Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 35 occorrenze

Come abbiamo già detto, si trattava di un’arte improntata soprattutto ai sofisticati ideali della vita di corte, la quale, a sua volta, era nostalgicamente attratta dai modelli in via d’estinzione del mondo cavalleresco. In quest’epoca gli altari e i muri delle chiese si popolarono di sculture e dipinti che raffiguravano santi abbigliati come paggi o cavalieri e sante damigelle di profana avvenenza, che indossavano con sussiego sontuosi abiti alla moda e mimavano nelle pose l’eleganza stilizzata e le sinuose movenze dei bellimbusti e delle belles dames sans merci delle corti europee (fig. 78). I protagonisti di questa vita di corte si atteggiavano, a loro volta, come gli eroi e le eroine dei poemi cavallereschi, le cui gesta d’amore e d’onore rivivono sulle pareti affrescate dei castelli, nei codici miniati, negli arazzi, nelle armi da torneo.

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Anzi, in un certo senso appare doppiamente significativo proprio perché, contrariamente a quanto abbiamo detto fin qui, la pala d’altare appare più incline alla vivacità narrativa e alla divagazione aneddotica di quanto non mostri di esserlo lo scomparto di predella. Masaccio, infatti, adotta un tono narrativo quanto mai austero ed essenziale. Evita accuratamente qualsiasi profusione di ori, argenti, pastiglie e ornati sontuosi: solo la sedia su cui è seduta la Madonna è impreziosita dall’oro (in gran parte andato perduto), ma la sua caratteristica più interessante è che si Fig. 88. Masaccio, Adorazione dei Magi, 1426, Berlino, Gemälde Galerie, Staatliche Museen. tratta di un oggetto la cui forma rimanda inequivocabilmente alla sella curulis, il seggio del sacerdote romano. Si tratta dunque di una citazione dotta, di pretto stampo umanistico, come del resto si addice a chi, come Masaccio, apparteneva al manipolo di coloro che si battevano per un radicale rinnovamento in senso umanistico della cultura figurativa fiorentina. Diversamente da Gentile, che ha dispiegato le sue figure eleganti e flessuose in un paesaggio gaio, fiorito e quanto mai vario, illuminato dal fondo dorato, Masaccio ha preferito far campeggiare i suoi personaggi sullo sfondo di un paesaggio brullo e disadorno, sotto una striscia di cielo basso, che non invita a inoltrarsi con lo sguardo oltre i primi piani, dove si stagliano le figure dei protagonisti della storia, minuscole dal punto di vista del formato, ma imponenti sul piano dell’effetto percettivo. Ogni personaggio ha una sua solida concretezza e fisicità, sottolineata dalla rigorosa geometria degli scorci prospettici e dalle nette ombre che ciascun corpo proietta sul terreno, individuando i diversi piani di profondità determinati dalla disposizione di ciascun gruppo sulla scena. Siamo agli antipodi dell’empirismo con cui Gentile gestisce lo spazio della rappresentazione. Qui la luce proviene da una fonte unitaria ben individuata e ogni corpo si dispone nello spazio, diminuendo proporzionalmente in funzione della distanza dal primo piano. Rilevante è anche il fatto che due di questi personaggi siano contemporanei di Masaccio, come denunciano le loro austere vesti quattrocentesche. Si tratta, ovviamente, dei committenti della pala, che presenziano alla scena sacra come fossero testimoni diretti dell’evento. Il fatto più insolito, però, non è questo tipo di presenza spesso, anche nei dipinti medievali i committenti erano ammessi al cospetto di Madonne, santi ed altri personaggi sacri -, quanto il fatto che essi siano di proporzioni identiche a quelle dei protagonisti della scena sacra, tanto che essendo rappresentati in primissimo piano, sono, di fatto, le figure di maggior grandezza. Masaccio, dunque, si è attenuto all’applicazione integrale del metodo prospettico e non ha agito come un pittore medievale, il quale avrebbe utilizzato la cosiddetta «prospettiva invertita», diminuendo a bella posta le dimensioni dei committenti per renderli minuscoli rispetto ai personaggi sacri verso cui rivolgono la propria devozione. La rivoluzione prospettica non ammette scarti dimensionali e salti di scala che non siano motivati da concrete situazioni spaziali. Ciò che è lontano appare, proporzionalmente, più piccolo, rispetto a ciò che è in primo piano, a prescindere da qualsiasi gerarchia, sociale o religiosa.

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Come nel caso che abbiamo già analizzato della predella del Polittico di Pisa con l’Adorazione dei Magi, Masaccio contravviene alle regole medievali della «prospettiva invertita», dimensionando le figure in base all’imparziale legge della prospettiva e dunque mescolandole ai personaggi della storia sacra, Fig. 92. Masaccio, Il tributo, 1425 ca., Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci. senza diminuirne arbitrariamente le proporzioni per ragioni di ordine gerarchico. Un’altra caratteristica da sottolineare è l’attenzione compiaciuta nella rappresentazione dell’anatomia umana: colui che si è inginocchiato per ricevere il battesimo ha il corpo di un atleta. Masaccio sembra essersi ispirato direttamente al vero, utilizzando un modello, ma non c’è dubbio che abbia anche tratto spunto dalla statuaria antica. Quel che più colpisce, comunque, è lo scabro e lucido realismo della scena, con lo straordinario dettaglio del giovane in piedi, seminudo, che sembra percorso da brividi e tremare per il freddo, mentre attende impaziente il suo turno ed essere battezzato. Fig. 93. Nanni di Banco, I Quattro Santi Coronati, 1410-15, firenze, Museo di Orsanmichele (da una nicchia esterna di Orsanmichele). Diversamente da Gentile e dagli altri protagonisti del Gotico cortese, il realismo masaccesco non è un mezzo per divagare, raccontando aneddoti più o meno gustosi ma estranei al tema centrale della scena, idealismo di Masaccio è strettamente funzionale al racconto, cui conferisce carattere, forza espressiva, attendibilità.

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Per concludere questo capitolo in cui abbiamo messo a confronto i caratteri del Gotico cortese con quelli della rivoluzione prospettica avviata in Toscana all’alba del Quattrocento, proponiamo un confronto inusuale, ma stringente, che illustra in modo esemplare la contrapposizione tra questi due linguaggi figurativi ed ha anche il pregio di ribadire che non sempre la cronologia si adatta agli schematismi manualistici in base ai quali il Gotico cortese, «precedendo» cronologicamente la rivoluzione prospettica, Fig. 95. Masolino da Panicale, Il peccato originale, 1425 ca., Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci. Fig. 96. Masaccio, La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, 1425 ca., Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci. non si spinge oltre i primissimi decenni del Quattrocento. Spesso le griglie della storia dell’arte non coincidono con quelle della geografia dell’arte: le «sfasature» tra l’una e l’altra mappa sono innumerevoli.

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L'autore di questo pinto è Hans Clemer, un pittore originario della Francia settentrionale, ma attivo negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento in Piemonte: una regione che, come abbiamo visto, faceva parte integrante di quel territorio su a pi no che fu uno dei più fervidi laboratori del Gotico cortese.

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Noi siamo abituati a pensare erroneamente alla libertà dell’artista, perché abbiamo in mente la condizione degli artisti nell’età contemporanea. Ma in passato pittori e scultori erano vincolati a contratti che spesso prescrivevano in modo assai puntiglioso qualità dei colori, numero dei personaggi da inserire nella composizione e a volte persino l’opera già esistente da prendere a modello. In questo caso è chiaro che, indipendentemente o meno dalla volontà dell’artista, fu la Confraternita a chiedere a Piero d’impreziosire la tavola con un fondo oro, ma è comunque significativo che l'artista abbia evitato qualsiasi tipo di arricchimento ornamentale (punzonature, pastiglie, pietre semipreziose, ecc.), usando l’oro in modo naturalistico, come pura fonte di luce. La differenza sostanziale rispetto alla tavola di Hans Clemer, comunque, deriva dalla rigorosa impostazione prospettica del dipinto, dall’asciutta nudità strutturale di quel manto che si apre a formare una sorta di concava abside, entro cui si dispongono i fedeli, assumendo anch’essi pose attentamente calcolate sul piano della «diminuzione prospettica». La Madonna si erge frontalmente in tutta la sua imponenza, solenne e rigida come un’icona. La luce e l’ombra ne modellano la figura potentemente, conferendole un forte risalto plastico di tipo statuario. Piero non si concede nessuna divagazione ornamentale o grafica e non esita, ad esempio, a celare alla nostra vista i volti dei due fedeli in primo piano, pur di rispettare l’impostazione spaziale che ha concepito: all’abbraccio della Madonna, che apre il suo mantello formando un’ampia concavità, corrisponde la convessità della disposizione a semicerchio dei fedeli. Il risultato è un potente effetto illusivo di spazio tridimensionale: protettrice e protetti si saldano insieme, formando un volume geometrico perfettamente conchiuso, una sorta di accogliente cupola virtuale che ne suggella la reciproca appartenenza.

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A noi, che abbiamo esperienze culturali e visive diverse rispetto a quelle del pubblico per le quali esse sono state concepite. A noi, che viviamo in un mondo assai differente da quello in cui esse sono nate e abbiamo una percezione dello spazio, del tempo e abitudini sensoriali condizionate dalla velocità della vita moderna, dalla serialità di ciò che ci circonda, dalla simultaneità sinestetica (ovvero che coinvolge simultaneamente diversi organi sensoriali: vista, udito, ecc.), cui ci hanno abituato i mass media, dalle quantità industriali di immagini fatte circolare quotidianamente sulle pagine di giornali, riviste e pubblicazioni più o meno specializzate. Per non parlare del flusso ininterrotto di immagini che si riversa dagli schermi della televisione, del cinema, dei computer. Per misurare la distanza che non è soltanto cronologica ma anche psicologica e, forse, addirittura neurofisiologica - che ci separa dalle opere d’arte del passato, è di somma importanza indagarne in profondità la fortuna (o la sfortuna) critica, cioè analizzarne l’apprezzamento, spesso altalenante, che hanno suscitato nel corso dei secoli: il succedersi nel tempo di valutazioni a volte sorprendentemente discordanti, ma sempre spiegabili, sempre in relazione con il variare dei gusti, delle prospettive culturali e delle mentalità.

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Abbiamo già accennato a quel ripudio delle formule schematiche ed astratte dell’arte bizantina che si configura come un recupero della tradizione classica e di una nuova attenzione alla concreta fisicità del reale, filtrata anche dalle novità provenienti dal Gotico d’oltralpe. E una svolta che ha come antesignani gli scultori Nicola e Giovanni Pisano ed Arnolfo di Cambio, ma che trova il suo maggior protagonista nel campo della pittura nel fiorentino Giotto, come riassume efficacemente la formula coniata da Cennino Cennini, che lo indica come «colui che rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e la ridusse al moderno». La sintetica carrellata sull’illusionismo pittorico dell’arte italiana che stiamo tracciando non può pertanto prescindere da Giotto, che ne incarna in modo esemplare la vigorosa rinascita, dopo secoli di programmatico abbandono da parte dell’arte medievale della rappresentazione di uno spazio illusoriamente tridimensionale.

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Dopo l’abbandono dell’illusionismo greco-romano a favore della bidimensionalità bizantina, abbiamo visto il recupero della tridimensionalità con gli exploits prospettici di Giotto e dei fratelli Lorenzetti. Ora lasciamo per un momento da parte il racconto Fig. 111. Maestro del giardino dell'Eden, Natività della Vergine, 1430 ca., Strasburgo, Musée de l'Œuevre de Notre Dame. Fig. 112. Bartolo di Fredi, Natività della Vergine, 1383-88, Montalcino (Siena), Musei di Montalcino. Raccolta Archeologica, Medievale, Moderna. della nascita della prospettiva rinascimentale ad opera di Brunelleschi e dei suoi compagni d’avventura del primo Quattrocento fiorentino, tema cui dedicheremo l’intero prossimo capitolo, e passiamo direttamente ad alcuni esempi tardo-quattrocenteschi particolarmente significativi, in cui lo spazio figurativo è organizzato in base ai canoni prospettici messi a punto da Filippo Brunelleschi e divulgati dal trattatello sulla pittura scritto da Leon Battista Alberti.

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Dopo essere giunti, con questa nostra breve storia della rappresentazione illusionistica, fino al Settecento inoltrato, torniamo adesso sui nostri passi, per analizzare meglio un tema cruciale per la storia dell’arte moderna in Occidente: la nascita, o meglio l’«invenzione della prospettiva», frutto di un processo che, come abbiamo visto, si è andato sviluppando nel corso del XIII e del XIV secolo, ma che giunge a piena maturazione a Firenze, con Filippo Brunelleschi, all’inizio del Quattrocento. Da secoli Firenze era una delle città europee più attive ed intraprendenti sul piano economico, ma all’inizio del Quattrocento la città non attraversava un periodo di particolare prosperità. Tuttavia, il fallimento dei reiterati tentativi espansionistici del duca di Milano a danno della Repubblica fiorentina e l’annessione stabile di Pisa, che aveva assicurato a Firenze un sicuro sbocco sul mare, produssero un soprassalto di orgoglio civico, che trovò la sua espressione nelle infiammate orazioni di umanisti come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i quali sostenevano la discendenza della Repubblica fiorentina dall’antica Repubblica romana ed esortavano i propri concittadini a seguirne le orme, coltivando la sobrietà dei costumi e dando vita ad imprese degne di quel memorabile passato. Ciò che fu realizzato da artisti quali Filippo Brunelleschi, Nanni di Banco, Lorenzo Ghiberti, Donatello e Masaccio in tutti i campi dell’arte, dall’architettura all’oreficeria, dalla pittura alla scultura, riflette quel fervido clima culturale e costituì ulteriore motivo di orgoglio per la Firenze del Quattrocento e dei secoli a venire.

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Come abbiamo già detto, infatti, per poter dispiegare a pieno il proprio effetto di verosimiglianza, essa presuppone un osservatore posto ad una distanza prefissata dal quadro e che lo guardi chiudendo uno dei due occhi. In altre parole, l’osservatore è posto nelle medesime condizioni nelle quali si trovava il pittore nel realizzare l’opera e la piramide visiva che parte dal suo occhio e va a posarsi sul quadro riproduce esattamente quella dell’autore del dipinto. Grazie a questo artificio si conserva un preciso rapporto proporzionale tra la veduta reale e la sua rappresentazione (il Battistero rappresentato da Brunelleschi era, infatti, in scala con l’edificio reale). Quanto alla necessità di vedere il quadro attraverso il suo riflesso in uno specchio, essa rispecchia la volontà di risalire alle reali condizioni di visione in cui si era trovato Brunelleschi. È assai probabile, infatti, che il metodo di riproduzione brunelleschiano implicasse due momenti distinti: quello in cui la rappresentazione veniva realizzata graficamente su un foglio di carta da disegno e quello in cui la griglia grafica che si era così ricavata veniva trasferita sulla tavola da dipingere, poggiandovi sopra il foglio da disegno e «lucidandone» le linee con la conseguente inversione dell’immagine vergata sulla superficie pittorica. Lo specchio fungeva pertanto da correzione, invertendo nuovamente l’immagine e ripristinando, pertanto, le condizioni di partenza.

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Ciò detto, resta una questione di fondo che abbiamo fin qui tralasciato, ma che è venuto il momento di affrontare. Mi riferisco al fatto che la messa a punto di un metodo rigoroso di rappresentazione prospettica affonda le sue radici in un contesto sociale, economico e culturale caratterizzato da una forte spinta allo sviluppo della conoscenza, anche in rapporto con una pratica imprenditoriale tutta tesa ad ampliare i propri sbocchi mercantili. Dietro la capacità di rappresentare in maniera rigorosa lo spazio tridimensionale s’intravede quella volontà di dominio dello spazio fisico e di esplorazione territoriale che di lì a poco avrebbe portato Cristoforo Colombo e gli altri scopritori del Nuovo Mondo a ridisegnare, con le loro avventurose spedizioni nautiche, le mappe del pianeta. In altre parole, le conquiste di carattere visivo furono, per una civiltà dinamica e intraprendente qual era quella toscana tra Tre e Quattrocento, una sorta di proiezione simbolica del desiderio di conquista e di allargamento del proprio spazio d’azione. Ampliare gli orizzonti di un mondo ancora soffocato dai vincoli della separatezza feudale e comunale: questo l’imperativo che traspare dietro le ricerche spaziali e cartografiche del Quattrocento toscano (e, in forme diverse, della contemporanea civiltà fiamminga, anch’essa altrettanto dinamica, sia sul piano produttivo che commerciale). Ben nota è, del resto, l’amicizia e la stretta relazione intellettuale che legò a Filippo Brunelleschi e a Leon Battista Alberti il matematico, cartografo, astrologo e medico fiorentino Paolo del Pozzo Toscanelli. Costui, nel 1474, indirizzò al re del Portogallo Alfonso V una lettera non a caso trascritta da Cristoforo Colombo sul risvolto di uno dei propri libri in cui era inequivocabilmente prefigurata la spedizione navale per le Indie che, di lì a poco, avrebbe sortito la scoperta preterintenzionale dell’America.

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Finora abbiamo parlato di prospettiva applicata alla pittura, ma il sistema della perspectiva artificialis investe, ovviamente, anche la scultura. Donatello, amico di Brunelleschi, applicò i principi della prospettiva al bassorilievo, inventando la tecnica del cosiddetto «stiacciato». Lo «stiacciato» rende la tridimensionalità e lo scalarsi in profondità dei diversi piani mediante la maggiore o minore sporgenza del rilievo scultoreo: le figure e gli oggetti in primo piano sono quasi a tutto tondo; mano a mano che la scena digrada verso piani visivi che simulano una maggiore distanza dall’occhio dello spettatore, il rilievo si fa via via meno sporgente, fino a divenire appena accennato. Per alludere ad una distanza ancor maggiore, in certi casi Donatello ricorre al graffito, cioè ad un rilievo «in negativo», che scava il piano marmoreo, anziché aggettare rispetto ad esso.

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Un’area, quella nordica, dove si era sviluppato, come abbiamo visto, il gotico anche nella sua versione fiammeggiante e dove avrà origine, a fine Seicento, l’avventura Rococò, con il suo gusto per il virtuosismo, l’esuberanza e il capriccio ornamentale. C’è, in altre parole, una linea di continuità tra questo tipo di divertissements prospettici e l’intrico di guglie del gotico fiammeggiante o gli arabeschi capricciosi del più sfrenato rocaille. Così come c’è continuità tra le sperimentazioni di un Jamnitzer o di un Vredeman de Vries e dei loro emuli cinque e seicenteschi di origine nordica ed un celebre disegnatore olandese del secolo scorso come Fig. 145. Paolo Uccello (attribuito a), Disegno con solido a 72 facce irto di punte, Parigi, Musée du Louvre, Départment des Arts Graphiques. Fig. 146 Wenzel Jamnitzer, Perspectiva corporum regularium, Nürnberg 1568. Fig. 147. Hans Vredeman de Vries, Perspective. Id est celeberrima ars [...] tabula aut tela depicta, s.l., 1604. Maurits Cornelis Escher (1898-1972), che si specializzò nell’inventare ed eseguire bizzarre costruzioni ottiche, rappresentando prospettive illusorie, strutture tridimensionali impossibili (ma costruite con impeccabile logica geometrica) e serie di figure iterate l’una accanto all’altra, che grazie ai loro contorni ambivalenti mettono a dura prova lo spettatore, che le percepisce in perenne mutazione reciproca e non riesce a decifrarne un senso univoco.

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Leggi che, come abbiamo già precisato, dopo la prima fase dell’«invenzione della prospettiva», furono di fatto abbandonate negli altri generi artistici, o meglio, furono allentate con opportuni «aggiustamenti» di carattere empirico.

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Nonostante gli accenni di Vitruvio di cui abbiamo detto, oggi si ritiene che nel teatro classico questo tipo di scenari dipinti avesse un valore accessorio e puramente evocativo, diversamente da quanto avvenne nel teatro rinascimentale. Nel Rinascimento, d’altronde, non ci si propose quasi mai di edificare uno spazio teatrale stabile, come invece avveniva regolarmente anche nel più modesto centro urbano dell’antichità classica. A lungo gli spettacoli rinascimentali si svolsero esclusivamente nel corso del Carnevale o in altre particolari occasioni festive, di carattere religioso, politico o dinastico. Ad esempio, quando si celebravano matrimoni e battesimi principeschi, o quando venivano in visita sovrani o ambasciatori. Per questa Fig. 150. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, Il disarcionamento di Bernardino della Ciarda, 1456 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi. ragione tali spettacoli si svolgevano o nelle piazze, dove venivano eretti teatri provvisori in legno, oppure nelle sale o nei grandi cortili di regge e palazzi nobiliari. Uno dei pochissimi edifici teatrali stabili cinquecenteschi è il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio intorno al 1580, che non è comunque un edificio autonomo, ma una sala teatrale all’interno di un palazzo.

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Dal punto di vista compositivo, come abbiamo detto, il quadro è costruito secondo il modulo della sezione aurea: la parte sinistra, che termina con la colonna di destra della loggia del Pretorio, sta infatti in rapporto proporzionale di sezione aurea con la parte destra. La luce contribuisce a rivelare l’architettura della scena, mettendo in evidenza certi particolari e lasciandone in ombra altri, mentre il pavimento tassellato accentua l’effetto di profondità e permette di individuare le direttrici prospettiche. Caratteristica di Piero della Francesca è la semplificazione geometrica delle forme e della gamma cromatica, un approccio che Roberto Longhi ha definito «sintesi prospettica di forma e colore». Il colore, in Piero, è sempre intriso di luce e la sua nitida distribuzione ha lo scopo di precisare meglio diversi piani di profondità, distanziandoli otticamente l’uno dall’altro.

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Difficile, comunque, che possa essersi trattato di uno scomparto di predella: non abbiamo infatti notizie di una predella di Piero che possa aver implicato un simile soggetto. Inoltre, proprie la presenza della firma induce a far scartare l’ipotesi che sia stato uno scomparto di predella. Possibile, infatti, che sia sopravvissuto solo uno scomparto e per di più proprio quello su cui il pittore aveva scelto di apporre la propria firma? Tanto più che, di norma, i pittori apponevano la propria firma sulla pala d’altare e non sulla predella.

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Per la verità, anche noi storici dell’arte abbiamo a che fare con testimonianze scritte ed orali: fonti letterarie e documenti d’archivio sulla vita e le opere degli artisti, sui loro committenti, sui collezionisti e sui contesti sociali, economici e politici in cui affondano le radici le opere d’arte di cui ci occupiamo. Riguardo a questo tipo di testimonianze, i nostri metodi di indagine e di verifica sono ovviamente gli stessi usati dagli storici. Ma per quel che riguarda i nostri «documenti» più peculiari, la storia dell’arte ha in serbo una metodologia che le è propria: l’attribuzionismo. Ovvero quella pratica metodologica che nei paesi anglosassoni è definita con il termine connoisseurship.

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Ma la qualità figurativa delle teste dipinte negli esagoni di Orvieto subisce una brusca impennata verso l’alto, come abbiamo anticipato, in una manciata di casi, in cui le effigi hanno un inequivocabile sapore ritrattistico e appaiono dipinte con una freschezza di pennellata ed un’incisività naturalistica così viva e vibrante da indurci a definirle senza esitazione come piccoli capolavori della ritrattistica quattrocentesca. Ad osservarne alcuni, come questi cinque che sono indubbiamente tra i più sorprendenti (tavv. 4a-e), si ha la netta sensazione che quello spazio di libertà dai condizionamenti del linguaggio ufficiale, ricavato grazie alla modesta dimensione delle figure e alla loro ragguardevole distanza dallo sguardo dei visitatori della Cappella, sia stato utilizzato da Angelico o da uno dei suoi collaboratori come una sorta di laboratorio sperimentale in cui mettersi alla prova, approfittando della presenza di giovanissimi garzoni e compagni di lavoro sulle impalcature per metterli in posa e fissarne indelebilmente l’effigie. Con risultati che appaiono di una tale spontaneità creativa e di un realismo così asciutto e penetrante, da darci davvero la sensazione di trovarci a tu per tu con la presenza viva e palpitante di un modello in posa.

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Basti confrontare questo straordinario ritratto di giovinetto in posa frontale (tav. 5b) con quella testa di giovinetto biondo (tav. 5a), in posa analoga, di cui abbiamo già sottolineato la conformità ai modelli più tipici del repertorio benozzesco. Da una parte sono innegabili le stringenti analogie tra le due figure, ma dall’altra, che scarto impressionante tra la spirante energia vitale trasmessa dal ritratto colto dal vivo e l’ottusa uniformità espressiva comunicata dalla pur notevole «figura di repertorio» gozzolesca! In quest’ultima, l’illuminazione che spartisce in due il volto è analoga a quella del ritratto dal vivo (la luce, però, proviene da destra anziché da sinistra), ma il contrasto tra le due parti del volto è stemperato, attutito e non dà luogo ad evidenti difformità tra il lato destro e quello sinistro: ogni dettaglio è rigidamente simmetrico ed anche le pupille hanno un’uniforme fissità, che conferisce allo sguardo un’immobile opacità, una sensazione di «assenza». Al contrario, con un’audacia davvero sorprendente in un pittore precaravaggesco, la frontalità della posa non impedisce all’autore dell’altro ritratto di cogliere ogni minimo scarto dalla simmetria del volto che ritrae: lo sguardo è vivo e penetrante, la cruda illuminazione spartisce in due il volto, mettendo in evidenza la pronunciata asimmetria tra la guancia in ombra e quella opposta, che è investita dalla luce diretta. I contrasti non sono attenuati, ma acuiti: la luce, invece di fondersi quietamente con l’ombra, dà risalto ad ogni rientranza e sporgenza, scavando le orbite, modellando le bozze frontali, mettendo crudamente in rilievo ogni più piccola ruga o asperità. Chi è l’autore di questo e degli altri sorprendenti ritratti degli esagoni orvietani? A questa domanda siamo stati in parecchi a tentare di dare una risposta, ma allo stato attuale il dibattito è tuttora aperto da vanti a tre diverse ipotesi.

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Abbiamo già chiarito, grazie ai documenti che parlano dei suoi lavori ornamentali sulla volta e a confronti stringenti con sue opere indubitabili che alcune teste, quelle di fattura più modesta, sono attribuibili a Pietro d Nicola Baroni, mentre quelle di tono più elevato sono da assegnare a Benozzo o, eventualmente, da distribuire tra Benozzo e gli altri due aiuto dell’Angelico, Giovanni di Antonio della Checca e Giacomo da Poli. Ma quei ritratti dal vivo che hanno un’audacia sperimentale e una freschezza esecutiva che ci ha tanto colpito, da chi sono stati eseguiti? Nel 1989, quando li vidi per la prima volta, espressi una convinzione che, a mio avviso, ha trovato conferme in indagini e riflessioni da me compiute successivamente: anche in questo caso, l’autore, a mio giudizio, è Benozzo Gozzoli. L; differenza qualitativa, incontestabile, rispetto alle altre sue teste «di repertorio», anch’esse di notevole qualità ma ben lontane dall’attingere al livello del capolavoro, è determinata, secondo me, proprio dal fecondo corto circuito che si crea, in un artista come Benozzo, quando non dipinge «di maniera», ma ha davanti a sé il modello in carne ed ossa. Un cortocircuiti ulteriormente favorito dalla condizione «sperimentale» in cui operava su quelle impalcature, non dovendo conformarsi alle convenzioni di un linguaggio ufficiale in linea con le attese del pubblico, in quanto quelle test non erano destinate ad una visione ravvicinata.

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In un suo saggio in catalogo, intitolato Maestri e Compagni tra Orvieto e Montefalco, Toscano affronta specificamente il tema delle più belle testine di Orvieto (in particolare proprio di quelle cinque, che abbiamo mostrato a tav. 4), rifiutando tanto l’ipotesi Benozzo che l’ipotesi Angelico, dicendosi convinto che l’altissima qualità formale e il particolare uso della luce in questi ritratti postulino la presenza, accanto all’Angelico e Benozzo, di un anonimo collaboratore, di cui Toscano crede di intravedere la presenza anche a Montefalco in poche ma bellissime figure all’interno degli affreschi benozzeschi. Toscano è consapevole di quanto sia ardua tale ipotesi come mai un autore di questa levatura compare solo in poche figure di contorno e solo ad Orvieto e a Montefalco, per poi sparire per sempre? ma si limita a concludere il suo saggio con questa frase: «L’apparire qua e là, nelle vele dell’Angelico a Orvieto e nel ciclo di Benozzo a Montefalco, di queste luci virtuose [con tale locuzione Toscano si riferisce al peculiare uso della luce di questo anonimo «collaboratore di Angelico e Benozzo», N.d.A.] e anche il loro dileguarsi dopo Montefalco troveranno forse un giorno una spiegazione».

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Nella chiesa-museo di San Francesco, infatti, erano presenti, tra gli altri, tre importantissimi disegni: uno lo abbiamo già incontrato, è quello con la Testa di un giovane chierico che appartiene alle raccolte di Windsor Castle (tav. 6a); anche il secondo, in cui compare la Testa in semiprofilo di un ragazzo (tav. 6c), proviene dalla Royal Library di Windsor, mentre il terzo (tav. 6e), dove è rappresentata la testa paffuta di un bambino, fa parte delle raccolte del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Tutti e tre questi disegni, eseguiti con una tecnica straordinariamente parsimoniosa e al tempo stesso raffinatissima, con punta d’argento e biacca su carta leggermente colorata, hanno la strepitosa qualità naturalistica e la vibrante freschezza esecutiva dei più bei ritrattini orvietani, tanto che sembra di palmare evidenza che ci troviamo di fronte al medesimo pittore. Ma si tratta di Benozzo, di Angelico o dell’anonimo «collaboratore» ipotizzato da Toscano? La risposta è implicita in una circostanza particolare che accomuna i tre disegni. I tre fogli, infatti, sono disegnati sia sul recto che sul verso. Dietro il «chierico» sono disegnate a penna e bistro, ma su carta lasciata bianca, tre figure (tav. 6b) che ritroviamo negli affreschi di Angelico e Benozzo nella Cappella Niccolina in Vaticano. Dietro il «ragazzo in semiprofilo», sono disegnate, sempre su carta lasciata bianca, quattro figure di santi seduti e panneggiati (tav. 6d), anch’essi facenti parte del repertorio dell’Angelico, mentre dietro il «bambino paffuto» degli Uffizi troviamo una Madonna con il bambino (tav. 6f).

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Il Caravaggio realizza un capovolgimento radicale rispetto a tutto quanto abbiamo visto finora, abolendo la «narrazione continua» ed ogni altro analogo espediente per intrappolare la durata temporale. Il suo approccio è diametralmente opposto a quello tradizionale. Egli infatti non intende «dilatare» i tempi del racconto, ma al contrario, condensarli al massimo, ridurli ad una frazione di secondo, all’istantaneità di un flash che coglie l’azione «in flagrante», nel suo farsi. Invece di escogitare accorgimenti in grado di raccontare, in uno spazio unitario, storie che si dipanano nel tempo in più episodi, Caravaggio vuole cogliere la realtà sul fatto, hic et nunc, e pertanto blocca la scena nella simultaneità di un unico istante rivelato dalla luce, che illumina il buio come un lampo, mostrandoci tutto il senso di incompiutezza e frammentarietà che emani da un’azione bloccata nel suo svolgersi. La Santa Caterina d’Alessandria della collezione Thyssen a Madrid (tav. 13) rappresenta un’eloquente dimostrazione di questa «istantaneità» caravaggesca. Il Caravaggio ha poste la sua modella (ne conosciamo anche il nome) in una stanza dipinta di nero, con una ben individuata fonte luminosa che proviene dall’alto e da destra (di chi guarda). Come un fotografo che colga di sorpresa il suo soggetto per evitare la scarsa naturalezza di una posa staticamente precostituita e mantenuta, il pittore coglie la modella mentre è in un attimo di precario equilibrio. La ragazza sembra incerta se appoggiarsi ancor più decisamente alla ruota oppure al cuscino su cui già poggia un ginocchio. I suoi occhi sembrano interrogare il pittore su come debba disporsi ed esibire gl: attributi del suo martirio (oltre alla ruota, la spada insanguinata che ha tre le mani). Il teorico dell’arte seicentesco Giovan Pietro Bellori, intuendo la novità caravaggesca che aboliva la tradizionale «durata» spazio-temporali del racconto figurativo, definirà non a caso i quadri del Caravaggio «historie senza attione». Una definizione che non sempre è stata bene intesa dalla storiografia successiva, ma che si riferisce proprio alla sconcertante «istantaneità» della pittura del lombardo, marchiandola come un riprovevole difetto.

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Lessing, come abbiamo già anticipato, nel suo libro intitolato Laocoonte (1766), opera per primo una netta distinzione tra pittura e poesia, definendo la prima «arte dello spazio» e la seconda «arte del tempo». Anch’egli insiste sulla «staticità situazionale» delle arti visive, che non possono rappresentare la «durata», un «segmento temporale». Ma sottolinea anche come gli artisti, seguendo in questo l’esempio dell’arte greco-romana, possano in parte aggirare l’ostacolo, scegliendo di rappresentare il «momento pregnante» di un racconto, ovvero un momento che sia capace di «usurpare una durata», suggerendo ciò che accade «prima» o «dopo» una determinata azione. Secondo Lessing, i grandi artisti dell’antichità classica avevano indicato come momento pregnante l’attimo che immediatamente precede o che immediatamente segue l’acme drammatica di un soggetto narrativo. Tanto Jacques-Louis David, capofila del Neoclassicismo in pittura, che Antonio Canova, massimo protagonista del Neoclassicismo in scultura, meditarono su questa posizione di Lessing facendola propria. E anche Denis Diderot, ideatore e curatore con D’Alembert di quel monumento del pensiero illuministico che fu l’Encyclopédie (1751-72), mostra di aver riflettuto su questi temi (forse anche lui stimolato dallo scritto di Lessing), quando nella voce Composizione dell’Encyclopédie scrive la seguente frase:

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Tuttavia, come abbiamo detto, lo scarso prestigio sociale degli artisti iniziò ben presto ad entrare in contraddizione con la realtà di un collezionismo che si compiaceva di accumulare le opere d’arte migliori, pagandole a prezzi da capogiro. Ci sono giunte molte invettive di oratori di epoca romana che si scagliano contro i collezionisti disposti a spendere un patrimonio per l’acquisto di opere di artisti famosi. Queste invettive sono tutte giocate sulla contrapposizione tra l’austera sobrietà che vigeva nell’antica Roma e la sfrenata passione per le cose belle e per il lusso, indicata come un manifesto sintomo della corruzione dei costumi e come un minaccioso presagio di decadenza politica e civile.

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Come abbiamo detto, per valutare un’opera d’arte occorre prestare particolare attenzione alla sua consistenza materiale, valutandone non solo lo stato di conservazione e le trasformazioni da essa subite nel corso del tempo, ma anche le caratteristiche e le proprietà chimico-fisiche dei materiali di cui essa è costituita. L’artista, infatti, opera dando forma alla materia bruta attraverso strumenti e procedimenti tecnici che ne sfruttano le potenzialità. Ne risulta una forma che dipende, oltre che dall’immaginazione dell’artista, dalle sue capacità tecniche e dal loro interagire con le potenzialità insite nei materiali di cui l’artista si serve. Detto questo, però, occorre sottolineare che l’opera d’arte, al di là della sua consistenza materiale, ha un’innegabile radice che affonda nel territorio dell’immaginazione e dell’inconscio. Per parafrasare una celebre frase di Shakespeare, essa è anche fatta della stessa materia dei sogni.

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Quest’ultima tipologia, dominata astrologicamente dal pianeta Saturno, era considerata fin dai tempi di Aristotele quella in cui maggiormente attecchiva la creatività artistica, con tutte quelle manifestazioni di eccentricità, tendenza alla depressione, ossessività, di cui abbiamo Fig. 17. Jacob de Gheyn, La Melanconia, 1595-96 ca., incisione. già detto e che finivano per costituire il corredo caratteriale, più o meno marcato ed esibito, che era attribuito a chi praticava l’attività artistica.

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Con ogni probabilità, il tipo iconografico della Malinconia deriva da un’invenzione figurativa dell’arte greca, di cui abbiamo perduto il prototipo forse un dipinto su tavola o un gruppo statuario, ma di cui sono giunte fino a noi molte derivazioni, soprattutto sotto forma di pitture vascolari e di rilievi in terracotta, tutte concernenti la rappresentazione di Penelope che, afflitta e inconsolabile per il mancato ritorno di Ulisse da Troia, finisce per non riconoscerlo quando egli appare davanti a lei sotto le mentite spoglie di un mendicante (fig. 20). Il capo coperto da un velo, il mento 19. Albrecht Dürer, La Melancolia, 1514, xilografia. 20. Penelope afflitta e Ulisse mendicante, 470-450 a.C. ca., rilievo in terracotta, New York, Metropolitan Museum of Art. Fig. 21. Provincia capta, età augustea, Roma, Palazzo dei Conservatori. appoggiato ad una mano, le gambe accavallate (allusive alla sua ostinata e virtuosa chiusura nei confronti delle profferte dei Proci che ambivano a sposarla), quest’immagine di Penelope «vedova inconsolabile» già nell’arte romana aveva subito uno «sdoppiamento» semantico, essendo stata adattata anche a tipo iconografico della Provincia capta (fig. 21). Fu facile, infatti, far slittare il significato allegorico di quella donna afflitta, piegandolo a simboleggiare la dolorosa sottomissione delle popolazioni che, dopo Fig. 22. Fazio degli Uberti, Dittamondo, pianta di Roma, miniatura di un codice del 1447, Parigi, Bibliothèque Nationale. Fig. 23. Albrecht Dürer, Monumento celebrativo della vittoria sui contadini, 1525, xilografia. esser state sconfitte dai Romani, venivano da essi integrate nella compagine imperiale.

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Nel Cinquecento, come abbiamo visto, si affermò l’immagine allegorica della Malinconia, di cui Dürer ha tracciato il tipo iconografico più affascinante e complesso. Ma lo stesso artista tedesco attinse anche al repertorio iconografico della Provincia capta, per commentare, con un parodistico e amaro monumento celebrativo, la sconfitta subita dai contadini tedeschi nella rivoluzione da loro scatenata sull’onda della «protesta» luterana (fig. 23).

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Oggi abbiamo altri strumenti per indagare la realtà, quali la fotografia, la radiografia, i raggi infrarossi e ultravioletti, i microscopi elettronici, le sonde spaziali e tutto il meraviglioso armamentario di una scienza che ha offerto ripetute dimostrazioni Fig. 25. Domenico Fetti, La Malinconia, 1622 ca., Venezia, Gallerie dell'Accademia. Fig. 26. Leonardo da Vinci, Il feto nell'utero, Windsor, Biblioteca Reale. Fig. 27. Leonardo da Vinci, Muscoli del braccio destro, spalla e petto, Windsor, Biblioteca Reale. di essere in grado di esplorare anche ciò che i nostri sensi non riescono a percepire: l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, l’atomo e l’universo.

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Importa dunque poco se il rilievo cui si riferiva Alberti non apparteneva a questo specifico sarcofago di Istanbul, che ha il pregio di essere tra i più integri che ci siano pervenuti con questa scena, poiché quel che conta è che la descrizione fornita dall’Alberti corrisponda esattamente alla composizione che abbiamo sotto gli occhi (fig. 31) Sull’onda dell’elogio albertiano e nel clima di venerazione ed emulazione dell’antico diffusesi in Italia tra Quattro e Cinquecento, tale composizione costituì motivo di ispirazione per molti artisti rinascimentali alle prese con la rappresentazione di temi analoghi, ed in particolare con quella del Trasporto del corpo di Cristo deposto dalla croce. Tra le molte derivazioni va segnalata quella nell’affresco di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto (fig. 32), che risale ai primissimi anni del Cinquecento, ma la rappresentazione in assoluto più nota e rilevante è senza dubbio quella del dipinto di Raffaello firmato e datato 1507 (fig. 33) nella pala Baglioni, conservata nella Galleria Borghese di Roma. La pala Baglioni fu, a sua volta, il principale punto di riferimento per un’altra celebre derivazione, la Deposizione di Cristo, compiuta quasi un secolo dopo dal Caravaggio in una tela per un altare della chiesa romana di Santa Maria in Vallicella (fig. 34). In questo dipinto il tema è declinato in modo abbastanza diverso da come lo era nel sarcofago antico, ma emerge con particolare evidenza un elemento comune alle due scene: il braccio inerte del cadavere, che segna un apice drammatico della composizione caravaggesca, tanto da apparire come il suo principale fulcro spaziale ed emotivo. Il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg coniò per questo tipo di immagini, che troviamo più volte ripetute in diverse epoche e contesti, la definizione di pathosformeln (singolare: pathosformel), formule espressive. Nel 1793 Jacques-Louis David estrapolerà proprio questo particolare del braccio inerte, così carico di storia e di suggestioni emotive, per adattarlo ad un dipinto in cui non è rappresentato né il cadavere di Meleagro né quello di Fig. 31. Morte e trasporto funerario di Meleagro, 150-160 d.C. ca, Istanbul, Museo Archeologico. Fig. 32. Luca Signorelli, Trasporto del corpo di Cristo, 1500 ca., Orvieto, Duomo, Cappellina dei Corpi Santi. Fig. 33. Raffaello Sanzio, Trasporto del corpo di Cristo, 1507, Roma, Galleria Borghese. Fig. 34. Michelangelo da Caravaggio, Deposizione di Cristo, 1602-04, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Cristo, ma quello del rivoluzionario Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento da Charlotte Corday (fig. 35). Ma ritroviamo questa pathosformel anche in un’opera recentissima del grande videoartista Bill Viola, che non è nuovo al dialogo con opere d’arte del passato, e che nel caso di questa scena (fig. 36), tratta dal suo video Emergence del 2002, ha rievocato il tema del «braccio di Meleagro» all’interno di un’emozionante rivisitazione di una quattrocentesca Pietà ad affresco di Masolino da Panicale (fig. 37).

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Un fatto, comunque, è indubbio: diversamente da quanto accade in tutti i Versperbilder nordici, dove il corpo di Cristo è smagrito dai patimenti e si mostra in tutta la sua dolente e straziata afflizione e rigidità cadaverica, nel Vesperbild michelangiolesco, ma anche in tutte le altre dirette o indirette citazioni dal sarcofago antico che abbiamo fin qui elencato da quelle compiute da Signorelli e Raffaello, fino a quella di Bill Viola il corpo di Cristo, benché ferito ed esanime, conserva una sua composta armonia ed esibisce la muscolatura e le perfette proporzioni di quello di un eroe o di un giovane atleta. Tocchiamo così con mano una differenza di fondo tra la tradizione figurativa nordica, in cui il realismo tende sempre a caricarsi di una forte componente espressiva, e quella italiana, che affonda le sue radici nell’antichità classica e tende perciò ad evitare, specie per la rappresentazione della divinità, ma non solo, di ricorrere ad un naturalismo troppo schietto ed intenso, privilegiando invece una bellezza idealizzata e a malapena scalfita, nella sua quieta armonia, dalle asprezze esistenziali.

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Per comprenderne i significati è spesso necessario riappropriarsi di codici d’interpretazione e di consuetudini visive di cui abbiamo smarrito il significato. A volte, anche i colori possono avere un particolare significato, diverso da epoca ad epoca, da luogo a luogo. Tutti sappiamo, ad esempio, che da noi il tradizionale colore del lutto è il nero, mentre in Cina è il bianco. Perfino i gesti non hanno un significato univoco, ed un gesto che da noi, ad esempio, esprime aperto dileggio, può risultare neutro e comunque incomprensibile ad altri popoli. Ricostruire il contesto cronologico e territoriale di un’opera d’arte del passato può dunque voler dire anche decifrarne codici divenuti per noi estranei ed incomprensibili. E ciò può riguardare un colore, la presenza di un oggetto o l’interpretazione di un gesto (su quest’ultimo aspetto, si può leggere il bel libretto di André Chastel, Il gesto nell’arte, 2002).

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