Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'evoluzione

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Montalenti, Giuseppe 50 occorrenze

È luminoso perché l’evoluzione rappresenta come abbiamo visto un nuovo argomento a favore dell’esistenza di Dio... Il fatto dell’evoluzione inoltre illumina molti problemi che in luce creazionistica immediata sarebbero apparsi inintelligibili o meno comprensibili... La natura acquista maggiore unità e razionalità, gli esseri inanimati per i viventi, i viventi

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Ecco quindi l’evoluzione preordinata, che conduce necessariamente alla formazione dell’uomo, teoria sulla quale abbiamo già espresso il giudizio negativo, dal punto di vista scientifico, a pag. 89.

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Fermo restando il grande valore storico dell’evoluzionismo, teoria che ha rinnovato la scienza biologica, come abbiamo accennato, la sua valutazione, come teoria scientifica attuale, si deve imperniare su tre problemi principali.

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L’embriologia comparata, sia dei vertebrati, sia degli invertebrati offre numerosi altri esempi di struttura interpretabili in questo senso: lo sviluppo dell’orecchio interno negli uccelli, quello degli organi urogenitali dei vertebrati e molti altri mostrano gli stessi fenomeni a cui abbiamo accennato a proposito delle fessure branchiali, ma un po’ più complicati e difficili ad esporre a chi non abbia una discreta conoscenza dell’embriologia.

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Gli esempi che si potrebbero riferire, traendoli dalle varie discipline che abbiamo indicato, sono numerosissimi. Ma non è il caso considerarne altri, né di analizzare più minutamente quelli cui abbiamo accennato perché esposizioni particolareggiate e analitiche si trovano in molti libri facilmente accessibili. Ne abbiamo richiamato alla memoria qualcuno, con breve e succinta esposizione, soltanto per ricordare che essi si considerano ancora come validi argomenti in favore dell’evoluzione, o meglio come fenomeni che non si interpretano facilmente se non sulla base della teoria evoluzionistica. E se ciascuno di essi preso isolatamente non può dirsi una prova in sé completa e irrefutabile, è certo che il loro grande numero e il fatto ch’essi convergono tutti verso una unica dimostrazione, costituisce un argomento di notevolissima importanza, tratto dalla considerazione del mondo dei viventi qual esso appare oggi ai nostri occhi.

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Per i tempi successivi a questo, non abbiamo per ora molte determinazioni di età; ma le poche che si posseggono concordano con i dati della geologia, nel senso che confermano

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Come abbiamo detto, agli inizi del Paleozoico, poco più di mezzo miliardo di anni orsono, si assiste alla comparsa subitanea di numerosi organismi uni- e pluricellulari, di struttura altamente complessa, che hanno lasciato una imponente documentazione fossile. Sono tutti marini, e rappresentano i principali tipi di invertebrati ancor oggi esistenti. Protozoi (cioè animali unicellulari) con gusci o scheletri calcarei o silicei, Celenterati (cioè forme affini alle meduse, ai coralli e alle madrepore), Vermi e Molluschi abbastanza simili agli attuali, Echinodermi (forme affini agli attuali ricci e stelle di mare), e le Trilobiti. Questo gruppo, che poi si estinse, e di cui non esistono quindi rappresentanti nella fauna attuale, è costituito da animali che hanno una certa somiglianza con gli attuali Crostacei.

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La lunghissima storia che abbiamo riassunto in poche righe è, di per sé, un fatto che non si saprebbe spiegare scientificamente altrimenti che con l’ipotesi evoluzionistica.

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Il lasso di tempo durante il quale si è svolta l’evoluzione è dunque molto notevole, sebbene possa ancora considerarsi breve di fronte ai tempi di cui abbiamo nozione nei fenomeni astronomici. Quei fossili che sono accumulati nello spessore di pochi metri, o decine di metri della crosta terrestre, rappresentano i documenti, molto ravvicinati l’uno all’altro di lunghissimi tempi trascorsi; di una lunghissima «storia senza storia da noi scritta» per dirla col Croce. Storia che si è effettivamente svolta sulla faccia del nostro pianeta, anche se soltanto oggi noi siamo in grado di ricostruirla più o meno frammentariamente.

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Tuttavia le derivazioni cui abbiamo accennato rappresentano ipotesi altamente probabili in base ai dati dell’anatomia e della paleontologia che abbiamo disponibili. Altri passaggi invece sono ben documentati: così quello dai Pesci ossei agli Anfibi, dagli Anfibi ai Rettili e da questi agli Uccelli, ai Mammiferi. Se si raccolgono e si vagliano attentamente i reperti fossili, i dati dell’anatomia e dell’embriologia comparata, si possono nutrire ben pochi dubbi sul corso dell’evoluzione in questi casi, anche se non disponiamo, ovviamente, di tutti i gradi di transizione bellamente rappresentati da altrettanti resti fossili ben conservati. Le lacune e le incertezze sono certamente fatti di minor conto, di fronte alle prove positive.

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La storia evolutiva degli Equidi, così come è stata qui riassunta, è assai incompleta: ad ogni tappa della evoluzione v’è una irradiazione di numerose specie, che per semplicità non abbiamo ricordato. Ma nelle sue linee generali e schematiche può dare una idea di una genealogia che è fra le meglio conosciute. È stata recentemente ristudiata dal paleontologo americano G. G. Simpson, e si può schematicamente riassumere nelle seguenti cifre: durata totale dell’evoluzione da Hyracotherium a Equus, 60 milioni di anni, con passaggio attraverso 8 generi (durata media di ciascuno 7,5 milioni di anni), 25 o 30 specie (durata media di 2 milioni di anni ciascuna); 15 milioni di generazioni,

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Se si cerca di ricostruire la storia della vita sulla terra in base ai documenti che abbiamo - così come lo storico, sulle rovine di Babilonia, o negli scavi di Pompei, cerca

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Così, per ricordare alcuni esempi, abbiamo seguito l’evoluzione della linea degli Equidi, e le trasformazioni morfologiche e le penetrazioni geografiche, che hanno condotto i cavalli, così come sono oggi, solipedi, pascolatori, abitatori delle steppe, a vivere nelle grandi pianure dell’Eurasia. E analogamente per molte altre linee di discendenza che ci sono più o meno ben conosciute grazie alle ricerche dei paleontologi.

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sia di piante, compaiono precocemente, fin dagli inizi dell’era Paleozoica dopo un lungo periodo di preparazione sul quale non abbiamo informazioni, e tali rimangono fino a noi. Variano bensì le forme di Molluschi, o di Artropodi,

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Come abbiamo già detto in precedenza la risposta fu negativa: i caratteri acquisiti durante la vita dell’individuo per opera di azioni dell’ambiente, dell’uso e disuso degli organi, non si ereditano, non vengono trasmessi ai discendenti. Non si ereditano, fortunatamente, le mutilazioni o le deformazioni, come per esempio i tatuaggi, la deformazione del piede inflitta un tempo alle donne cinesi, ecc. Non si ereditano le ipertrofie o ipotrofie determinate dall’uso e disuso, principio

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La combinazione di questi geni secondo lo schema seguente dà appunto origine alle varie combinazioni che abbiamo ricordato.

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Relativamente pochi sono i caratteri controllati da una sola coppia genica, come quelli cui abbiamo accennato (e anche questi possono essere modificati nella loro espressione dall’intervento di geni «modificatori»). Per lo più un carattere (per es. statura, colore della pelle, ecc.) è controllato da numerose coppie geniche, ciascuna delle quali si comporta secondo le leggi di Mendel. Tutte insieme collaborano sommando le proprie azioni. Perciò, anche se la base del fenomeno ereditario è discontinua, nell’individuo si assiste ad una integrazione delle azioni dei singoli geni, che dà luogo a una variabilità continua.

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Ogni gene, come abbiamo detto, può esistere in almeno due forme alleliche: per esempio il gene che indicheremo con H determina coagulazione del sangue normale, l’allele h, coagulazione ritardata o assente (emofilia); il gene W determina il colore rosso normale dell’occhio del moscerino

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Come abbiamo detto, essa mette al mondo, ad ogni generazione, soltanto una piccola frazione di tutte le ricombinazioni geniche teoricamente possibili, ma tale frazione rappresenta già un alto grado di variabilità.

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Tali variazioni cioè, le mutazioni, si distinguono in tre categorie: geniche - e sono quelle di cui abbiamo parlato: passaggio di un singolo gene da uno ad un altro stato allelico; cromosomiche cioè variazioni strutturali di un singolo cromosoma, con conseguente variazione dell’ordine lineare dei geni; e mutazioni genomiche, cioè variazione del numero dei cromosomi, che pure, in certe condizioni e con determinate limitazioni, sono possibili.

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il problema su basi genetiche è se le differenze fra le specie esistenti siano riconducibili ai tre tipi di mutazioni cui abbiamo accennato: cioè geniche, cromosomiche e genomiche, o del cariotipo. A questa domanda si può rispondere studiando il risultato di incroci fra specie (incroci interspecifici). Ora, come vedremo, l’incrocio interspecifico dà, nella maggior parte dei casi, ibridi sterili, e ciò costituisce una seria limitazione all’analisi genetica. Tuttavia le ricerche condotte con vari metodi diretti e indiretti, hanno dimostrato che le differenze fra specie affini di animali e di piante sono riconducibili a differenze di geni, a diversità di struttura dei cromosomi, o a differente numero dei medesimi. Perciò i tre tipi di mutazione rappresentano certamente, se non la sola, di gran lunga la più importante sorgente di variabilità ai fini del differenziamento specifico.

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La terza condizione è evidente: è quella che abbiamo esemplificato supponendo che in un allevamento di razze pure vengano tolti gli impedimenti agli incroci. La condizione positiva è dunque l’isolamento, a cui dagli antichi evoluzionisti fu riconosciuta, non erroneamente, tanta importanza. L’isolamento di una popolazione può essere determinato, come si è detto, da cause di vario genere, geografiche, ecologiche, di ciclo riproduttivo stagionale, etologiche, ecc. I fattori di isolamento sono oggetto di molte ricerche recenti.

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Si può discutere invece sul modo con cui tale idoneità è raggiunta: esclusa l’ipotesi creazionistica, o preformistica, ne rimangono due: o l’ambiente induce direttamente variazioni ereditarie negli-organismi, tali da renderlo adatto alle proprie esigenze - e abbiamo visto ripetutamente che tutti i dati sono contrari a quest’ipotesi - oppure il vaglio della selezione, operando sulle variazioni casuali che si producono negli individui, trasceglie quelli più adatti, e continuamente li perfeziona, nel corso delle generazioni. Così anche la finalità dei fenomeni biologici, sulla quale tanto si è discusso, viene interpretata in base ad una ipotesi

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Probabilmente anche la limitazione automatica della variabilità, o genetic drift, di cui abbiamo parlato (p. 187) entra in gioco in casi particolari, quando il numero degli individui è molto limitato. Recentemente si è aperta una polemica al riguardo, allorché il genetista giapponese M. Kimura in base a dati ricavati dalle mutazioni che hanno modificato la molecola dell’emoglobina, ha proposto la teoria che molti geni non abbiano valore selettivo, siano «neutrali», e perciò soggetti alla deriva genetica. Le opinioni dei genetisti in proposito sono divise; la questione è sub judice (cfr. p. 211).

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La concezione aristotelica del mondo dei viventi, come abbiamo detto, è quella tradizionale, creazionistica, statica. E tuttavia, da alcuni passi delle sue opere, si rileva che egli aveva una nozione della scala di complessità in cui possono essere ordinati gli esseri viventi. Ecco, ad esempio, che cosa dice nel libro VIII della Historia animalium:

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Oltre ai geni che presiedono alla formazione delle varie proteine vi sono geni che hanno funzione di regolazione e di coordinamento dell’attività che abbiamo indicato. La presenza di questi geni è stata effettivamente dimostrata in Escherichia coli in cui si è scoperto un sistema complesso di interazione di geni regolatori e di geni effettori, al quale è stato dato il nome

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Ma, come abbiamo esposto a p. 200, permane il problema dell’origine dei grandi gruppi, che differiscono per caratteristiche di struttura assai profonde, quali possono essere, per esempio, quelle di un vertebrato rispetto a quelle di un mollusco.

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Alcuni genetisti ritengono che le presunte mutazioni «sistemiche» cui abbiamo accennato a p. 200, siano variazioni che intervengono in questa parte del genoma, le cui proprietà ci sono ancora quasi del tutto sconosciute. Ma queste sono mere congetture, ipotesi che, per essere accettate, richiedono dimostrazioni che per ora mancano.

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Possiamo affermare che i meccanismi che abbiamo schematicamente esposto sono sufficienti a spiegare l’evoluzione non soltanto al livello subspecifico (formazione di sottospecie, razze, varietà) ma anche al livello specifico, cioè la formazione di nuove specie, e anche, verosimilmente di forme che i sistematici classificano i gruppi tassonomici superiori: generi, famiglie, ordini.

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I geni di cui abbiamo studiato la funzione e il comportamento sono quelli che forniscono i materiali elementari per la costruzione degli organismi, materiali che potrebbero paragonarsi ai mattoni, alle pietre varie, al legname, ai pezzi che entrano nella costituzione di un edificio. Ma è evidente che con gli stessi materiali si può costruire una semplice casetta, oppure un palazzo reale, una fortezza, una cattedrale e via dicendo, a seconda dell’azione di coordinamento e di regolazione che interviene durante la costruzione.

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Johannsen, costruendo le «linee pure» nei fagioli, cioè popolazioni assolutamente omogenee dal punto di vista genetico, e dimostrando che le variazioni indotte negli individui da azioni ambientali non si ereditano, come abbiamo detto a p. 160, diede inizio ad una sperimentazione rigorosa, che tiene conto di tutte le possibili cause di errore. Tutti gli esperimenti eseguiti con assoluto rigore e con tecnica impeccabile, hanno dato risposta univoca, come abbiamo detto: i caratteri acquisiti dal soma per effetto di agenti esterni durante la vita individuale, non sono trasmissibili a discendenti. Coloro che, di tempo in tempo, hanno tentato di risuscitare il lamarckismo (che fornirebbe la più facile interpretazione della evoluzione, quella che richiede

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Un altro gruppo di teorie è quello che abbiamo chiamato dell’evoluzione per cause interne, talvolta indicata col nome di ortogenesi (evoluzione che si svolge secondo una direzione determinata). La storia di queste teorie, da C. Nägeli e T. Eimer fino ai giorni nostri è lunga e varia, e giunge fino alle teorie »telefinalistiche» secondo le quali l’evoluzione è interamente preordinata verso un fine preciso. Ne abbiamo discusso a p. 88. Vogliamo qui ribadire l’affermazione che tutte queste ipotesi non sono teorie scientifiche, ma offrono soltanto pseudospiegazioni inquinate dalla peggior metafisica.

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Come abbiamo visto, la genetica ha sostanzialmente dimostrato la validità della tesi darwiniana, e soprattutto l’efficacia della selezione come fattore di evoluzione. La moderna teoria evoluzionistica è chiamata anche teoria sintetica, in quanto raccoglie quei concetti delle antiche teorie che si sono rivelati sperimentalmente validi.

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Ed è, come abbiamo detto, la risultante di forze naturali, così come possono esserlo l’erosione prodotta dal vento su di una roccia, o l’alterazione chimica prodotta su di un corpo dagli agenti atmosferici.

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Ma quest’azione, come abbiamo detto, non è diretta, bensì mediata, e avviene appunto attraverso la selezione. È sempre in virtù di un tal meccanismo che ogni organismo risulta armonico, e i processi della sua vita sono orientati verso un fine: se così non fosse l’organismo sarebbe destinato presto o tardi a scomparire.

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Quello che è difficile far comprendere a chi non è addentro nella genetica, e ha seguito soltanto esemplificazioni schematiche e ragionamenti alquanto generici e approssimativi come quelli che abbiamo esposto di sopra, è che la selezione opera non soltanto scegliendo o eliminando singole mutazioni vistose (come nell’esempio delle drosofile ad ali ridotte) ma anche e soprattutto su combinazioni di geni, cioè su complessi di mutazioni, ciascuna delle quali è di per sé di piccola entità e tutte insieme cooperano alla estrinsecazione di uno o più caratteri.

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È l’evoluzione telefinalistica di cui abbiamo parlato e che abbiamo giudicato scientificamente inaccettabile (cfr. p. 88).

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Il Buffon, come abbiamo visto, aveva delineato la storia della crosta terrestre ammettendo una durata di un centinaio di millenni, di contro ai sei della tradizione. Tale sua teoria aveva trovato un complemento e un ulteriore sviluppo nella teoria di Kant (1755) della genesi del sistema planetario da una nebulosa primitiva che aveva dato origine ai vari pianeti fra cui la terra, e il sole. Nel campo biologico il Buffon aveva considerato la possibilità della trasformazione di una specie in un’altra, pur senza spingersi molto oltre per questa strada. Tutto il clima intellettuale del Settecento - del resto - era favorevole ad una interpretazione meccanicistica dei fenomeni naturali. L’illuminismo, nato in Inghilterra e trapiantato in Francia, cercava di liberare il pensiero umano dalle concezioni mitiche e metafisiche, e di costruire la conoscenza del mondo su basi scientifiche. Diderot, il fondatore della Encyclopédie, aveva espresso idee ben precise sul pensiero scientifico, e in La rêve d’Alembert (pubblicato postumo nel 1830) esprime chiare idee evoluzionistiche.

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Abbiamo voluto ricordare questa parte deteriore dell’attività del Lamarck, per meglio lumeggiare la sua personalità, che appare contrastata da due opposte tendenze: quella all’indagine analitica e sistematica e il desiderio di generalizzare e di teorizzare.

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E non è il caso di accentuare quanto la succinta esposizione che abbiamo citato sia precisa, completa, consapevole. È, finalmente, una vera teoria dell’evoluzione. A quei tempi si parlava di «trasformazione» e «trasformismo»: il termine «evoluzione» fu usato, nell’accezione oggi corrente, da Darwin, che lo desunse da H. Spencer (1857). Ai tempi di Lamarck e di Cuvier «evoluzione»

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Questi alimentò in lui la già viva passione per lo studio della zoologia e dell’anatomia, e lo istruì nei principi di quella corrente di pensiero, a cui abbiamo precedentemente accennato, nota sotto il nome di «Filosofia della Natura».

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Abbiamo voluto ricordare le cariche che furono coperte dal Cuvier, per mostrare il grande prestigio ch’egli seppe acquistare non soltanto fra gli scienziati, ma nel mondo politico e burocratico, e per illuminare la portentosa attività di quest’uomo, che - senza sacrificare l’intenso lavoro scientifico e didattico - poteva occuparsi di molte altre cose, in tutte eccellendo. La memoria formidabile, l’eccezionale resistenza al lavoro, il metodo rigorosissimo, la vita modesta e attivissima che s’impose gli consentirono questa attività sbalorditiva.

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Se i lavori di anatomia comparata del Cuvier, i cui risultati principali abbiamo sopra ricordato, sono sommamente importanti per la teoria evoluzionistica quale si svilupperà sessant’anni più tardi, le ricerche paleontologiche sono addirittura fondamentali.

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Erasmus Darwin, l’autore della Zoonomia e del poemetto sugli amori delle piante, cui abbiamo accennato in un capitolo precedente, accompagnò suo figlio, il dott. Robert Darwin, appena ventenne, a prendere possesso della sua residenza a Shrewsbury nello Staffordshire. Robert si accingeva a dedicarsi all’esercizio della medicina, che già aveva procurato una notevole agiatezza al padre suo Erasmus, a Derby. La casa in cui si installò, «The Mount», di quello stile neoclassico molto diffuso in Inghilterra che fu chiamato georgiano, fu quella in cui Charles Darwin doveva trascorrere l’infanzia e l’adolescenza e a cui tante volte ritornerà col pensiero nel corso della sua vita.

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Non si può pretendere di esaurire un argomento tanto difficile e complicato con una esposizione così sommaria come quella che abbiamo fatto. Ma era necessario presentarlo per fare risaltare la originalità della interpretazione darwiniana.

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Il 19 aprile 1882, come abbiamo detto, Charles Darwin si spense all’età di settantatre anni. Il suo desiderio che la morte non fosse preceduta dal declino delle facoltà mentali fu esaudito. In quel giorno cessò di operare una delle menti più potenti dell’umanità. Il suo lavoro ha esercitato un’azione liberatrice da miti, leggende, superstizioni, paragonabile a pochi altri nella storia del pensiero. Prova della validità del pensiero darwiniano è che la biologia, a poco meno di un secolo dalla sua morte, ancora si muove sulla traccia ch’esso ha segnata.

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La pubblicazione dell’Origine delle specie, nel 1859, aveva sollevato, come abbiamo detto, aspre critiche, oltre a molti entusiastici consensi.

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Accanto alle reazioni dello spiritualismo, di cui abbiamo voluto dare una esemplificazione, venne, anche in Italia l’apprezzamento del darwinismo. Nel 1875 il Darwin fu nominato socio straniero dell’Accademia nazionale dei Lincei, da poco ricostituita per opera di Quintino Sella. Michele Lessona, successore del De Filippi sulla cattedra torinese, tradusse alcune opere di Darwin, e pubblicò nel 1833 un volumetto intitolato appunto Carlo Darwin, per i tipi del Sommaruga, a Roma. Giovanni Canestrini tradusse anche le altre opere darwiniane che non erano già state tradotte dal Lessona e pubblicò vari libri divulgativi sull’evoluzionismo. Tale dottrina venne così fatta conoscere in larghi circoli anche in Italia, e fu ampiamente discussa da zoologi, botanici, antropologi, sociologi. Basta ricordare i nomi di Paolo Mantegazza, Cesare Lombroso, Giacomo Cattaneo, Giuseppe Sergi, Enrico Morselli, tacendo di altri molti, per ricordare il favore con cui l’evoluzionismo

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Se anche si vuol concedere che, in conseguenza della variabilità individuale (le cui origini, per Darwin, sono oscure, come abbiamo visto) compaiano veramente tali individui aberranti, è facile obiettare che non si capisce come la selezione possa favorirli. Un abbozzo di ala, un moncone non serve a niente: l’ala serve soltanto quando sia completamente sviluppata e permetta all’individuo che ne è provvisto, se non di volare, almeno di planare. Così appunto avviene negli scoiattoli volanti, che hanno grandi membrane fra gli arti anteriori e i posteriori, le quali funzionano come paracadute, e, se volete, come le ali di un aliante.

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Ma, certo, convertire la preistoria in istoria non è cosa frequente né lavoro da ognuno; e se abbiamo voluto mostrare,

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