattezza di queste espressioni, alla determinatezza, infinitamente maggiore che lascia in noi la vista del deserto. Ciò che manca quando parliamo delle sensazioni nostre interne, è il peso e la misura: sono le sfumature e le gradazioni che non possiamo esprimere, sono le piccole differenze che non sappiamo apprezzare nel loro giusto valore; e più che tutto non possiamo trasportare l' espressione di questi fenomeni fuori di noi stessi, per raffrontarli coi fenomeni che provano gli altri, senza cadere nella più grande indeterminatezza. Nella fatica dei muscoli, se il lavoro fu piccolo sentiamo un po' di pesantezza; se la stanchezza fu eccessiva, proviamo una sensazione molesta e dolorosa che dura parecchi giorni. Il bisogno di riposarci dopo un lavoro del cervello, l'abbattimento che sentiamo dopo una grande emozione e dopo un dolore intenso, e qualche cosa di più vago, e di più indecifrabile, che non sia il dolore locale prodotto dalla fatica muscolare. Una grande complicazione nasce pure da ciò, che la fatica nervosa non agisce in tutti allo stesso modo, cosicchè non si può mai essere certi quando parliamo ad un altro delle nostre sensazioni interne, che egli le senta nello stesso modo nostro. Il dolore o il piacere che provo insieme ad un altro, per una medesima causa, posso supporre che siano eguali in entrambi, ma non ho alcun dato per affermarlo. Così è della fatica intellettuale, che non dobbiamo guardare quanto lavorano gli altri, ma quanto possiamo lavorar noi senza stancarci: è come dell'acqua nella quale prendiamo un bagno che par fredda ad uno e calda ad un altro. Gli organi interni noi non li sentiaino. Capita spesso che delle persone anche istruite, ignorano la posizione dei visceri nella cavità dell'addome e del torace. Questo non deve meravigliarci, perchè fino a che non si infiammano gli organi interni, i loro nervi non raggiungono il grado di sensibilità che è necessario ad eccitare i centri nervosi. Lo stomaco, le intestina (eccetto l' ultima parte del retto), l'utero, sono affatto insensibili alla temperatura; si possono bruciare e tagliare senza che sentiamo nulla. E così è del cervello. Galeno aveva già osservato che la sostanza del cervello, può venir toccata senza che si provi dolore. Per le molte osservazioni fatte sull'uomo e sugli animali, sappiamo sicuramente che si può tagliare il cervello strato per strato, senza che l'animale senta il più piccolo dolore. La chirurgia del cervello, che prese in questi ultimi tempi un grande slancio, ha confermato che anche nell'uomo il cervello è insensibile. Possiamo tagliare il fegato, ferire i museoli, la milza, i reni, senza che sentiamo nulla. I nervi sensibili i quali eccitati producono dolore, si trovano specialmente nella pelle, e la sensibilità nostra è diretta a difenderci degli agenti del mondo esterno, a procurarci degli eccitamenti piacevoli o dolorosi che siano utili per la nostra conservazione. L' incapacità nostra a giudicare delle sensazioni interne diventa evidentissima nei casi dove la differenza si stabilisce lentamente, come succede ad esempio nella febbre. Immergendo un dito, o la mano, nell' acqua calda fra latemperatura di 33° e 37°, possiamo distinguere una differenza,di 1/5 di grado. Se invece la differenza di temperatura succede poco per volta non ci accorgiamo neppure di una differenza di un grado e mezzo, o due gradi, come capita nella febbre, dove senza adoperare il termometro non sappiamo dire con esattezza quanto sia il calore interno. Spesso diciamo d'aver freddo, mentre abbiamo invece una temperatura, interna che supera la normale. Alcune malattie infettive gravissime, che sono capaci di produrre irremissibilment la morte, hanno un periodo di incubazione che passa affatto inosservato alla vittima: come certi veleni che non hanno sapore possono introdursi furtivamente nell' organismo ed uccidere senza produrre dolore. Una delle cose che meravigliano di più nello studio di alcuni veleni è la quantità minima, quasi imponderabile, con cui alcune sostanze alterano la vita delle cellule nervose e aboliscono la coscienza e la sensibilità producendo la morte senza che uno se ne accorga. La fatica, che pure dobbiamo considerare come un avvelenamento, può alterare la costituzione del sangue e le condizioni della vita, senza che l' avvertiamo o dando appena qualche segno oscuro di esaurimento. È un fatto accidentale (se mi si permette l'espressione) che l' uomo sia pervenuto a tale grado di civiltà da studiare sè stesso, e scrutare quanto succede dentro di lui. È un lusso questo che possono darsi i popoli inciviliti, ma l'uomo primitivo, come gli animali, era destinato semplicemente a lottare per la vita; e tutta la struttura sua corrisponde a tale scopo. Onde egli giudica con sicurezza solo quel che succede fuori di lui. Questo era necessario, e questo lo raggiunsero tutti gli animali nella lotta per l'esistenza. Non dobbiamo quindi meravigliarci se i fatti psichici sono meno atti allo studio, se i fenomeni soggettivi ci sfuggono, e la parola diviene pallida ed imperfetta appena cerchiamo di esprimere e di misurare un sentimento. È un bene per noi di essere poco sensibili internamente, perchè l'organismo nostro funzionando non dà troppa molestia al sistema nervoso, tutto intento alla lotta col mondo esterno.

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Quando pensiamo al cervello dell'uomo dobbiamo rammentarci che ad un estremo della scala abbiamo i grandi cervelli dei celebri pensatori, di Cuvier, di Volta, di Petrarca, di Schiller, di Byron, che pesavano da 1860 grammi a 1600 grammi. All'altro estremo della scala abbiamo i cervelli dei microcefali come quelli descritti dal professore GiacominiC. GlACOMINI I cervelli dei microcefali. R. Accademia di medicina di Torino, 1889. Archives italiennes de Biologie. Vol. XV. 1891.che pesano solo 170 grammi fino a 966 grammi. Dante aveva un cervello inferiore alla media degli uomini: e il cervello di Gambetta pesava appena 1180 grammi, cioè era di 140 grammi inferiore alla media delle donne. Questo dimostra senza bisogno di altri commenti che oltre alle differenze materiali del peso del cervello, ve ne devono essere delle funzionali nelle cellule nervose dei varî cervelli. Le differenze anatomiche diventano trascurabili di fronte alle differenze chimiche che si riscontrano nei processi della vita, entro un numero uguale di cellule, che hanno la stessa forma e il medesimo aspetto.

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Abbiamo detto pare che essi abbiano avversione alle Alpi, perchè in realtà sul Cenisio e a Fenestrelle abbiamo delle stazioni militari di colombi viaggiatori, e dalle informazioni pubblicate dal capitano Malagoli non risulta che le perdite di essi, nei loro viaggi, siano maggiori di quelle che sogliono essere per i colombi del piano.

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La medesima distinzione che abbiamo fatta per l'appetito, dobbiamo pure fare per il sonno; cioè un lavoro moderato, che ci affatichi senza però stancarci, ci dispone al sonno: lo strapazzo del cervello invece produce l'insonnia. Dopo una giornata passata in un lavoro intenso, se alla sera ci mettiamo ancora a tavolino, ci accorgiamo che le nostre idee sono confuse, che lavoriamo con svogliatezza , che anche la memoria non ci serve bene. Un mio amico poeta, mi raccontava che non trova più le rime quando alla sera si mette a comporre, mentre è stanco. Tutti alle volte proviamo una certa difficoltà a seguitare un ragionamento; tutti sentiamo un tal quale torpore della intelligenza, un che di vago e di indefinito che ci avverte della stanchezza del cervello. Alcune difficoltà, che al mattino ci sarebbero parse risibili, alla sera non sappiamo come vincere; perdiamo ogni fiducia nella forza della nostra mente; e anche la volontà, diviene fiacca. Le lettere dello scritto o dello stampato ci ballano dinanzi agli occhi. Le palpebre ci si fanno pesanti, gli occhi ci dolgono e fra gli sbadigli cessiamo di lavorare. Fr. Galton in uno scritto assai pregevole sulla fatica mentaleFR. GALTON, Recherches sur la fatigue mentale - "Revue scientifique" 1889, I, pag. 98., raccolse delle esperienze dalle quali risulta che alcuni scolari non scrivono più con buona ortografia quando sono stanchi, e che saltano delle parole scrivendo. Nella fatica del cervello osservansi del fenomeni che hanno una certa rassomiglianza con quelli che si verificano nei muscoli dopo una lnnga marcia. Tutti abbiamo provato quell'indolenzimento delle gambe, che ci impedisce di camminare dopo che ci siamo seduti per riposarci. Così è del cervello, chè, quando siamo stanchi di un lungo lavoro, ci costa una grande fatica il riprenderlo. Un mio amico che fece un corso sulla poesia drammatica, mi raccontava che spesso dovendo lavorare fino ad ora inoltrata della notte si accorgeva di essere stanco dalla crescente difficoltà nel leggere l'inglese; e che talora dopo di aver scorso qualche pagina di un autore spagnuolo, rimaneva come inceppato e trattenuto nella lettura, se prendeva in mano un autore tedesco od inglese. Il male di capo che succede ad un intenso lavoro cerebrale, corrisponde all' indolenzimento che proviamo nei muscoli delle gambe, dopo una lunga marcia o all' irrigidimento e alla molestia che proviamo nei muscoli del braccio, dopo un primo esercizio del giuocare al pallone. Vedremo più tardi che basta un leggero edema e un piccolo disturbo nella circolazione linfatica, per produrre l'incapacita a pensare. In me la fatica degli occhi precede la fatica del cervello, e non reggo ad un lavoro intenso al tavolino che quattro o cinque giorni di seguito. Scrivendo questo libro ho avuto più volte occasione di ripetere la prova. Fino a che dura la scuola, le lezioni di ogni giorno e le occupazioni del laboratorio, colla loro varietà, fanno che non mi stanchi molto il cervello: perchè studio rarissime volte la notte. Ma se in una settimana di vacanza, io mi abbandono alla foga del lavoro per dieci o dodici ore di seguito, dopo tre o quattro giorni devo fermarmi. La sera del terzo o quarto giorno soffro di mal di capo, e mi accorgo nel camminare di una leggera incertezza di movimenti delle gambe, benchè i muscoli si contraggano spediti come al solito. L'appetito mi si conserva buono. Ho caldo alla testa e in varie parti del corpo sento come un leggero formicolio e delle vampe fugaci di caldo e freddo appena riconoscibili. Provo una leggera stanchezza ai lombi. Alla sera, coricandomi, devo aspettare mezz'ora, ed anche un'ora talvolta, prima di addormentarmi, il che per me è moltissimo, e dormo male e mi sveglio sognando. Alla mattina, alzandomi, ho gli occhi rossi e cisposi: mi sento stanco, il riposo della notte non è bastato per rimettermi bene. I muscoli in varie parti del corpo sento un po' indolenziti, la mano si affatica facilmente nello scrivere ed ho sempre una tal quale pesantezza al capo. Chiudo i libri, metto da parte i miei scartafacci, e dopo ventiquattro ore di svago sono guarito.

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Essi credono, ad esempio che, se abbiamo disponibile una certa quantità di forza, la quale serva a far muovere i muscoli, questa potrà esaurirsi nelle marcie o nelle contrazioni muscolari, lasciando intatta quella provvigione di energia che il sistema nervoso tiene in serbo per il lavoro del cervello. E questa, provvigione d'energia possa rimanere distinta dall'accumulo di forza che serve alle funzioni genitali e via dicendo. Io non credo che il nostro organismo sia fatto a questo modo. Vi è una provvista unica di energia nel sistema nervoso; e sebbene dobbiamo ammettere delle localizzazioni, queste non sono però tali che funzionando un organo con molta attività, non ne risentano danno anche gli organi prossimi. L'esaurimento della forza è generale: e possono consumarsi tutte le provviste dell'energia, esagerando un' attività, qualunque dell' organismo. Dalle esperienze che ho fatto sulla fatica, risultò che esiste una sola fatica, la nervosa; questa è il fenomeno preponderante, e anche la fatica muscolare è nel fondo una fatica ed un esaurimento del sistema nervoso. La complicazione più grave nello studio della fatica, nasce da ciò che non in tutto l' organismo si consuma allo stesso modo. I prodotti generatisi nella fatica alcuni li sentono più ed altri li sentono meno. Studiando la forza dei muscoli prima e dopo la lezione su varii miei colleghi ho potuto convincermi della grande differenza che esiste in tale riguardo. Nel professor Aducco, per esempio, la lezione produce un eccitamento nervoso che gli dà una forza maggiore dei muscoli. Avevamo osservato questo aumento parecchie volte quando egli mi suppliva nella scuola, ma trattandosi di pubblicare un tracciato di queste esperienze, lo pregai di lasciarmi un ricordo della sua prima lezione. Quando fu nominato professore di fisiologia nell' Urniversità di Siena, egli cominciò tre giorni prima della sua prolusione a scrivere coll'ergografo la curva della fatica del dito medio della mano sinistra, sollevando tre chilogrammi col ritmo di due secondi. Questi tracciati egli faceva quattro volte al giorno, alle 9 e alle 11 ant., poi andava a far colazione e ritornava all'1 e alle 4 a fare un altro tracciato. La figura 17 rappresenta la serie delle contrazioni

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Nella fatica del far lezione abbiamo due fatti. L'uno è la fatica prodotta dagli stati psichici intellettuali,

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È inutile che io avverta che il dottor Maggiora non aveva adoperato in nulla la mano altro che per l'esperienza della quale abbiamo dato ora il tracciato. Alle sei egli pranzò, alle sette ritornò al laboratorio per scrivere un terzo tracciato, dal quale si vede che la forza del muscoli è già alquanto cresciuta, quantunque di gran lunga inferiore alla normale. Vedendo questa diminuzione tanto considerevole della forza muscolare, in seguito ad un lavoro del cervello, il primo pensiero che viene alla mente è che la fatica qui osservata abbia un'origine centrale, che sia cioè la volontà che non può più agire con eguale forza sui muscoli, perchè la fatica dei centri psichici si è diffusa ai centri motori. L'esperienza seguente mostra che la cosa è molto più complessa.

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Nel principio di questo capitolo abbiamo paragonato i tracciati scritti dal prof. Aducco e dal dottor Maggiora: facciamo tale raffronto anche per la fatica intellettuale degli esami. Il 16 ottobre 1890 il prof. Aducco mi supplisce nella commissione degli esami di fisiologia, e mi fa anche il favore di eseguire un' esperienza per studiare i cambiamenti della curva della fatica. All' 1,30 pom. scrive il tracciato coll' ergografo, sollevando tre chilogrammi ogni due secondi col dito medio della mano sinistra. Egli fa. 40 contrazioni per esaurire la forza dei muscoli flessori. Il lavoro meccanico compiuto sommando l'altezza di tutte le contrazioni e moltiplicando per 3 è uguale a chilogrammetri 4.416 Alle 2 pom. cominciano gli esami di fisiologia. Si sono presentati 16 studenti in questo primo giorno e il prof. Aducco deve interrogarli tutti lui. Dopo i primi sette esami si fa una breve pausa di mezz'ora. Il prof. Aducco ritorna al Laboratorio e scrive un altro tracciato coll'ergografo. Numero delle contrazioni 56 Lavoro meccanico chilogrammetri 5.106 Si ripete dunque lo stesso fatto che abbiamo veduto per le lezioni, che cioè la fatica intellettuale aumenta la forza dei muscoli nel professor Aducco, e che vi è in lui un eccitamento centrale che compensa il danno che reca al muscolo la fatica. Ritornato all Università si ricominciano gli esami che durano fino alle sette. Dopo un lavoro intenso del cervello continuato per 5 ore e mezzo il professor Aducco scrive nuovamente il tracciato, ma questa volta comincia a diminuire la sua forza. Numero delle contrazioni 38 Lavoro in chilogrammetri 4.131 Si vede dunque che l'aumenta della forza è cosa passeggiera e che la diminuzione della forza nei muscoli si produce anche nel prof. Aducco quando il lavoro del cervello si prolunghi per un tempo abbastanza lungo. Altre esperienze fatte dal prof. Aducco sull' influenza degli esami diedero il medesimo risultato. Per brevità mi astengo dal riferire i risultati di queste esperienze, ma desidero riferire per ultima un' esperienza nella quale si vedono consociati i due effetti del lavoro intellettuale e di una emozione. Il giorno 29 ottobre 1890, alle 2 pom., il professore Aducco scrive il tracciato normale coll'ergografo sollevando 3 chilogrammi col dito medio della mano sinistra ogni due secondi: fa 38 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri . 3.897 Cifra quasi eguale a quella trovata in un altro tracciato che aveva fatto il mattino. Gli esami cominciarono come al solito alle 2, ed essendovi solo quattro esami il lavoro intellettuale era di un'ora e venti minuti: ma disgraziatamente fra i candidati si presentò un suo amico, che il professore Aducco con suo grande dispiacere dovette rimandare. Quest' ultimo esame lo impressionò molto, e ritornato al laboratorio, rosso in volto, scrisse alle 3.30 il tracciato della fatica che consta di 47 contrazioni che rappresentano il lavoro in chilogrammetri di. 5.112 Alle 6 ritornò a scrivere il tracciato della fatica: fece 43 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri. 4.368 Dove si vede che l'effetto eccitante della emozione non era ancora scomparso dopo tre ore. Dobbiamo ora cercare la causa per la quale aumenta la forza dei muscoli nel primo periodo della fatica intellettuale e nelle emozioni. Questa è un' altra perfezione meravigliosa del nostro organismo. A misura che si consuma l'energia del cervello e si indebolisce l'organismo aumenta l’eccitabilità del sistema nervoso. Qui appare un congegno automatico col quale la natura provvede ad una difesa più efficace dell'organismo a misura che questo si indebolisce. Vi è un aumento nell' acutezza dei sensi e nella eccitabilità del sistema nervoso quando un animale diviene meno atto a combattere per effetto del digiuno e della fatica. Ne abbiamo un esempio nel fatto che le persone meno forti e robuste sono più sensibili. Nei malati gravi la denutrizione altera i centri nervosi, e produce un' agitazione grande, delle scosse e delle convulsioni. Le vigilie, il lavoro intellettuale esagerato, destano gli accessi convulsivi nelle persone che vi sono predisposte. Alcuni sventurati che soffrono di epilessia sperano di rendere meno forti gli insulti con indebolire il sistema nervoso con qualche eccesso, e specialmente coll'amore, ma l'esperienza dimostra infallantemente che la malattia peggiora. Le convulsioni epilettiche si ripetono più spesso e più forti quanto più si esauriscono le forze del sistema nervoso. Parlerò ancora di questo nel prossimo capitolo; intanto abbiamo veduto che la differenza tra il dottor Maggiora e il prof. Aducco per il loro modo di comportarsi nella fatica intellettuale è più apparente che reale. Nel prof. Aducco il primo periodo della fatica, cioè l'eccitamento, dura a lungo, ma anche in lui compare infine la debolezza dei muscoli. Nel dottor Maggiora il periodo dell'eccitamento dura poco, e vi succede subito l'esaurimento. Nello studio dei fenomeni nervosi dobbiamo dare poca importanza alla intensità ed alla durata loro purchè la successione e l'ordine dei fenomeni e la loro concatenazione colle cause rimanga costante. Succede la stessa cosa per tutti i medicamenti. Nel mio Laboratorio ebbi a fare molte prove in proposito: ne cito una sola che vale per tutte: benchè si tratti delle cose pia elementari della medicina. Avevo bisogno di fare delle esperienze sul cuore e sul respiro durante l'azione del cloroformio. Parecchi miei amici e colleghi si prestarono con grande abnegazione ad uno studio che non era senza pericolo. Il prof. L. Pagliani mi aiutava, e siccome durante l'esperienza dovevo stare attento ai miei apparecchi, avevo bisogno di un amico come lui, che mi inspirasse la più grande fiducia per affidargli la cloroformizzazione. Un giorno capitò che uno dei nostri amici perdette la coscienza dopo poche inspirazioni, dopo aver inalato al massimo due grammi di cloroformio. Fummo sorpresi: ma sapevamo che alcune persone molto sensibili erano morte per una dose eguale ed è per questo che procedevamo sempre colla massima cautela. Nel giorno successivo il prof. Daniele Bajardi si offrì gentilmente per farsi cloroformizzare. Era il medesimo cloroformio e ne inalò circa 50 grammi senza provare alcun effetto. Gli domandammo ciò che intendeva di fare ed egli ci disse di continuare a dargliene dell'altro, che avrebbe finito per addormentarsi. Si continuò per quasi mezz'ora e finalmente perdette la coscienza e poi la sensibilità quando si erano consumati oltre cento grammi di cloroformio. Finita l'esperienza e svegliatosi, fu tanta la quantità di cloroformio che egli eliminava dai polmoni che parlando con lui si sentiva dal fiato l'odore. Ritornato a casa dopo più di un'ora, i suoi parenti si lamentarono della puzza che egli aveva portato in casa e che essi non sapevano cosa fosse.

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Nel cervello succede quanto abbiamo provato tutti nelle marce. Dopo un'ora di cammino siamo meglio avviati, le gambe si sgranchiscono e si snodano, i passi diveutano più sciolti e si produce in noi un eccitamento piacevole che ci incalza come se fossimo divenuti più leggeri e più svelti. Vi è qui una delle perfezioni più sublimi della nostra macchina la quale funzionando non si deprime e non scema la sua forza, ma diviene anzi più atta al lavoro. Le scorie e le ceneri che cadono nel focolare della vita (se è lecito servirmi di un paragone materiale) non spengono l'attività del sistema nervoso, ma anzi l'attizzano. Molti fenomeni che succedono nel sistema nervoso e specialmente quelli che non dipendono dalla volontà, i fisiologi sono ora disposti a spiegarli come se fossero di natura meccanica. Vi sono delle vie nei centri nervosi che presentano maggiore resistenza ed altre meno, e ripetendosi uno stesso ordine ed una medesima operazione nervosa, queste vie divengono più facili e più corrose alla trasmissione. Non vi è dubbio che molti fatti oscuri sono meglio intelligibili con questa dottrina meccanica.M.FOSTER, A Text Book of Physiology .1890. - Parte III, pag. 910.Quella che propongo qui per spiegare l'aumento iniziale nell’attività del cervello, per effetto dell'esercizio, è una spiegazione chimica, e la comprenderemo meglio quando avrò riferito in esteso i fenomeni simili a quelli dell'attività cerebrale, che si osservano nel movimento dei muscoli. Anche un muscolo staccato dal corpo, eccitato una prima volta, dà una debole contrazione. Supponendo costante l'eccitamento elettrico, farà in principio cinque o sei contrazioni eguali in altezza, e poi queste comincieranno ad aumentare di forza, e cresceranno continuamente le prime cinquanta o cento, fino a che diverranno tre o quattro volte più alte di ciò che fossero quando si cominciò ad irritare il muscolo. Finalmente raggiunto il massimo della sua forza, quantunque l'eccitamento elettrico che lo stimola rimanga costante, le contrazioni cominciano a diminuire e vanno decrescendo lentamente fino a che dopo centinaia di contrazioni si esaurisce completamente la forza del muscolo colla stanchezza. Succede qualche cosa di analogo anche per il lavoro del cervello, dove i prodotti chimici fomentano il lavoro e attizzano la sua attività, fino a rendere più facile il suo funzionamento.

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Anche per Raffaello la fatica in la base della fama immortale, e lo disse prima di tutti Michelangelo che certo fu giudice competente: Raffaello non ebbe quest'arte da natura ma per lungo studio.CONDIVI, Vita di Michelangelo Buonarroti, pag. 82, I pregiudizii che corrono intorno alla forza del genio sono molti, e dipendono in grande parte dall'amore che abbiamo noi del meraviglioso e dal desiderio che hanno il maggior numero degli uomini celebri di nascondere la loro fatica, per parere dappiù di quello che sono. Alcuni errori biografici sono veramente singolari, come l'esempio celebre del pomo di Newton che veduto cadere, inspirò al grande filosofo l'idea della gravitazione universale. Ora Newton, come Galileo, come Darwin, fu precisainente uno dei pensatori più infaticabili. "Non perdo mai di vista il mio soggetto, diceva lui, aspetto che i primi albori aumentando a poco a poco, diventino una piena luce raggiante ". Un solo uomo mi parve un tempo facesse eccezione a questa regola, il Göthe: per la sterminata vastità del suo ingegno, e l'altezza della sua mente. Avevo letto la sua autobiografia, le sue lettere, la vita interessantissima che ne scrisse il Lewes, e non perchè il Lewes sia un fisiologo, ma, perchè è ammesso da tutti, devo dire che anche a me parve essere la migliore. Ma per quanti studi biografici io abbia letti intorno a Göthe, mi parve sempre più che fosse un uomo cui il lavoro non dovesse aver costato fatica. Più che tutto me lo faceva credere ciò che Schiller disse di lui con queste parole: "mentre noi altri dobbiamo raccogliere e provare tutto con fatica per produrre lentamente qualche cosa di tollerabile, egli non ha bisogno che di scuotere leggermente l'albero per far cadere i suoi bellissimi frutti maturi e pesanti " Während wir Andern mühselig sammeln und prüfen müssen, um etwas Leidliches langsam hervorzubringen, darf er nur leis an dem Bäume schütteln, um sich die schönsten Früchte, reif and schwer, zufallen zu lassen. - 21 Juli 1797. Ma però ebbi più tardi a ricredermi, quando nell'opera Zur Farbenlehre del Göthe, lessi nell'ultimo volume, questa, sua confessione: "I miei contemporanei fino dal primo apparire dei miei tentativi poetici si mostrarono abbastanza benevoli verso di me, o per lo meno riconobbero che io aveva talento poetico ed inclinazione. Eppure i miei rapporti coll' arte della poesia, erano meravigliosamente strani e del tutto pratici, in quanto che io, un soggetto che mi colpisse, un modello che mi eccitasse, un processo che mi attirasse, lo portavo così lungamente nell'interno del mio sentimento, fino a che ne risultasse qualche cosa che potesse considerarsi come un mio prodotto, e dopo che per anni lo avevo formato silenziosamente; finalmente tutto d’un tratto, e quasi istintivamente come se fosse maturo, lo mettevo sulla carta ".Opera citata, tag. 277. Flaubert lavorava quattordici ore al giorno, e tutti sanno che in questo scrittore la ricerca della perfezione dello stile era divenuta una malattia. Di lui si raccontano tanti aneddoti; fra gli altri che si alzava la notte per correggere una parola; che rimaneva immobile per delle ore colle mani nei capelli, chino sopra di un aggettivo. Lo stile lo tiranneggiava, era una passione per lui l'affaticarsi cercando insaziabile la legge misteriosa di una bella frase, e finalmente questa disperazione dell'anima finì per diventargli un ostacolo insuperabile al lavoro. Nella vita del Flaubert vi sono alcuni lati originali che interessano il fisiologo. Flaubert disse penser c'est parler e nessun altro scrittore forse lo ha superato nello studio dei rapporti fra il pensiero e la parola. Egli provava il ritmo dei suoi periodi sul registro della propria voce. Una frase cattiva, diceva, è un peso al torace e si trova fuori delle condizioni della vita se non va d' accordo colla fisiologia del linguaggio, se armoniosamente non si puo recitare ad alta voce .Journal des Goncourt, pag. 277. Stricker ha fatto degli studi fisiologici intorno a questo argomento, e dimostrò che mentre pensiamo ad una parola la pronunciamo silenziosamente e che possiamo sentire i movimenti della laringe, come se parlassimo senza dar suono alle parole. Tutti abbiamo visto le mille volte nella strada, delle persone che parlano ad alta voce, e passando loro vicino si chetano , e quando abbiamo fatto pochi passi innanzi riprendono a parlare. La presenza nostra li distrasse dal loro pensiero, e poscia subito vi ritornarono involontariamente e ricominciarono a parlare. Del legame indissolubile che unisce il pensiero colla parola, offrono begli esempi le biografie dei grandi scrittori, quelli specialmente che lasciarono nelle opere loro un'impronta più evidente delle forti passioni che agitavano il loro animo. Alfieri ritornato a venti anni dall'Olanda, col cuore pieno traboccante di malinconia e di amore, sentì la necessità di applicare la sua mente a qualche forte studio. Si mise a leggere Plutarco."Le vite di quei grandi, egli dice, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato ".Vita di Vittorio Alfieri, Capitolo VII. Balzava in piedi agitatissimo e fuori di sè, e lagrime di dolore e di rabbia gli scaturivano dagli occhi. Balzac Onorato, il celebre romanziere, che ebbe una tale fecondità, da non essere paragonabile che alla maravigliosa vivacità della sua, fantasia, produsse tanti libri, che non si crederebbe essergli potuto avanzare il tempo per correggerli tutti. Pure c' è qualche cosa in lui che fa stupire più della sua facilità ed è appunto la faticosa ed improba difficoltà del suo modo di lavorare. Ecco come egli componeva i suoi libri: meditava a lungo il suo argomento, poi ne buttava giù un abbozzo informe in poche pagine. Quest' abbozzo mandava alla stamperia; di là gli rimandavano in larghi fogli le prime bozze di stampa. Egli riempiva queste bozze di aggiunte e di correzioni per tutti i versi, cosicchè tali correzioni parevano un fuoco d'artificio venuto fuori da quel primo suo getto. Si rifacevano le bozze, e già nelle seconde era scomparso tutto il testo delle prime: egli lo rimaneggiava ancora, lo modificava, lo mutava instancabilmente e profondamente. Alcuni romanzi furono tirati sulla dodicesima prova di stampa, altri toccarono la ventesima. I compositori si disperavano quando avevano che fare con un suo manoscritto; gli editori si rifiutavano di sopportare le spese delle sue giunte e correzioni.

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Fino ad ora non abbiamo in Italia una parola d'uso comune, forse perchè in Italia l' attenzione del pubblico si è rivolta meno che in altri paesi allo studio di questo problema, e forse anche perchè da noi meno si risente il danno di questo eccessivo affaticamento del cervello. A me sembra che la parola strapazzo del cervello possa, corrispondere al concetto che vogliamo esprimere. Non si tratta qui dello studio eccessivo. Questo è piuttosto la causa; noi vogliamo studiare l'effetto del maltrattamento che subisce il cervello, per un lavoro intellettuale superiore alle sue forze.

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Molte delle conoscenze che abbiamo oggi sulla struttura dei muscoli noi dobbiamo a Stenone Myologiae specimen. Firenze, 1667. Egli infatti fece vedere che ogni muscolo riceve delle arterie e ha le sue vene e i suoi nervi: e fu lui il primo che descrisse i vasi linfatici dei muscoli. Per studiare i mutamenti che succedono nel muscolo mentre si contrae, Stenone raccomandava di mettere le dita sopra il muscolo massetere presso l'angolo della mascella, e di stringere i denti. Il muscolo si ingrossa, e si sente che diviene più duro e rugoso. Anche dopo che si tagliarono le arterie e le vene del muscolo, questo continua a contrarsi; e così egli dimostrò che la contrazione non dipende da una iniezione del sangue tra le fibre muscolari nell' atto della contrazione come allora si credeva da molti fisiologi. Stenone dimostrò che vi sono dei muscoli i quali negli animali uccisi di fresco si contraggono da sé anche quando sia staccata la testa ed esportato il cuore. Questa nuova esperienza egli l'ha ripetuta in vari animali, nel cane ad esempio vide dei pezzi della cassa toracica staccati dal corpo dove di per sè si movevano ancora le coste. Donde conchiuse, contrariamente alle osservazioni del Borelli, che il moto muscolare non dipende nè dal sangue, nè dai nervi, né dai centri nervosi. Una delle osservazioni più importanti dello Stenone e quella colla quale dimostra che anche recisi i nervi, i muscoli possono ancora moversi, se eccitati direttamente. Con questa esperienza Stenone precedeva di più di un secolo l'Haller nella dottrina della eccitabilità muscolare. Le opere di Stenone si distinguono da quelle del suoi predecessori per la critica severa ed inesorabile che egli fece delle dottrine le quali non avevano fondamento nei fatti scrupolosamente osservati. Il celebre anatomico Winslow parlando del discorso di Stenone sull'anatoinia del cervello, disse: "questo solo discorso di Stenone fu la sorgente primitiva e il modello generale di tutta la mia condotta nei lavori anatomici."

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L'orologio della torre è messo in movimento da un peso: quello che abbiamo in tasca da una molla. L'energia che si consuma nel giro delle ruote per segnare il tempo, è eguale a quella impiegata per caricare l'orologio. Nel fucile, la combinazione chimica improvvisa del carbone col nitro e lo zolfo, all' accensione della polvere, produce la detonazione e dà impulso alla palla. Nel telegrafo si consuma dello zinco e dell' acido solforico per produrre la corrente elettrica. Che cosa è che agisce nel nostro braccio, quando esso vince una resistenza e compie un lavoro? Che cosa è che si consuma nel cervello che pensa? Per rispondere più o meno bene a queste domande, dobbiamo prima conoscere la legge della conservazione della energia. Furono due medici tedeschi, Roberto Mayer e Hermann von Helmholtz, gli scopritori di questa legge, che per consenso univesale venne riconosciuta essere la più grande scoperta del secolo. La legge della conservazione dell'energia, trova il suo svolgimento più evidente e completo nel campo della meccanica matematica; ma io dovrò limitarmi ad accennare alcuni esempi presi dalla fisica elementare Chi desidera conoscere meglio come siasi svolta questa nuova filosofia della natura, legga la conferenza popolare fatta dal HELMHOLTZ nel 1862 Ueber die Erhaltung der Kraft e gli scritti di ROBERTO MAYER, Bermerkungen über die Kräfte der anbelebten Natur 1842.- Die organische Bewegung in ihrem Zusammenhang mit dem Stoffwechsel, 1845. - Die Mechanik der Wärme, 1867. Tutti sappiamo che spesso nei vagoni delle ferrovie si accendono gli assi delle ruote, se non si diminuisce l'attrito nel mozzo col grasso. Il calore non è una nuova sostanza che si aggiunga ad un corpo, ma deriva da un movimento che imprimiamo alle molecole del corpo medesimo. Vediamo ogni momento che un zolfanello si accende nel fregarlo; e le nostre mani si riscaldano fregandole fortemente l'una contro l'altra ; poi quando sono asciutte, la pelle si riscalda al punto che l'epidermide manda un odore di osso bruciato, che i toscani chiamano odore di morto. La prima macchina inventata dall'uomo secondo Reuleaux, sarebbe quella di un pezzo di legno acuminato ad una estremità, che incastrato nella cavità di un altro pezzo di legno messo in terra, si fa girare tra le due mani come un frullino tenendolo verticale, fino a che non suscita il fuoco. I fisici hanno dimostrato che "una certa quantità di calore può trasformarsi in una determinata quantità di lavoro; e questa quantità di lavoro può di nuovo trasformarsi esattamente nella stessa quantità di calore, dalla quale era stata prima prodotta." Nel rapporto meccanico sono due quantità equivalenti. La macchina a vapore che recò tanti benefizi all' uomo, ne recò uno grandissimo alla scienza, in quanto che trasformando il calore in moto, dimostrò che per generare del movimento si distrugge del calore; e che l'energia di movimento è una nuova forma nella quale può manifestarsi una determinata quantità di calore. Quando noi comprimiamo una molla a spirale, e la chiudiamo in tensione, come succede in molti giocattoli, il lavoro che parve consumato in quest' atto, si trasforma in un lavoro che venne detto potenziale. Appena scatta, la molla essa distendesi e restituisce, sotto forma di moto, lo sforzo che abbiamo fatto prima per comprimerla. Così è di una pietra, o di un macigno che a forza di argani i muratori tirano fino sul cornicione di un palazzo: a misura che il macigno sale in su, può sembrare che tutto il lavoro delle braccia si consumi: ma il lavoro che si è fatto non è perduto: esso si trova nel macigno che abbiamo allontanato dalla terra in uno stato potenziale. Se il macigno precipita al suolo da quell' altezza lo vedremo acquistare una forza viva equivalente a quella che abbiamo consumato per sollevarlo. La luce alla pari del calore dipende da un movimento delle molecole dei corpi. I fisici ammettono che vi sia una sostanza imponderabile che si chiama etere, la quale riempie lo spazio e che agisce sull'occhio per mezzo delle sue ondulazioni. E di queste onde luminose, cioè della loro lunghezza e della velocità con la quale si propagano nello spazio, si parla oramai con la medesima sicurezza con la quale ciascuno di noi discorre delle onde che ha veduto diffondersi intorno alla superficie di un lago tranquillo, quando viene agitata in un qualche punto. Per comprendere la natura del calore e della luce, basta rammentarci quanto abbiamo veduto nella fucina del fabbro. Un ferro riscaldato diviene prima bruno poi rosso, e scaldandolo ancora prenderà un color bianco splendente. Quando le molecole hanno raggiunto la massima rapidità delle loro vibrazioni, il ferro messo sull'incudine rischiarerà intorno la fucina. Poco per volta raffreddandosi diventerà scuro e bruno e si spegneranno le vibrazioni che erano capaci di agire come luce sul nostro occhio. Se avviciniamo la mano, sentiremo che è ancora rovente: esso diffonde delle ondulazioni più lente che l'occhio non vede più, ma che la mano sente come calore. Al congresso dei naturalisti in Heidelberg, il prof. Hertz di Bonn mostrò, nel 1890, che anche l'elettricità è un moto ondulatorio che segue le leggi della luce; ed aprì un nuovo orizzonte nel dominio della fisica. L' esempio più convincente per dimostrare la trasformazione dell'energia, è ancora sempre quello dei fabbri che fanno arroventare un chiodo, battendolo rapidamente con grandi colpi sull'incudine. Qualunque specie di energia può essere misurata per mezzo del lavoro che produrrebbe l'unità di massa cadendo da una certa altezza: oppure colla quantità di calore che è necessario per riscaldare da 0° ad 1° un chilogrammo di acqua. Si chiama chilogrammetro il lavoro necessario per elevare un chilogrammo ad un metro di altezza. L'equivalente meccanico del calore è di 425 chilogrammetri; cioè il calore sufficiente per elevare di un grado centigrado la temperatura di un chilogrammo d'acqua, corrisponde ad un lavoro necessario per sollevare 425 chilogrammi ad un metro di altezza e viceversa. Dopo che i fisici impararono a misurare l'energia sotto qualunque forma si presentasse, essi dimostrarono che a traverso le sue trasformazioni non si perde nulla. Gli esempi che ho riferiti, e tutti i fenomeni che si presentano nella natura, sono riuniti da una legge inesorabile che non ammette eccezioni. La molla che abbiamo tesa comprimendola, può dopo eseguire un certo lavoro, ma essa si rilascia e diviene inerte quando ha compiuto il lavoro di cui era capace. Il macigno fu sollevato fino sul cornicione della casa, e di là cadendo può eseguire un lavoro, ma quando è giunto al suolo, è esaurita la sua potenza a fare altro lavoro. Quando l'ossigeno si combina col carbonio genera del calore e della luce, ma una volta che sono combinati, e che si è disperso il calore, l'acido carbonico che ne risulta, non dà più nè lavoro, nè calore. Per produrre una corrente elettrica dobbiamo impiegare delle forze chimiche o meccaniche, oppure, come succede nell'illuminazione elettrica, possiamo servirci del calore che prima trasformiamo in energia di moto e poi in elettricità ed in luce. In tutti questi esempi noi vediamo che quando è distrutta la potenzialità di una forza della natura, per produrre un lavoro, sempre compare un' attività nuova equivalente. Non posso trattenermi dal citare qualche passo della celebre conferenza sulla conservazione della forza che il professore Helmholtz tenne a Carslruhe nell'inverno del 1862. Meditando le opere di questo sommo ingegno, che lascierà un'impronta indelebile nella storia del pensiero umano, si rimane pieni di ammirazione per la facilità e la chiarezza colla quale egli ci fa comprendere i più ardui problemi della filosofia naturale. "Quando una certa quantità di lavoro meccanico va perduta, le esperienze dimostrano in modo concorde che si guadagna un equivalente corrispondente di calore, oppure della forza chimica invece di questa, od inversamente se si è perduto del calore si guadagna una quantità equivalente di energia chimica o meccanica: e quando sembra perduta l'energia chimica si trova aver guadagnato invece del calore o del lavoro. In tutti questi cambiamenti tra le varie forze inorganiche della natura, se scompare dell'energia in una forma, essa ricomparirà immediatamente ed in quantità esattamente eguale sotto un'altra forma: cosìcchè troviamo che non è aumentata, nè diminuita l'energia, e che la medesima quantità rimane perennemente costante. "La medesima legge vale anche per i processi della natura organica, per quanto lo possono provare i fatti che conosciamo fino ad oggi. Da ciò risulta che la somma delle forze capaci di agire nella intera natura rimane eternamente ed invariabilmente la stessa, in mezzo a tutti i mutamenti che subisce la natura. Tutte le trasformazioni che noi vediamo compiersi nella natura, consistono in ciò, che l'energia cambia di forma e di luogo senza che per questo cambi la sua quantità."

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E non è possibile fare altrimenti, se pure siamo convinti che l'Universo è governato da leggi fisse ed immutabili; se vogliamo seguire il lume della ragione; se siamo persuasi che i fenomeni psichici stanno dentro i confini della scienza, se abbiamo la certezza che sono un fatto naturale, se dobbiamo considerarli infine come l' espressione dell'attività e delle trasformazioni che hanno luogo nel cervello. Non possiamo scegliere come guida una dottrina che la mente nostra è incapace di comprendere: che ad ogni sensazione ad ogni pensiero ci obbliga ad ammettere un miracolo per spiegare l'azione di una così immateriale su di una materiale e viceversa. Non possiamo nello studio della psicologia accettare una ipotesi che ci metterebbe fino dal principio in contraddizione con tutti i fatti conosciuti nella scienza e che ci condurrebbe all'assurdo. Tutti i fenomeni che succedono nella natura devono avere una causa: e la causa deve essere eguale all' effetto. Se si domanda ad un fisiologo una prova inoppugnabile che nel cervello non vi è nulla di immateriale e di incorporeo che funzioni, egli non sa darla; ma giudicando per analogia, mettendo a raffronto i fenomeni del cervello con tutti gli altri fenomeni della natura, egli si sente costretto ad ammettere che anche il cervello sia soggetto alla legge della conservazione dell'energia. La probabilità almeno è così grande che per poco non tocca la certezza. Nei suoi Saggi sull' intendimento umano, Locke LOCKE, Essai philosophique concernant l'entendement humain. Livre IV chap. XVIII. disse, ora sono più di due secoli: "Da per tutto dove abbiamo una decisione chiara ed evidente della ragione, non possiamo essere obbligati a rinunciarvi per abbracciare l'opinione contraria sotto pretesto che sia materia di fede: poichè la fede non può avere alcuna autorità contro le decisioni chiare ed espresse della ragione." Vi è un punto nel quale la scienza e la fede vanno d'accordo, ed è nel riconoscere che le cause primordiali sono impenetrabili, e che la mente dell'uomo non è fatta per comprendere l’origine della materia e dell'energia. In un'altra cosa, dobbiamo pure andare d'accordo, qualunque sia la fede e la filosofia che uno professa: ed è il metodo scientifico per studiare le leggi alle quali è soggetto un fenomeno. La fisiologia non riconosce le divisioni artificiali delle scuole e delle credenze: essa procede impassibile nella ricerca del vero, ed ha per iscopo il determinare come un fenomeno in differenti tempi si produca in modo costante, date le medesime condizioni, succeda questo nel cervello o in qualunque altro organo del corpo.

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abbiamo cioè due cuscinetti A B (fig. 4); sul primo poggia il dorso della mano, e sull'altro B leggermente incavato a doccia poggia l'antibraccio. Per fissare bene questa parte del corpo mi servo di due altri cuscinetti C D, fatti in modo da stringere leggermente il polso. Ogni cuscinetto è fatto da un semicanale di ottone imbottito alla parte interna; sulla superfice esterna è saldata una spranga cilindrica di metallo che si fa passare nell' apertura di un morsetto, dove viene fissata per mezzo di una vite. Nella figura 4 si vedono due morsetti C D, che hanno in basso una scanalatura profonda 2 centimetri e larga 0,8 colla quale possono venire fissati sul bordo della piattaforma, per mezzo di una vite che sta sotto in ciascun morsetto. Nel principio (quando si deve fissare il braccio) tutti questi morsetti sono liberi. Si mette quindi la mano col dorso che poggia sul cuscino A e l'antibraccio sul cuscino B: si avvicinano i due cuscinetti CD in modo che stringano bene la mano in corrispondenza del carpo, e poi si chiudono le viti superiori ed inferiori dei loro morsetti. La mano viene fissata anteriormente con due tubi di ottone FE che hanno un lume interno che varia fra 18 e 22 millimetri, secondo la grossezza delle dita della persona sulla quale deve farsi la esperienza. Nel tubo E si introduce il dito indice, e in quello F l'anulare della mano destra. Nello spazio che rimane libero fra i morsetti EF, si muove il dito medio al quale si attacca una funicella elle fa scorrere l'apparecchio registratore. Per dare una posizione comoda al braccio che lavora, mi sono accorto che non bisogna tenerlo in supinazione, ma in leggera pronazione. La piattaforma perciò l'ho inclinata di circa 30° verso il lato interno, ed è leggermente sollevata dal gomito verso l'estremità della mano di circa due o tre centimetri. Queste due inclinazioni ci obbligano a cambiare la posizione del sostegno, secondo che si lavora col braccio destro o col sinistro: a tale scopo la piattaforma di dietro è tagliata in forma triangolare G; davanti vi sono due piedi, uno I lungo 5 centim., e l'altro H lungo 12. Questi due piedi sono riuniti da una lastra di ferro trasversale, che nella figura non si vede, perchè sta sulla superfice inferiore della piattaforma. Nel mezzo, questa lastra ha una vite di pressione, che permette di farla girare portando il piede più basso ora da un lato e ora dall' altro della piattaforma, cambiando

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Fisiologia del piacere

170697
Mantegazza, Paolo 24 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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E che si tratti di lavoro altamente morale siamo convinti noi pure, e appunto per questo ne abbiamo curato e ne curiamo la diffusione. E perchè il libro abbia meglio a rispondere alle condizioni nuove di vita e alle esigenze dei lettori, che hanno ormai gusti letterari moderni e più raffinati, abbiamo incaricato il prof. Andrea Ferrari di rendere la forma più snella e più corrente, alleggerendola in taluni punti, in altri sostituendo le espressioni alquanto antiquate, ritoccando qua e là il periodare talora prolisso e stanchevole. Ma in questo tentativo di ammodernizzare la forma, e soprattutto di aggiornare il contenuto secondo le nuove scoperte e gli ultimi portati della scienza, è stata nostra cura precipua quella di lasciare integra la sostanza; sia pel dovuto riguardo all'autore, sia soprattutto perchè la materia è trattata dal Mantegazza con squisito senso artistico e scientifico, con tatto particolare, e sotto ogni punto di vista in modo esauriente e completo. Dalle prefazioni, che l'autore ha premesso alle prime edizioni, ci piace riportare qui il «Decalogo di Epicuro», che il Mantegazza ha posto in fronte al suo libro, come guida e ammaestramento «con cui ognuno potrà essere uomo felice, purchè lo voglia».

In tutti i piaceri studiati fin qui, se non abbiamo potuto determinare l'essenza della sensazione che li costituisce, abbiamo però seguito il fenomeno dalla sua origine fino alla sua espressione esterna. Ora, invece, ci troviamo in un campo indeterminato, e dobbiamo studiare una forza senza conoscere quale sia l'organo che la produce. Nei sensi il piacere nasce primitivamente dai nervi sensori, e il cervello concorre soltanto coi suoi elementi intellettuali a trasformare in sensazione una semplice impressione. Qui invece il piacere sorge da quelle regioni misteriose, delle quali nessun filosofo ha mai potuto tracciare un piano topografico; in un campo dove i generosi sforzi degli spiritualisti, come le ardite ipotesi dei materialisti, non hanno mai potuto trascinare un sentiero; là dove starà scritto per sempre: regioni inesplorabili. Comunque sia, è però certo che il sistema dei nervi gangliari forma parte integrante necessaria nel telaio del sentimento. L'uomo che ama o che odia non prova alcuna sensazione al cervello, nè sente stanco il corpo dopo uno sfogo più violento di collera: invece si sente sconvolte le viscere, e prova una vera angocia al cuore, il quale ha un nome, che in tutte le lingua è sinonimo di sentimento.

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L'esercizio, o meglio, la sodisfazione di questo sentimento, produce un piacere, del quale noi non abbiamo coscienza che quando arriva ai massimi gradi. Questo piacere è uno dei più difficili a definirsi, perchè nasce da un sentimento che ne' suoi gradi minori è molto indeterminato. Nella prima età manca la capacità di una profonda riflessione, e la nostra coscienza è poco analitica; per cui non ci accorgiamo di amarci, e quindi non proviamo questo piacere. Nella giovinezza, i sentimenti dell'io sono soffocati dalla voce imperiosa degli affetti che traboccano da un animo appassionato, e che tendono a portarci fuori di noi. Non è che più tardi, quando le burrasche del cuore sono cessate, che la nostra coscienza può scrutare nel nostro intimo un sentimento, che ha fatto sempre parte integrante di tutti i nostri atti morali, che più d'una volta è bastato a calmare o a sollevare una procella, ma che noi non abbiamo mai saputo scorgere. È allora soltanto che l'uomo ha la calma sufficiente per poter gustare un piacere, che ne' suoi gradi minimi non è certamente morboso. Il piacere che nasce dall'amore di noi stessi ci presenta, come tutte le gioie, un fenomeno di riflessione, nel quale però la strada percorsa dalla partenza al ritorno è brevissima. Da tutti i punti sensibili del corpo partono molte impressioni che, arrivando alla nostra coscienza, si unificano nella sensazione complessa della vita. È questa che risveglia il sentimento affettuoso per noi stessi, che si riverbera calmo e soave nelle sensazioni che l'hanno prodotto. Questa gioia ci spinge a concentrarci in noi stessi, ma se ci si arresta appena un momento di troppo a compiacerci del nostro apprezzamento, si diventa egoisti, e il piacere che si prova è colpevole. In questo caso noi abbiamo uno degli esempi più delicati di un affetto indefinito e vago che cambia di natura appena salga di un grado. Del resto, è assai difficile che questo piacere esista da solo e che la coscienza lo possa riflettere un solo istante in tutta la sua purezza. Esso si associa per lo più ai piaceri dei sensi e dell'intelletto, ai quali fornisce nuovi elementi. Quando noi godiamo di vedere, di ascoltare e di pensare, senza volerlo ci rallegriamo anche di sentire il nostro io che vede, ascolta o pensa. Tutti i sentimenti poi che nascono in noi e in finiscono hanno per campo necessario d'azione questo affetto primitivo. Così tutti i piaceri della vanità, della gloria e del pudore sono fili tessuti sull'orditura dell'affetto per noi stessi. Questo piacere è gustato più dall'uomo che dalla donna, ed aumenta quanto più ci si avanza nel grado di civiltà.

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Ogni giorno abbiamo sott'occhio le più ridicole compiacenze dell'amor proprio, che cammina in sfacciato incognito, sotto il nome di onore. Le false gioie di questo sentimento si possono talvolta distinguere appena da quelle della vanità, e per riconoscerle bisogna ben definire questo vago sentimento. Esso è formato dall'elemento immutabile della nostra dignità, che passa inalterato attraverso ogni vicenda, e dal riflesso iridescente dell'opinione pubblica. In questo secondo caso sta riposta l'unica causa de' suoi piaceri morbosi.

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Tutti i lavori più elementari necessari all'esercizio della vita ci procurano una sodisfazione dell'amor proprio nella prima età, quantunque noi non possiamo sicuramente rammentarci l'aria di trionfo con cui per la prima volta abbiamo da soli portato il cucchiaio fino alla bocca, o la sovrana beatitudine con cui, posti isolati addossati ad una parete, abbiamo potuto con infinito studio percorrere lo spazio di pochi passi per precipitarci fra le ginocchia della mamma, che ci stringeva sorridendo fra le braccia. Il camminare era allora per noi un lavoro di alta meccanica ed era difficile: il riuscirvi lusingava quindi il nostro amor proprio, il quale non può essere soddisfatto che dalla vittoria su una difficoltà. Come è naturale, il piacere riesce tanto maggiore quanto più difficile l'esercizio; e il fanciullo, che batte colla sua bacchetta il cerchio, prova un piacere dell'amor proprio, come l'autore che scrive la beata parola fine ad un'opera che gli è costata lunghi anni di fatica, e ciò sebbene non godano nel medesimo grado della stessa gioia.

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Come abbiamo già detto a questo riguardo, tali piaceri, però, se sono di una intensità talvolta spasmodica, sono anche da riprovare, perchè debilitano l'organismo in modo irreparabile, e conducono ad una vecchiezza precoce con tutti i suoi acciacchi.

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Da una parte abbiamo una sensazione leggera e dall'altra una reazione straordinaria di tutti i muscoli, e perfino del diaframma, il quale viene spesso spinto ad una vera convulsione. Il rapporto tra causa ed effetto è veramente sproporzionato, e ci fa sospettare che questo fatto appartenga già alla classe dei piaceri patologici.

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Se facciamo una buona azione, interessiamo direttamente in noi il sentimento, e proviamo un piacere del quale abbiamo in noi soli l'origine e la ragione. Se siamo spettatori di un atto generoso, esso si riflette nella nostra coscienza, e producendo un piacere, fa scintillare nello stesso tempo un raggio di luce riflesso che è costituito dall'ammirazione. Il raggio che si riflette dalla nostra coscienza varia secondo la natura della luce che vi arriva, e secondo il numero delle volte che vi si proietta. Così un uomo che manda a noi una sol volta l'immagine di un'azione grande per intelletto, ci ispira l'ammirazione, la quale può arrivare a un tratto alla venerazione o all'adorazione, se il raggio di luce che ha colpito la nostra coscienza era vivissimo e fulminante. In generale, però, la stima per le azioni, sommamente vere o belle, derivanti dall'intelletto, emana una luce che può esser molto viva, ma che è sempre più o meno fredda. Invece il raggio più mite, che diffonde intorno a sè un'azione buona, arriva caldo alla nostra coscienza e fa oscillare subito per simpatia d'azione il nostro cuore. In ogni modo, sotto tutte le sue forme, questo sentimento è sempre nobile, perchè in esso l'egoismo è sempre vinto dalla generosità, e la formidabile parola dell'io è cancellata dalla grande rivale del tu. Quando si ammira, si riconosce una superiorità qualunque, si fa atto di sudditanza, si fa violenza alla vanità, perchè voglia sottoscrivere il documento di una inferiorità. Siccome però l'egoismo è un elemento necessario all'organizzazione morale di tutti gli individui, i quali lo posseggono soltanto in diverse proporzioni; così ne viene che esso lotta sempre più o meno col sentimento della stima, concedendogli una parte maggiore o minore di gioie. Vi sono uomini di una superbia eccessiva, che non hanno mai stimato e venerato alcuno, e che, presi alla strozza dalla verità, pronunciano col labbro un atto di ammirazione che cancellano subito col cuore. Per questi la gioia di ammirare e di venerare è lettera morta. Moltissimi altri non sanno stimare che gli uomini grandi, che sono separati da essi da largo spazio di terreno o di tempo, e non possono sopportare la più piccola superiorità che li avvicini, e mentre prestano forse un culto di adorazione per Cesare, per Newton o per Napoleone, soffocano di bile fiutando appena l'odore acre e insoffribile che emana da un titolo accademico, o da un pollice di nastro all'occhiello di un loro simile. A nostro conforto però abbiamo uomini eletti che, senza esser grandi, sanno ammirare ciò che è grande, e che senza aver mai potuto oltrepassare nella vita del cuore la barriera della bontà e del dovere, possono piangere di commozione leggendo, ad esempio, la storia di Romeo, o assistendo ad una azione nobile e generosa. L'ammirazione che si presta ai grandi che più non sono, può diventare un vero culto, una vera adorazione, ma la mente vi entra assai più che il cuore. Questi piaceri si provano anche nella stima che si professa pei contemporanei di mente sublime, o per uomini in cui si onora la vecchiaia onesta e dignitosa. Tutti i piaceri che si provano in questi diversi casi richiamano alla mente la luce pacata e tremula della luna che rischiara, ma non riscalda. Le altre gioie invece sono più calde, più vive, più palpitanti, e assomigliano alla luce del sole. In questo l'uomo grande è presso noi, e la luce che egli diffonde all'intorno ci fa fremere e sospirare. A questa classe di piaceri appartengono ancora le sensazioni deliziose che si provano nell'essere spettatori di una azione nobile e generosa. Queste gioie variano di grado secondo il merito dell'azione, ma sono sempre calde anche nei gradi minimi. Come tutti i sentimenti, anche la stima può procurare infiniti piaceri molto diversi fra loro. Tutti i sensi e tutte le facoltà morali possono servire come strumento a suscitare la gioia. La semplice vista di un autografo di persona insigne può far palpitare di piacere, come un cieco può piangere di gioia palpando colle mani intente un oggetto appartenente a un grande ch'egli apprezza e onora. Chi sentì l'armonia che Rossini dedicò alla sua tomba, provò sicuramente un piacere a cui partecipò anche l'orecchio. Lo stesso si può dire di chi legge per la prima volta l'autobiografia di un grande, lasciata in eredità a quelli che non furono suoi contemporanei. Altre volte la gioia spetta a un sentimento diverso, e riceve una leggera sfumatura dalla stima. Così si può prestare il culto della gratitudine più viva al proprio benefattore; ma se questi è venerabile per un'onorata vecchiaia e per meriti di mente e di cuore, non è che con trepida gioia che lo si saluta e gli si bacia la mano. La gioia della venerazione si prova, in tutta l'ideale purezza, nel culto che si presta a una madre decrepita o ad un grand'uomo che, vecchio e cadente, manda ancora un raggio di viva luce dalle stanche pupille. L'esercizio di queste gioie rende migliori tutti i nobili sentimenti, umilia la superbia o eleva la vanità al grado di nobile ambizione. Più d'una volta il culto prestato ad un genio bastò a indirizzare la vita a un nobile scopo, e a far cogliere il premio d'una corona d'alloro. Queste gioie non sono di tutti, e ognuno le prova in grado molto diverso. La donna ne gode senza dubbio più dell'uomo. Esse sono più vive nell'adolescenza e nella giovinezza, e nelle nazioni incivilite. Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

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Qui abbiamo un esempio chiarissimo di questa verità. Se voi credete che un ricco per eredità tragga tanto piacere da' suoi tesori quanto uno che ha conquistata la agiatezza col sudore della propria fronte, vi ingannate a gran partito, e non conoscete neppure la prima buccia che involge il cuore umano. Se volute godere, lavorate. Il piacere si trova qualche rarissima volta per via, come si può trovare uno scudo per terra; in tutti gli altri casi bisogna conquistarlo, comperarlo colla fatica e spesso col dolore. Moltissimi non sono felici perchè non hanno la forza a il coraggio di esserlo.

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Così abbiamo veduto il nobile sentimento dell'ambizione, mostrarci nella vanità una forma meschina. Altre volte l'affetto è colpito da una fatale malattia che lo altera in tal modo da farlo tralignare. Vedemmo difatti la gioia legittima del possesso degenerare nella compiacenza del furto. In ogni modo però sotto le forme morbose più bizzarre e le deformità più ripugnanti, l'occhio paziente e acuto dell'osservatore poteva indovinare la natura della alterazione e provvedere. Sgraziatamente le malattie del cuore non finiscono qui, e moltissime derivano dallo sviluppo di un elemento morboso d'indole specifica, o da un sentimento colpevole primitivo. L'odio è uno dei sentimenti colpevoli più semplici nella sua essenza, ma che, disponendo di un immenso arsenale di abiti e di costumi, riveste le forme più bizzarre, sicchè molte volte riesce difficile in sulle prime di riconoscerne l'identitità. Il suo carattere specifico è quello di essere sodisfatto del male altrui. Così alcune offese particolari fatte all'amor proprio suscitano l'invidia, la quale non è altro che odio per la superiorità altrui. Ciò che modifica però più d'ogni altra cosa la natura dell'odio, è la misura del sentimento colpevole proprio ad ogni individuo. La stessa offesa, che arrecata ad un tale non lo porta che ad un momento di collera innocente, accende in un altro la fiamma di un odio implacabile e profondo, o lo ispira alla più crudele vendetta. La stessa umiliazione può farci piangere di dispetto, o impallidire di rabbia, o infiammar di furore. In ogni caso, l'odio eccitato da una causa qualunque ha i propri bisogni, e questi producono piacere quando vengono sodisfatti. La collera, che non è altro che una scintilla di odio, quando venga ridestata in un uomo onesto non lo spinge che a battere i piedi, a bestemmiare, o a rompere quello che gli capita fra mani. Altre volte l'odio viene eliminato in parte dai nobili affetti, e non essendo forte abbastanza da eccitare all'offesa, sorride però di compiacenza all'altrui sventura. Nei gradi massimi l'azione è veramente necessaria a spegnere la forza straordinaria accumulata in un cuore che si consuma nell'odio più veemente, e i delitti sono le barbare gioie che sodisfano questo crudele sentimento. Più d'una volta fu visto l'uomo sorridere alla fatale sventura di una calunnia creduta vera, e contemplare con feroce smania gli ultimi aneliti di una vittima colpita a morte. Misurate lo spazio immenso che separa il fanciullo che gode nel tormentare un povero insetto, e l'assassino che prova un'atroce voluttà nel sentire sotto la sua mano le viscere palpitanti della vittima che spira domandando pietà: voi avrete un'idea del numero infinito di gioie più o meno morbose, che coltiva il sentimento dell'odio. Forse, meno pochissimi eletti, tutti gli uomini hanno nel cuore un germe di odio, che, atrofizzato e isterilito dai nobili affetti che da ogni parte rigogliosi lo circondano, dà quando in quando deboli segni di vita, oppure, con una subitanea esplosione, erutta lave ardenti che non offendono alcuno. Le forme più innocenti con le quali l'odio si sviluppa in questi casi, sono gli accessi di collera, gli irrefrenati scatti d'ira e atti di avversione, e moltissimi individui mediocri, in cui l'odio non dà mai scintilla o fiamma, senza commettere positivamente un'azione colpevole, sono sempre indispettiti e col muso ingrugnito, pronti ad aggredire astiosi.

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Nel regno dei sensi abbiamo molti misteri, ma penetriamo l'andamento generale dei fenomeni: abbiamo un corpo che ci tocca colle sue molecole, colla luce, o col suono; un oggetto insomma che ci manda qualche cosa, della quale noi ci accorgiamo. Nel regno del sentimento invece i misteri crescono, le ombre discendono sull'orizzonte delle nostre ricerche, ma ci intendiamo ancora: sono forze che partono da noi e si dirigono verso un punto fisico o morale; sono emanazioni calde e vaporose colle quali l'io risponde alla natura. Ma quando noi passiamo dal sentimento il più complesso alla più semplice azione intellettuale, ci sentiamo in un altro mondo e sotto un cielo meno trasparente. Qui la coscienza, per quanto ci avverta dei fenomeni della mente, non sa guidarci a studiarli nè a riconoscerne l'origine o la ragione. Prima noi ci siamo serviti della mente per studiare qualche cosa che, quantunque ad essa legata, era pur sempre fuori di essa; mentre ora è la mente che deve studiare se stessa; è l'io che, dopo aver contemplato l'edifizio nel quale ha sede, e dopo essersi compiaciuto di studiarne accuratamente ogni parte, si trova faccia a faccia con se stesso, e guardandosi nello specchio della coscienza, rimane a un tratto sorpreso di potervisi riconoscere, senza però discernere i propri lineamenti in modo netto e preciso. Vi sono molti uomini che non possono intendere questo fatto, perchè non sono mai capaci di isolarsi per un solo istante dal mondo esterno, di togliersi dall'ambito dei sensi e del sentimento; e guardandosi nello specchio della propria coscienza, non hanno potuto mai vedere e sentire il loro io nudo, isolato, sospeso davanti al triplice regno della natura umana. Certamente l'uomo e con la pazienza e coll'attenzione, può contemplare ad una ad una le faccette del proprio poliedro morale, e analizzare i singoli lineamenti della propria mente, può studiare la memoria, la ragione, la fantasia; in questo caso però studia ancora gli strumenti, gli organi e le parti, ma non vede ancora l'assieme del meccanismo, non distingue l'unità umana. Solo per il lampo di un secondo si può con una robusta volontà sospendere quasi il moto della vita morale, e senza ricordare, nè pensare, nè creare, si può avere la coscienza dell'io pura e semplice, e contemplare davanti a se stesso quel punto misterioso formato dall'incrociamento di tulle le forze fisiche e morali. Più in là non si può andare. Quel punto è indivisibile e noi non possiamo averlo davanti alla nostra coscienza che come il guizzar di un lampo. Nello studio della nostra mente, si sarebbe fatto un gran passo, se si fosse potuto isolarla nettamente dagli altri due regni della natura umana, o se almeno un abisso avesse separato il sentimento dall'intelletto; ma, sgraziatamente, non è così. La voragine non esiste, e una comune vegetazione, crescendo sui confini dei due mondi, non ci permette nettamente di determinarli. Quando noi siamo nel giardino fiorito dell'affetto e ci sentiamo voluttuosamente illanguiditi dall'aria tiepida che vi si respira, possiamo dire con sicurezza che ci troviamo nella regione del sentimento; ma se cerchiamo il muro di cinta del delizioso giardino, non lo possiamo trovare; e, quando intenti alla differenza della temperatura e della vegetazione, camminiamo in linea retta dal centro alla periferia per trovare dove finisce il cuore e dove comincia la mente, facciamo la figura di quei bracchi che, avendo perduto la traccia della lepre, abbaiano, corrono a dritta ed a manca, fiutando l'odore che li ha guidati fino allora. Qui fa troppo freddo, dobbiamo trovarci già nel regno della mente; ma questi fiori non crescono però che nelle regioni calde... Qui fa troppo caldo, siamo ancora nei giardini del cuore; ma è impossibile: non vedete i larici e gli abeti? Pur troppo è così: i sentimenti ideali, quelli che nascono cioè da un'idea o ad essa si indirizzano, formano un anello che congiunge i palpiti del cuore colle aspirazioni del cervello. La verità è un'idea; la storia de' suoi piaceri va dunque inserita in quella delle gioie intellettuali; ma la verità si sente, e l'amore del vero è un sentimento.

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In questo modo abbiamo la coscienza di esistere. Questo fatto psichico semplicissimo e costituito, da una parte, da tutte le infinite impressioni esercitate sul sistema nervoso, e dall'altra, dalla coscienza che le avverte e le unifica. È un fenomeno fondamentale della vita, diverso nei diversi animali, nei diversi individui della specie umana e nei momenti infiniti nei quali si suddivide la vita di ogni individuo. Checchè ne sia, però, questo fenomeno è sorgente forse del maggior numero di piaceri. Quando gli organi sono tutti perfettamente sani e l'intricato meccanismo della vita intellettuale procede con tutta la sua pienezza, allora l'uomo si sente e gode della vita, provando uno dei piaceri più semplici e nello stesso tempo più complessi. Questo piacere è proprio di tutte le età, di tutti i tempi, di tutti i paesi. Il non poterlo godere è una malattia che si osserva spesso nei melanconici, negli ipocondriaci e nei permalosi. Esso è uno dei piaceri meno intensi, ma che dura quanto la vita e che non viene interrotto che dai dolori che lo sopraffanno. È nella gioventù che l'uomo lo prova con maggiore intensità, ed è allora che spesso lo si vede, beato di se stesso e del mondo che lo circonda, camminar baldanzoso col sorriso e colla coscienza della sua forza sul volto che irradia, a vivi raggi, la gioia. Questo piacere primitivo non deriva dalla civiltà; e il primo uomo che, dopo avere ammirato la magnifica natura circostante, avrà portato uno sguardo su se stesso, deve averlo provato in tutta l'intensità con cui lo sente tanto un bambino che, destandosi nella sua culla, si guarda attorno e sorride, quanto il filosofo che, sano di corpo e di mente, senza pensare, si guarda e si dà una fregatina di mani.

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In questa gioia entra sempre una dose più o meno grande di malignità, o di quell'odio diluito di cui abbiamo parlato a proposito del piacere di far dispetti. Un altro elemento costante di questi piaceri è l'esercizio del pensiero che immagina la fandonia, ciò che in alcuni individui costituisce quasi l'unica sorgente di gioia. Essi diventano allora artisti della frottola, che si propongono con le loro invenzioni di far bere il più grosso possibile al maggior numero di individui.

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Così tutte le vanità meschine e le goffaggini dell'amor proprio ci possono far ridere di tutto cuore, perchè ci presentano un'immagine morale che contrasta in modo particolare coi sentimenti del bello, del buono o del vero che abbiamo in noi. Un cozzo più forte delle immagini produrrebbe un dolore, mentre essa offende. Vi sono alcuni casi nei quali, senza contrasto e senza deformità, il vellicamento di un solo affetto basta a farci ridere. Quando noi, ad esempio, ci proponiamo di fare una celia a un nostro amico, al pensiero di quanto capiterà ci mettiamo a ridere da soli, perchè stuzzichiamo con una innocente e piccola sodisfazione il sentimento del male, e produciamo ancora un solletico. Può darsi che l'idea dell'amico corbellato si presenti nello stesso tempo alla nostra mente; ma non è necessaria per farci ridere: il solo progetto riesce ridicolo. La sorgente più feconda del ridicolo nasce però dalle idee che seguono le sensazioni della vista, e che vellicano il sentimento del bello senza offenderlo. Le caricature della natura e dell'arte, le bizzarre combinazioni delle forme, possono costituire una raccolta infinita di varietà ridicole. Anche l'udito può procurarci molti piaceri di questa natura, e in qualche rarissimo caso lo possono anche gli altri sensi; tanto meno, però, quanto più si avvicinano al tatto. Il ridicolo è un ente morale che nasce da un esercizio tutto particolare della mente e del sentimento, ed è più facilmente sviluppato dal senso più ideale, che è quello della vista; meno dal più materiale, che è quello del tatto. Anche gli errori possono, vellicando il sentimento del vero, riuscire ridicoli, sopratutto quando non sono nostri. In ogni caso l'azione deve esser improvvisa e possibilmente nuova. La rapidità e la novità della sensazione sono elementi che ravvivano in un modo straordinario il ridicolo, e talvolta bastano quasi da soli a risvegliarlo. Precisamente come per poter ridere al solletico tattile bisogna trovarsi in uno stato di leggero eretismo nervoso; così per poter ridere di una caritura o di una goffaggine bisogna avere la sensibilità morale in uno stato particolare che non tutti gli uomini posseggono, e che non si ha sempre nello stesso grado. Alcuni eletti hanno una tale sensibilità per il ridicolo, che lo trovano in ogni oggetto, e lo fanno scaturire ad ogni passo come da una fonte misteriosa. Esempi numerosi ci sono offerti dai caricaturisti, che scoprono il lato ridicolo anche dove parrebbe inesistente. Spesso però questo ridicolo ch'essi scoprono in ogni cosa, non riesce sensibile che ai loro nervi, mentre se hanno spirito, creano veramente un ridicolo nuovo che può esser tale per tutti e che può risvegliare il solletico morale negli uomini anche più seri. Vi sono autori ed artisti che sono maestri in questa manipolazione del ridicolo, dalla quale traggono spesso il pane della vita, e qualche volta anche la gloria. I piaceri del ridicolo non bastano sicuramente a far felice un'esistenza, ma possono distrarre dalle cure e dalla noia; e qualche volta, suddividendo in intervalli infinitesimi la stoffa più volgare della vita, valgono a renderla brillante di scintille. Alcuni cercano il ridicolo con una vera passione, perchè ne traggono facili piaceri, e perchè la loro ricerca serve ad occupare il tempo. L'abuso però di questi piaceri tende a render l'uomo frivolo e leggero. In generale, chi può elevarsi alle gioie superiori dell'intelligenza e del sentimento, non cerca questi piaceri, e non se ne rallegra che quando li trova a caso sul sentiero della vita. L'opinione pubblica può servirsene come di un'arma terribile per educare e condannare. Il ridicolo può bastare ad uccidere un individuo, un vizio, una casta; esso stronca ed abbatte come un colpo di fulmine, d'un tratto, anche ciò che pare più serio e più resistente. Abbiamo già veduto come questi piaceri riescano meno vivi nell'età matura e nel sesso virile. La mobilità sensitiva della donna e del fanciullo li rende molto atti a sentire l'influenza del minimo solletico morale. Fra tutti i popoli della terra, senza dubbio, il francese è quello che ha una maggior sensibilità per il ridicolo; per cui ne fa oggetto importante di commercio. La gioia prodotta dal ridicolo può essere morbosa quando si fonda sul dolore altrui. Chi ride vedendo cadere un galantuomo, o si compiace di tutte le piccolo sventure che diventano grandi per l'associazione del ridicolo, prova certamente un piacere colpevole. L'azione del ridicolo però è qualche volta così fulminante, che non si può difendersene assolutamente e bisogna ridere anche quando la morale ci comanderebbe di tenerci seri o di mettere il broncio. Qualche volta noi non siamo colpevoli di provare un piacere che nasce da un ridicolo doloroso; ma lo diventiamo nell'esprimerlo. Un povero diavolo può essere così malconcio dalla natura, la quale ne ha voluto fare un mostro, che noi non possiamo difenderci dal trovarlo ridicolo; ma non possiamo, senza diventare crudeli, ridergli in faccia.

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In questo lavoro, però, non potendo percorrere che un'unica strada, si è scelta quella dell'analisi, più lunga e viziosa, e perciò più opportuna per fermarci più a lungo nelle regioni che abbiamo impreso a studiare. Ma ora, prima di prendere commiato da voi, vi farò ammirare per un istante la magnifica strada maestra della sintesi, la quale, diritta e maestosa, fa percorrere nel più breve tempo possibile il grande viaggio.

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Il piacere, come abbiamo già visto, è un fenomeno nel quale si produce una forza che diffondendosi lungo le fibre sensibili dal punto in cui si sviluppa primitivamente, trae in azione gli apparati ai quali si distribuisce. È in questo modo che abbiamo coscienza dei piaceri che noi stessi godiamo, e possiamo leggere sul volto dei nostri fratelli, e anche degli animali, il piacere che essi provano. I segni sensibili, coi quali si esprime il piacere, formano i suoi lineamenti o lo scheletro anatomico della sua fisonomia; mentre la parte che prendono le facoltà morali nell'espressione del fenomeno costituiscono la fisonomia viva, che si dipinge sopra il fondo invariabile e fisso dei lineamenti anatomici. Gli elementi anatomici di qualunque espressione del piacere sono i nervi e i muscoli, i quali vengono mossi in vario modo secondo la natura delle correnti che arrivano ad essi a mezzo dei nervi motori dei centri nervosi. Nessun movimento però è caratteristico delle sensazioni piacevoli, e la natura specifica non risulta che dal modo di concorrere e di accordarsi dei vari elementi. Il piacere può esprimersi col riso o col pianto, coll'elevarsi degli angoli della bocca o colla perfetta immobilità delle labbra, col moto il più diffuso e il più sfrenato, o colla calma più completa. Noi però sappiamo distinguere con un semplice sguardo le infinite gradazioni di un sorriso, e possiamo a prima vista sorprendere un raggio di luce che brilla in un velo di lacrime. La serie infinita dei piaceri può quasi tutta esprimersi col semplice brillare e muovere dell'occhio. Le gioie vivaci e intellettuali, in generale, lo rendono lucidissimo, più aperto e più mobile; mentre le voluttà più intense dei sensi lo fanno languido, incerto o anche fisso, finchè nei gradi maggiori lo nascondono interamente sotto il velo delle palpebre. Gli affetti più delicati si esprimono tutti con innumerevoli gradazioni di movimenti in basso, in alto, a destra, a sinistra; e qui è veramente meraviglioso l'osservare come nello spazio da poche linee possa contenersi tutta l'immensa varietà delle passioni umane dall'odio all'amore, dall'invidia al perdono, dal fuoco più ardente della passione al tepore più freddo dell'indifferenza. L'occhio nel lampo di un secondo esprime un'immagine che l'artista deve impiegare lunghe ore a rappresentare, e che il filosofo deve studiare lungo tempo per poterla incompletamente analizzare. L'occhio concorre ad esprimere il piacere anche con la secrezione delle lacrime, le quali non mancano mai nei gradi maggiori delle gioie del sentimento. La lacrima che scende sulla guancia di una madre commossa nell'abbracciare il figlio restituito alla salute da una pericolosa malattia, ha la stessa composizione chimica di quella che spunta nell'occhio di un cuoco che taglia una cipolla: è secreta dalla stessa ghiandola, ha la stessa forma, lo stesso colore; ma la prima brilla di una luce morale misteriosa che, riflessa nella nostra coscienza, ci commuove ad una purissima gioia, e forse ci ispira a un soave pianto. Quest'espressione di gioia è una delle più soavi. Forse il misterioso fatto di un fenomeno che serve ad esprimere a un tempo la gioia e il dolore, ci sorprende e ci trasporta, senza che ce ne accorgiamo, in quelle purissime regioni del mondo ideale, dove gli estremi opposti si riuniscono in una armonia meravigliosa. Tutti i muscoli della faccia concorrono ad esprimere il piacere con infiniti movimenti. Il naso, nella sua stoica impassibilità, rimane fedele alle sue abitudini e sta immobile; ma la bocca si muove più d'ogni altra parte, piegando i suoi angoli al sorriso, uno dei modi più semplici con cui si rappresenta il piacere. Dopo quelli della faccia, i muscoli che nel piacere si risentono più spesso sono quelli del collo e del tronco; seguono quelli delle braccia e delle mani, e gli ultimi a entrare in azione sono quelli delle estremità inferiori. Si intende sempre che questo vale in regola generale, e che le eccezioni sono numerose. Una delle fisonomie muscolari più elementari è quella costituita dal battere delle mani, che con l'applauso manifestano un consenso piacevole, e dal fregarsi le mani l'una contro l'altra, il che forma un segno quasi caratteristico del buon amore e dell'allegria. I moti più complicati sono il salto, la corsa, il ballo, e infiniti altri atti più bizzarri e più rari. Tutti ricordano che quando il Davy scoprì il potassio, ne provò tanto piacere che si mise a ballare in mezzo al laboratorio. Una delle fisonomie più caratteristiche del piacere è il riso, costituito da una espressione prolungata, interrotta e rumorosa, nella quale il diaframma è preso da una vera convulsione. A questo fatto fondamentale si associano poi nei diversi casi il brillar degli occhi, il muoversi dei muscoli della faccia e l'agitarsi di tutta la persona. Il riso più modesto è formato da un sorriso, e cioè dall'elevarsi lieve degli angoli della bocca, dall'aprirsi alquanto delle labbra, dal mostrarsi dei denti e da una sola espirazione prolungata. Se questo si ripete e gli angoli della bocca si alzano e si abbassano convulsivamente, il riso cresce di intensità, finchè la lieta convulsione diventa tanto forte che il respiro è interrotto, l'espirazione riesce difficile, e i poveri visceri del venire; agitati continuamente dalle scosse rabbiose che loro comunica il diaframma, recano disturbo e la mano pietosa corre a proteggerli da tanto eccesso di moto. La circolazione viene pure disturbata, e il volto si fa rubicondo, mentre gli occhi divengono lacrimosi per puro fenomeno meccanico; talvolta si prova un forte dolore all'occipite. Il riso ne' suoi massimi gradi può riuscire pericoloso. Il minimo male che può produrre è quello di farci bagnare con la nostra orina, o di far nascere un dolore di ventre passeggero, mentre può arrivare a produrre la morte coll'apoplessia cerebrale, collo scoppio di un'aneurisma, o con la rottura di qualche viscere. Il riso ridotto ad una formula elementare è una vera scarica nervosa che, per il modo improvviso con cui scocca, trae in convulsione il diaframma ed altri muscoli secondari; è una valvola di sicurezza, con la quale si dà sfogo all'eccesso di forza che non può essere rattenuta. Quando il piacere dura a lungo, e sale a poco a poco di grado, può arrivare alla massima intensità senza produrre il riso, mentre un piacere di minimo grado può far uscire ad un tratto nello scoppio più fragoroso. La natura però del piacere esercita a questo riguardo un'influenza molto maggiore della sua intensità, e il riso è l'espressione più naturale di una classe particolare di piaceri intellettuali che, come abbiamo già veduto, spettano al mondo bizzarro del ridicolo. Lo spasimo più voluttuoso di un amplesso ci fa appena sorridere, mentre la vista di una caricatura ci può fare scompigliar dalle risa. Il singolare si è che vi sono alcune sensazioni, mancanti affatto di elementi intellettuali superiori, che ci trascinano con prepotenza al riso; ciò che si osserva nel solletico. Pare che in questo caso il fenomeno si riduca ad un moto riflesso prodotto da una irritazione di indole specifica.

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Siccome però il cuore ci insegna che il piacere non deve essere l'ultimo e unico scopo della vita, noi non abbiamo il coraggio di confessare la nostra fame ingorda di gioia, e, mentre con tutti gli sforzi dai tempi di Adamo fino a noi si lavora e si suda per accrescere il numero e la squisitezza dei piaceri, l'umanità pudica non ha ancora formato una parola per esprimere l'arte del piacere. Di mezzo alla nostra miseria questo tratto di delicatezza ci onora altamente, provando che, se non sappiamo raggiungere l'alta cima della perfezione, sappiamo però guardarla e, sopra tutto, rispettarla. La gloria più grande nell'arte del piacere è la musica, la quale si può dire veramente creata dall'uomo, perchè in natura non si può parlare di armonia e di melodia, sebbene esistano i suoni e i canti di mille cose diverse. Quest'arte divina deve essere messa al disopra delle altre, perchè produce i più vivi piaceri, e perchè è intesa da tutti, sebbene dal lato della perfezione ideale essa debba cedere ai capolavori dell'ingegno umano, alle produzioni della poesia e della filosofia. Tutte le altre belli arti producono parimenti nuovi piaceri; ma in esse l'imitazione entra sempre più della creazione. Il più bel quadro e la statua più stupenda sono sempre copie di un oggetto che esiste o che può esistere; mentre una composizione musicale è un vero prodotto della mente umana, una creazione. Alcuni preferiscono sicuramente la pittura o la scultura alla musica; ma la musica sola è una lingua intesa da tutti, e da quasi tutti parlata o balbettata, perchè essa è il linguaggio che esprime il sentimento.

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Noi che, sottoponendo al microscopio e a reattivi chimici il nervo di una rana per cui passa una corrente di dolore tetanico, non vi sappiamo scorgere alcun cambiamento materiale, non abbiamo il diritto di rifiutarci a credere che il pistillo possa vibrare alle oscillazioni del piacere nel ricevere il polline fecondatore. In quel momento d'amore i fiori respirano come gli animali, e sviluppano correnti di calore e fors'anche di elettricità; e perchè il soddisfare al più prepotente fra i bisogni organici non sarà sentito e goduto? Lo stame della loasa sente l'organo femmineo e gli s'avvicina; le piante tutte sentono la luce e la cercano, e dovunque c'è sensazione v'è piacere e dolore. Fra gli organi del senso nei vegetali e i nervi degli animali passa forse la stessa differenza che si scorge fra le trachee e i polmoni, fra la clorofilla e i globuli del sangue, fra l'olio e l'adipe, fra un'antera ed un testicolo, ma l'organo non deve mancare, dacchè la funzione esiste.

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Dall'analisi minuziosa e particolareggiata, a cui abbiamo fatto seguire la sintesi relativa, risalta evidente che il piacere non è altro che uno stato di sodisfazione, di compiacimento ed anche di godimento, procuratoci da una impressione esterna o da un eccitamento interiore. Abbiamo visto che il piacere non è da considerare soltanto quale prodotto della sensibilità fisica, e abbiamo potuto constatare che i godimenti più intensi e più nobili esulano dall'animalità pura e semplice, per assurgere al campo spirituale, in cui primeggiano il sentimento e l'intelligenza. Pertanto, la dignità umana e la stessa nostra natura complessa, che ci fanno superiori agli altri esseri viventi; il grado di civiltà da noi raggiunto, e la raffinatezza e nobiltà del nostro sentire, non possono che elevarci dal campo della sensualità, procurarci i maggiori piaceri interessando direttamente e più intensamente il cuore e la mente. Non è il caso, però, di macerare il corpo e assoggettarlo alle più severe astinenze, per darsi alle pratiche ascetiche, nell'aspirazione dello spirito alle beatitudini di una vita puritana o di quella ultraterrena. E ciò perchè non è consigliabile nè possibile scindere e separare i tre aspetti della sensibilità umana: senso, sentimento e intelletto; e soprattutto perchè non si può troncare la piena coordinazione e associazione fra le sensazioni derivanti da impressioni materiali, e quelle di origine intellettuale e morale. Come l'individuo è unico per costituzione fisica dell'organismo, così lo è pel suo sistema nervoso, e un piacere non potrà mai essere esclusivamente fisico, senza interessare, più o meno direttamente, anche gli altri due rami della nostra sensibilità. Perciò, dicendo di elevarsi dal dominio dei sensi, non significa affatto rinunciare ai piaceri che essi possono procurarci; e ciò tanto più, in quanto la natura stessa ce li ha elargiti largamente, per la preservazione e la riproduzione della specie. Ma poichè i piaceri fisici sono comuni a tutti gli esseri, sino ai bruti e ai tipi primordiali monocellulari, non si vorrà che l'uomo, posto dalla natura al sommo della scala dei viventi, si abbrutisca lasciandosi vincere dai piaceri dei sensi, quando può trovare le più gradevoli e le più vive sodisfazioni coltivando i sentimenti sgorganti dal cuore, ed elaborando i tesori che la mente raccoglie con lo studio e la osservazione. È da ritenere pertanto che i piaceri fisici non possono, nè debbono essere trascurati, perchè essi rappresentano lo stimolo al lavorio dei sensi, che reggono in pieno l'organismo, provvedono alla conservazione della specie, procurano materiale all'intelletto, dànno alimento alle passioni; ma essi debbono essere opportunamente moderati, perchè ogni loro eccesso debilita il nostro corpo, affievolisce la nostra resistenza, demoralizza il nostro spirito. Un giusto e saggio equilibrio fra i piaceri dei sensi, dell'intelletto e del sentimento farà l'uomo sempre più disposto a godere quello stato di benessere morale, che potrà portarlo verso la felicità, per quanto essa possa essere più o meno intensa, più o meno prolungata, secondo le varie vicende e vicissitudini della vita.

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La costituzione organica, che abbiamo fin dalla nascita, come influisce su tutti gli atti della vita, così pure impronta d'un marchio speciale la natura dei piaceri venerei. A questo proposito però non si possono fare che induzioni più o meno probabili. In generale si può dire che i piaceri sono maggiori quanto più vive sono la sensibilità e l'intelligenza, e quanto più forte è l'istinto sessuale. I primi due elementi esercitano però l'influenza massima, per cui un individuo dotato del temperamento erotico più sviluppato, ma di sensi ottusi, gode assai meno di un altro che prova tutte le sensazioni in un modo più intenso e ha facoltà intellettuali molto lucide, una coscienza delicatissima per intendere ciò che sente, e analizzare le infinite gradazioni del piacere. Gli individui di temperamento nervoso, quelli dotati di pelle fina e bruna, di forme rotondette, di labbra grosse, con la laringe molto prominente, godono in generale molto più degli altri che hanno tali caratteri opposti. A questo proposito però ho notato un'eccezione: alcuni esseri sensibilissimi non arrivano che rare volte, e dopo una lunga esperienza ai gradi massimi del piacere; giacchè, non potendolo tollerare quando per la soverchia sua forza conduce ad un vero delirio, contraggono spasmodicamente i muscoli degli organi genitali e l'ejaculazione avviene senza piacere, forse per la compressione che viene in questo modo esercitata sopra alcuni filamenti nervosi. Una credenza assai diffusa ritiene lascivi i gobbi, i nani e, in generale, gli individui di piccola statura e di lungo naso. Sebbene questa asserzione non sia scientificamente provata, pure si verifica molte volte che questi individui abbiano organi genitali sviluppatissimi; per cui è probabile che i loro piaceri siano più intensi, qualora però essi siano dotati d'una più intensa sensibilità. La facoltà di generare non è concessa che alle età più vigorose della vita, quando l'organismo sviluppa forze molto superiori a quelle che basterebbero a conservare l'individuo, ne consegue perciò che i piaceri venerei debbono essere propri dell'età feconda, e quindi più vivi nel periodo della massima forza. Nei primi tempi della pubertà e nei primi anni della giovinezza i piaceri sono in generale più intensi, ma assai meno delicati; mentre negli anni seguenti, fin verso il quarantesimo, l'esperienza e il bisogno di ravvivare con un certo artificio sensazioni intiepidite dall'abitudine, rendono i piacerj più squisiti. Nel mezzo di questa età, quando l'ardore dei desideri giovanili si associa ad un certo stadio di lussuria, questi piaceri sono della massima potenza. Questo avviene in generale fra il ventesimo ed il trentesimo anno.

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Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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Fino ad ora noi abbiamo veduto che le voluttà più intense accompagnano la sodisfazione dei bisogni più urgenti e segnati della natura come necessari; ed ora vediamo scaturire una sorgente fecondissima di piaceri da sensazioni di puro lusso, che non sono necessarie alla vita dell'individuo nè a quella della specie. Di più l'uomo ha potuto coll'arte estendere i confini dei piaceri concessigli dalla natura, come conseguenza necessaria delle condizioni fisiologiche, ma non ha potuto produrre mai una sensazione piacevole di nuova natura. Qui invece vediamo che egli, creando la musica, che per se stessa non esiste in natura, apre a un tratto un orizzonte infinito di gioie sublimi e delicate, delle quali se ne fa in questo modo un bisogno artificiale. Moltissimi animali inferiori sono affatto privi del senso dell'udito. Dove esso compare nelle sue forme più semplici, non può dare che sensazioni molto confuse e grossolane. Nei gradini più elevati della scala animale, dove l'orecchio presenta quasi la stessa struttura di quello dell'uomo, noi non possiamo dire se il semplice esercizio di questo senso possa essere piacevole. È certo però che molti mammiferi, e fors'anche i rettili e i pesci, sanno distinguere i suoni armonici e sembrano compiacersene, dando segni di godimento. L'intelligenza a questo riguardo non ha alcuna influenza sulla perfezione dei piaceri, perchè noi vediamo ogni giorno il merlo accompagnare allegramente col suo canto il suono dell'organetto, mentre il cane più intelligente abbaia indispettito ad un delizioso concerto. Fra tutti gli animali gli uccelli sono forse i soli che possano godere della musica, di cui essi stessi sono partecipi. I filosofi, che vogliono abbassare la dignità umana, come se noi non fossimo già molto in basso, pretendono che abbiamo imparato i primi elementi di musica dagli uccelli. Per quanto la fisonomia degli animali sia difforme dalla nostra, noi possiamo leggere la gioia e il dolore anche nei lineamenti di un uccello; e se abbiamo potuto solo una volta spiare da vicino l'usignuolo nelle sue esercitazioni musicali, dobbiamo aver veduto che esso gode assai, quando colla sua testolina intenta, cogli occhi lucidi e fissi ascolta il suo canto, col quale pare scherzare, ripetendo le note che lo dilettano, o studiando variazioni semplicissime. Quasi tutti gli uomini godono della musica; pochissimi vi sono indifferenti. Ma fra Cuvier, che doveva fare uno sforzo su se stesso per sentir suonare mirabilmente il cembalo dalla figlia prediletta, e Rossini che da quando nacque fino alla morte visse in un'atmosfera di armonia, della quale aveva bisogno come dell'aria, esistono infinite varietà di orecchi più o meno sensibili alle delizie della musica. A questo proposito gli individui si possono dividere in tre categorie: quelli che non sanno godere che della musica eseguita dagli altri; coloro che la possono ripetere; e gli ultimi che la sanno creare. È inutile dire che nel mondo dei suoni queste tre specie di persone sono diversamente privilegiate, e come soltanto i maestri possano pretendere ai piaceri più sublimi dell'udito. Nessuno ha il diritto di accusare di ottusità di mente chi rimane indifferente davanti ad un torrente impetuoso di armonia. La storia ci porge molti esempi di alti intelletti che non sapevano distinguere un accordo musicale da uno strillo; e l'osservazione ci mostra ogni giorno esecutori distinti di musica e dilettanti appassionati fra le persone di cervello più che mediocre. I piaceri dell'udito hanno invece un certo rapporto col sentimento, e spesso gli uomini egoisti e brutali sorridono di compassione a chi si commuove alle delizie di una melodia. La donna può godere più dell'uomo della musica, ma essa rimane assai al disotto nel godimento dei tesori intellettuali che spettano a questi piaceri, e che ne formano anche la parte più preziosa. Ben di rado poi essa può pretendere alla sublime voluttà della creazione, come lo prova abbastanza la statistica dei compositori di musica. L'uomo-bambino comincia a sentire i piaceri della musica, ma questi si riducono alla pura sensazione uditiva, che è anche incompleta e confusa. Divenuto fanciullo gode più assai di questi piaceri, ma la sua continua distrazione e l'imperfezione delle facoltà intellettuali gli impediscono di gustarli in tutta la loro pienezza. È nell'età della fantasia e del genio che la musica apre tutti i suoi tesori di armonia, portando al massimo grado di esaltazione tutte le facoltà cerebrali. Nell'età adulta l'esperienza supplisce, come nelle altre sensazioni, alla raffinatezza del piacere, per cui questo è più calmo, ma può essere ancora intenso e delizioso. Quando l'uomo scende per la curva della parabola, ritornando d'onde venne, allora l'udito si fa ottuso, la fantasia si fa opaca e i piaceri dell'udito impallidiscono.

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Dal senso più semplice e primitivo, che è quello del tatto, abbiamo veduto che le sensazioni si vanno sempre più elevandosi, nell'associazione con nuovi elementi intellettuali; per cui i sensi si fanno meno sensuali e più istrumentali. Nel tatto il piacere è per eccellenza locale ed è ristretto quasi sempre nei confini della sensazione. Nel gusto si sale appena d'un grado, in modo che la differenza riesce ben poco sensibile. Nell'odorato il campo del piacere incomincia ad estendersi, e più d'una volta, oltrepassando i limiti della sensazione, entra in un campo più elevato. Nell'udito la complessità riesce già molto più sensibile, e il sentimento cammina di pari passo colla sensazione, per cui non possiamo separarli che facendo violenza alla natura e distruggendo il piacere, il quale dai nervi sensori s'irradia per tutto il sistema cerebrale. Finalmente nella vista noi abbiamo i piaceri più complessi e più intellettuali, che non si arrestano quasi mai nel cerchio della sensazione, ma comunicandosi con una rapidità straordinaria alle facoltà intellettuali, le traggono in azione. Pare l'udito sia il senso del cuore, e la vista sia invece quello della mente. Questo fatto, che fa parte delle azioni più misteriose del cervello, è inesplicabile; ma noi possiamo intenderlo e, direi meglio, sentirlo, confrontando le sensazioni che proviamo nel vedere una persona amata o nel sentirne la voce attraverso il telefono. Nei due casi godiamo di un piacere alquanto diverso: nel primo la mente simpatizza colla sensazione, la quale rassomiglia per la sua natura spirituale a un'idea o ad una immagine; mentre nel secondo caso siamo commossi e sentiamo che nel piacere l'affetto entra più del pensiero. A questo proposito, scherzando sulle parole, si potrebbe dire che l'occhio è l'orecchio della mente, come l'orecchio è l'occhio del cuore. Alcuni animali hanno vista più acuta di quella dell'uomo, il quale non potrebbe sicuramente, come il condor, vedere dall'alto del Chimborazo pascolare una pecora nell'ima valle. Siccome però l'intelletto entra quasi sempre ad elaborare le sensazioni della vista, che impronta d'un carattere ideale affatto specifico, così si può dire, senza tema di errare, che l'uomo gode più di tutti gli altri animali dei piaceri della vista. Le differenze individuali che possono variare questo campo di piaceri sono costituite dalla diversa perfezione dell'occhio, e sopra tutto dallo sviluppo dell'intelletto, che concorre a queste sensazioni coll'elemento dell'attenzione. Il miope non può godere i piaceri delle prospettive e dei vasti panorami, mentre il presbite non può deliziarsi che in modo molto incompleto dei piaceri del microcosmo che lo circonda. I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Il disordine e la confusione invece o ci dànno una immagine ridicola che ci diverte per il contrasto che presenta col tipo di perfezione che abbiamo in noi, ovvero ci ispirano un ribrezzo che può anche essere piacevole. Quanto al bello, che nasce dalla mancanza di simmetria e di ordine, si può piuttosto divinare che spiegare, come quando ci si trova alla presenza di un orrido. Forse si può dire che la brusca disubbidienza alle leggi piace per l'ardimento che ci pare di vedere nella natura o nell'arte che se. n'è fatta colpevole, e perchè la forza, sotto tutte le forme, ha sempre qualche cosa di grande che esalta e piace. Il disordine degli oggetti inanimati può gradirci, specialmente quando essi sono in movimento, perchè ci dànno l'immagine di una specie di vita. Comunque sia, il disordine tradizionale della bottega del rigattiere ci riesce assai più piacevole dell'ordinata e regolare distribuzione delle pezze di panno del magazzino di un mercante; nello stesso modo che il sublime caos di un oceano che mugge è uno spettacolo assai più bello della tranquilla superficie di una palude qualsiasi. L'immensità di alcune immagini ci ispira l'idea dell'infinita grandezza del mondo e della nostra piccolezza, in un contrasto piacevole al quale spesso si associa anche la compiacenza di potere col nostro occhio abbracciare tanta vastità di orizzonte. Quando contempliamo dalla spiaggia l'immenso piano del mare e la volta del cielo che, in curva maestosa, si confonde coll'estremo limite di un orizzonte incerto e nebuloso, noi abbiamo sotto i nostri occhi un'immagine sensibile dell'infinito, e con lo sguardo vaghiamo su quel deserto smisurato di acque e di cielo cercando invano un confine e un punto fermo su cui riposare. L'apparire improvviso di una vela, in mezzo a quella solitudine che ci confonde, rianima a vita anche il sentimento, facendolo concorrere al nostro piacere; e nello stesso tempo gustiamo l'idea purissima dell'infinito e l'affetto simpatico per ciò che è vivo ed umano. Questo è l'elemento fondamentale del piacere che si prova alla vista del mare, e che forma quasi il telaio sul quale si possono tessere poi le più splendide combinazioni delle gioie del sentimento e della mente. La piccolezza estrema degli oggetti suscita pure in noi l'idea dell'infinito, mostrandoci in qual modo i confini del microcosmo non abbiano limiti come gli spazi imponderabili del cielo. I piaceri che si provano in questo campo formano l'attrattiva principale delle ricerche microscopiche. È poi veramente singolare il fatto che ci porta molte volte ad amare alcuni oggetti per la sola ragione che sono piccoli. Pare che noi associamo ad essi l'idea della debolezza, e che ci sentiamo ispirati ad averne compassione e a proteggerli, anche quando essi non hanno vita. Altre volte essi ci ridestano il desiderio di possederli; per cui, prendendoli fra le mani e guardandoli con attenzione, atteggiamo il volto all'interessamento e alla simpatia. Questo genere singolare di piaceri non si prova in tutta la sua intensità, che quando l'oggetto è ben definito e costituisce un vero individuo. Difatti, il frammento angoloso di una roccia, per quanto piccolo, non produce in noi il piacere che gustiamo nel contemplare un ciottolino liscio e rotondetto; come pure la barba di una penna d'oca non ci interessa quanto un piccolo fagiuolo. A questi piaceri, per se stessi minimi, si collega spesso l'attrattiva speciale di alcune Il moto concorre ai piaceri morali della vista con molti elementi. Innanzi tutto, essendo uno dei sintomi essenziali di ogni specie di vita, ci ridesta la simpatia che abbiamo per ogni essere vivente. Quando il movimento intenso è prodotto dall'industria umana, noi ce ne rallegriamo, compiacendoci della nostra potenza. Quando invece il movimento è naturale, ci ridesta quasi sempre sentimenti più umili e delicati, a meno che non si sia riusciti colle nostre ricerche a scoprire un moto che non si rilevava spontaneo ai nostri occhi. I movimenti naturali producono due classi di piaceri ben distinti a seconda che siano alterni o continui. In generale i primi ci commuovono ad una affettuosa malinconia, mentre i secondi ci fanno gustare i piaceri grandiosi e tristi che si hanno dalle immagini dell'infinito. L'onda, che fremente si rompe sulla spiaggia e poi si allontana per tornare in alterna vicenda, ci interessa e ci consola, perchè ci rappresenta il moto della vita: il giorno dopo la notte, il riposo dopo la fatica, il riso dopo il pianto, il ritorno dopo la partenza. Invece lo scorrere lento e non interrotto delle acque d'un fiume ci tiene assorti in cupa contemplazione, che riesce piacevole solo per la grandezza delle idee che ci desta. L'acqua che scorre ai nostri piedi, scherza e si muove, ma passa e non ritorna; il vortice che molina e si scioglie è seguito da un altro che lo incalza e poi sparisce; la foglia che cade dall'albero è trascinata via e non ritorna; e sempre instancabile, continua, un'onda segue l'altra e il moto mai non riposa. Questo spettacolo ci offre nei suoi elementi una formula assoluta dell'eternità, un esempio del sempre. Il suicida che s'affaccia ad un fiume per precipitarvisi, ritornerebbe più facilmente addietro, se invece dell'onda inesorabile che passa e non ritorna, vedesse il lieto alternarsi delle onde sulla viva d'un lago. Anche la luce nei suoi diversi gradi di intensità può avere un valore morale. Quando è intensa ci ridesta alla vita; quando è debole e incerta ci ispira alla malinconia e alla calma. La luce di una mediocre intensità, ma tremula, ha una attrattiva speciale, e se ne ha un esempio magnifico nella calma voluttà che ci prodiga l'astro della notte. I colori hanno un valore morale di una certa importanza nei piaceri della vista. Noi chiamiamo allegri il rosso, il bleu e il giallo, che sono i tre colori fondamentali, mentre diciamo tristi il nero, il grigio o il cinereo, puro e verginale il bianco. Questo fatto, che si riscontra in tutte le lingue, dimostra più d'ogni altra cosa la natura intellettuale delle sensazioni della vista. Quasi tutti hanno una speciale simpatia per qualche colore: io, ad esempio, amo con trasporto l'azzurro. Nei paesi caldi si preferiscono i colori più vivi, mentre, là dove il sole sorride di rado, anche gli uomini amano meglio le tinte meno tenui e più cupe. Molte nazioni negre hanno una vera passione per i colori più sgargianti. Alcuni colori poi producono immensi piaceri per le memorie che vi si riferiscono; e l'esule può, in lontani paesi, piangere di gioia alla vista della bandiera tricolore. Gli esseri viventi ci interessano molte volte al solo vederli, per l'affinità naturale che abbiamo con essi; e il piacere riesce in generale tanto maggiore quanto più essi ci assomigliano. I vegetali, per quanto siano lontani da noi per ogni principio di affinità, e per quanto la loro vista sia fredda e priva di movimento spontaneo, pure ci interessano assai più dei minerali per la parte che prendono ai piaceri della vista. Il prigioniero, che tra le connessure delle pietre del carcere scorge una tenera pianticina di lichene, prova un piacere molto superiore che se avesse trovato un minerale pregiato. Le parti di una pianta che in generale ci interessano maggiormente sono i fiori, perchè appunto in essi la vita si mostra in tutto il lusso delle sue forme e dei suoi colori. La bellezza delle forme e la varietà dei colori, infatti, hanno gran parte nel piacere che ci dànno i fiori, ma non ne costituiscono l'elemento principale. Talvolta il fiorellino più modesto ci interessa assai più di un magnifico fiore smagliante, perchè una simpatia misteriosa ci lega a questi esseri delicati, a queste tenere creature del mondo vegetale. Gli animali possono piacere, quando non siano schifosi o non ci incutano paura. Tutti però in qualche circostanza possono concorrere alle gioie della vista. Il rospo si ammira nelle vetrine dei musei, come la tigre ci piace meglio quando è chiusa fra le sbarre di un serraglio. Alcuni animali ci interessano per la loro piccolezza, e il piacere che si prova contemplando una formica che passeggia sulla nostra mano, scomparirebbe del tutto, se quell'insetto avesse la proporzione di un coniglio. Altri animali rallegrano la vista col brio dei colori, colla vivacità dei movimenti, colla stranezza delle forme: alcuni di essi ispirano l'affetto, altri la curiosità. Le fiere ci dilettano per la loro potenza muscolare. L'uomo è l'animale che ci interessa più di tutti gli altri ed è naturale, sia perchè ci riguarda direttamente, sia perchè è l'essere superiore nella scala della creazione. Più d'una volta mi sono sorpreso in atto di ammirare la bellezza delle forme e la nobiltà dell'incesso che lo caratterizzano. La vista dell'uomo poi ci risveglia subito quell'affetto indistinto, che è il fondamento e la ragione prima della società. Il piacere che proviamo in questo caso sale poi di grado, a seconda dei vincoli che ci legano alla persona che vediamo. Fra lo sguardo affettuoso di una madre che divora cogli occhi il bambino che tiene fra le braccia, e l'occhiata distratta che gettiamo a chi passa per via accanto a noi, sta un mondo intero di sensazioni e di piaceri, che si riferiscono al sentimento. L'incontrarsi degli occhi è sorgente di gioie immense. Quando abbiamo dinnanzi a noi un uomo, possiamo contemplarlo e analizzarlo da capo a fondo; ma se egli si allontana senza averci guardato, noi restiamo stranieri l'uno all'altro, e la sensazione e le idee che egli ci ha destate si chiudono nei limiti del nostro io. Ma se ad un tratto i nostri occhi si incontrano, noi ci troviamo in rapporto intimo di fratellanza, e ci mandiamo mentalmente il saluto dell'uomo all'uomo. Questa corrispondenza misteriosa degli occhi non può farsi che fra esseri della stessa specie: e quando anche il nostro sguardo s'incontrasse con quello del cane che ci ama o del cavallo che ci porta, il piacere sarebbe languido e puramente sensuale. L'uomo, invece, col balenar dell'occhio, parla all'uomo e lo intende, e le due coscienze sembrano affacciarsi l'una all'altra. Una sensazione della vista può essere piacevole per le memorie che ridesta in noi. L'esule che, tornando in patria, dall'alto d'un colle scorge una semplice macchia bianca, ch'egli intuisce essere la sua casa paterna, la contempla con un vero delirio di gioia, senza che l'immagine sia per se stessa interessante. Egli contempla un oggetto che gli è caro e di cui adora anche l'immagine, e rimane sospeso fra la sensazione e il mondo di memorie che sta dietro ad essa, ma che ancora non si schiude; ed egli guarda e riguarda e si arresta, piangendo di gioia, sopra un'immagine che è pur sempre la stessa, ma che per lui diventa sempre più interessante, quanto più egli la contempla. Sotto questo aspetto, il valore morale degli oggetti può crescere a dismisura il piacere che ci danno colle loro immagini. La vista di una quercia può far delirare di gioia l'Europeo, che da lunghi anni non vede che palme e felci. Una donna che fila può far piangere lagrime soavi ad un soldato, cui rammenta la sua vecchia madre e i racconti del focolare domestico. Io non posso vedere senza compiacenza il cortile di una casa dove cresca dell'erba, perchè è sull'erba di un cortile che io ho tentato i primi passi, ho trascorso le ore più care della mia infanzia cacciando insetti e giuocando coi ciottoli, e dove ho gustato le sensazioni più vergini. La passione dominante rende piacevole la vista degli oggetti che vi si riferiscono, e produce in questo modo una infinità di piaceri diversi. Il sibarita guarda con gioia la polvere veneranda di una bottiglia a cui sta per dare l'assalto, mentre il bibliofilo palpita di piacere vedendo, ad un tratto, nei palchetti di una libreria un libro che ancora non possiede. In questo modo anche gli oggetti più indifferenti o anche ripugnanti possono essere fonti di gioia. Il malacologo ritorna a casa festoso dalla passeggiata, per una nuova lumaca che è riuscito a prendere; mentre l'anatomico rimane collo scalpello sospeso, nell'atto di una compiacenza superiore, sopra un cadavere ributtante, perchè egli ha sotto gli occhi un caso di inaspettata importanza.

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Sull'Oceano

171331
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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A desinare, prima di sedersi, il comandante disse a voce alta: - Scignori, abbiamo a bordo un passeggiere di più. Molti non capirono. - Un bel maschiotto, - soggiunse, - che ha appena un'ora e tre quarti. Tutti si rallegrarono ridendo e commentando. Da un leggiero rossore che passò sul viso della signorina di Mestre, capii che doveva aver partorito la contadina del suo paese. - È nato nell'emisfero boreale, - concluse il comandante; - ma lo battezzeranno nell'altro. Domani si passa l'equatore.

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