Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 7 occorrenze

E siccome le parole del Reuccio venivano riferite dai cortigiani per vantare la fierezza d'animo del figlio del Re, tra il popolo c'era chi brontolava: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: già dimostra gusti feroci, se vuole tigri e leoni invece di cani e cavalli! A vent'anni il Reuccio era diventato appassionatissimo della caccia. Non c'era scoscesa e boscosa montagna del regno dov'egli non andasse ad arrampicarsi assieme coi pochi compagni destinatigli dal Re. E non tirava mai agli uccelli ordinari, alle timide bestie che gli sbucavano davanti su per le balze della montagna e nel folto dei boschi. Orsi, cignali, avvoltoi, aquile, soltanto questi gli sembravano degni della sua attenzione, soltanto questi egli affrontava con un ardimento che non lo faceva badare ai pericoli a cui si esponeva. Il Re viveva in angoscia finché non lo vedeva ritornare sano e salvo, ma lo guardava con orgoglio ogni volta che il Reuccio gli presentava orsi e cignali abbattuti dagli infallibili suoi colpi di balestra. Il Re non aveva voluto mai permettergli che andasse a cacciare in una montagna lontana, circondata di fittissimi boschi pieni di animali feroci. Ormai le cacce in luoghi noti non lo allettavano come prima. - Maestà, lasciatemi andare laggiù laggiù! Il Re non si piegava. E il Reuccio si raccomandava inutilmente anche alla Regina sua madre. Rinunciò allora al prediletto svago, divenne triste, uscì raramente dalle sue stanze. Più il Re e la Regina gli rammentavano le disgrazie accadute ad altri cacciatori in quella remota montagna - molti erano andati e non erano ritornati - e più si accendeva nell'animo del Reuccio il desiderio di cimentarsi su per quelle balze, tra quegli orridi boschi. La sua tristezza aumentava di giorno in giorno, la sua salute ne soffriva. - Dobbiamo vedercelo morire di malinconia? - disse la Regina. Il Re resistette ancora un po'. Vedendo però che il Reuccio deperiva e non intendeva ragione, fisso in quel suo pensiero di andare a caccia laggiù laggiù, s'indusse ad accordare, suo malgrado, il permesso richiesto. Il Reuccio parve risanato in un istante, e si preparò sùbito alla partenza. Se non che il Re volle che fosse accompagnato da più numerosa scorta. E il giorno in cui egli e i suoi compagni uscivano dal palazzo reale, i soliti brontoloni ripetevano: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: già dimostra gusti più feroci, andando a caccia in quella montagna e tra quei boschi! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire sul trono! Per arrivare alla montagna ci vollero otto giorni di cammino. Procedendo, di mano in mano che le balze si presentavano più orride e le boscaglie più fitte, l'ardore del Reuccio si accresceva. I suoi compagni si stancavano, si riposavano; ma egli li rampognava e si slanciava a un nuovo assalto di quelle rupi, si apriva nuovi sbocchi tra gli intricati rami degli alberi. Intanto, nessun animale feroce·Pareva che, atterriti dalla insolita presenza di tanta gente, fossero scappati tutti a rifugiarsi nelle cime più irte, tra le boscaglie più fitte. Una mattina erano arrivati in un punto dove le rocce si alzavano torno torno a così grande altezza, da non permettere che si andasse più oltre. La cinta dei boschi si arrestava a piè di essa. Il Reuccio si era seduto sur un masso, e guardava da ogni lato per scoprire un passaggio. Si vedevano soltanto rocce lisce, a picco, e un lembo di cielo azzurro, limpidissimo, circoscritto dalle aguzze cime dorate dal sole. S'intese un gran sibilo e poi uno strepito di ali. Tutti alzarono gli occhi; un mostro orrendo veniva giù. Aveva un corpo da serpente ed ali da pipistrello, grandi come vele. Il Reuccio si affrettò a tender l'arco, e lanciò una freccia che andò a conficcarsi proprio nel petto del mostro. Diè un sibilo più forte, pauroso, agitò le ali che si afflosciarono sùbito, e il mostro precipitò giù con grave rumore. Annodava e snodava la coda aguzza, rizzava il collo, e dalla bocca, tra due file di denti, vibrava la lingua che sembrava una spada. Il Reuccio e i compagni gli tirarono altre frecce alla testa e al fianchi, e non si accostarono se prima non lo videro giacere inerte, tra una gran pozza di sangue nerastro.Era un drago! Mentre essi stavano a osservarlo, ecco un altro sibilo meno acuto e uno strepito di ali meno forte. Alzarono gli occhi, e compresero che doveva essere la draghessa, quest'altro mostro uguale al primo, ma di dimensioni assai minori. Il Reuccio tese celermente l'arco e lanciò la freccia, che colpi la draghessa alla testa e la fece cascar giù morta sul corpo del suo compagno. - Oh, qui ci dev'essere il nido. E non aveva il Reuccio ancora finito di pronunziare queste parole, che dallo spacco d'una roccia si affacciavano quattro piccole teste di draghi con le bocche spalancate e le linguette vibranti. Erano nati il giorno innanzi, perché sembrava che i sottili colli reggessero male il peso delle teste, e gli occhi non erano ancora aperti. - Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! Il Reuccio, in preda a immensa gioia, tendeva le braccia, agitava le mani, quasi potesse giungere a quell'altezza sollevandosi su la punta dei piedi. E ripeteva rivolto al compagni: - Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! Come fare? Si diedero ad abbattere con le accette rami di alberi, li legarono in modo da costruire una rozza ma solida scala; e, quando fu pronta, il Reuccio vi montò su e prese a uno a uno i draghettini. Erano quattro, molli, quasi viscidi, con sul dorso un accenno di ali simili a pinne di pesce, poco più grossi di un grosso ramarro. E rizzavano le teste e spalancavano le bocche, affamati. Il Reuccio disse: - Il drago e la draghessa certamente recavano da mangiare ai piccini. Infatti, aperto il gozzo di essi, vi trovarono il cibo, e il Reuccio ingozzò pazientemente i draghetti, finché non riapersero più le bocche. Da lì a poco, piegavano le teste, si acchiocciolavano, ed erano belli e addormentati. Il Reuccio stimò inutile di prolungare più la caccia. Lasciarono là a imputridire il drago e la draghessa, e coi draghetti situati in fondo a una cesta sopra un letto di foglie secche, egli e i compagni presero la via del ritorno. Quando si seppe che il Reuccio aveva riportato quattro piccoli draghi e che intendeva di allevarli e addomesticarli, i soliti brontoloni ripresero: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: ora, con questi draghi chi sa quante disgrazie accadranno! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire al trono! Invece il Reuccio pensava che certi animali sono feroci perché nessuno si è mai incaricato di renderli domestici e miti. E voleva provare coi draghi. Stava occupato da mattina a sera a ingozzarli, ad accarezzarli stropicciandoli leggermente con le mani, e osservava che essi godevano del tepore che quel lieve stropicciamento lor produceva. Lo riconoscevano già; rizzavano le teste, agitavano le code, vedendolo avvicinare. Gli si arrampicavano addosso con le zampine ugnate, gli lambivano le mani con le linguette, lunghe e sottili, e smovevano le ali che cominciavano a distendersi cartilaginose, a spicchi come quelle dei pipistrelli. Ormai mangiavano da sé, divorando golosamente, e il Reuccio se li faceva venir dietro per la stanza, imitando il loro sibilo, attirandoli con un po' di cibo. Fin a tanto ch'essi erano piccoli, il Re non stava in pensiero pel Reuccio; ma ora che avevano già messe le ali e si provavano a volare, il Re si atterriva vedendolo entrare nello stanzone dove stavano chiusi, perché vi si potessero muovere a tutt'agio. E lo ammoniva: - Badate, Reuccio! Non vorrei che un giorno o l'altro ... Il Reuccio sorrideva, e per mostrargli che i quattro draghi gli s'erano affezionati come cagnolini, apriva l'uscio e se li traeva appresso pei corridoi del palazzo reale; li tastava, li accarezzava, li faceva star ritti sulle zampe di dietro, col collo proteso in avanti, con le ali che sbattevano e facevano un rumore simile a quello di piccole vele smosse da forti soffi di vento. Erano belli nel loro orrido, con quei corpi di serpenti alati, con quel collo pieno di rughe simile a collo di tartaruga, e le creste rosse che già spuntavano nella parte superiore delle teste, più appariscente nei due maschi, meno pronunciate e meno vivide nelle due femmine. Un giorno, però, che il Reuccio ebbe il capriccio di condurseli dietro per le vie, legati con catenelle di acciaio raccomandate a dei collari di ferro battuto, fu un fuggi fuggi della gente spaventata dall'aspetto di quei mostri non mai visti. - I draghi! I draghi! Era un chiuder di usci e d'imposte; un gridare, un piangere, quasi i draghi avessero cominciato a divorare qualcuno. Essi, intanto, camminavano tranquillamente, scherzando tra loro con le code, con le teste, accostandosi spesso al Reuccio per leccargli la mano, elevandosi a brevi voli, a fior di terra. E fu peggio la mattina che fu visto uscire il Reuccio a cavallo di uno dei draghi ben bardato, guidato con lunga briglia, e che appena fuori del portone spiegò le ali e si elevò altissimo, obbediente al richiamo della briglia, come il più docile dei cavalli. Anche il Re e la Regina lo guardavano atterriti da un balcone del palazzo reale, e dovettero fare uno sforzo per non ritirarsi, quando il Reuccio fece abbassare il volo del drago e lo diresse proprio verso di loro e fermossi a discorrere mentre il drago si librava su le ali e si teneva quasi fermo per aria, inarcando il collo rugoso, proprio come il più superbo cavallo delle stalle reali. E fatta la prima prova con uno, la ripeteva nei giorni appresso con gli altri tre. Ora la gente gridava, sì, da ogni parte: - Il drago! Il drago! - ma era rassicurata, e godeva di vederlo aliare da un punto all'altro, col Reuccio a cavallo, che lo guidava a suo talento, e saliva e scendeva e risaliva fino a perdersi tra le nuvole a grande altezza. I brontoloni però non si davano ancora per vinti: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete, con questi draghi, che disgrazie accadranno. Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire ai trono! Un giorno il Re chiamò il Reuccio nella sala del Consiglio. I ministri eran seduti gravemente attorno a lui. - Reuccio, - gli disse - è tempo di finirla coi capricci. Io sono vecchio, e posso morire da un giorno all'altro. Voglio lasciare ben ordinate le cose del Regno e della mia famiglia. Ho deciso di darvi moglie. Scegliete voi stesso tra le principesse più in vista. - Non ne conosco nessuna. Sarà degna della mia mano colei che, per dimostrarmi il suo affetto, avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Il Re voleva troppo bene a quel figlio unico; si strinse nelle spalle, e accettò questa condizione. Ambasciatori partirono per diverse Corti, dove erano principesse da marito. - Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa.? - Che il Reuccio è matto da legare. Gli ambasciatori si aspettavano questa risposta; e, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa? - Che il Reuccio è peggio che matto da legare. Gli ambasciatori, dopo questa seconda, non si aspettavano risposte diverse: ma, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Con loro grande meraviglia, la Principessa interrogata rispose francamente: - Dite al Reuccio che accetto! Lieti di aver potuto compiere la loro missione, gli ambasciatori tornarono dal Re. - La Principessa di Spagna ha risposto: Dite al Reuccio che accetto. Il Reuccio aveva fatto costruire un'apposita stalla pei draghi, e passava lunghe ore con essi, che intendevano già ogni inflessione della parola di lui, e lo obbedivano mirabilmente. E quando egli, molto contento della risposta della Principessa, quasi sicuro o, almeno, desiderando di esser compreso, andò nella stalla ad annunziare: - Uno di voi avrà l'onore di portare sul dorso la Reginotta - parve che essi avessero inteso davvero, e proruppero in sibili acuti, girando le teste, vibrando le lingue, agitando le code. La Corte era in gran tramenìo pei preparativi delle nozze. Il vecchio Re e la Regina, che aveva pochi anni meno di lui, sembravano ringiovaniti. Il Reuccio ordinava nuove magnifiche bardature, con stoffe tramate d'oro, con galloni di oro e borchie di diamanti. Di oro era pure il freno delle briglie, e queste tutte trapunte di vere pietre preziose. Il giorno che li provò addosso ai draghi, essi parvero orgogliosi di vedersi ornati a quel modo, e sibilavano, e rizzavano le teste, e vibravano le lingue, e agitavano le code in più espressiva maniera. Anche questa volta non mancarono i soliti brontoloni di malaugurio: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete quel che accadrà con questi draghi maledetti! E avverrà anche peggio, quando costui salirà sul trono! Nella Corte della Principessa c'era un'ansiosa aspettativa, che nel popolo assumeva forza di terrore al solo pensare che il Reuccio avrebbe condotto due draghi, invece di carrozze e cavalli, e che Reginotta e Reuccio dovevano partire a cavallo di essi. - Ma sono bell'e addomesticati! - dicevano alcuni. - Con certe bestie non si sa mai! Il Re di Spagna volle interrogare novamente la figlia. - Siete proprio decisa, Principessa? -- Proprio decisa! - Ma voi non avete mai visto draghi; sono mostri orrendi. Li ho visti dipinti e non mi hanno fatto paura. Il Re era stupito di tanto coraggio; pure insisteva: - Se vi figurate, Principessa, di non trovare altro marito ... - O il Reuccio dei draghi, o più nessuno, Maestà. - Che il Cielo vi aiuti, figliola mia! Disse così; ma in fondo al cuore aveva un triste presentimento. Il giorno dell'arrivo del Reuccio poche persone si avventurarono nelle vie. La gente se ne stava rimpiattata in casa, dietro le imposte e dietro gli usci aperti a fessolino per poter assistere allo spettacolo senza incorrere in qualche disastro. Appena però s'intesero da lontano i sibili acuti dei draghi e si avvicinò il rumore delle loro ali da pipistrello larghe come vele, nessuno poté frenarsi di affacciare la testa e poi di protendersi dal davanzali; la curiosità aveva potuto più della paura. I draghi arrivavano maestosamente, con lento volo. Il Reuccio che cavalcava su uno di essi, si traeva dietro per la briglia l'altro destinato alla Principessa. Alla vista di quei mostri, ella impallidì un po' e si senti correre un lieve brivido da capo a piedi, ma si rinfrancò subito. Il Reuccio diresse il volo dei draghi verso la terrazza dov'era raccolta la famiglia reale. - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Reginotta! - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Maestà! Il Reuccio scese davanti al portone del palazzo reale, introdusse egli stesso i draghi nell'ampia stalla preparata per essi; li legò con catene alla mangiatoia e chiuse a chiave, per cautela, la porta. Il giorno dopo si celebrarono le nozze. Il Reuccio aveva notato un'insolita irrequietezza nei draghi; ma non se ne era dato pensiero; il lungo viaggio fatto e il nuovo locale della stalla gli parvero sufficiente spiegazione. Arrivati il giorno e l'ora della partenza, il Reuccio andò a trarre di stalla i draghi, magnificamente bardati e imbrigliati. Abbracci, baci, saluti; la Reginotta non sapeva staccarsi dal padre. Il Reuccio dové farle dolce violenza. E tra gli applausi della folla e i gridi di augurio, egli aiutò a montare sul drago la Reginotta e le mise in mano la briglia, poi montò lui e diè agli animali impazienti il cenno della partenza. Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti. Arrivarono, dopo alcuni giorni, quelli del séguito del Reuccio, ed egli e la Reginotta, che avrebbero dovuto giungere molto prima, non si vedevano ancora. Il Re, la Regina, i Ministri spiavano il cielo dall'alto di una terrazza; ed ogni ora, ogni istante che passavano, li riempivano di ansia e di spavento. Alla Corte di Spagna attendevano, con uguale ansietà, notizie dell'arrivo degli sposi. Avrebbero dovuto ricevere staffette da correre a spron battuto, e non ne arrivava nessuna!Che cosa era dunque accaduto? Era accaduto che, dopo un lungo tratto di volo, i due draghi avevano cominciato a non più obbedire al freno della briglia. Il drago della Reginotta voltava indietro la testa quasi a fiutarla, e il drago del Reuccio, girando attorno all'altro, stendendo anch'esso la testa quasi a fiutare la Reginotta. L'odore di quelle carni fresche, non mai sentito da loro, aveva risvegliato tutt'a un tratto in essi l'istinto tenuto in freno e sopito dall'addomesticamento fatto dal Reuccio, ma non distrutto. I draghi finalmente si fermarono, non vollero più andare avanti né indietro. Si libravano su le ali e stendevano la testa con la bocca spalancata vibrando le lingue che parevano di fuoco, tentando di addentare la Reginotta e di farne due bocconi. Ella non capiva il pericolo, ma il Reuccio ne fu spaventato. Afferrò disperatamente le redini, e con rapido moto le attorse attorno al collo del suo drago e strinse forte forte, per soffocarlo. Il drago diè due trabalzi per buttar giù di sella il Reuccio, poi barcollò, piegò a metà le ali e cominciò rapidamente a scender giù, tramortito. L'altro seguì il compagno; ma il Reuccio, colto il momento, slanciossi a cavalcioni su lui, afferrò le redini e gliene attorse al collo come all'altro, e strinse forte forte. Il mostro diè due, tre balzi, barcollò, piegò a metà le ali e segni più rapidamente nella discesa, tramortito, il compagno. Appena toccata terra, Reuccio e Reginotta saltaron giù di sella. I due draghi, soffocati, davano gli ultimi tratti. Per la campagna dove erano discesi non si vedeva anima viva. Stoppie, stoppie, stoppie, a perdita di vista e qualche albero qua e là. In fondo, una casetta di contadini; ma bisognava far molta strada per arrivarvi. Dopo quattro giorni di cammino a piedi, Reuccio e Reginotta non si riconoscevano più dagli stenti e dalla fatica. Finalmente s'imbatterono in un carro guidato da un contadino. - Se ci porti fino al palazzo reale, farai la tua fortuna! - E voi chi siete? - Siamo il Reuccio e la Reginotta. - Il Reuccio e la Reginotta sono morti. Il Re e la Regina hanno già preso il lutto. A chi volete darla a intendere? Vi porto per carità, perché siete due poveri diavoli affamati e stanchi. Su, montate. Giunti alla porta della città, il contadino voleva che scendessero. - Accompagnaci fino a casa nostra e sarai ricompensato. Il contadino disse: - Ho fatto novantanove; facciamo cento! E tirò avanti. Il portone del palazzo reale era chiuso per lutto. Quando il contadino capì che quei due poveri diavoli affamati e stanchi, come li aveva chiamati, erano davvero il Reuccio e la Reginotta, cominciò a tremare dalla paura di averli offesi. E per ingraziarseli si diè a picchiare forte, gridando: - Aprite, aprite! ... Il Reuccio! ... La Reginotta! Le guardie lo presero per ubriaco o per pazzo, e volevano arrestarlo. Quel che accadde nella Corte tra Re, Regina, Reuccio e Reginotta, immaginatelo voi. Il Reuccio raccontò del gran pericolo corso, e la morte dei due draghi. - E i due rimasti qui? Nessuno aveva voluto cimentarsi a governarli, ed erano morti di fame nella stalla. Si sentiva il puzzo delle loro carogne. Da allora in poi il Reuccio non tentò più di addomesticare animali feroci, convinto che presto o tardi l'istinto riappare. E poi - gli disse un giorno il padre - quando io non ci sarò più, avrai ben altro animale feroce da ammansire! E indicava la folla che sotto il palazzo reale gridava a squarciagola, battendo le mani: Viva il Reuccio! Viva la Reginotta! Fiaba detta, fiaba scritta, Ora va storta, ora va diritta.

Abbiamo altri due semi. Pazienza. Attenderemo ancora un anno. La donna pianse la intera giornata; e il marito, verso sera, scavata una buca in fondo al prato, vi seppellì la zucca con entro la creaturina bianca bianca, piccina piccina. - Primpella ? ... O Primpellino? ... - Moglietta mia, non ci ho guardato. E quando tornò l'estate, seminarono un altro di quei semi. Acqua la sera, zappa il mattino; a questo badava la donna. E dopo una settimana, spuntarono due foglioline; poi altre due. - Che pianta sarà, marito mio? - Non si capisce; ma, se dovessi dire, mi sembra un popone. - Qualunque sia, la terra lo nutrisca e il sole lo maturi! É la nostra fortuna, marito mio! - Purché non ci entri di mezzo la fretta ... tu m'intendi, moglie! Era una pianta di popone, e produceva un solo frutto. La donna lo covava con gli occhi, non osava di toccarlo con un dito. Acqua la sera, zappa il mattino. - Non ti sembra, marito mio, che prenda, di giorno in giorno, la forma di un bambino? - Arancino o moscadello, Quando è tempo di poponi Non scordarti del coltello! Moscadello od arancino, Attendiamo che si spacchi, O Primpella o Primpellino. Il marito diceva così per ammonire la moglie, e la moglie rispondeva così per rassicurare il marito. Ed ora, invece di due, quattro occhi covavano il bel popone ovato, con la buccia aspra, solcata, maturante nel terreno grasso, tra le foglie diradate a posta perché il sole lo investisse da ogni parte. - Sarà tempo, marito mio? - Non è tempo, moglina mia. Attendiamo che si spacchi. - Si, attendiamo che si spacchi. E restavano là, incantati a guardare, quasi dovessero veder aprirsi il popone e uscir fuori una creaturina di carne e di ossa. Arrivò finalmente il giorno in cui il popone si spaccò. Era infracidito sul terreno grasso, e dentro, tra la polpa verdastra, si scorgeva imputridita una creaturina compiuta, morta per non essere stata liberata dall'involucro a tempo opportuno! La donna cominciò a darsi pugni in testa, a strapparsi i capelli, a piangere, e strillare: - Ahimè, Primpella mia! Ahimè, Primpellino mio! - Non è niente! Abbiamo un ultimo seme. Pazienza! Attenderemo ancora un altr'anno. La donna pianse la intera giornata, e il marito, verso sera, scavò una buca in fondo al prato, accanto alla prima, e vi seppellì il popone infracidito e la creaturina putrefatta. - Primpella ? ... O Primpellino? - Moglietta mia, non ci ho badato. E quando tornò l'estate, seminarono l'ultimo seme. Acqua la sera, zappa il mattino; a questo badava la donna. Quantunque molto scoraggiati, marito e moglie però non disperavano; e, appena levati da letto, andavano sul posto, e, come invocazione, ripetevano: - Seme, semino, Primpella o Primpellino! Venne su una pianta, con piccole foglie che s'infoltirono nei rami; ma intanto, né fiori, né frutto, e non si sapeva che pianta fosse. Il marito diceva: - Sarà questo ... Sarà quest'altro! Tirava a indovinare. Intanto, né fiori, né frutti, e i mesi passavano! Finalmente, ecco i bocciolini e poi i fioretti stellati a cinque foglioline. Che cosa poteva seguirne? Qualche piccola bacca. Eppure marito e moglie non disperavano; e ogni mattina, appena levati da letto, andavano sul posto, e, come invocazione, ripetevano: - Seme, semino, Primpella o Primpellino. Un giorno passò di là un vecchione curvo, capelluto, barbuto, che si fermò davanti alla porta della casetta chiedendo un bicchier d'acqua. Mentre la donna lo serviva, il vecchione guardava attorno, quasi frugasse con gli occhi mezzi nascosti sotto le folte sopracciglia. - Oh! ... Che ve ne fate di quella pianta? - Non sappiamo neppure che pianta sia. - Si chiama Mandragora. Se voleste disfarvi della radice, ve la pagherei a peso d'oro. Marito e moglie si guardarono negli occhi. - Non la vendiamo! Non la vendiamo! - risposero ad una voce. E appena quel vecchio fu andato via, scavarono con le mani la terra e trassero fuori la radice. Diedero un grido: - Primpella ? O Primpellino? Si vedeva un omino, una creaturina scura scura, qualcosa che non era o non sembrava radice, e non era o non sembrava ancora proprio una creatura viva. - Ah! Questa volta non saremo delusi. E portarono la pianta in casa e la posarono delicatamente su un giaciglio, accanto al focolare. Quella notte, marito e moglie non potevano chiudere occhio. - Hai sentito? Si è mosso qualcosa. - Ti sarà parso; vediamo. Il marito accendeva il lume e andava a guardare; la radice era là, rigida, ferma. - Tentiamo di dormire, moglie mia. Verso mezzanotte, di nuovo: - Hai sentito? Si è mosso qualcosa. - Ti sarà parso; vediamo. Ma prima che riaccendessero il lume, ecco qualcosa di grave che saltava sul letto e sgambettava e vagiva: 'nguèe! 'nguèe! 'nguèe! Dalla grande gioia, non trovavano modo di accendere il lume; ma così, al buio, la donna aveva già preso tra le braccia la creatura viva che sguizzava con le gambettine e pareva volesse fuggirle. Era un bel bambino roseo, biondo, grassoccio, che si sarebbe detto nato da due mesi, e che aveva l'argento vivo addosso. Invece di vagire, già parlava; poche ore dopo, si rizzava bene su le gambine; e prima di mezzogiorno, andava per casa come un frugolino, rimestando, spostando, urtando ogni cosa. Marito e moglie sembravano impazziti dalla gioia; gli stavano attorno, temendo che si facesse male. - No, Primpellino! - Bada, bada, Primpellino! Avevano un corredino, preparato da anni, ingiallito nelle cassette, e bastò per vestirlo nei primi giorni. Ma quel demonietto cresceva a vista d'occhio. La donna dovette mettersi a tagliare e a cucire altre camicie, altri vestitini, e quantunque li tagliasse proprio a crescenza, bastavano appena per quindici giorni. Nei primi mesi era stato un divertimento tutto quell'armeggio, ma ora la povera donna non aveva più tempo di occuparsi di niente. - Primpellino, che cosa fai? Primpellino, dove vai? Primpellino, non toccare! Primpellino, non saltare! E spesso lo perdeva di vista. - Primpellino, dove sei? Le rispondeva dalla stalla. Accorreva, e lo trovava tra le gambe della mucca. - Primpellino, dove sei? Le rispondeva dal pollaio. Accorreva, e lo trovava che faceva saltare per aria i gusci delle uova fresche che si era succhiato. - Primpellino, dove sei? E le rispondeva dall'alto di un fico, di un pesco, di un gelso moro, dove si era tutto impiastricciato faccia, mani e vestiti, da riconoscersi a stento. - Ah, Primpellino, Primpellino! Tu sei la disperazione di babbo e mamma. Anche di babbo, perché Primpellino, per giocare, si serviva di qualunque cosa gli venisse sotto mano: zappe, rastrelli, seghe, pennati, roncole; li trascinava qua e là, né si sapeva mai dove li lasciasse. - Ah, Primpellino, Primpellino! Tu sei la disperazione di babbo e mamma. Ma, nello stesso tempo, egli era buono, servizievole, sollecito se gli si chiedeva di fare qualcosa. Andava e veniva, così celermente, che certe volte babbo e mamma stentavano a credere che egli avesse eseguito l'incarico dàtogli. Non occorreva d'insegnargli, sapeva già fare ogni cosa. La donna impastava il pane e lo metteva a lievitare; intanto si allontanava di casa per qualche faccenda. Al ritorno: - Ah, Primpellino, che hai fatto! Il pane era già bell'e sfornato, caldo, di perfetta cottura. L'omo gli diceva: - A potare si fa così; quando sarai cresciuto mi aiuterai. Senza farsi scorgere, Primpellino afferrava un pennato e via :nel folto della vigna. - Primpellino, dove sei? Rispondeva di colà. E si vedeva Primpellino che dava colpi a ,destra, a sinistra facendo saltar per aria i tralci, quasi operasse una devastazione. Il babbo accorreva, con le braccia in alto, gridando: - Smetti, smetti, tristanzuolol Ma arrivato sul posto, trovava già compiuto un lavoro per cui non sarebbero bastate due giornate, e così esattamente da rimanerne stupito. Era già un bel ragazzino, forte, muscoloso; e intanto si nutriva soltanto di latte, di uova e di frutta. La mattina, cerca Primpellino di qua, cerca Primpellino di là, lo trovavano inginocchiato per terra fra le gambe della mucca, e succhiava, succhiava il latte; quello munto non voleva berlo. Più tardi, cerca Primpellino di qua, cerca Primpellino di là, lo trovavano nel pollaio che frugava nei corbelli per trovarvi le uova fresche. Vi faceva due buchini sulla punta, e se le sorbiva con un sorso. Serbava i gusci in un canto. - Perché quei gusci, Primpellino? - Per farli covare dalla chioccia, mammina cara! - Sei sciocco, Primpellino! Ma appena una delle galline diè il segno di esser chioccia, Primpellino preparava un corbello con paglia e fieno, vi disponeva una ventina di gusci di uova, e vi poneva su la chioccia per covarli. S'intese un gran scricchiolio. - Hai visto, sciocchino? Il peso della gallina avea schiacciato i gusci, ma sotto le ali e attorno al petto di essa erano accoccolati venti pulcini bianchi, neri, variegati che pigolavano e chiedevano da beccare. E in un canto era già pronto un vassoio con midolla di pane sminuzzata intrisa col vino, e mescolata con prezzemolo tagliuzzato e qualche cima di menta. In certi momenti, marito e moglie avevano paura di quel figliuolo che riusciva a fare tutte quelle cose, quasi avesse la magia nella punta delle dita. Notavano: - É cresciuto prestamente da principio; ora non cresce più. - Meglio, marito mio, se rimarrà sempre ragazzino. - Perché? - Perché così non prenderà moglie, e non metterà su casa da sé. Aveva appena finito di parlare, che dalla cucina, dove si trovava, Primpellino si mise a cantare: - Babbo bello, mamma bella, Primpellino vuol Primpella ; Se tra un anno non l'avrà, Primpellino se n'andrà. Accorsero in cucina, spaventati della minaccia. Che significa, Primpellino? Significa che tra un anno dovete farmi Primpella . Appena nata la sposerò. Se tra un anno non l'avrà, Primpellino se n'andrà. Dove, Primpellino? dove? - Nel mio paese, sottoterra! - E avresti cuore di lasciarci? - Babbo bello, mamma bella, Primpellino vuol Primpella . Egli non rispose altro. Diè un salto dalla finestra, e poi altri due o tre, e andò ad arrampicarsi in cima a un ciliegio e si mise a spolpare ciliege, divertendosi a lanciare lontano gli ossi con un cannellino. E di tanto in tanto ripeteva: - Babbo bello, mamma bella ... - Come faremo, marito mio? - Come vorrà la sorte, moglie mia. Si sentivano attaccati a Primpellino, quasi fosse una creatura delle loro viscere. Gli perdonavano tutte le bizzarrie, tutte le stranezze; ormai si erano abituati; ma ogni loro felicità era cascata giù al tristissimo annunzio: Primpellino se n'andrà! Sapevano per prova che neppure una sillaba di Primpellino andava in fallo! E si vedevano perduti, se non trovavano modo di avere Primpella per farla sposare con Primpellino. Egli intanto diventava più strano, più capriccioso, più pazzerellone di prima. Vedeva una stella filante? E gridava: - Mamma, mamma, affèrrala! E poiché la mamma non gliel'afferrava, quantunque per contentarlo ne facesse l'atto, Primpellino si arrabbiava, pestava i piedi, strillava. Per sfogarsi, saltava in cima a un pesco e faceva una bella scorpacciata delle pesche più belle. Vedeva un largo raggio di sole, formicolante di pulviscolo che penetrava dalla finestra? E subito gridava: - Mamma, tienlo fermo; voglio salirvi su e montare in alto! E poiché la mamma non poteva render solido il raggio del sole formicolante di pulviscolo, Primpellino si arrabbiava, pestava i piedi, strillava. Per sfogarsi saltava in cima a un gelso moro, e faceva una bella scorpacciata di gelso tingendosi di rosso le mani, i vestiti, impiastricciandosi la faccia. Poi saltava giù dall'albero, e pareva dovesse fiaccarsi il collo; si tuffava, vestito com'era, nella vaschetta dell'orto, e ne usciva ripulito da capo a piedi. Dava una scrollatina di braccia, di gambe ed era più asciutto di un osso. Certe mattine si levava con la voglia di fare una corsa a cavallo dell'asinello. L'asinello era vecchio, con la coda spelata, con le lunghe orecchie ciondoloni. Ma il mariuolo :sapeva come farlo correre e saltare. Prendeva una manata di spine e gliele legava sotto la coda. L'asinello, per liberarsene, correva, saltava, tirava calci; e lui, in groppa, afferrato alle orecchie. L'asinello pareva impazzito; e Primpellino rideva, gli batteva i fianchi con le calcagna, gridava: - Bravo! Bravo! Bravo! E quando l'aveva così martoriato un bel pezzetto e il povero animale non ne poteva più, Primpellino gli slegava le spine di sotto la coda, e, saltato giù, lo accarezzava, gli dava la biada, lo conduceva alla vasca per farlo bere, e poi su l'aia perché si rivoltolasse tra la polvere. Non lo lasciava tranquillo finché l'asino non si risolveva a fargli un raglio quasi di ringraziamento. ,Allora lo legava alla mangiatoia e si rivolgeva a un altro divertimento. Non lo contrariavano, lo lasciavan fare, quantunque continuamente temessero che non gli accadesse qualche guaio. Una volta la mamma gli disse: - Primpellino, prendi la brocca e vai a riempirla alla fontana. - La brocca è pesante; prendo un paniere. E avanti che la mamma gli gridasse: - Che cosa fai? - egli era già andato alla fontana e tornava, reggendo a stento il paniere che non versava una goccia d'acqua. Un'altra volta, vedendo che il babbo, aggiogati il bue e la vacca, li aveva attaccati all'aratro, Primpellino gli disse: - No, babbo; col solo aratro si fa meglio. E in un attimo, staccati il bue e la vacca, impugnava, con tutt'e due le mani, il manico dell'aratro, e lo spingeva avanti quasi fosse stato un fuscello. L'aratro andava e veniva, smovendo il terreno col vomero, facendo larghi solchi e profondi, con gran stupore del contadino che non credeva ai suoi occhi. In men di un'ora, Primpellino aveva fornito il lavoro di due o tre giornate. E per ciò, marito e moglie non sapevano rassegnarsi al pensiero che un giorno o l'altro, se non avesse sposato Primpella , Primpellino sarebbe andato via, ed essi lo avrebbero pianto per tutta la vita. - Ah, marito mio! Ho sognato la vecchina, quella dei semi. Mi ha detto: State allegri; Primpella è per via! Ed era vero. Quando Primpellino seppe che la mamma, finalmente, portava in seno Primpella - già la chiamava così - non stiè più nei panni dalla gioia. - Mamma, lasciami ascoltare! Poggiava un orecchio sul seno di lei e stava immobile, trattenendo il fiato. - Primpella ! Primpella ! Mi vuoi per marito? E non ricevendo risposta, si stizziva, pestava i piedi, strillava, piangeva. - Facciamola uscir fuori subito! Era andato in cucina, aveva preso un coltellaccio, e dovette accorrere il babbo per levarglielo di mano e impedirgli che commettesse l'orrore di ferire la mamma. Si svincolò, diè un salto sul tetto, e sedutosi su la grondaia, con le gambine penzoloni, chiamava a gran voce: - Primpella ! Primpella ! E stette lassù tutta la nottata, gridando: - Voglio Primpella ! Voglio Primpella ! La mattina, allo spuntar del sole, saltò giù. - Mamma, lasciami ascoltare. Poggiava un orecchio sul seno di lei e stava immobile, trattenendo il fiato: - Primpella , Primpella ! Mi vuoi per marito? Naturalmente non riceveva risposta, e si stizziva, pestava i piedi, strillava, piangeva. Marito e moglie non ne potevano più. E che cosa combinarono? Per acchetarlo, dissero: - Primpella parlerà per bocca della mamma. Preparavano le feste delle nozze. - Voglio un bel vestito, tutto di seta. E gli fecero un bel vestito tutto di seta. - Voglio un bel cappello di paglia col nastro azzurro. E gli fecero un bel cappello di paglia col nastro azzurro. - Dovete invitare l'asinello, che raglierà. - Inviteremo l'asinello, che raglierà. - Dovete invitare il bue e la mucca, che muggiranno. - Sì, come tu vuoi, Primpellino. - Dovete invitare il gallo con le galline. Il gallo farà chicchirichi e le galline chiocceranno e faranno le uova. - Sì, come tu vuoi, Primpellino. - E dovete fare una torta grande quanto un corbello. - Sì, una torta, grande quanto un corbello, Primpellino. Pur di vederlo star tranquillo, avrebbero promesso chi sa che altro! La mamma cuciva il vestito di seta, e Primpellino cheto come l'olio, stava a guardare. Il babbo aveva comprato il cappello di paglia col nastro azzurro, e Primpellino si divertiva a provarselo in testa e a levarselo per osservare il bel nastro azzurro. La mamma impastava la torta grande quanto un corbello, e Primpellino, zitto, con le mani dietro la schiena, girava torno torno alla madia, sgranando gli occhi dalla contentezza. E il giorno delle nozze, trassero di stalla l'asinello, il bue e la :mucca e li condussero davanti l'uscio; aprirono il pollaio e, :spargendo manate di becchime, raccolsero davanti alla casa il gallo e le dodici galline. Primpellino, vestito da sposo, si pavoneggiava, strofinandosi le mani dall'allegrezza. - Asinello, perché non ragli? L'asinello, a testa bassa, con le orecchie ciondoloni, pareva fiutasse il terreno. - Bue e mucca, perché non muggite? Essi ruminavano, ruminavano, soffiando di tanto in tanto con le narici umide, e pensavano a tutt'altro che a muggire. - Gallo, perché non fai chicchirichì? Galline, perché non chiocciate e non fate le uova? Gallo e galline badavano a becchettare; c'era tanto buon grano, per terra! - Non importa! Non importa! Ora sposo Primpella ! Mi vuoi per marito, mi vuoi? - No! No! No! La povera donna non aveva potuto far a meno di rispondere cosi. Primpellino era rimasto di sasso. - Come mai, moglie mia? - Non posso rispondere altrimenti! Primpellino si riscosse e tornò a domandare: - Primpella ! Primpella ! Mi vuoi per marito, mi vuoi? - No! No! Noi La voce sembrava uscisse di fondo della strozza della povera donna. Primpellino era rimasto di sasso. - Come mai, moglie mia? - Non posso rispondere altrimenti! Marito e moglie erano atterriti di quel che accadeva. - Primpella ! Primpella ! Mi vuoi per marito, mi vuoi? - No! No! Noi Si udì un gran rumore. Veniva giù un rovescione di acqua accompagnato da un ventaccio furioso, che scoteva tutta la casetta. Marito e moglie si trovarono a letto, come quella notte. E in mezzo ad essi c'era una creaturina che vagiva. - Accendi il lume, marito miol Il poveretto, dallo sbalordimento, non trovava modo di accendere. Finalmente, alla luce della candela, videro una bella bambina, come se l'eran sognata ... E Primpellino? Non ce n'era traccia in nessun posto. Chiama, richiama; nessuno rispondeva. - Che è mai stato? Tutto un sogno? - Non è possibile, marito mio. Uscirono fuori, e che cosa trovarono nell'orto? Una bella pianta di zucca, una bella pianta di popone, ma senza fiori né frutto, e fra essi una pianticina con foglioline verde scuro e fiorellini stellati. Per una settimana si sentivano vagellare la testa, non si raccapezzavano. Poi, a poco a poco, cominciarono a tranquillarsi, felici di avere quella bambina che li guardava con gli occhietti vaghi, agitava nel vuoto le manine e sorrideva. - Questo non può esser sogno! - No davvero, moglie mia! E non si stillarono il cervello per convincersi se avevano sofferto una lunga allucinazione, se avevano fatto un sogno dopo che la vecchina aveva dato loro quei tre semi. Di questo non riuscivano a dubitare: avevano Primpella - potevano chiamarla altrimenti? - e si sentivano felici. La vecchina, Maga o Fata, li aveva rimeritati così dell'ospitalità di quella notte. Si sentivano felici; ma spesso rimpiangevano: - Se avessimo anche Primpellino! Tanto è vero che chi ha, più vuole avere! Larga la foglia, lunga la via Dite la vostra, che ho detto la mia.

- Intanto ti abbiamo conciato noi, Radichetta! La mattina in cui egli compiva i quindici anni, la madre lo prese su le ginocchia (era già alto tre spanne) e gli disse: - Sta' attento, figliolo mio. Gli raccontò punto per punto quel che aveva visto la notte di luna nuova passata nel bosco con lui addormentato e messo a giacere su l'erba in mezzo alla radura. - E poi? - la interrompeva Radichetta. - E poi le Fate si accorsero della mia presenza e mi avrebbero buttato addosso un'imprecazione tremenda: Chi ci vede e chi ci sente Sorda e cèca immantinente! Chi ci sente e chi ci vede Cionca a un braccio e zoppa a un piede! Ma io gridai: Fate belle, sono una povera madre! Sparirono, e fui salva. - E poi? La madre si affrettò a raccontare il resto fino alla raccomandazione della Fata: - Badi, non si serva di questo privilegio per far male agli altri o per qualche scopo cattivo. - così non potrò conciare i ragazzi che mi hanno picchiato! - esclamò Radichetta piagnucolando. - É meglio far bene per male, figliolo mio! Radichetta non la intendeva a questo modo, tanto che rispose: - Allora non soffierò mai nel pollice. Che me ne faccio di questo bel regalo, se non posso rendere male per male? E corro il pericolo di buscarmi due gobbe, una davanti e l'altra di dietro! - Intanto prova, figliolo mio! - Niente; non vo' neppur provare! E non ci fu verso d'indurlo a mettersi in bocca il pollice della mano destra per accertarsi che la Fata non li avesse ingannati. Ma ecco, una notte, urli e pianti nella via. Era una nottataccia; pioveva a dirotto e tirava un vento così furioso, che pareva volesse sradicare le case. - Che cosa avviene, mamma? - Chi lo sa? Apro la finestra e sto ad ascoltare. E, nel buio, si sentiva urlare: - Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! Radichetta saltò giù dal lettino, che aveva per materassa due guanciali, e si vestì in fretta. - Dove vuoi andare, figlio mio? - Vo a vedere questi ladri! Si mise in bocca il pollice della mano destra, e cominciò a soffiare. In meno di un minuto era diventato un omaccione. - Costoro, sì, vo' conciarli bene! Sua madre non poté trattenerlo. Si udivano sempre più alte le grida: - Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! ... Alla cantonata Radichetta si fermò; riprese a soffiare nel pollice; in meno di un minuto era diventato un gigante. E con due sgambate si trovava davanti alla casa d'onde uscivano quelle grida: - Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! Trascorsi pochi istanti, non si udì più niente. E la mattina dopo furono visti sul tetto di quella casa quattro ladri legati come tanti salami, pallidi, atterriti, non tanto del trovarsi legati a quel modo, ma della terribile apparizione del gigante. Egli, infatti, senza scomodarsi, aveva sfondato con un pugno una finestra, aveva ficcato dentro la stanza un braccio enorme e una manona con cui li aveva afferrati tutti e quattro e stretti nel pugno come niente; all'ultimo, legàtili tutti e quattro insieme, e tiràtili fuori, li aveva deposti sul tetto, sollevandoli come fuscelli; ed era sparito nel buio. Radichetta, compiuta la bella impresa, tornato zitto zitto a casa, non era potuto rientrare, ed era stato costretto a passare mezz'ora davanti all'uscio, aspettando di sgonfiarsi. Fin sua madre, che lo attendeva alla finestra, aveva avuto paura di quel gigante che sorpassava con la testa la più alta casa del vicinato. - Che cosa hai fatto, figliolo mio? - Lasciami sgonfiare; ti racconterò ogni cosa dopo. Passata mezz'ora, Radichetta era ridiventato un omino alto tre spanne. - Ti hanno riconosciuto, figlio mio? - Non mi ha riconosciuto nessuno; e non voglio che si sappia che ho questa virtù. Se non ero io, quella famiglia era scannata e derubata. - Sei contento di aver compiuto un'opera buona? - Contentissimo, mamma! E mamma e figliolo si rimisero a letto, e dormirono tranquillamente fino a tardi. Non si parlava d'altro nel vicinato. - Come? Non avete sentito nulla? - Nulla. Che cos'è accaduto? Ognuno faceva un racconto a modo suo. I ladri stavano per svaligiare una casa. Passava per caso da quelle parti l'Orco e accorse. I ladri eran dieci. Sei l'Orco se li maciullò in un batter d'occhio; e stava per spolparsi gli altri quattro, quando sonò la mezzanotte. Gli Orchi alla mezzanotte devono tornare alle loro tane; e così li lasciò sul tetto, legati perché non fuggissero. - Siete sicuro che è stato proprio l'Orco? - Chi volete che sia stato? Era un gigante, più alto di un campanile. Una delle vicine, per chiasso, disse: - Sarà stato Radichetta. É vero che sei stato là? - Io, proprio io! Tutti si misero a ridere. Chi poteva immaginare che Radichetta dicesse la verità? E per prenderlo in giro, i ragazzi inventarono una canzonetta e gliela cantavano in coro: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco. Se gli danno una polpetta, Metà ne mangia, metà ne getta. Ora dice: Sono l'Orco! Radichetta, muso sporco. Da principio, egli li lasciò dire. Rideva in cuor suo, pensando che, se gliene fosse venuta la fantasia, data una soffiatina al pollice, sarebbe stato subito in caso di sbatacchiarli nel muro come tanti ranocchi. Sua madre si raccomandava: - Non te ne curare, figliolo mio! Smetteranno, vedrai! Invece, vedendogliela prendere in santa pace, quasi avesse paura di loro, quei birbi non smettevano punto, anzi rincaravano la dose. La sera attendevano che mamma e figliolo fossero andati a letto, e si radunavano dietro l'uscio sotto la finestra della casetta, per far loro la serenata: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco. La povera donna si affacciava alla finestra: - Volete finirla, ragazzacci? Radichetta, coricato nel suo lettino, con due guanciali per materassa, ripeteva sottovoce: - Se scendo giù! Se scendo giù! E i ragazzacci: - Se gli danno una polpetta, Metà ne mangia, metà ne getta! - Volete finirla, ragazzacci? O vi butto un secchio d'acqua! Alla minaccia, i discoli si allontanavano, e facendo capolino dalla cantonata, riprendevano più forte: - Ora dice: Sono l'Orco! Radichetta, muso sporco! E scappavano via. Ogni due o tre sere, daccapo. Radichetta non ne poteva più! Una sera che il cielo era coperto di nuvole e nel vicolo faceva un gran buio, che cosa pensò di fare Radichetta? Pensò di rimpiattarsi dietro l'uscio della casetta vicina, e di attendere che i ragazzacci venissero per la solita serenata. - Per carità, figliolo mio, non far male a quegli screanzati. Ricordati! Ricordati! Intendeva dire: ricordati delle due gobbe! - Mamma, lasciami fare. Vedrai che non ricominceranno più. Cosi piccinino com'era e accoccolato dietro l'uscio, col buio della sera, i ragazzacci, venuti più numerosi delle altre volte, non potevano scorgerlo affatto. E, al segnale di uno di loro che faceva da capo, diedero la stura alla canzonetta di loro invenzione: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco! Radichetta intanto, messosi il pollice della mano destra tra le labbra soffiava lentamente, soffiava, soffiava, e diventava un omaccione spropositato. Non ostante il buio, qualcuno dei ragazzi se n'accòrse e diè l'allarme. Volevano scappare, ma Radichetta, con quel corpaccio spropositato sbarrava l'uscita del vicolo, afferrava a uno a uno i ragazzi, somministrava loro una lieve sculacciata e li metteva fuori; se gliene avesse data una forte, li avrebbe conciati per le feste. Pianti, strilli, grida di spavento. Un omaccione a quella maniera nessuno l'aveva mai visto; siccome, a ogni sculacciata, Radichetta mandava un grugnito per impaurirli di più, così appena uno gridò: L'Orco! l'Orco!, tutti si misero a urlare: L'Orco, l'Orco! La madre era affacciata alla finestra: - Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta! E infatti, egli si tirò da una parte e lasciò scappare gli altri ragazzi senza molestarli. Poi, aperto l'uscio, era entrato carponi, con molto stento, aspettando di sgonfiare. Ma la mattina dopo, tutto il villaggio ragionava animatamente dell'accaduto. Non c'era più dubbio: Radichetta era Orco! Altrimenti sua madre non avrebbe gridato dalla finestra: - Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta! - E per non farsi riconoscere, si dava quella statura di tre spanne! Le mamme erano atterrite. Prima di sera chiudevano in casa i bambini perché sapevano che gli Orchi si nutrono di carni tenerelle. E durante il giorno non volevano più che essi facessero il chiasso con Radichetta. In un batter d'occhio poteva trasformarsi in Orco e inghiottire qualcuno senza neppure masticarlo. E non valeva che Radichetta non facesse male a nessuno. E non valse che in parecchie occasioni egli avesse salvata la vita di molte persone, quando il fiume vicino era straripato e aveva inondato le campagne e circondato il villaggio, e le acque torbide e vorticose portavano via pagliai, bestiame e tanta povera gente. Radichetta, gonfiatosi fino a quattro metri di altezza, con le gambe in mezzo all'acqua, afferrava cinque, sei persone alla volta; due tre buoi a una volta, e li portava di corsa all'asciutto, fuori di pericolo. Aveva cominciato dalla sua mamma e non si era riposato fino a che non aveva salvato tutti coloro che chiedevano aiuto da ogni parte. Allora, vistolo all'opra, tutti lo avevano invocato: Radichetta! Radichetta! con le lacrime agli occhi, con le braccia tese. Ma, dopo, nessuno gli era rimasto grato, nessuno voleva aver a che fare con quell'omino di tre spanne, che da un momento all'altro poteva trasformarsi in gigante. - Peggio per loro! - disse un giorno Radichetta alla sua mamma. - Io me ne vado pel mondo, in cerca di fortuna. Voglio tornare ricco, mamma, e fabbricarti un palazzo. - No, figliolo mio! Io sono contenta della nostra casetta; non saprei che cosa farmene di un palazzo. Come ti è venuta questa cattiva idea? - Fra un anno sarò di ritorno. Non ci fu verso di distoglierlo da questa risoluzione. - Ricordati! Ricordati! E la poveretta intendeva dire: ricordati delle due gobbe! Radichetta si mise, come suol dirsi, la via tra le gambe, e non si fermò fino a che non fu notte. Aveva camminato alla ventura; era stanco, e per riposarsi e dormire si sdraiava su l'erba di un prato. Appena appisolato, si senti scuotere e chiamare. - Ehi! Ragazzino! Al lume di luna scòrse sei brutti ceffi, armati fino al denti. - Chi siete? Che cosa volete? - Siamo la Provvidenza. Togliamo a chi ha troppo e diamo a chi non ha niente. Vieni con noi. Radichetta esitava, pure si era alzato in piedi. - Quant'anni hai? - gli domandò uno di quei brutti ceffi. - Venticinque. Ed era vero. - Ah! Dunque tu sei l'omino di tre spanne, di cui abbiamo inteso parlare. - Sono l'omino di tre spanne. - E puoi, a volontà, trasformarti in gigante? - Che ve n'importa, se fosse così? - Puoi arricchirti e farai arricchire. - In che modo? - Facendo da Provvidenza insieme con noi; togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente. - Questo significa rubare. - Non badare alle parole. Su, su; vieni con noi. Radichetta esitava. - Sarai il nostro capo; comanderai e sarai obbedito. Con te, in poco tempo, diventeremo ricchi sfondati. - Potrò fabbricare un palazzo alla mia mamma? - Meglio di quello del Re. Radichetta non esitò più. Togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente, come dicevano coloro, non gli sembrava una cattiva azione. E poi l'idea di arricchire presto e di tornare al villaggio per fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re gli faceva girare il capo. - Che cosa dovrò fare con voi? - Quasi niente. Quando sarà il momento opportuno diventerai un gigante, stenderai il braccio fin dove nessuno di noi potrebbe arrivare, ficcherai la mano da una finestra, da un balcone e farai repulisti di quel che ci sarà di troppo in una casa: oro, argento, pietre preziose, cose che non si mangiano ma che dànno da mangiare. Tu prenderai doppia parte. Le altre parti, una per ciascuno di noi. - E che cosa daremo a chi non ha niente? - A questo penserà ognuno per proprio conto. I primi a non aver niente siamo noi. - No, non mi piace. Ci son tanti poveretti a questo mondo ... - Daremo una parte ai poveri; hai ragione. E andò con loro. Arrivarono davanti a un palazzo che sembrava un castello. Ponti levatoi, torri, torrette, feritoie. - Su, dunque, diventa gigante. Radichetta si mise tra le labbra il pollice della mano destra e cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare. In pochi istanti era già più alto del più alto torrione del castello. - Prèndici in mano a uno a uno, mèttici sul tetto e lascia fare a noi. Radichetta ne afferrò tre con una mano e tre con l'altra, e li posò sull'orlo del tetto, davanti a un abbaino. Con una ditata sfondò l'imposta, e i ladri entrarono dentro. Dopo un buon pezzo, rièccoli, carichi di ogni ben di Dio: oro, argento, pietre preziose. Radichetta questa volta li afferrò a uno a uno, li depose per terra, e disse: - Dividiamo. - Due parti per te; una per ciascuno di noi, e il resto pei poveri, i primi che incontreremo. Incontrarono un vecchietto curvo sotto un gran fastello di legna. Radichetta, che aveva voluto essere l'elemosiniere, ficcò la mano in un sacco: - Tenete buon uomo; non penerete più. E passarono oltre, prima che colui potesse rinvenire dalla sorpresa. Incontrarono una povera donna, vestita di stracci, secca allampanata, con due bambini per mano più cenciosi e più allampanati di lei. Radichetta ficcò la mano in un sacco: - Tenete, poverina; questo per te, e quest'altro per te. Mamma e bambini non ebbero tempo di rinvenire dalla sorpresa, che già Radichetta e i suoi compagni si erano dileguati. Giunsero, verso sera, in un altro posto. - Tu, Radichetta, domanderai alloggio in quel palazzo. Vedendoti così piccolo, non sospetteranno di nulla. Quando tutti saranno addormentati, ti gonfierai, aprirai l'uscio o una finestra, stenderai giù un braccio e ci prenderai a uno, a due, a tre, come ti tornerà più comodo. Pel resto, lascia fare a noi. Gran bottino, assai più dell'altra volta. Avevano riempito sei sacchi: oro, argento, pietre preziose. Radichetta prima calò giù i sacchi, poi i compagni; e siccome stava per sgonfiare, infilò un finestrone, e si lasciò cascar giù a poca altezza dal terreno. Dividiamo. - Due parti per te; una per ciascuno di noi; e il resto ai poveri, i primi che incontreremo. I ladri andarono a deporre il bottino in una delle grotte dove stavano nascosti durante la giornata, e poi, con la parte destinata al poveri, si fermavano a un capo di strada, in attesa del primo povero che sarebbe passato. Prima passò una ragazzina che piangeva, tutta smarrita. - Perché piangi, bella figliola? - Avevo due capre che davano da campare alla mia mamma e a me; è venuto il lupo e me le ha sbranate. - Tieni; non avrai più bisogno delle capre. Radichetta le diè due manciate di monete d'oro. E prima che colei potesse rinvenire dalla sorpresa, essi erano già lontani. Incontrarono un contadino che tirava per la cavezza un asino spelato, sbilenco, tutto pieno di guidaleschi. - Dove andate, compare? - Vado a buttarmi da un precipizio assieme con la mia povera bestia. Era l'unica mia risorsa; ma la fatica e il cattivo nutrimento l'hanno ridotta tosi. Meglio morire che vivere di stenti; lasciatemi andare. -Fatevi coraggio, compare; tenete da comprarvi un altr'asino, o un mulo, o un cavallo; non bisogna mai disperare. - E voi chi siete? - Siamo la Provvidenza. E prima che il contadino rinvenisse dalla sorpresa, essi eran già lontani. - Hai visto, Radichetta? Nessuno ci dice grazie, nessuno ci resta grato. Il meglio è che ognuno faccia la carità per proprio conto. Radichetta, con tant'oro accumulato da parte sua, era divenuto un po' avaro; voleva sempre accumularne dell'altro, per tornare ai villaggio e fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re. Così, dopo nuove imprese ancora più fortunate delle precedenti, diceva: - Dividiamo. - Due parti per te; e una per ciascuno di noi. Per coloro che non avran niente penserà ognuno per conto suo. Incontrarono altri poveri, affamati, storpi, ciechi; e Radichetta, divenuto avarissimo, pensava: - Per chi non ha, provvederanno quest'altri, lo devo fabbricare a mia madre un palazzo più bello di quello del Re. E un giorno disse ai compagni: - Me ne vado. Porto via la mia parte, per andare a fabbricare un palazzo a mia madre più bello di quello del Re. Quando lo avrò finito, ci rivedremo. I sei ladri lo pregarono, lo scongiurarono di restar con loro un altro mese almeno; c'erano tre o quattro bei colpi da fare; ma Radichetta terme duro. L'ultima notte che restò con loro, Radichetta non poteva prender sonno dalla contentezza di rivedere la sua mamma di cui non aveva saputo più notizie da tanti mesi. Aveva detto: Me ne vado pel mondo in cerca di fortuna. E tornava con tanta ricchezza, che neppur lui sapeva quanta. Nella notte, ai buio, credendolo addormentato, i sei ladri, sotto voce, ragionavano fra loro. - Dovrà portarsi via davvero la sua parte? Ammazziamolo nel sonno, ora che è piccino di tre spanne. - Aspettate - disse da sé Radichetta; - vi concio io. E messosi il pollice della mano destra tra le labbra, cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare; e quando fu diventato un omaccione da poterli afferrare tutti per le gambe e sbatacchiarli nel muro, stese le braccia e li agguantò. I ladri cominciarono a urlare: - Radichetta, che cosa fai? - Vi do quel che meritate! Li sbatté tutti contro il muro, e li lasciò più morti che vivi. Aveva fatto un disegno nella sua mente. - Ora soffio nel pollice, mi carico addosso tutte le ricchezze, e via di corsa fino al villaggio. Giungerò prima che sia giorno. Ma soffia, soffia, soffia, non aveva più fiato e intanto rimaneva un omino di tre spanne. Figuriamoci il suo sbalordimento! Aveva perduto la gran virtù di crescer di statura, fino a divenire gigante. Ma ancora non capiva perché. Che cosa aveva fatto di male? Aveva tolto a chi aveva troppo e aveva dato a chi non aveva niente, come dicevano i suoi compagni. Si era fatto giorno. Quei sei giacevano per terra, insanguinati, e non davano segni di vita. Radichetta prese con sé il poco che poteva portare addosso, e si avviò pel suo villaggio, con l'intenzione di tornare a riprese nella grotta, e portar via almeno la sua parte. Picchiò all'uscio di casa sua. - Mamma, apri; son io, Radichetta! La povera donna diè un grido di gioia e corse ad aprire. Indietreggiò, spaventata: - Ah, Radichetta! Che cosa hai fatto? Radichetta non si era accorto che gli erano cresciute due gobbe, una davanti e l'altra di dietro. Così corto e piccinino, con quelle due gobbe sembrava un mostro addirittura. - Non importa, mamma - egli disse. - Ho tanto denaro da poter fabbricarti un palazzo più bello di quello d'un Re. Apre il sacco, dove egli aveva messo le cose più rare e più di valore della sua parte, e trova tanti gusci di chiocciola vuoti! Soltanto allora Radichetta capì che aveva fatto male ad associarsi con quei ladri, e si pentì di essersi lasciato lusingare dalle parole di coloro e di esser diventato a poco a poco peggio di essi. Ma non c'era più rimedio. E dovette portare le due gobbe, una davanti e una di dietro, per tutta la vita. Larga la via, la foglia è stretta Questa è la fiaba di Radichetta.

Noi abbiamo fatto buona guardia giorno e notte! Il Re rimase di sasso! Chi sa quanti altri guai sarebbero piombati su la famiglia e sul regno tutto! E invece di prendersela con se stesso, se la prendeva con le Principessine, quasi la colpa fosse stata di loro. - Maestà, voglio Pane! Maestà, voglio Cacio! Ne contraffaceva i sospiri e il tono della voce di quando erano malate, e aggiungeva gesti di minaccia. Sembrava ammattito. In quei giorni arrivavano gli ambasciatori di un Re di paesi lontani e chiedevano udienza. Quando cominciarono a parlare nessuno li capiva: il Re e i Ministri meno degli altri. E tra le stranissime parole che quegli urlavano, irritati di non vedersi capiti, erano ripetute con più frequenza nepa e cioca: anzi ogni volta che le pronunziavano, tutti gli ambasciatori facevano un profondo inchino fino a terra. C'era da disperarsi. Gli ambasciatori gesticolavano, pestavano i piedi. Si indovinava che minacciavano un caso di guerra. Il Re, stizzito, esclamò: - Ma che cosa posson volere con questi lor nepanepanepa e ciocaciocacioca? Il Re si fermò allibito. Pronunziando frettolosamente quelle sillabe, gli erano risultati all'orecchio i nomi di Pane e Cacio! Quegli ambasciatori di un Re lontano parlavano pronunziando al rovescio tutte le parole; e per ciò invece di dire pane, dicevano nepa; invece di dire cacio, dicevano cioca. Allora fu facile intendersi. Essi venivano in nome del loro Re a reclamare Pane e Cacio, che erano suoi figli. Una Strega glieli aveva rapiti bambini, Pane di un anno e sei mesi, Cacio di un anno, e il povero padre desolato non ne aveva saputo più nuova. Ora un mercante, andato da quelle parti, avea recata la notizia che due bei giovani chiamati Pane e Cacio erano stati arrestati e dovevano essere impiccati. Il Re era pronto a pagare qualunque taglia, pur di riavere i figliuoli. Se non gli si restituivano a questi patti, sarebbe venuto a prenderseli con la forza, mettendo a ferro e fuoco tutto il regno. Quando il Re disse che Pane e Cacio erano scappati di carcere e che nessuno sapeva dove fossero andati, gli ambasciatori, increduli, intimarono la guerra e stavano per andar via. - Avete capito, Regina, che il Mago ha predetto il vero? - Capite ora, Maestà, che è stato bene non averli fatti ammazzare? - Ma come faremo? Dove andare a pescarli? Non aveva ancora finito di dir così, che s'intese nella piazza un gran tumulto. - Viva Pane! Viva Cacio! Viva! Viva! E pochi momenti dopo, essi entravano nella gran sala con al braccio le Principessine mezze pazze di gioia. - Questo è il mio Pane! - Questo è il mio Cacio! - Ora che sapete chi siamo ... Il Re, che si sentiva rivivere, li abbracciò, li baciò come figliuoli, e disse: - Vi sposo sull'istante! Allora i Re potevano; e Pane e Cacio e le due Principesse furono lì per lì mariti e mogli. La sera i due Principi, ora dobbiamo chiamarli così, raccontarono che erano stati tolti di mano alla Strega da una Fata. Stretta la foglia, sia larga la via, Dite la vostra che ho detto la mia.

- Eppure abbiamo guadagnato tanti soldi - entrò a dire la figliola. - I soldi per noi, le monetine, se è vero, per gli altri. - Sta' zitta, sciocchina! E lo stesso giorno il lupinaio portò l'asino in piazza per venderlo. - E le bisacce? - Quelle servono a me. Ciò non ostante, molti entravano in gara, lusingandosi che quell'asino dovesse portar fortuna. Quando la gara si arrestò, l'asino veniva pagato quanto un bel cavallo da corsa. La notizia delle monetine d'oro fra i lupini era arrivata agli orecchi del Re, un avaraccio che avrebbe voluto cavar oro anche dalle rape. E ordinò: - Mandate a chiamare il lupinaio. Uno dei Ministri aveva suggerito: - Maestà, faremo così: il lupinaio venderà per conto suo; le guardie però fermeranno i compratori, frugheranno per trovare le monetine tra i lupini e le sequestreranno in favore della cassa reale come moneta di contrabbando. Il consiglio era parso al Re una stupenda trovata. Il lupinaio tremava come una foglia. - Maestà, sono innocente! - Non vi si accusa di nulla. Per quale ragione avete smesso di vendere i lupini? - Sono stanco di andare attorno, e il guadagno è così scarso! Ormai! Ho venduto fin l'asino. - E le bisacce? - domandò il Ministro. - Vecchie, di telaccia, le ho buttate in un angolo. - Portatele a Sua Maestà, che saprà ricompensarvi. Il lupinaio si consultò con la moglie: - Il Re vuole le bisacce dei lupini. - Quelle delle monetine? - Quelle! - No, marito mio. Qui sotto c'è un mistero. Chi sa che un giorno o l'altro esse non si risolvano a dar monetine anche a noi? Portagli quell'altro paio. - Le vuole piene di lupini. - Riempile. Il Ministro, malizioso, disse: - Facciamo la prova. La prova riuscì male. Niente monetine. E Sua Maestà ordinò che il lupinaio fosse gettato in fondo a un carcere. Accorse la moglie piangendo. - Grazia, Maestà! - Ma prima dovete portarmi le vecchie bisacce dei lupini. - Ha sbagliato, il poveretto; vado a prenderle io. E portò un altro paio di bisacce vecchie, rattoppate. - Facciamo la prova. Anche questa volta la prova riuscì male. Niente monetine. E la moglie fu mandata a raggiungere il marito in fondo al carcere. Accorse la figlia, piangendo: - Grazia, MaestàI - Ma prima devi portarmi le vere bisacce dei lupini. - Hanno sbagliato, poveretti; vado a prenderle io. E portò proprio quelle, e la prova riuscì. In ogni misurino di lupini veniva trovata una monetina d'oro! Il Re fece la grazia al lupinaio e alla moglie, e la Regina, incantata della bellezza e della modestia della ragazza, se la tenne nel palazzo per cameriera. Il Re, da quell'avaraccio che era, non si fidava neppure dei Ministri per la vendita dei lupini. Vo!le fare da sé, e si mise davanti al portone con le bisacce caricate su un asino e il misurino in mano: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Aveva detto ai Ministri: - Tanti misurini, tante monetine! Aprite bene gli occhi! Da principio la gente radunata davanti al palazzo reale non osava di accostarsi a chiedere un soldo di lupini. Credevano che Sua Maestà volesse divertirsi, e stavano a guardare per vedere come finiva. - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Sparsasi la notizia per la città, la folla aumentava, per godersi lo spettacolo del Re che faceva da lupinaio. E intanto nessuno osava di accostarsi a chiedere un soldo di lupini. Ma non appena uno fu così ardito da dare l'esempio, tutti vollero aver l'onore di esser serviti da Sua Maestà. E fosse malizia o la fretta, Sua Maestà non riempiva mai bene il misurino. A ogni misurino, lui intascava un soldo, e alle cantonate, le guardie, sotto la sorveglianza dei Ministri, frugavano nelle tasche dei compratori e sequestravano le monetine, dichiarandole di contrabbando. E quando, verso sera, Sua Maestà smise la vendita, fece subito la rassegna: tanti misurini, tante monetine. Il conto non tornò esatto, ma lo sbaglio era di poco. Il Re non ci fece caso. Alla gente quest'affare del sequestro, la prima giornata, era parso un grazioso scherzo di Sua Maestà. E il giorno dopo accorse più numerosa, lusingandosi che lo scherzo non sarebbe stato ripetuto. Sua Maestà appariva di maggior buon umore: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Durò una settimana. Poi la gente si diradò, e alla fine soltanto pochi curiosi sfaccendati rimasero fermi davanti al palazzo reale, guardando a bocca aperta Sua Maestà che si sgolava inutilmente: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Intanto, in quegli otto giorni, la cassa reale rigurgitava di monetine d'oro, e il Re, da quell'avaraccio che era, le contava e le ricontava. In quel tempo giungeva alla Corte l'ambasciata di un Re vicino: veniva per chiedere in nome del Reuccio suo figlio la mano della Reginotta. La richiesta fu gradita e, di lì a qualche mese, arrivava il Reuccio, preceduto da ricchissimi doni per la sposa, e accompagnato da un gran seguito. Entrando nel palazzo reale, scorgendo tra la folla delle persone di Corte la bionda figlia del lupinaio, cameriera della Regina, il Reuccio ne fu talmente colpito, da scambiarla per la Reginotta. Piegò un ginocchio dinanzi a lei e le baciò la mano. Uno dei Ministri del Re si affrettò ad avvertirlo dello sbaglio: - Principe, costei è la cameriera della Regina! Il Reuccio rimase. - Se una cameriera è così bella, figuriamoci la Reginotta! Invece la Reginotta non era, è vero, brutta addirittura, ma non si poteva dire neppur bella. Il Reuccio, che non aveva ancora vent'anni, era incapace di fingere, e disse chiaro e tondo: - Io sposo la cameriera! Fu uno scandalo. Il Re, la Regina e la Reginotta, indignatissimi, si ritirarono nelle loro stanze. I Ministri, in nome di Sua Maestà, annunziarono che avrebbero chiesto ragione di quest'offesa anche ricorrendo a una guerra. E il Reuccio tornò nel suo regno, ripetendo per strada: - Sposo la cameriera! Sposo la cameriera! Il Re suo padre chiese scusa per evitare una guerra. E intanto ne soffrì quella che non c'entrava punto, la figlia del lupinaio. - É Strega, figlia di Stregoni! Le monetine fra i lupini non erano forse opera di incantagione? Chiusa in un'umida cella, la poverina piangeva la sua mala sorte; se non che, verso mezzanotte, sentiva una voce dolcissima: - Non disperarti! Sii buona; ti aiuterò io! - Chi mi parla? - Colei che ha soccorso tuo padre. - Fatevi vedere. - Domani. Ogni notte, a mezzanotte, così; ma quel domani non arrivava mai. La povera giovane, la mattina, non sapeva se avesse udito per davvero quella voce, o se avesse sognato. Finalmente, una notte, il buio della cella fu rotto da un vivissimo Splendore, e tra quella luce le sorrideva una bellissima signora. - Non piangere! Sii buona. Ti aiuterò io. Sono colei che ha soccorso tuo padre il giorno che, sconfortato, voleva buttarsi nel fiume. Domani arriva il tuo liberatore! La giovane era così stupita di quel che vedeva ed udiva - ora non sognava davvero! - da non saper ringraziare quella signora prima che sparisse tutt'a un tratto. E il giorno dopo si sentiva per la via una voce giovanile che gridava: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Era un contadinotto poveramente vestito, che si tirava dietro un asinello, carico di due bisacce di lupini. Non se ne vendevano da un pezzo, e la gente si affollava a comprarli, anche per la speranza di trovarvi le monetine, come nelle misurine del vecchio lupinaio. No, questa volta si trattava di soli lupini, ma così grossi, così dolci, ch'era una delizia mangiarli. Sentendolo gridare: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! - il Re pensò di gastigare colei che avrebbe voluto sposare il Reuccio, e gli aveva fatto la malia, dandola per moglie a un lupinaio come suo padre. Fece chiamare quel giovane e gli disse: - Vuoi prender moglie? - E come la mantengo, Maestà? - Ti darò io una piccola dote. - Allora ... - Devi sposarla subito e condurla via, lontano. - Come ordina Vostra Maestà. - Così la superbiosa avrà quel che si merita! - dicevano Re, Regina e Reginotta, convinti che la povera giovane si fosse servita di male arti per farsi sposare dal Reuccio. La disgraziata era divenuta pallida, magra, aveva perduta ogni freschezza. Il Re, con accento canzonatorio, le disse: - É venuto il Reuccio a chiedervi in moglie: eccolo qua. E indicò il giovane lupinaio che se ne stava tutto intimidito in un canto. La giovane lo guardò e rimase confusa. - Non vi piace? Non importa: lo sposerete lo stesso. - Grazie, Maestà! ... Anzi, lo sposo volentieri. - Qui c'è il regalo di nozze che noi vi facciamo: aprirete l'involto quando sarete marito e moglie, e lontani di qui. - Maestà - balbettò il giovane che sembrava molto commosso. - Prendo tempo otto giorni per recare questa notizia ai miei genitori. - Tu intanto tornerai al tuo carcere finché esso non viene. La povera giovane si senti stringere il cuore; le era parso di riconoscere in quel lupinaio qualcuno che ella aveva visto una volta, non ricordava in quale circostanza, insomma una fisionomia non ignota. Sentendogli dire però che prendeva tempo otto giorni, credette che fosse una scusa per andar via e non tornar più. La notte, a mezzanotte, ecco la solita dolcissima voce: - Non piangere. Verrà, tra otto giorni. Sarai felice. - Ah, buona Fata! non m'ingannate ... Voi siete una Fata! Indovino? - Indovini. Ed ogni notte, a mezzanotte, così. Il Re e la Regina avevano pensato di fare un dispetto agli sposi. - Che cosa gli daremo per regalo al lupinaio? - Una sporta di lupini. - No, gli daremo le bisacce del vecchio lupinaio che ora non servono più. Il Re, da quell'avaraccio che era, dopo che la gente non aveva voluto più comprare lupini da lui perché le guardie sequestravano le monetine con la scusa che erano roba di contrabbando, aveva provato più volte se mai quelle bisacce conservavano l'antica virtù; ma inutilmente; tra i lupini non si trovava più traccia di monetine. Ora che erano inservibili, logore e rattoppate, ne avrebbero fatto un bel regalo di nozze agli sposi; un lupinaio e una figlia di lupinaio non meritavano di più. Le avevano fatte involtare con una bella stoffa di seta, e Re, Regina e Reginotta ridevano, ridevano, pensando alla sorpresa degli sposi che certamente immaginavano di trovarvi chi sa che dono reale! La mattina dell'ottavo giorno, ecco il giovane lupinaio. Per non perder tempo, si tirava dietro l'asino con le bisacce piene di lupini, e gridava allegramente: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! E prima che arrivasse al palazzo reale aveva già venduto fin l'ultimo lupino. Si sposarono e uscirono dal palazzo reale. Lo sposo portava sotto il braccio l'involto col dono del Re. Re, Regina e Reginotta ridevano, ridevano della burla. Ma che è, che non è, si sente nella piazza un forte rumore. Re, Regina e Reginotta si affacciano a un balcone per vedere che cosa accadeva e rimangono allibiti, quasi senza respiro. La piazza era ingombra di carrozze dorate, tirate tutte da quattro cavalli bardati con gran magnificenza; cocchieri in ricche livree sedevano in serpe, e un'immensa folla di popolo stava attorno ad ammirare quello spettacolo inatteso. Figuriamoci la rabbia del Re, della Regina e della Reginotta, quando videro salire in carrozza gli sposi ancora modestamente vestiti, che si voltarono a guardare in su, prima di partire. Lei salutava e il giovine intonava con voce squillante: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! I cavalli presero il galoppo, e in pochi minuti le carrozze degli sposi e del seguito erano fuori di vista. La Regina e la Reginotta svennero, cadendo in convulsioni, e il Re pareva diventato una statua di sale. Avevano capito, ma troppo tardi; quel giovane lupinaio era il Reuccio che non aveva voluto sposare la Reginotta. Gli sposi furono accolti con grandi feste. All'ultimo pensarono di vedere che cosa si trovava nell'involto ricevuto in dono dalla famiglia reale. - Ah! Le bisacce di mio padre! - Quali bisacce? - Quelle con cui egli andava attorno a vendere i lupini. Avevano una gran virtù; ma giacché quell'avaraccio del Re ce l'ha regalate, vuol dire certamente che non la conservano più. E spiegò in che cosa consisteva. - Proviamo; chi sa? - Proviamo. Le fecero riempire di lupini, e quasi mettessero in atto un gioco nuovo, il Reuccio e la Reginotta disposero torno torno nella gran sala tutte le dame di palazzo e i cortigiani; e, prese in mano due misurine, cominciarono a cantilenare, ridendo: - Lupin dolci, lupini, lupinaio! Le dame e i cortigiani dovevano affollarsi a chiedere un soldo di lupini, e dare un soldo davvero. Quando ognuno ne aveva avuta la sua misurina, e non sapeva se doveva mangiarli o no, la Reginotta disse: - Dame, cercate tra i lupini. E il Reuccio: - Cercate tra i lupini, cavalieri! Tutti cercarono con viva curiosità, e tutti trovarono una monetina d'oro grossa quanto un lupino. Ah! Dunque le bisacce non avevano perduto la loro virtù! E la Reginotta disse: - Sentite, Reuccio. Io vorrei che queste bisacce fossero appese a un uncino accanto al portone del palazzo reale. Dovrebbero esser sempre riempite di lupini, e che la povera gente potesse prenderne una misurina al giorno, non più. - La vostra volontà è legge! - rispose il Reuccio. E le bisacce quel giorno stesso furono appese a un uncino accanto al portone del palazzo reale. Un banditore fece sapere a tutti: - Badate! Una misurina al giorno e non più! e soltanto la povera gente! Fu una festa! Mille benedizioni alla Reginotta e al Reuccio! Se non che, dopo pochi giorni, nessuno voleva contentarsi di una sola misurina, e quindi di una sola monetina. Erano spintoni, urtoni, risse, legnate, ferimenti; le guardie non riuscivano a impedire i disordini. E una mattina le bisacce erano sparite. Quelle monetine guadagnate senza nessuna fatica avevano acceso tale avidità in tutti, che la Fata - dovette esser lei! - le portò via chi sa dove e non sono state più ritrovate, né quelle né altre consimili. Lupin dolci, lupini, lupinaio: Con mezzo soldo ne avete uno staio.

. - Lo abbiamo allevato col nostro sangue. - Non è vero! - gridò Saltacavalla. - Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra. Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse. - Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re. Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse. - Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare? Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto: - Perdono, Maestà! ... Chi poteva immaginare? Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri. Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all'ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all'altro, facendo salti, capriole, mosse buffe ... E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva! Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante ... Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand'albero e rispondeva impertinentemente: - Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo! E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l'impertinenza. Avanti dell'arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri. - Maestà, c'è da far questo, c'è da fare quest'altro. Vostra Maestà permetta ... Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l'ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo. I Ministri si riunirono un giorno segretamente: - Saltacavalla è il nostro malanno! - Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui. - Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete! - Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà! - Dite bene, eccellenza! E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse: - Maestà, il popolo desidera l'erede del trono. - Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci. - Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi. Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall'allegrezza: - Maestà, il Re di Francia avrà certamente un'altra figlia anche per me. - Che cosa vorresti farne.* - Oh bella! ... Sposarla. - Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo ... Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re. Maestà, son cresciuto di un giorno! - É pochino, Saltacavalla. - Maestà, son cresciuto di otto giorni. - É poco ancora, Saltacavalla! Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo. Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore. - Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla? - Quando non rido io, non deve ridere nessuno. - E perché tu non ridi più.* - Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia. - Bada a crescere ... Dopo ... Sono già cresciuto di due mesi! E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui. Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d'accordo, il giorno preciso delle nozze. - Non sposo più! - rispose il Re. - Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione! Non sposo più; prendetela come volete. Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito. - Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti! - Mandate un altro esercito incontro al nemico. Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito! Si presentò tutt'a un tratto Saltacavalla: - Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io! E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Saltava da un punto all'altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d'infilare nemici: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Il Re cominciò a ridere a ridere ... cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava: Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Tutt'a un tratto il Re disse: - Saltacavalla sia generalissimo. - Maestà! Maestà! Con l'esercito nemico non si scherza! Saltacavalla sia generalissimo! Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più. - Tanto meglio! -- pensarono. - É l'unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno! Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse: - Grazie, Maestà! E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse: - Mi si mandi subito il sarto di Corte! Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla ... - Sarà obbedito! - Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde. - Sarà obbedito! - Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d'oro dattorno. - Sarà obbedito! - Chiamatemi il calzolaio di Corte. Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch'esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera. - Sarà obbedito! - E che abbiano la punta aguzza, lunga così ... - Sarà obbedito! Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L'esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi. - Dove vai, Saltacavalla? - Maestà, vado in cucina. - Per far cosa, Saltacavaila? - Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada. - Come ti piace, Saltacavalla. E si mise a capo dell'esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo. Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati: - Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all'assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui. Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella tan! tan! - e i suoi soldati si precipitano all'assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Quando Saltacavaila diè i tre colpi: tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno. Ma essi erano l'avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell'esercito nemico che non s'aspettava di vedersi arrivare addosso l'avversario. Tan! E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Tan! tan! I soldati di Saltacavalla si precipitano all'assalto, e fanno un'altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Tan! tan! tan! Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n'ebbero la peggio. Quell'ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro. Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città. Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita! Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando. Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall'alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l'onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell'esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri. I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re. Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti! Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono. - Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri? - Ah! - fece Saltacavalla. - Poverini! Poverini! E finse di scoppiare in pianto dirotto. Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni: - Poverini! Poverini! - E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re. Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Saltacavalla fece un gesto di stizza. - Basta, se faccio ridere! ... Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada! - No, Saltacavalla! No! Ma il Re ebbe un bel gridare - No! No! - Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito. Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata. Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere. Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell'appartamento a pian terreno, loro assegnato: - Sapete niente di vostro figlio? Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro. - Maestà, perdono! ... - disse il marito. - Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l'erba su l'orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra! - Era involtato - soggiunse la moglie - in pannilini finissimi, orlati di trine. Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro. E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n'è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado! Stretta la foglia, larga la via, Dite la vostra, che ho detto la mia.

. - Abbiamo finito.un lavoro laggiù e siamo stanchi. Consentite, compare, che ci riposiamo un po' nella vostra grotta? - Volentieri ... Ma ... Grotta aperta, Non c'è letto né coperta. C'è soltanto un po' di strame, Ed un sasso per guanciale. - Ci accomoderemo alla meglio. Appena entrati nella grotta, invece di buttarsi a dormire, quei due cominciarono a dare, ora coi pali, ora coi picconi, alla parete di fondo, e in men di mezz'ora vi avevano già praticato una larga buca, da potervi passare la testa. - Che cosa vedi? - Buio pesto. - Lascia guardare a me. - Che cosa vedi? - Una luce, quasi cominci ad aggiornare. - Lascia guardare a me. - Che cosa vedi? - Meraviglie! Oro, diamanti, e altre pietre preziose! Si diedero accanitamente ad allargare la buca; e di tratto in tratto si fermavano per guardare, spalancando gli occhi. Ora, si vedeva a perdita d'occhio una fila di stanze illuminate da una luce più bella di quella del sole, e alle pareti, tal Splendore di riflessi d'oro, di diamanti, di altre pietre preziose di ogni colore, che la vista n'era abbagliata e non poteva tollerarlo. - Entriamo; entra tu il primo. - No, tu! Avevano paura. Entrarono insieme, tenendosi per mano come due bambini, per farsi coraggio. Passavano da maraviglia in maraviglia, stupiti. Poi uno disse: - Riempiamoci almeno le tasche! - Sì, riempiamoci le tasche! E quando se le furono riempite ben bene, prendendo a manate diamanti, rubini, topazi dai mucchi che ingombravano il suolo, si voltarono per tornare addietro. Ma allora quelle pietre preziose cominciarono a pesare, a pesare da impedir loro di muovere un passo. - Come facciamo? - Buttiamone via un po'! Mossero pochi altri passi, e il peso si aggravò di nuovo. - Buttiamone via un altro po'! Ma fatti pochi altri passi, daccapo! Quando furono vicini alla buca, nessuno dei due aveva la più piccola pietra preziosa. Stavano per uscir fuori; ed ecco agitarsi per aria due nodosi bastoni, mossi da mani invisibili, che cominciarono a picchiar sodo su le spalle, su le braccia, su le gambe dei malcapitati. - Ahi! Ahi! Aiuto! Aiuto! Scapparono fuori della grotta. - Che cosa è stato, compari? - Niente. Sognavamo che ci bastonassero. - Sognavate certamente. Potevano dire la verità? Intanto si tastavano braccia e spalle. - Perché ridete, compare? - Cacciatori, muratori: Eran dentro ed or son fuori. Li aveva riconosciuti! E andarono via mogi mogi. Allorché raccontarono quel che era accaduto, nessuno voleva crederli. Tutti ripetevano: - É pazzo! Dice che vincerà l'incanto l'uomo senza braccia! - É possibile? Dove si trova l'uomo senza braccia? - Bisogna cercarlo. E che cosa pensarono? Uno dei due doveva fare il sacrifizio di lasciarsi segare le braccia. Preso il tesoro, sarebbero diventati così ricchi, che colui che più non aveva braccia avrebbe potuto mantenere cento persone per vestirlo ed imboccarlo. E avuto in mano il tesoro, spartivano soltanto? - Chi farà il sacrificio, prenderà per due. Lo fai tu? - No, tu. - Tiriamo a sorte, a pari e dispari. Io dispari e tu pari. E buttarono le dita. - E se poi tu mi neghi la parte? Io non potrò farti niente - disse colui che doveva lasciarsi segare le braccia. - M'impreco da me: se manco alla parola, all'istante il tesoro mi si muti in gusci di chiocciola! Andarono da un chirurgo. - Voglio segate le braccia. - Siete matto! Vi danno forse fastidio? - Mi danno fastidio. - Coi matti non m'impiccio: rivolgetevi a un altro. Visto che nessun chirurgo voleva prestarsi a segar le braccia a un uomo sano, decisero di ricorrere ad una Strega, e andarono a trovarla, di sera. - Voglio segate le braccia. La Strega, senza rispondere una parola, gli fe' cenno di nudarsele, prese da un barattolo un unguento nero e puzzolente e gliele unse torno torno, nel punto in cui dovevano esser segate. E le carni cominciarono a bruciare, a fumigare. Colui gridava, si contorceva dall'atroce dolore. - Coraggio, amico! Coraggio! A quest'altro, intanto, brillavano gli occhi dalla gioia, vedendo compirsi il portento. Le braccia erano cascate per terra: i moncherini rimasti non fumigavano più. - E per merito vostro, nonna? - Mi bastano quelle braccia. Le raccolse da terra e le ripose in una cassetta. Era già notte quando essi uscirono dalla casa della Strega. Non bisognava farsi scorgere da nessuno. Se la gente arrivava a sapere dell'uomo senza braccia, gli sarebbe corsa dietro fino alla grotta in cima al monte dov'era nascosto il tesoro. Perciò non aspettarono che si facesse giorno per andare lassù. - Quanti legumi, compare! Quanti bei fiori! - I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista. - Perché non regalate mai un fiore? - Ogni fiore è una pietra preziosa che va aggiunta al mio tesoro. É nella grotta incantata. Per vincere l'incanto ci vuol l'uomo senza testa. - Come senza testa? Una volta dicevate: ci vuol l'uomo senza braccia. - Ho detto sempre senza testa. Avete sentito male. - Non ce n'importa. Siamo stanchi. Consentite che ci riposiamo nella vostra grotta? - Volentieri, compari ... Ma ... Grotta aperta, Non c'è letto né coperta. C'è soltanto un po' di strame Ed un sasso per guanciale. - Ci accomoderemo alla meglio. Ritrovarono, buttati in un canto, i pali e i picconi abbandonati là mesi addietro; ma della buca nessuna traccia. Esitavano, un po' scombussolati dalla risposta del vecchio. - Furbo il vecchiaccio! - esclamò colui con le braccia. - Ha detto a quel modo per impedirci di tentar di rompere l'incanto. E cominciò a dar colpi di palo alla porta nello stesso punto ove si era richiusa la buca. La parete non cedeva: sembrava di bronzo. Allora l'altro ebbe l'idea di appoggiarvisi con le spalle, e di far forza puntando i piedi al suolo. La parete crollò. Questa volta essi non ebbero più nessuna esitanza di entrare, né temerono di esser bastonati di nuovo all'uscita; l'incanto era stato rotto dall'uomo senza braccia. E corsero fino in fondo, dove l'altra volta non erano arrivati. Le pietre preziose erano tali e tante, che essi non sapevano decidersi da che parte rifarsi per riempirsi le tasche. - Questa! - No, quest'altra! - No, quella là! - Non dubitare. Ritorneremo domani, domani l'altro e altri giorni e mesi ancora. Ora i padroni siamo noi. Non c'è più incanto. - Ricorda il patto! Ricorda il patto! - Scelgo il meglio per te. Questo non era vero; le pietre più belle e più grosse se le metteva in tasca lui. Esse pesavano, ma non come l'altra volta, da impedir loro di muovere un passo. Sul punto di uscire dalla grotta, esitarono un po', ricordando le legnate di quel giorno; ma non vedendo balenare bastoni per aria, rientrarono nella grotta, e dietro le loro spalle la porta si richiuse tutt'a un tratto ruvida, quasi di bronzo, com'era prima. - Avete dormito bene, compari? - Come su un letto di rose. - Eh? Dunque per romper l'incanto ci vuole l'omo senza testa? - Chi l'ha detto? Avete sentito male. Senza gambe ci vuole! - Siete allegro, compare! Scendendo la strada del monte i due cominciarono a bisticciarsi. - Tu m'hai truffato! - Guarda: le tue tasche son più piene delle mie! - Rimettiamo tutto in comune, e dividiamo pietra per pietra. Due parti per me, una per te. Vuotate per terra le tasche, colui con le braccia si mise a contare rapidamente. - Dici uno ... dici due ... dici sei, diciassette, diciotto, diciannove e venti. É una tua parte. Dici uno, dici due ... e venti. É un'altra tua parte. Ma contando per sé contava esattamente: - Uno, due, tre ... - E così prendeva il doppio. Quando stese la mano per rimettere in tasca al compagno le pietre preziose; gettò un grido quasi gli si fosse rattrappita dallo spavento, vedendo mutarsi in gusci di chiocciole tutte le pietre preziose che aveva davanti. Allora l'omo senza braccia non ne volle più sapere di costui. Andò a trovare un suo parente e gli raccontò ogni cosa. - E tu hai veduto e toccato con mano le pietre preziose? - Sì, le ho vedute e le ho toccate la prima volta. - E poi sono diventate gusci di chiocciole? - Sì, poi son diventate gusci di chiocciole. - E ti sei fatto segare le braccia per guadagnare quel tesoro? - Per rompere l'incanto ci voleva l'uomo senza braccia. Non la finiva con le domande, tanto gli sembrava incredibile quel racconto. Tutte quelle pietre preziose fattegli riluccicare quasi sotto gli occhi accendevano intanto l'avidità di costui. - Tentare non nuoce. E accompagnò l'uomo senza braccia in cima al monte. - Dov'è la grotta? - Era qua; come mai non si trova? Gira, rigira, non vedevano altro che massi, piante selvatiche e massi ancora. - Dov'è la grotta? Te la sei sognata. - Eppure son certo che era qui, e vi abitava un vecchio contadino che coltivava legumi e fiori, e non regalava mai un fiore a nessuno, perché, diceva, ogni fiore è una pietra preziosa pel suo tesoro. E il poverino piangeva, pensando che si era fatto segare inutilmente le braccia. Per un pezzo nessuno del paese ebbe il capriccio di salire in cima al monte. C'era, non c'era più il vecchio? Lo avevano quasi dimenticato. E se qualcuno accennava al tesoro incantato nella grotta lassù, si sentiva rispondere: - E infatti lo presero, l'omo senza braccia e quei dai gusci di chiocciola! Quegli era morto di dolore da parecchi anni. E prima di lui era morto il suo compagno impazzito, che portava le tasche piene di gusci di chiocciole e voleva venderli per diamanti. Ma un giorno quel paese fu messo sossopra da un inatteso avvenimento. Andava attorno per le vie una povera donna, vestita a bruno, stracciata, magra scheletrita, con un bambino in collo, più magro e scheletrito di lei: - Fate la carità a questa infelice creaturina! É nata senza braccia! Fate la carità! Da principio nessuno le aveva badato, le davano una monetina, una fetta di pane, qualche frutta secca, e non volevano neppur guardare il bambino che era denudato fino alle spalle dove avrebbero dovuto essere attaccati i braccini e non si vedevano neppure i moncherini. Poi qualcuno disse, scherzando: - Ecco chi romperà l'incanto del tesoro lassù! Lo ripeté un altro, poi un altro. - E chi sa che non sia vero? Parecchi ebbero la curiosità di andare a vedere se il vecchio contadino viveva ancora. Lo trovarono che zappava il terreno, forte, robusto e allegro, quasi tanti anni non fossero passati su lui. - Quanti legumi! Quanti fiori! - I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista. - E il tesoro? - É incantato nella grotta. Per rompere l'incanto ci vuol l'omo senza braccia. - Un grande tesoro? - Il più grande che sia al mondo! La comitiva tornò in paese gongolante di gioia. Lungo la strada avevano ideato un progetto per arricchire tutti. Dovevano dare alloggio e vitto a quella poveretta col bambino monco di braccia: e appena quei due si fossero un po' rimessi in carne, accompagnarli lassù dal vecchio: - Ecco l'omo senza braccia! Quell'altro se le era fatte segare, ma era nato e cresciuto con le braccia. Questi no. Il tesoro era dunque destinato a lui. Ci voleva poco a capirlo. E fu una gara per alloggiare e nutrire mamma e figliuolo. Ad evitare insidie e rancori, essa andava ad abitare e desinare a turno da una casa all'altra. In meno di un mese, mamma e bambino non si riconoscevano più; lei pienotta, il bambino roseo, grassoccio, un amore. La poveretta, che ignorava il motivo di tanta carità, benediceva l'ora e il momento in cui aveva messo il piede in quel paese, e non sapeva spiegarsi perché ai suoi ringraziamenti tutti rispondessero: - Dobbiamo anzi ringraziarvi noi! Ognuno pensava alla parte del tesoro che gli sarebbe toccata; giacché ormai era stabilito tra tutti che il tesoro doveva venir diviso in parti uguali: la mamma e suo figlio prenderebbero per quattro, com'era giusto. Oh se avessero potuto far crescere il bambino a vista d'occhio! Invece, disgraziatamente, dovevano attendere che fosse diventato omo, come aveva detto il vecchio di lassù. E perciò tutto il paese viveva in continua trepidazione per la salute del bambino. Avrebbero voluto tenerlo tra la bambagia per non farlo sciupare. E se accadeva qualche piccola novità, la notizia passava di bocca in bocca: - Ha tossito! - Ha i dolorini! - Ha messo un dente! - Ha la rosolia! E, di mano in mano che veniva su, le trepidazioni aumentavano: - Non correre! - Non ti scalmanare! - Bada di non cadere! E se per caso inciampicava, tutti gli erano a torno: - Ti sei fatto male? - Dove ti duole? Peggio ancora quando fu divenuto un bel giovinotto. Ognuno si credeva in dovere di tenerlo d'occhio, di sorvegliarlo, di ammonirlo più che se fosse stato proprio figlio. Fortunatamente il giovane era buono d'indole, e non si spazientiva. Veniva trattato bene in ogni casa, vestito, ripulito a spese di tutti. E siccome sin dai primi anni si era visto trattar così, non si maravigliava di nulla, e non domandava neppure alla mamma perché ella e lui soltanto godessero in paese quella vita privilegiata. Con l'età intanto gli cresceva anche l'intelligenza, e il vedersi privo di braccia, tronco inutile per sé e per gli altri, lo rendeva così malinconico e taciturno da impensierire tutto il paese, che appunto dalla disgrazia di lui si attendeva di diventar ricco senza lavorare, per via del tesoro. In ogni casa, da mattina a sera, non si faceva altro che almanaccare quanto sarebbe toccato a ognuno. Ricchi e poveri, signori e contadini, vecchi, donne, fanciulli ... non ci doveva essere nessuna differenza; parti uguali, prelevate le doppie parti della mamma e del figlio. E se questi volesse di più, gli si darebbe senza fiatare. C'era una specie di congiura fra tutti gli abitanti per mantenere il segreto. Se la gente dei paesi vicini avesse trapelato qualcosa del tesoro incantato, avrebbe potuto accorrere, stabilirsi là ... Non era facile impedirlo; e allora, bisognava fare troppe parti; ché! ché! E parlavano del tesoro sotto voce anche tra loro. Vedendo divenire il giovinotto ogni giorno più triste, non sapevano che cosa inventare per svagarlo, per divertirlo. - Che vi manca, figliolo? - Niente! - O dunque? Non sorridete, non cantate più; eppure siete tanto ben voluto da tutti. - Il bene è un'altra cosa. Non mi lagno di loro. - Di che vi lagnate? - Della sorte. - Zitto! Non sapete quel che vi dite. Voi fate la vita di un Re; anche meglio di quella di un Re. C'è chi pensa ad alloggiarvi, a vestirvi, a imboccarvi ... Che cosa potreste desiderare di più? - Un paio di braccia! - Zitto! Non sapete quel che vi dite. Vi toccherebbe di lavorare come tutti noi, arrostirvi al sole, bagnarvi alla pioggia, e vi toccherebbe a patire qualche volta anche la fame! - Non m'importerebbe nulla, pur di avere le braccia! - Andiamo! É una fissazione. Mangiate, bevete, dormite e non pensate ad altro. Qualcuno soggiungeva: - Non so cosa pagherei per essere come voi! Quegli scoteva la testa, e si allontanava malinconico e taciturno. Parlava poco anche con sua madre; sembrava che gliene volesse perché lo aveva partorito senza braccia, quasi la colpa fosse stata di lei. E accadde quel che doveva accadere: si ammalò. Deperiva a vista d'occhio, con gran terrore di tutti. Gli mancavano ormai pochi mesi per compire i ventun anni per diventare omo, come aveva detto il vecchio e come ripeteva ogni volta che mandavano qualcuno ad interrogarlo. Il vecchio era sempre lassù, tra i suoi legumi e i suoi fiori, arzillo, allegro, quasi gli anni non avessero nessun potere su lui! - Per vincere l'incanto ci vuol l'omo senza braccia! E l'omo senza braccia minacciava di morire prima di arrivare ai ventun anni! Tutti i medici del paese gli stavano attorno. L'osservavano, lo palpavano, si consultavano tra loro. Chi ordinava una medicina, chi un'altra. Gli facevano prendere pillole, ingoiare intrugli di ogni sorta. E lui, pur sottomettendosi pazientemente ad eseguire quelle ordinazioni, ripeteva di tanto in tanto: - La vera medicina sarebbe un bel paio di braccia! - Zitto! Non sapete quel che vi dite! Il paese sembrava in lutto, più che se in ogni casa ci fosse un malato gravissimo. S'interrogavano desolatamente: - Come va? - Sempre peggio! - E che ne dicono i dottori? - I dottori, a quel che pare, ne sanno meno degli altri. - Che disgrazia se morisse prima del tempo! Che disgrazia! E quando fu notato un piccolo miglioramento, tutti sembravano quasi impazziti dalla gioia. - Una settimana ancora, e saremo ricchi più del Re! - Come va? - Meglio! Assai meglio! - Tre giorni ancora, e la nostra fortuna sarà fatta! La mattina in cui l'omo senza braccia compì finalmente ventun anni, la gioia di quella gente non ebbe più limiti. Spari, scampanii, canti, abbracci, baci. Tutti per le vie, e poi a processione dietro l'uscio della casa dove quel giorno mamma e figliolo erano ospitati. Quel povero diavolo era sbalordito; la sua mamma più di lui; non sapevano spiegarsi quel gran chiasso. - Al monte! Alla grotta! E si avviarono, portandolo sulle braccia, in trionfo. - Al monte! Alla grotta! I ragazzi, quantunque ignorassero che cosa si andasse a fare lassù, saltando, scapricciandosi in capriole, avanti; e dietro uomini, donne, anche coi bambini in braccio, vecchi, e questi apparivano più lesti degli altri, non ostante l'età; l'idea di esser ricchi tra pochi istanti avea lor rafforzato quelle gambe che ieri si reggevano male. Erano così impazienti di arrivare, che per poco non credevano a un malefizio per cui si allungasse la strada di mano in mano ch'essi avanzavano. E quando scòrsero il vecchio che zappava e non si voltava neppure, quasi fosse sordo e non udisse i loro gridi di gioia, si fermarono meravigliati di trovare soltanto piante di legumi e non un solo fiore. - Salute, compare! - Salute, signori miei. Allora soltanto egli seppe perché lo avevano ospitato, vestito, nutrito per tant'anni con tanta cura. Non era stata dunque carità, ma sordido interesse. Infatti gli dicevano: - Divideremo in parti uguali; tu e tua madre, però, prenderete ciascuno per due. - Chi fa i conti senza l'oste, Gli convien farli due volte. - Perché dite così, compare? - M'intendo da me. Si erano affollati davanti alla grotta; avrebbero voluto entrare tutti insieme. Ma il vecchio disse: - Prima deve entrare lui solo; altrimenti il fondo della grotta non si apre. E l'omo senza braccia fu lasciato inoltrare solo. Lo videro appoggiarsi con le spalle alla parete; videro farsi un grande spacco dietro, di lui, e uscirne tale Splendore da abbagliare gli occhi. Fu un istante; la parete si richiuse. L'omo senza braccia era sparito, e il vecchio insieme con esso. Trascorsero parecchie ore di ansiosa aspettazione. Tutta quella gente non rifiatava. Si guardavano negli occhi interrogandosi. La mamma dell'omo senza braccia pareva istupidita da quel che aveva udito e visto. Con gli sguardi fissi verso il fondo della grotta, ripeteva sottovoce: - Figliuolo mio! Figliuolo mio! Tutt'a un tratto, la parete cadde giù e la folla si precipitò dentro le grotte che si internavano nelle viscere del monte in lunghissima fila illuminate da debole luce. Dapprima a tutti era parso di non vederci bene per la mezza oscurità. Poi la delusione fu immensa; quelle pareti che dovevano essere incrostate di oro e di pietre preziose erano rozze, affumicate, coperte qua e là di un po' di muschio verde, giallo, rossiccio che non poteva illudere nessuno. - E l'omo senza braccia? - Sarà in fondo, in fondo. Il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso. Ma più andavano innanzi e più la delusione cresceva. Nella grotta in fondo, neppure quel po' di muschio alle pareti! Rozzi massi sporgenti, buche fonde, e suolo umido e scivoloso ... - E l'omo senza braccia? E le pietre preziose del tesoro? - Sarà laggiù in fondo; il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso. E allora, proprio di laggiù, in fondo in fondo, videro avanzarsi l'omo ... non più senza braccia. Ne aveva due e le agitava trionfalmente, folle di gioia, e le gettava al collo di sua madre, stringendosela forte al cuore. Eran proprio le braccia che la Strega aveva segato a quell'altro. - E il tesoro? Il tesoro? - É questo: due belle braccia per lavorare! Avrebbe voluto abbracciare gli altri, ma tutti gli voltarono le spalle. - Tante spese, tante cure ... Ed era finita così! Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta; Chi non la vuole me la riporti.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 23 occorrenze

Come abbiamo detto, i due drappelli procedevano in senso contrario, per prendere in mezzo gli avventurieri ed impedire loro la fuga. S'avanzavano però con grandi cautele, cogli archibugieri in testa e gli alabardieri in coda. Le due piccole colonne non tardarono ad unirsi ed una viva discussione parve impegnarsi fra i due comandanti, poiché il guascone che aveva l'udito finissimo udí non poche imprecazioni. - Mendoza, - disse. - Che cosa desiderate? - Accendetemi una torcia. Desidero che quella gente veda bene che io sono un fanalista. - E se qualcuno conoscesse il vecchio che abbiamo legato ed abbiamo imbavagliato. - Ah! ... Bah! ... Accendete e non occupatevi d'altro per ora. Risalí lentamente la gradinata, sempre colla pipa in bocca, e rientrò sotto la cupola, fingendo di occuparsi della lanterna. I soldati intanto avevano formato un vasto semi-cerchio, alternando su una sola fila archibugieri ed alabardieri e s'avanzavano verso la spiaggia, colla speranza di trovare i tre avventurieri occupati ad allestire la scialuppa. Delle grida di rabbia avvertirono il guascone che erano già giunti sulla spiaggia. - Devono essere furibondi, - mormorò Mendoza, il quale si era gettato a terra. - Si screditano, - rispose il guascone, ridendo. - Bestemmiano come pagani. - Ohé, fanalaio! Don Barrejo prese la torcia e comparve sul terrazzino, gridando con voce grossa: - Chi mi chiama? - Un capitano degli archibugieri. - In che cosa posso esservi utile? - Non hai veduti qui, poco fa, tre uomini? - Io no. - Hai sempre vigilato? - Non devo lasciar spegnere la lanterna. La mia guardia dura dodici ore. - Eppure qui devono essere giunti con una scialuppa. - Vi ripeto, signor capitano, che io non ho veduto né uomini né imbarcazioni. Di quassú li avrei veduti, poiché il faro è alto ventidue metri. - Sei solo? - Affatto solo. Non verrò rilevato che domani mattina alle otto. Il capitano lanciò un sonoro caramba, poi, volgendosi verso i suoi uomini, disse: - Siamo stati giuocati. Quei furfanti si sono accorti che vi era qualche cosa in aria e si saranno imbarcati in altro luogo. Il nostro dovere l'abbiamo compiuto. Buona sera, fanalista e buona guardia. - Buona notte, signor capitano e buona fortuna. I due drappelli si riordinarono formando una sola colonna e si allontanarono attraverso le dune, avviandosi verso Panama. - Avete veduto che bel giuoco, Mendoza? - disse il guascone, rientrando sul terrazzino della lanterna. - Sono piú astuti al di qua o al di là del mar di Biscaglia? - Voi avete fatto qualche patto col diavolo, - rispose il basco, ridendo. - Andiamo a trovare il conte e fuggiamo prima che qualche dubbio sorga nel cervello di quel capitano. Non si sa mai quello che può succedere. - Il signor di Ventimiglia sarà un po' debole. - Don Ercole è robusto come l'Ercole dell'antichità e, se sarà necessario, lo porterà. Scesero nella cameretta, dove trovarono il conte il quale stava discorrendo tranquillamente col vero fanalista, avendogli fatto togliere il bavaglio. - Signore, - gli disse il guascone, - quando vorrete, potremo riprendere la nostra marcia. I briganti che vi hanno assaltato e ferito si sono allontanati. - Potete reggervi, signore? - chiese Mendoza. - Mi basterà un braccio per appoggiarmi, - rispose il conte. - Allora sarà meglio che affrettiamo la nostra partenza, - disse il guascone, il quale si era già spogliato della divisa bigia dei fanalisti. - Sono pronto. - Toh! ... Ora che ci penso, questo sorvegliante deve ben possedere qualche scialuppa, è vero, brav'uomo? - Sí, - rispose il fanalista, - però non è mia. Appartiene alla capitaneria. - Direte che il mare l'ha portata via ed intascherete un altro gruzzolo di piastre. Potremo cosí rientrare in Panama senza incontrare i briganti che volevano depredarci. Quanto volete per cedercela? - Vi faccio osservare che in questi giorni il mare è sempre stato tranquillissimo. - Direte ai vostri superiori che faceva acqua e che è andata a fondo, - ribatté il guascone. - Sapete che sono abituato a offrire o piombo o argento. - Lo so purtroppo. - E vi lagnate? - Avrò dei fastidi. - Vi offro venti piastre per la scialuppa. È un semplice canotto. Oh! ... Noi siamo generosi e poi cosí correremo piú presto. Poi, mentre contava le piastre, mormorò fra sé: - Già sono denari dell'illustrissimo don Juan de Sasebo, Consigliere dell'Udienza Reale di Panama. Quand'ebbe finito di contare e molto scrupolosamente, poiché, in fondo, il guascone era sempre avaro come tutti i suoi compatriotti, disse: - Ed ora, signor fanalaio, guidateci. Tutti e cinque lasciarono il faro e si diressero verso un'alta scogliera, la quale serviva a proteggere la costruzione contro l'impeto delle onde. Appeso a due paranchi installati su una roccia al disotto di due fortissime grue di ferro, stava un canotto, sufficiente a contenere sei o sette uomini e già fornito di remi e d'un piccolo albero con una vela triangolare. Il fanalaio, che sembrava molto soddisfatto della generosità di quei misteriosi personaggi, aiutato da don Ercole, lo calò in mare. L'acqua, dietro alla scogliera, era tranquillissima, quindi l'imbarco fu assai facile. Essendo il vento propizio, Mendoza issò l'alberetto e spiegò la vela, mentre il conte si sedeva a poppa prendendo la barra del timone. - Addio, fanalaio! - gridò il guascone, prendendo un remo. Colle nostre piastre comperati un barilotto d'aguardiente. Fa bene ai vecchi, te lo assicuro io. Il canotto prese subito la corsa, mentre il sorvegliante del faro si levava il berrettone di tela cerata, gridando: - Buon viaggio, miei signori! Il Pacifico, quella notte almeno, era tranquillo. Solamente la risacca muggiva e rimuggiva cupamente intorno alla scogliera e contro le dune di sabbia, accartocciandosi curiosamente. Mendoza si era messo a guardia della vela, don Ercole ed il guascone a prora. La brezza essendo un po' fresca spingeva celermente il canotto, il quale seguiva la spiaggia alla distanza d'un centinaio di metri, puntando verso la bocca del porto. Il sole cominciava a mostrarsi, quando i quattro corsari doppiarono la lanterna della casa blanca. Panama, l'opulenta città dell'Oceano Pacifico, l'emporio di tutte le ricchezze del Messico, del Peril e del Chili, si presentava dinanzi ai loro sguardi. Potevano entrare liberamente nella baia, senza correre pericolo alcuno, poiché le caravelle spagnuole non sorvegliavano la bocca che dopo il tramonto dell'astro diurno fino all'alba, per impedire una sorpresa notturna da parte dei filibustieri di Taroga. Spinsero quindi il canotto sulle tranquille acque della baia, filando fra un gran numero di navi e presero terra verso l'estremità meridionale delle calate. - Che cosa ne faremo ora di questa piccola scialuppa? - chiese il guascone, balzando a terra. - Volete portarla alla fonda della bella sivigliana? - chiese Mendoza. Se ciò vi può far piacere, caricatevela sulle spalle. - Costa venti piastre. - Avaraccio! - Non sarei un guascone. Prendetevela dunque. - Se don Ercole se la mettesse in testa. - Un cappello troppo brutto, - rispose il fiammingo. - La lascio a voi. Non potendo portarsela con loro, senza attirare l'attenzione dei numerosi mercatanti e facchini che ingombravano le calate, l'abbandonarono. Mendoza offrí al conte il suo braccio ed i quattro corsari s'avviarono verso la fonda della bella castigliana, procedendo lentamente e chiacchierando fra di loro come ricchi sfaccendati. Mezz'ora dopo giungevano dinanzi all'albergo, il quale in quel momento era affatto vuoto. Panchita, la graziosa vedova, stava risciacquando bicchieri e bottiglie. Vedendo comparire il conte ed i suoi compagni, per poco non lasciò cadere a terra il vassoio pieno di tazze che stava per deporre su un tavolo. - Voi, signor conte! - esclamò. - Non gridate cosí, Panchita, - disse Mendoza. - Volete perderci? - Siamo soli. - Non sono piú tornate le guardie del porto? - disse il corsaro. - Non le ho piú vedute, signor conte, dopo quella sera. Nessuna persona sospetta è venuta a ronzare in questi dintorni? - Non sono entrati qui che i soliti bevitori, - rispose la bella sivigliana. - Señora, - disse il guascone, - vorreste allora favorirci una buona colazione nella stanza superiore? Soprattutto badate che ci siano delle buone bottiglie. - Vi offrirò il meglio che possiedo. Voi siete signori per bene e generosi. - Se qualcuno verrà per spiare, ci avvertirete. - Non dubitate. Salirono nello stanzone che serviva da dormitorio e, mentre Mendoza rinnovava la fasciatura al conte, il guascone e don Ercole allestirono la tavola, avendo prima fatta provvista di piatti e di salviette per non affaticare troppo la bella vedova. Diamine! ... Era sempre galante don Barrejo, signore di Lussac! La taverniera non tardò a giungere, portando sulle robuste braccia dei canestri pieni di vivande e soprattutto di bottiglie scelte fra le migliori che aveva in cantina, non ignorando che Mendoza ed il guascone davano loro la preferenza. - Questa sivigliana è veramente una taverniera modello! - esclamò don Barrejo. - In poche ore che siamo stati qui ha indovinato i nostri gusti, è vero, basco? Questa fonda fra qualche anno farà la fortuna di questa señora. - Oh! ... Chiamatemi semplicemente Panchita, signore, - rispose la vedova. - Mai, señora: io sono un gentiluomo e per me la donna, qualunque sia, è sempre una dama. - Don Barrejo sareste per caso innamorato di questa bella castigliana? - chiese Mendoza, scherzando. - Sí, delle sue bottiglie, - rispose gravemente il guascone. Il conte diede il segnale dell'attacco della colazione, avendo estremo bisogno di rinforzarsi, in vista di possibili gravi avvenimenti. - Ora, signor di Ventimiglia, - disse il guascone quando fu ben pieno e che ebbe sturata una bottiglia di Bordeaux, chissà per quale caso scoperta nella cantina del defunto taverniere, - parliamo seriamente dei nostri affari. Quando io mangio e bevo, mi si aguzza straordinariamente la fantasia e le idee piú meravigliose vi spuntano come i funghi. - Speriamo che sia spuntato un fungo molto grosso, - rispose il conte, il quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia, aveva fatto onore al pasto. Questo dipende da voi, signor conte - rispose il guascone, dopo d'aver tracannato d'un fiato un bicchiere di eccellente vino francese. - Vorrei prima di tutto chiedervi se sarebbe meglio catturare il marchese di Montelimar, o don Juan de Sasebo o qualcuno dei loro servi. Sorprendere quei due cani grossi, mi pare che sarebbe una impresa un po' difficile, abitando costoro nel centro della città. E cosí? - chiese il signor di Ventimiglia. Se io e don Ercole vi portassimo invece un servo di quei messeri? Quella gente là hanno sempre un mayoral, ossia una specie di maggiordomo che conosce quasi sempre i segreti del padrone. La faccenda sarebbe piú facile, mi pare. - Lascio a voi intera libertà d'agire, - rispose il signor di Ventimiglia. - Mi avete ormai dato troppe prove di essere un furbo matricolato, capace anche di far prigioniero il Viceré di Panama. - Se potessi sorprenderlo e condurlo a Taroga, sareste sicuro di avere vostra sorella prima di quarantotto ore, - rispose il guascone. - Sarà per un'altra volta. Don Ercole, volete accompagnarmi? - Sono sempre a vostra disposizione, - rispose il fiammingo, il quale beveva come un otre. - Voi, Mendoza, rimarrete qui a tener compagnia al signor conte. Se tardiamo, non preoccupatevi. Il vostro affare non sarà facile, tuttavia io non dispero di riuscire nel mio intento. Una zucca guascone vale sempre qualche cosa di piú delle altre, almeno cosí dice un nostro vecchio proverbio. Vuotò un altro bicchiere, poi, dopo d'aver salutato il signor di Ventimiglia il quale, aiutato da Mendoza stava per coricarsi su uno dei sette letti che ingombravano lo stanzone, usci insieme a don Ercole che sbuffava come una foca. La bella Castigliana stava mettendo ancora in ordine la taverna. - Señora, - disse il guascone, arricciandosi i baffi. - Io spero di ritrovare questa sera un'altra bottiglia di quel famoso Bordeaux. Non sarà stata l'ultima della vostra cantina. - Ne cercherò qualche altra, caballero, - rispose la bella vedova, mostrando i suoi candidi dentini. - Conto su di voi o meglio su la vostra cantina. Si levò con molto sussiego il feltro piumato, come se si trovasse dinanzi ad una grande dama, le mandò sulla punta delle dita un bacio e se ne andò, seguito dal silenzioso fiammingo. - Amico, - disse il guascone, - andiamo a fare una passeggiata nella calle d'Aramejo. Io non so veramente dove si trovi, però sono sicuro di scovarla. Deve passare dietro il palazzo di quel briccone di Consigliere. Sulla piazza maggiore potremmo incontrare o don Juan de Satsebo od il marchese e allora che brutta frittata! Prendiamo le retrovie. - Che cosa volete fare, insomma? - Portare via almeno qualche servo del marchese. - In pieno giorno? Il guascone si fermò, guardando con un certo stupore don Ercole. - Tonnerre! ... - esclamò. - I fiamminghi avrebbero per caso il cervello un po' ottuso? Noi guasconi l'abbiamo sempre avuto limpidissimo. - Voi parlate oscuro. - Forse avete ragione, don Ercole, piú tardi mi spiegherò meglio. Accesero ognuno un grosso sigaro, fornito loro dalla bella Castigliana e continuarono il cammino, chiedendo di quando in quando ai passanti dove si trovava la via dell'Aramejo. I ventiquattro campanili della città suonavano mezzogiorno, quando finalmente giunsero dietro il palazzo di Don Juan de Sasebo. Si calarono per precauzione i feltri piumati sul viso e si avvicinarono alla piccola porta, presso la quale passeggiava gravemente un giovane meticcio armato d'alabarda. - Ecco il mio uomo, - disse il guascone, - Preferisco un mezzo bianco ad un negro completo. Sono piú intelligenti e meno furbi di quei selvaggi figli dell'Africa. Don Ercole, aspettatemi qui e continuate pure a fumare. Quest'affare lo sbrigherò io solo. Mosse risolutamente verso il meticcio e, dopo di essersi levato il cappello, gli disse con voce quasi piagnucolosa. - L'illustrissimo signor Consigliere don Juan de Sasebo si troverebbe per caso nella sua abitazione? Il meticcio si fermò bruscamente, squadrò superbamente il guascone, poi, dopo d'aver appoggiata la pesante alabarda contro lo stipite della porta e di essersi messe le mani sui fianchi, chiese superbamente: - Chi siete voi? - Un povero avventuriero, che giunge dal Messico, povero, per modo di dire poiché tengo nelle mie tasche un centinaio e piú di piastre che potrebbero passare nelle vostre. Il meticcio, udendo parlare di piastre, che poteva guadagnare e forse senza fatica, diventò un po' meno superbo. - Che cosa vorreste voi dal mio illustrissimo padrone Consigliere dell'Udienza Reale di Panama? - Desidererei consegnargli una supplica perché mi venga resa giustizia. Vengo dal Messico appositamente e sono pronto a rimettere i miei ultimi risparmi a chi mi aiuterà in questa faccenda. - Non mi avete detto di che cosa si tratta. - Ah! ... La istoria è lunga da narrarsi e non potrei farvela conoscere qui, in mezzo alla via. Se vorreste seguirmi all'albergo dove io abito, potremmo bere delle eccellenti bottiglie. Il meticcio. che già vedeva risplendere dinanzi ai suoi occhi un bel numero di piastre, chiamò il negro che fumava sul primo gradino della scalinata e gli consegnò l'alabarda, dicendogli: - Prendi il mio posto e questa sera ti pagherò un fiasco d'aguardiente. Devo accompagnare questi signori. Poi, volgendosi verso il guascone ed il fiammingo, aggiunse: Sono ai vostri ordini. Venite e passeremo una allegra mezza giornata, - rispose don Barrejo. Si misero in cammino lungo la strada. Il guascone guardava attentamente a destra ed a sinistra cercando una taverna qualunque, non volendo, per precauzione, condurre il meticcio nella posada della bella Castigliana. Dopo aver percorso parecchie vie, scoprí finalmente una fonda, una specie di osteria, frequentata per lo più da persone equivoche e che non aveva certamente un bell'aspetto. - Eccoci sul posto, - disse il guascone. - Qui si beve bene e veri vini di Spagna. Entrarono, sbatacchiando l'uscio, come persone alle quali è permessa un po' di confidenza e si assisero ad una tavola situata nell'angolo piú oscuro dello stanzone. L'oste, un pezzo d'uomo assai bruno e molto barbuto, fu pronto ad accorrere alla strepitosa chiamata del guascone. - Che cosa desiderate, caballeros? - chiese. - Quattro bottiglie del migliore che tenete nella vostra cantina, disse don Barrejo. - Badate che se non è vino di Spagna o di Francia io vi taglierò gli orecchi. L'oste, abituato già alle gradassate degli avventurieri che piovevano numerosi in Panama, dal Messico e dal Perú, scappò via ridendo e ritornò poco dopo colle bottiglie che, dalla polvere che le copriva e dalle ragnatele, sembravano venerande. - Vi chiamate? - chiese il guascone, volgendosi verso il meticcio. - Alonzo. - Ebbene, mio caro Alonzo, bevete liberamente, perché pago io. Poi verranno le piastre. - Siete generoso, - rispose il meticcio; - piú generoso del mio padrone. Empirono le tazze e le vuotarono d'un colpo e continuarono cosí finché due bottiglie furono asciutte. - Ora che abbiamo un po' riscaldata la lingua, parliamo, - disse il guascone, il quale pareva che avesse mandato giú tanta acqua, mentre il povero meticcio, non abituato certo a bere del vino cosí generoso, cominciava a sentirsi girare la testa., Dovete sapere dunque, mio caro Alonzo, permettetemi di chiamarvi cosí ... - Fate pure, - rispose il meticcio, il quale si era addossato al muro, non bastandogli piú lo sgabello. - Dunque dicevo, - riprese il guascone, sturando una terza bottiglia, - che io ho combattuto molto nel Messico contro gl'indiani ribelli. Credo di averne ammazzati per lo meno cinque o seicento e di aver abbruciati almeno una sessantina di cacichi pagani. - Un terribile guerriero, ve lo dico io, - disse il fiammingo, il quale tratteneva a stento le risa. - Misericordia! - esclamò il meticcio, spaventato. - Silenzio e lasciatemi parlare, mio caro don Alonzo. Il viceré del Messico mi aveva promesso, per compiere tali eroiche imprese, la bagatella di mille e cinquecento dobloni. Orbene, quel furfante invece di pagarmi mi mise in prigione e poi mi espulse dal Messico. - Mal fatto, - rispose il meticcio. - E come, anche! ... Capirete, mio povero amico, che io non voglio perdere i miei dobloni e perciò sono venuto a Panama affinché mi sia resa giustizia. - E fate bene. - Quindi ho scritta una supplica per presentarla all'illustrissimo Consigliere don Juan de Sasebo, vostro padrone, perché la consegni al Presidente dell'Udienza Reale. - M'incarico io, - rispose il meticcio. - Volete darmela? - Non abbiate tanta fretta, amico. Abbiamo ancora da bere, tonnerre! ... Ah! ... È vero che il vostro padrone ospita il marchese di Montelimar? - Sí, signore. Lo conoscete voi? - Abbiamo bevuto parecchie volte insieme, al Messico e abbiamo anzi divorati parecchi pranzi in allegra compagnia. - Che brav'uomo quel marchese! ... - Io lo stimo il primo soldato dell'America centrale. - Lo dicono tutti, - rispose il meticcio, vuotando un altro bicchiere che il fiammingo gli porgeva. - Eppure mi avevano detto che era stato fatto prigioniero dai filibustieri del Pacifico. - È vero, però è riuscito a scappare. - Ah! ... Ditemi un po', mio caro amico, sapete che il marchese abbia una figlia? Al Messico si diceva che si fosse sposato segretamente con una principessa, però a me non volle mai confessarlo. - Sicuro che l'ha. - Bella? - Bellissima. - E dove l'ha nascosta: che io non l'ho mai veduta? - Ultimamente l'aveva affidata al mio padrone. - E l'ha ancora? - No, signore, l'ha mandata a Guayaquil, perché erasi sparsa la voce che un famoso corsaro voleva rapirgliela. - Non era sicura in Panama? - Si diceva che i filibustieri si preparavano a tentare un colpo di mano sulla città e, per precauzione, il mio padrone l'ha fatta partire. Anzi io facevo parte della scorta. - Fortezza salda, Guayaquil? - Fortissima, - rispose il meticcio. - Un altro bicchiere, ancora. Voi siete un pessimo bevitore. Ehi, oste dannato, porta delle altre bottiglie ed un canestro di pesci salati. Abbiamo fame e anche molta sete, è vero don Alonzo? Il disgraziato meticcio non si sentí in caso di rispondere. Sempre addossato alla parete, guardava il guascone con due occhi che non avevano piú alcuna espressione. - È finito, - sussurrò don Ercole al guascone. - Pare anche a me. - E la supplica? Aspetta che chiuda gli occhi. Per ora so quanto desideravo. Il trattore aveva portato i pesci salati ed altre bottiglie. Il meticcio ne mangiò qualcuno, bevette un altro bicchiere, poi si abbandonò contro la parete, russando quasi subito. Il guascone ed il fiammingo terminarono tranquillamente la loro seconda colazione, vuotarono coscienziosamente le altre bottiglie, e, dopo d'aver pagato lo scotto, se ne andarono non senza aver raccomandato all'oste di lasciar digerire il vino al povero meticcio, senza disturbarlo. La digestione fu piuttosto lunga, poiché non fu che verso le otto della sera che il servo di don Juan de Sasebo aprí gli occhi. Si guardò intorno, stupito di trovarsi solo. - Ehi, taverniere! - gridò. - Dove sono andati quei signori che mi tenevano compagnia? - Se ne sono andati cinque o sei ore fa, - rispose l'omaccione. - Senza lasciarvi alcuna carta? - No. - Ed un gruzzolo di piastre da consegnare a me? - Hanno pagato il conto e nient'altro. Quantunque avesse il cervello ancora un po' annebbiato pel troppo vino ingollato, il disgraziato ebbe un lampo di lucidità. - Che cosa ho fatto io, sciagurato! - esclamò. - Quei due individui erano certamente due nemici del mio padrone e mi hanno condotto qui per farmi cantare su cose che forse li interessavano ed io, stupido, sono caduto nella trappola. Correrò a narrare tutto al mio padrone. Mi ricordo ancora quello che mi hanno domandato, malgrado il gran vino bevuto. Furfanti! ... M'avete derubato delle piastre, ma io ve le farò pagare. Uscí dalla fonda come un pazzo e dieci minuti dopo don Juan de Sasebo che stava nel suo gabinetto, conosceva quanto era accaduto al disgraziato. Il marchese di Montelimar era presente alla narrazione. - Tu sei un miserabile! - urlò il Consigliere, quando il meticcio ebbe finito di raccontare la sua gita alla fonda. - Tu meriteresti di morire sotto la frusta, canaglia! ... - Ammazzatemi pure, - rispose il servo, il quale si strappava a ciocche a ciocche i suoi capelli lanuti. - Sí, sono stato un miserabile. - Un asino! ... Un bue! ... - Sí, un bue, padrone. - Quest'uomo ci ha traditi, - disse il Consigliere, volgendosi verso il marchese di Montelimar il quale fumava flemmaticamente un grosso sigaro, sdraiato su una soffice poltrona coperta di pelle rossa di Cordova con grosse bordure dorate. - Adagio, amico, - rispose l'ex-governatore di Maracaibo. Questa avventura potrebbe invece portarci fortuna. - Tu lo credi? - Udiamo un po', Alonzo, - riprese il marchese, senza rispondere al Consigliere. - Uno di quei due uomini era alto, magro, assai bruno, con due baffi neri, assai rialzati e due occhi piccoli e scintillanti? - Sí, Eccellenza. - E portava alla cintura, invece d'una spada, una draghinassa, vero? - Verissimo, Eccellenza. - Lo conosci tu? - chiese il Consigliere. - È il braccio destro del conte di Ventimiglia, - rispose il marchese. - Sono ben audaci quei furfanti! D'altronde nulla è perduto, anzi io credo che questa avventura ci gioverà. Giacché quell'imbecille di Valiente con tutte le sue spacconate si è fatto stupidamente ammazzare, noi organizzeremo una vera caccia al conte. È piú facile coglierlo in aperta campagna che in Panama, dove può trovare mille rifugi. Metti a mia disposizione cinquanta cavalieri scelti e vedrai che io coglierò quei corsari, prima che v edano le mura di Guayaquil. - Anche cento, se ne vuoi. - Non troppi: pochi ma coraggiosi, e poi i filibustieri non sono che in quattro, e per quanto valenti, non potranno tenere testa ad un mezzo squadrone ben montato e bene armato. - Chi guiderà la spedizione? - Io, - rispose il marchese. - Voglio finirla una buona volta con quel conte, il quale turba continuamente i miei sonni. Se non è il diavolo in persona, non mi sfuggirà. - Credi tu che siano già sulla strada di Guayaquil? - Ne sono certissimo. - Quando conti di partire? - Prima della mezzanotte. Manda i tuoi scudieri a reclutare gli uomini che mi sono necessari e bada soprattutto che i cavalli siano ben riposati e di prima qualità. - Fra un'ora il mezzo squadrone sarà dinanzi alla porta del mio palazzo, - rispose il Consigliere alzandosi.

Quei filibustieri, come abbiamo detto, erano inglesi, danesi, francesi e non mancavano avventurieri di Genova e di Venezia fra di loro. I primi montavano nove legni, i francesi e gli altri uno solo, ed erano sotto la direzione d'un famoso corsaro inglese chiamato Davis. Quando leggiamo nelle storie dei navigatori del 1700, Cook, Bougainville, La Perouse, Krusenster e tanti altri, e le grandi difficoltà che essi incontrarono veleggiando dall'Atlantico al Pacifico, non si può che rimanere meravigliati al piú alto grado dell'audacia di quei corsari che, con scarsissime nozioni geografiche, con pochi mezzi, con legni semiguasti, coi quali prudentemente oggidí un marinaio anche valente non ardirebbe tentare un tragitto di duecento leghe, poterono effettuare il loro disegno di g irare il capo Horn per penetrare nel Pacifico. Eppure è storia vera: dopo immense tribulazioni, dopo tempeste spaventevoli, nel Marzo del 1685 quella piccola squadra girava la Terra del Fuoco e metteva arditamente le prore verso le coste del Perú, bramosa di abbordaggi e di prede spagnuole. Il primo incontro fatto da quei mille e cento uomini, i quali montavano due fregate, una da trentasei cannoni e l'altra da sedici, cinque legni minori senza grossa artiglieria e tre miserabili barcaccie, fu un veliero spagnuolo, che tosto predarono. Avendo inteso dal prigionieri caduti nelle loro mani come tutti i legni mercantili avessero ricevuto l'ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa, fino a tanto che una squadra non avesse purgato l'Oceano dai filibustieri, il cui disegno di portarsi nelle acque occidentali dell'America era ormai già trapelato, Davis guidò la sua flotta verso il settentrione, facendo di quando in quando delle prede. Fu uno sgomento generale fra tutti gli spagnuoli dell'America centrale, quando videro la flotta corsara apparire improvvisamente, in vista di Panama, ormai risorta piú fiorente dopo la distruzione compiuta da Morgan. La comparsa di quei terribili uomini aveva subito svegliata la memoria dei disastri in addietro sofferti da simili ladroni e Davis perciò non osò dare l'attacco alla città e andò a gettare le sue âncore all'isola di Taroga, dopo d'aver incrociato per ben quattro settimane dinanzi alla baia, in attesa che dei legni uscissero. Il viceré, chiesti aiuti al Perú ed al Messico, forma una squadra e la manda verso l'isola per sterminare quei pericolosi ladroni. Si componeva di sette navi da guerra, due delle quali contavano settanta cannoni ciascuna. Il mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra gli uni e gli altri. Per di piú i filibustieri non conoscevano i fondi e non avevano artiglierie sufficienti per far fronte a quelle degli spagnuoli che erano potentissime. Non potevano quindi questi ultimi non lusingarsi di ridurre al niente, in una sola giornata, quella temuta ciurmaglia. Già avevano circondata una delle due fregate e l'opprimevano con un fuoco terribile, quando gli altri legni corsari che si trovavano al largo e che avrebbero potuto facilmente evitare di venire alle prese, voltano le prore e corrono in aiuto della loro compagna. Il pericolo parve avesse dato ai filibustieri di Davis una forza piú che umana. Investono con impeto le fregate ed i galeoni spagnuoli e, quantunque per la troppa superiorità delle forze nemiche, non potessero in quel conflitto accanito e sanguinosissimo ottenere la vittoria, la disputarono cosí accanitamente che per il valore meritarono giustamente la palma. Quello che piú stupisce è che in tale combattimento non perdettero che una sola barcaccia di prigionieri spagnuoli. Quella barca era stata cosí crivellata dalle palle spagnuole che, trovandosi i filibustieri sul punto di annegarsi, l'avevano abbandonata coi prigionieri che conteneva. Questi ultimi, vedendosi cosí liberi, non avevano indugiato a prendere i remi per farsi raccogliere dai loro compatriotti. L'ammiraglio spagnuolo invece, avendola presa per un brulotto nemico, mosse ad incontrarla sul vascello e vi fece far fuoco sopra piú presto che poté, affondandola; e cosí fu, senza saperlo, lo sterminatore di quei disgraziati. Essendo, durante il combattimento, aumentata la furia del vento e delle onde, la flottiglia dei filibustieri fu in breve dispersa. Parecchi legni scomparvero dopo quella fatale giornata, né si ebbe di loro piú alcuna nuova. Gli altri, riunitisi finalmente, si rifugiarono all'isola di S. Giovanni, lontana solamente cinque leghe dal continente. Ma la discordia, dopo quel disastro, non tardò a nascere specialmente fra inglesi e francesi, essendo i primi protestanti ed i secondi cattolici. Sembrerà strano, eppure quei ladroni di mare ci tenevano alle loro religioni, singolarmente poi gl'inglesi in quei tempi del furore delle sette che tenevano il loro paese diviso. Essi mal soffrivano i loro camerati quando li vedevano salvare, nei saccheggi, i simboli della chiesa romana. Centotrenta francesi si stabiliscono sull'isola di S. Giovanni, ingrossati con altri duecento, che aveva condotto un capitano chiamato Grogner, il quale aveva pure girato il capo Horn; gl'inglesi invece riprendono la via dello stretto per far ritorno al golfo del Messico. Erano pochi eppure risoluti e quanto mai audaci. Dall'isola lanciano le loro navi in tutte le direzioni, prendendo quanti velieri incontrano, poi portano la guerra sull'istmo. Prendono d'assalto la piccola città di Leon e di Esparso e abbruciano Ralejo, spargendo ovunque un terrore immenso. Siccome ladroni di tale specie non se ne erano mai veduti in quei paraggi, gli abitanti fuggono dovunque spaventati, credendoli in buona fede demoni in carne umana. Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

- Non abbiamo che da seguire la riva del Chagres. Tutte le precauzioni sono state prese per raggiungerlo. - Sono impaziente di vedere il figlio del famoso Corsaro Rosso. Ho udito parlare anch'io moltissimo dei tre fratelli filibustieri. - Bastano le chiacchiere, - disse il guascone. - In marcia, amici. Mi hanno detto che le foreste del Chagres sono popolate di brutte bestie ed io colle bestie non ho mai desiderato di aver da fare. Ho sempre preferito gli uomini, perché almeno non saltano come gatti rabbiosi. Si erano messi in cammino, seguendo a breve distanza la riva del fiume. Mille strani rumori s'alzavano sotto la tenebrosa foresta. Muggivano i pipa, quegli enormi e schifosi rospi, che hanno il dorso tutto bucato per nascondervi i loro piccini, e le parranua; fischiavano acutamente i grossi batraci nascosti fra le alte erbe del fiume e strepitavano i caimani. Il basco, pratico dei luoghi, poiché aveva seguito Morgan a Panama, si era messo alla testa del minuscolo drappello, tenendo la spada in mano. Il guascone lo seguiva colla sua draghinassa ed il fiammingo colla sua pistola, non avendo armi da taglio. Tutti tre cercavano di non far rumore, non già perché temessero di venire raggiunti dagli spagnuoli, bensí per non attirare l'attenzione delle bestie feroci che potevano aggirarsi per la foresta. In quell'epoca i giaguari ed i coguari erano ancora numerosissimi sull'istmo e non esitavano a gettarsi ferocemente sulle persone che osavano attraversare le foreste da loro abitate. Marciavano da un paio d'ore, sempre seguendo il Chagres le cui acque, ostacolate dal letto roccioso, muggivano cupamente, quando Mendoza si fermò bruscamente, stendendo la spada in linea ed impugnando la pistola carica. - Ancora gl'indiani? - chiese il guascone, alzando la sua draghinassa. - Non ho mai veduto un indiano cogli occhi fosforescenti - rispose il basco. - Allora sarà un gatto rabbioso. - Purché non sia un gattone terribile. Signor fiammingo, toglietevi dalla cintura la navaja e preparatevi a servirvene. Se non sarà una spada, potrà egualmente tagliare. - Che brutti occhi! - disse il guascone. - È un gatto quello. - Io credo invece che sia un giaguaro affamato. - Non so che cosa sia un giaguaro affamato perché in Guascogna non ho veduto altro che dei gatti e dei lupi. In mezzo alle fitte tenebre accumulate sotto le immense foglie delle palme tacarà, si vedevano scintillare due punti luminosi, i quali avevano degli strani bagliori verdi-giallastri. Doveva essere qualche giaguaro o qualche coguaro, il leone americano, in attesa della preda. - E dunque, signor Mendoza? - chiese il guascone, vedendo che il basco non si decideva a riprendere le mosse. - Sarebbe ridicolo che un gattaccio, sia pur grosso come un toro, tenga in iscacco tre spadaccini famosi. - Non vedete che ci chiude il passo, don Barrejo? - rispose Mendoza. - Dategli un calcio. I gatti guasconi, quando vedono una gamba alzata, scappano sempre. - Subito, purché mi si dia una pistola carica, essendo le mie vuote. Che diamine! ... Una bestia non può fermare tre uomini come noi. - Prendete dunque, - rispose il basco, porgendogli l'arma. - Badate però che quel gattaccio, come vi ostinate a chiamarlo, potrebbe strapparvi gli occhi. - Uh! ... Ne ho visti tanti io in Guascogna, quand'ero ragazzo. - Erano diversi da questi. - Ora la vedremo. Lo spadaccino prese la pistola, mise la draghinassa in linea e s'avanzò con pazza temerità verso i due punti fosforescenti, che non cessavano di brillare fra le tenebre. Il basco ed il fiammingo gli avevano tenuto dietro, pronti ad aiutarlo in quella pericolosa impresa. Il guascone non aveva percorsi dieci passi, quando un orribile miagolio che terminò in un terribile muggito soffocato, si fece udire. - Il gattaccio soffia, - disse don Barrejo. - Deve essere arrabbiato. Ora t'accomodo io! Era tutt'altro che un gattaccio! Si trattava d'un vero coguaro, uno dei piú pericolosi animali che si trovino nelle foreste americane, e che per forza e per ferocia non la cedono che ai colossali orsi grigi delle Montagne Rocciose. Vengono chiamati le tigri dell'America e possono rivaleggiare con le tigri reali dell'India, quantunque non ne abbiano la mole. Posseggono però una tale forza da trascinare un toro. Il guascone, un po' impressionato dai miagolii feroci della fiera, si era fermato. - E dunque, don Barrejo, che cosa facciamo? - chiese Mendoza, il quale rideva sotto i baffi. - Non è un gattone guascone quello lí? - Mi pare che soffi un po' troppo, - rispose l'avventuriero. - Dategli un calcio. - Ah! ... Diamine! ... Mi pare che la cosa sia un po' difficile! - Infilatelo. - È quello che stavo appunto studiando. - Giú un colpo di spada! . Aspetto che mi assalga. Aveva puntata la pistola e allungata la draghinassa. La belva soffiava sempre e ruggiva sordamente, senza muoversi. Don Barrejo, seccato di non vederla avanzarsi, fece qualche passo innanzi, gridando: - Su, gattaccio, assaggia un po' la mia draghinassa! Il giaguaro si era accovacciato, pronto a slanciarsi. Mendoza si era messo a fianco del guascone, temendo che gli toccasse qualche grave disgrazia, mentre il fiammingo impugnava la pistola. - Il gattaccio ha paura, - disse don Barrejo. - Diavolo! ... Sente l'odore d'un uccisore di gatti. Aveva appena pronunciato quelle parole, quando il coguaro spiccò un salto cosí impetuoso da farlo cadere a gambe alzate. Mendoza, che gli stava presso, allungò rapidamente la spada, affondandola nelle carni della bestiaccia, mentre il fiammingo, che aveva ancora una pistola carica, sparava a bruciapelo. Il coguaro, doppiamente ferito, saltò sopra la testa dei suoi feritori e scomparve nella foresta, ruggendo. - Corpo di bacco! - esclamò il guascone, il quale si era prontamente alzato. e, per sua fortuna, incolume. - Che gattacci vivono in questo paese? Non sono di quelli che ammazzavo io quando ero ragazzo. L'avete ucciso voi, signor Mendoza? - Non lo so, - rispose il basco. - La mia spada è però insanguinata. - E la mia palla deve averla ben cacciata nel corpo, - aggiunse il fiammingo. - Scommetterei che l'ho acciecato. - Ecco un uomo meraviglioso, - disse don Barrejo. - Io non vedevo quasi piú quel gattaccio, e lui l'ha proprio preso in un occhio. Speriamo allora che essendo cieco non ci secchi piú. - Un fiammingo, - disse Mendoza. - Che cosa volete dire voi? - chiese il brabantino. - Che è un mezzo guascone, se non lo è per intero. Don Barrejo ed il brabantino proruppero in una clamorosa risata. - E Mendoza è un basco, - disse il primo. - Sí, un basco, - ripeté il secondo, con voce grave. - Che lavora di gambe per non farsi nuovamente sorprendere dal gattone cieco, - rispose Mendoza, riprendendo la corsa. I due fracassoni credettero bene di seguirlo, non essendo veramente sicuri se il coguaro avesse ancora o no i suoi occhiacci a riflessi giallastri. Quella seconda galoppata durò un'altra ventina di minuti, poi Mendoza, che da qualche po' osservava attentamente la riva del Chagres, si fermò additando ai suoi compagni alcuni fuochi che brillavano sotto gli alberi. - Ancora gl'indiani? - chiese il guascone, vedendolo arrestarsi. - È l'accampamento del conte, - rispose il basco. - Sono certo di non ingannarmi. In quel momento una voce rauca gridò minacciosamente: - Chi vive? Rispondi o faccio fuoco. - Mendoza, - rispose il basco. - Avanti allora, compare. Quattro uomini armati d'archibugi e di pistole si erano slanciati fuori da un cespuglio, seguiti da un quinto il quale portava una torcia. - Il lupo di mare! - esclamò il capo delle sentinelle. - Hai tardato molto a farti vivo, compare. Si beve bene dunque a Pueblo-Viejo? - Benissimo, - disse don Barrejo. - Vi faremo assaggiare un certo Alicante che abbiamo scoperto, che non si beve nemmeno nella vecchia Spagna. - Quando? - Quando prenderemo d'assalto la città, - rispose il guascone. - È vero, compare? - chiese il filibustiere a Mendoza. - Chi vivrà vedrà, - si limitò a rispondere il basco, allontanandosi rapidamente per recarsi dal conte di Ventimiglia. Nell'attraversare l'accampamento, s'accorse che i filibustieri erano ben piú numerosi di prima. Gruppi d'uomini che prima non aveva mai veduti, chiacchieravano o fumavano attorno ai fuochi, tenendo i loro archibugi fra le gambe. - Il signor conte ha ricevuto degli aiuti, - mormorò. - Prendere Pueblo-Viejo sarà per noi un giuoco. La tenda del conte s'innalzava in mezzo all'accampamento ed era illuminata anche internamente. Mendoza entrò risolutamente, dicendo: - Eccomi, capitano. - Finalmente! - esclamò il signor di Ventimiglia, il quale stava seduto su un vecchio tronco d'albero, intento ad osservare, alla luce d'una torcia, una specie di carta geografica dei dintorni. - Cominciavo a temere che ti avessero preso od appiccato. - Niente affatto, signor conte, - rispose il lupo di mare. Quando vi è con me quel demonio di guascone non correrò mai alcun pericolo. - Vi è dunque? - Sí, il marchese si trova a Pueblo-Viejo. Don Barrejo ha parlato con lui, anzi ha bevuto insieme la cioccolata. Vi spiegherà come, lui stesso piú tardi ... - E mia sorella si trova presso di lui? - Questo non abbiamo potuto saperlo, signor conte. Abbiamo però saputo che fino a poco tempo fa si trovava presso il marchese una bellissima meticcia, giunta non si sa da dove e poi misteriosamente scomparsa. Il conte aveva alzato vivamente la testa, mentre una profonda emozione alterava il suo viso. - Mia sorella è la nipote del Gran Cacico del Darien? - Può darsi che sia quella. - Bisogna che abbia il marchese nelle mie mani. - Lo credo anch'io, signor conte. - Sai quanti soldati vi sono in città? - Due o trecento cavalleggieri e qualche compagnia d'archibugieri. - E l'artiglieria? - Pochi pezzi. - La prenderemo d'assalto prima di mezzodí, - rispose il conte, risolutamente. - Sai che ho ricevuto dei rinforzi? - Mi sono accorto della presenza di altri uomini, che qui prima non c'erano. - I miei corrieri che ho mandati verso le sponde del Pacifico per avvertire Grogner e Tusley di mandarmi dei rinforzi, hanno incontrato una partita di filibustieri, forte di settantacinque uomini, guidata da un gentiluomo francese, il signor Raveneau de Lussan. - E cinquanta ne avete voi, siamo dunque in buon numero, - disse Mendoza. - Tu conosci ormai la via? - Sí, signor conte. - Potremo giungere prima dell'alba sotto le mura di Pueblo-Viejo? - Anche piú presto. Il conte uscí dalla tenda, estrasse le sue pistole e le scaricò in aria. Era quello il segnale della riunione. Gli uomini che stavano seduti intorno ai fuochi o di guardia ai quattro angoli dell'accampamento si alzarono frettolosamente e si portarono in massa dinanzi alla tenda, preceduti da un uomo di bassa statura, che indossava una corazza d'acciaio in mezzo alla quale campeggiava uno stemma dorato: era Raveneau de Lussan. - Partiamo, conte? - disse il gentiluomo francese, con voce nasale. - Sí, signor de Lussan, - rispose il figlio del Corsaro Rosso. Si tratta d'assalire Pueblo-Viejo. - E noi la prenderemo, - rispose tranquillamente il filibustiere. I miei uomini cominciavano ad annoiarsi. - Spegnete i fuochi ed in marcia, senza perdere tempo. Cerchiamo di sorprendere il marchese nel suo palazzo. Dieci minuti dopo, i filibustieri levavano il campo inoltrandosi sotto la grande foresta, preceduti da Mendoza, dal guascone e dal fiammingo. Il conte di Ventimiglia veniva subito dopo i tre avventurieri, con Raveneau de Lussan. La truppa raggiunse felicemente le rive del Chagres e verso le due del mattino s'inoltrava nel vallone dove aveva avuto luogo lo scontro fra i tre avventurieri ed i cavalleggieri spagnuoli. Temendo una sorpresa, il conte mandò innanzi una grossa avanguardia. Se gli spagnuoli si fossero trovati ancora là e avessero occupate le due falde della valle, avrebbero certo dato molto da fare ai filibustieri. Fortunatamente, dopo d'aver cacciati gl'indiani, erano ritornati a Pueblo-Viejo, ben lungi dal sospettare la vicinanza d'un cosí grosso numero di nemici. Mezz'ora prima che sorgesse il sole, i filibustieri, senza essere stati segnalati dalle cinquantine incaricate di battere ogni notte le foreste vicine alla città, giungevano a pochi tiri d'archibugio da Pueblo-Viejo. Come la maggior parte delle piccole città dell'istmo di Panama, anche quel centro, non molto popoloso e piuttosto discosto dai due oceani, non aveva che qualche vecchio bastione ed un fossato facilissimo a varcarsi coll'aiuto di pochi fasci di legna. Per filibustieri abituati a dare la scalata perfino alle altissime muraglie dei forti difese da formidabili artiglierie, almeno per quell'epoca, ci voleva ben altro! ... Il figlio del Corsaro Rosso divise i suoi uomini in due colonne, affidando il comando della meno numerosa al gentiluomo francese e, appena il primo raggio di sole comparve, si spinse risolutamente all'attacco. Le sentinelle spagnuole che vegliavano sul bastione, scorgendo quei gruppi d'uomini che s'avanzavano attraverso alle piantagioni di zucchero e di caffè, non avevano indugiato a dare l'allarme ed a sparare parecchi colpi d'archibugio. I filibustieri non si erano nemmeno curati di rispondere. Guidati dal conte, da Mendoza, dal guascone, avevano rapidamente attraversato il fossato, ricoprendolo di fascine, poi avevano aperto il fuoco contro le prime case, facendo scappare gli abitanti seminudi. Nessuno si era opposto all'assalto, tanto era stato fulmineo. sicché i filibustieri irruppero attraverso le vie della città a passo di corsa, mentre Raveneau de Lussan s'impadroniva, con non meno fortuna, del vecchio bastione, facendo subito inchiodare i pochi pezzi che lo guarnivano, piú utili del resto a spaventare i tica-tica che saccheggiavano le piantagioni, che uomini cosí risoluti e formidabili, come erano i corsari del golfo del Messico e dell'oceano Pacifico. Gli abitanti, svegliati di soprassalto da quelle scariche, scappavano verso la piazza maggiore, dove si ergevano la chiesa che poteva servire da fortezza, e il palazzo del governatore. Uomini, donne e fanciulli si spingevano gli uni gli altri carichi delle loro cose piú preziose trovate sotto mano. I filibustieri credevano già di avere in loro mano la cittaduzza, quando scorsero dinanzi alla chiesa due squadroni di cavalleggieri colle spade in pugno. Erano circa cento cinquanta uomini, ben montati e bene armati e che avrebbero potuto dare del filo da torcere agli assalitori, se questi non fossero stati ritenuti come uomini invincibili perché creduti figli dell'inferno. Il figlio del Corsaro Rosso si slanciò risolutamente verso la chiesa, gridando ai suoi uomini: - Sotto, amici! I filibustieri, i quali già molto contavano sul terrore che ispiravano, dopo le loro strepitose vittorie riportate al di là ed al di qua dell'istmo, fecero una scarica generale. I cavalleggieri tentarono una carica disperata, poi volsero i cavalli, fuggendo disordinatamente attraverso le vie della città. Parecchi avevano già vuotato l'arcione e giacevano morti o moribondi dinanzi ai gradini della chiesa. - Ora quel dannato taverniere farà i conti con me, - disse il guascone. - Se lo trovo, guai a lui! Il conte di Ventimiglia prese con sé una dozzina di uomini e si slanciò verso il palazzo del governo, dalle cui finestre non era partito nemmeno un colpo d'archibugio; mentre gli altri, provvedutisi di alcune travi, sfondavano la porta della chiesa per far uscire gli abitanti della città che vi si erano rifugiati cogli oggetti piú preziosi. Il guascone, Mendoza ed il fiammingo avevano accompagnato il conte, pronti a sacrificarsi per difenderlo. - Per centomila demoni! - esclamò don Barrejo, quando ebbero salito lo scalone. - I colombi sono scappati assieme al falco. Signor conte, non sarà qui che voi scoverete il marchese di Montelimar, il mio carissimo amico. Scommetto che non avrete l'onore di assaggiare la sua squisita cioccolata. E conte ed i suoi uomini si erano precipitati attraverso le sale, sfondando i mobili e le porte. Non furono trovati che sette alabardieri nascosti in un bugigattolo, sotto un ammasso di fasci di canne da zucchero. Vi era però fra di loro un uomo già conosciuto da Mendoza e dal guascone. - Corpo d'un trombone sfiatato! - esclamò don Barrejo. - Il capo della scorta! Ehi, camerata, il conte d'Alcalà vi prega di far udire la vostra voce armoniosa. Ve l'avevo già detto, se non m'inganno, che mi avreste riveduto e molto presto. Il capo-ronda, molto avvilito di vedersi ancora dinanzi l'ex-prigioniero, era uscito dal bugigattolo, borbottando e stringendo minacciosamente una specie di misericordia. - Interroghiamo quest'uomo, signor conte, - disse don Barrejo. È una vecchia nostra conoscenza. - Dov'è il marchese? - gridò il signor di Ventimiglia, il quale appariva esasperato. - Da ieri sera, caballeros, egli galoppa sulla via che conduce a Nuova Granata, - rispose il capo-ronda. - I vostri compagni, che si spacciavano per conti e grandi di Spagna, non sono stati troppo furbi e si sono traditi. - Burlone! - esclamò il guascone. - Quando è partito? - chiese il conte. - Prima della mezzanotte. S. E. non è un uomo da cadere facilmente nel laccio e si è messo in salvo per tempo. Nuova Granata non è Pueblo-Viejo e non la prenderete con poche scariche d'archibugi, signor mio. - Con chi se n'è andato? Parla, se vuoi salvare la pelle. Sai che i filibustieri non sono molto generosi. - Aveva una scorta di otto uomini. - Ed una fanciulla? - Sí, caballero. - Una meticcia, è vero? - Come lo sapete voi? - Rispondi e non interrogare, - disse il signor di Ventimiglia con voce minacciosa. - Sí, una meticcia, - rispose il capo-ronda. - Quale posizione occupava quella meticcia nella casa del governatore? - Veniva trattata come fosse una parente di S. E. - Quanti anni potrà avere? - Dai quindici ai sedici. Il conte fece mentalmente un rapido calcolo. - Non può essere che lei, - mormorò. Poi, alzando la voce, rispose: - È dunque molto fortificata Nuova Granata? - Cosí si dice. - Ci sei stato tu? - Mai, caballero. Il figlio del Corsaro Rosso fece un gesto di dispetto. - Poche ore prima e cadevano l'uno e l'altra nelle mie mani, disse. Poi volgendosi verso uno dei suoi ufficiali: - Incaricatevi della custodia di questi uomini. Possono essermi molto utili piú tardi. Lasciò la sala e ridiscese sulla piazza, seguito da Mendoza, dal guascone, dal fiammingo e da una mezza dozzina di filibustieri. I corsari del signor di Lussan non erano ancora riusciti a entrare nella chiesa. Gli abitanti che stavano dentro difendevano accanitamente le loro ricchezze, che avevano frettolosamente raccolte, e ad ogni intimazione di resa, rispondevano con scariche d'archibugi. - Signor di Ventimiglia, - disse il gentiluomo francese, vedendolo comparire. - Questi spagnuoli non intendono di uscire. Volete che faccia saltare la chiesa con una mezza dozzina di barili di polvere? - Sarebbe un massacro inutile, - rispose il conte. - E se rimangono lí dentro noi non avremo nemmeno una piastra. - Io rinuncio alla mia parte. - Non rinunceranno però né i miei, né i vostri uomini. - Avete fatto dei prigionieri? - Appena due dozzine. - Mandatene uno nella chiesa ad annunciare agli assalitori che, se non capitolano, ammazzeremo per ora quelli che teniamo nelle nostre mani. Mentre il signor di Lussan si preparava a obbedire, Mendoza si avvicinò al guascone ed al fiammingo. - Amici, - disse. - Finché questa gente se la sbriga colla chiesa, approfittiamone per andare ad assaggiare il buon vino di quel furfante di taverniere. Se comincia il saccheggio generale della città, noi non troveremo che le botti vuote. Io ne so qualche cosa della sete dei filibustieri ... poi la nostra presenza qui non è necessaria. Il conte ed il francese hanno uomini piú che sufficienti per forzare gli assediati alla resa. - Tonnerre! - esclamò don Barrejo. - Mi ero dimenticato di quell'amico! ... Che sia nascosto nelle sue cantine? - Ho qualche speranza di scovarlo in mezzo alle sue botti, - rispose Mendoza. - Ed anch'io, - disse il fiammingo. - Andiamo, compari, - conchiuse il guascone. Approfittando della confusione che regnava sulla piazza, i tre avventurieri presero il largo e, inosservati, si cacciarono entro una viuzza a loro ben nota, che doveva condurli in breve dinanzi alla taverna d'El Moro. Come avevano supposto, la porta era chiusa e regnava un silenzio da tomba. - Che l'amico si sia rifugiato in chiesa coi suoi sguatteri? - si chiese il guascone, dopo d'aver appoggiato un orecchio alla toppa. Non odo nemmeno quel gattaccio nero miagolare. - Buttiamo giú la porta, - disse il fiammingo, il quale, avendo scorto a breve distanza un ammasso di legnami che dovevano servire alla costruzione di una casa, si era impadronito d'una trave. - Ecco l'uomo forte della compagnia, - disse don Barrejo, vedendo che il fiammingo non piegava sotto il peso. - D'ora innanzi, giacché non ha mai voluto dirci il suo nome, lo chiameremo don Ercole. Afferrarono solidamente la trave, presero la rincorsa e con un colpo solo sventrarono alla lettera la porta della taverna, con un tale rimbombo che parve avessero sparato là dentro una cannonata. - Don Ercole! ... Voi siete l'eroe della giornata ... il re della taverna, - disse il guascone. - Perdinci! Che muscoli! ... Sareste capace di buttar giú anche una fortezza! ... - Sono un fiammingo, - rispose serio serio l'avventuriero. Sguainarono le draghinasse, temendo un assalto a colpi di spiedo o di casseruole, ed entrarono. Non videro scappare che un grosso gatto nero, quello che già il guascone aveva notato. La povera bestia, spaventata da quel colpo di tuono, balzava attraverso le tavole e sui banchi, come se fosse impazzita, rovesciando bicchieri e bottiglie. - Quella bestia lí deve avere l'anima di quel brutto gattaccio che abbiamo incontrato sulle rive del Chagres, - disse don Barrejo. - Sapete dove si trova la cantina? - chiese Mendoza al fiammingo. - La porta è dietro al banco. - Prendiamo prima qualche torcia, - disse il guascone. - Non occorre, - rispose Mendoza. Salí su un tavolo e staccò il lanternone che serviva ad illuminare la sala. L'accese non senza qualche difficoltà, poi si diressero verso la porta che doveva mettere nella cantina. Bastò una pedata del guascone per sgangherarla e farla rotolare giú per la scala. - Ci sono! ... - esclamò Mendoza, alzando il lanternone. - Chi? - chiese don Barrejo. - Ho udito un grido dalla cantina. - Che fortuna! ... Ah! ... Povero taverniere! ... In quali mani stai per cadere! ... - disse il guascone. Fate luce, Mendoza! Scesero la scala con precauzione, tenendo le draghinasse in linea e giunsero in un'ampio sotterraneo contro le cui pareti s'appoggiavano una dozzina e forse piú di rispettabili e ben panciute botti. - Dove si sarà nascosto quel briccone? - disse don Barrejo. Una voce s'alzò dietro le fila di botti di destra, gridando: - Chi è che osa darmi del briccone? - Tonnerre! ... Il taverniere! ... - Ancora quel birbante! ... - strillò il proprietario d'El Moro. Ora ti spillerò sangue! ... - Amici, fuori le pistole! - comandò il guascone. Il taverniere era balzato fuori dal suo nascondiglio, brandendo minacciosamente uno spiedo e dopo di lui erano comparsi, uno ad uno, i suoi quattro sguatteri egualmente armati. - Ancora qui, furfante! - urlò l'oste, furioso. - Dove si beve del buon vino si torna sempre, - rispose il guascone, puntandogli contro la spada e la pistola. - Mi ero immaginato che voi dovevate essere un filibustiere, - disse il taverniere, il quale non osava farsi innanzi, vedendo tre bocche da fuoco spianate. - Sono venuto anzi ad avvertirvi che la città è caduta nelle nostre mani e che ogni resistenza è ormai inutile. Siamo in mille! - E che cosa volete da me? - Assaggiare nuovamente il vostro Alicante ed il vostro Xeres. - Il mio vino! ... - Volete prima che vi ammazzi? - chiese il guascone, cambiando tono. - Rimarremo allora noi padroni assoluti della cantina e le vostre proteste non servirebbero piú a nulla. Volete un consiglio da amico? Andate a sedervi su quelle travi, insieme ai vostri sguatteri, lasciate in pace gli spiedi, buoni per infilzare polli e anitre e non uomini come noi, e non seccateci piú, diversamente noi faremo boum! E allora andrete a trovare compare Belzebú. - Voi mi volete rovinare. - Abbiamo rovinata anche l'intera città, quindi potete consolarvi. - Io non vi darò una piastra! ... - Ma che piastra! ... È il vostro vino che noi vogliamo. Ci prendete per dei ladri? Sbrigatevi, giú gli spiedi e subito là in fondo. Abbiamo sete noi, tonnerre! Il povero oste ed i suoi aiutanti, spaventati dall'accento terribile del guascone e reputando ogni resistenza affatto inutile, gettarono gli spiedi e andarono a sedersi sulla trave indicata, la quale si trovava all'estremità opposta della cantina. Mendoza posò a terra il lanternone, mentre don Barrejo ed il fiammingo s'impadronivano di alcuni boccali di terracotta ben capaci. - Proviamo lo Xeres, prima, - disse il basco. - È quello del famoso doblone. - E poi assaggeremo anche tutte le altre botti, spero, - aggiunse il fiammingo. - Badate di non ubbriacarvi, - disse il guascone. - Non siamo soli qui e quei gattacci che stanno là in fondo potrebbero saltarci addosso. Mentre uno tracannava a garganella Xeres e gli altri Porto e Alicante, il povero taverniere si strappava i capelli, strillando. - Questi birbanti mi rovinano! Né il guascone, né i suoi compagni facevano attenzione ai lamenti ed alle ingiurie del taverniere e dei suoi sguatteri. Continuavano tranquillamente a bere, assaggiando il contenuto di tutte le botti. Dovevano essere dei formidabili bevitori, poiché pareva che ingollassero tanta acqua. Ad un certo momento però il guascone il quale si sentiva forse girare un po' la testa e oscillare le gambe, gettò via il boccale che teneva in mano e che era ancora quasi pieno di Porto, dicendo: - Basta, camerati! ... Non siamo già delle botti, noi! ... Ora verrà la solenne punizione del taverniere. - Che cosa volete fare? - urlò l'oste, piú che mai furibondo. Non siete ancora contenti? - Vi lasciamo le piastre e dovete averne un buon gruzzolo. E vi lamentate ancora? Non sapete dunque che quando i filibustieri piombano su una città spazzano via tutto? Dovete anzi esserci grati di questa generosità. - Volete ammazzarci? - Voi no e nemmeno i vostri sguatteri. Sono le vostre botti che pagheranno per la vostra perfida condotta verso gentiluomini della nostra marca. Mendoza, quali credete che siano le botti migliori? Le avete assaggiate tutte? - Tutte, - rispose il basco. - E voi, don Ercole? - Anch'io - disse il fiammingo. - Quali sono? I due avventurieri, dopo maturo esame, indicarono due enormi recipienti contenenti l'uno dello Xeres ed un altro della Malaga stravecchia. Il guascone impugnò due pistole, quindi rispose serio serio: - Io, nella mia qualità di presidente del Consiglio di guerra, decreto la morte di queste due botti. Ciò detto sparò le due pistole contro i due recipienti, forandoli. Due zampilli scaturirono subito, scorrendo pel pavimento. Il taverniere aveva mandato un urlo come se gli avessero strappato il cuore ed aveva fatto un salto innanzi, per avventarsi contro quei tre demoni scatenati. Il guascone però era stato pronto a mettere un piede sugli spiedi e ad allungare la sua terribile draghinassa, gridando: - Alto là, brav'uomo! ... Quest'arma ha sempre sete di sangue umano e beve quando trova l'occasione. - Miserabili, mi vuotate le botti e quelle anche che contengono il migliore. - A noi piace offrire alla terra sempre del vino di prima qualità affinché ne riproduca di quello piú squisito. Anche la terra qualche volta beve volentieri. Mendoza ed il fiammingo ridevano a crepapelle, per niente impressionati della disperazione del taverniere. Don Barrejo lasciò che lo Xeres e la vecchia Malaga colassero per parecchi minuti allagando la cantina, poi disse ai compagni: - È ora d'andarsene. Se restiamo qui ancora un quarto d'ora saremo piú ubbriachi della terra che beve. Taverniere, addio! Mentre il povero oste urlava, come se lo scorticassero vivo ed i suoi quattro sguatteri vomitavano una serqua di maledizioni, i tre avventurieri raccolsero il lanternone e salirono la scala, senza nemmeno occuparsi di rispondere. - Andiamo a vedere che cosa succede ora alla chiesa, - disse il guascone quando furono fuori dalla taverna. Giungevano già in ritardo. Gli abitanti si erano arresi ed i filibustieri avevano saccheggiata la città, portandosi via quanto oro avevano potuto trovare e si preparavano a ripartire. Come! ... Si riprende la marcia, signor conte? - chiese Mendoza il quale era riuscito a trovare il signor di Ventimiglia. - Andiamo a raggiungere i filibustieri che si trovano all'isola S. Giovanni, - rispose il figlio del Corsaro Rosso. - Senza Grogner e Tusley non potremmo espugnare una piazza forte come è quella di Nuova Granata. - È necessario che il marchese non mi sfugga la seconda volta. - Fa' radunare i nostri uomini e andiamo a far conoscenza coll'Oceano Pacifico.

Scambiate appena poche fucilate, gli spagnuoli voltarono le spalle e andarono a chiudersi nei tre forti che difendevano la città e che come abbiamo detto si ritenevano inespugnabili. Le stelle cominciavano ad apparire in cielo, quando i filibustieri, divisi in due colonne, si presentarono dinanzi alla città, ben risoluti non solo ad espugnarla, bensí anche a saccheggiarla sapendo che ricchezze immense conteneva. Impossessarsi di quella città non era però impresa facile poiché la difendevano tre forti, contenenti ognuno una guarnigione di cinquanta uomini e armati d'un buon numero di cannoni, mentre i filibustieri non possedevano nemmeno una spingarda. Pure gli assalitori non si scoraggiavano affatto e, mentre gli abitanti salvavano buona parte delle loro ricchezze caricandole su degli schifi che tenevano sul fiume, tentarono animosamente l'assalto ai forti. Si erano divisi in tre colonne per impedire alle guarnigioni di portarsi vicendevolmente aiuto: una la comandava Grogner, la seconda Raveneau de Lussan e la terza il guascone. I forti si difendevano però gagliardamente, rispondendo alle archibugiate dei filibustieri con colpi di cannone. Pareva che gli spagnuoli fossero decisi a farsi seppellire sotto le rovine, anziché arrendersi a quegli odiati ladroni di mare. Tutta la notte fu un battagliare furioso. Invano i filibustieri si erano slanciati piú volte all'assalto ed invano avevano appoggiato piú volte le scale per superare le merlature. Ad ogni intimazione di resa gli spagnuoli avevano sempre risposto con un fuoco infernale, quantunque poco efficace. Al mattino i tre forti non erano ancora presi, mentre invece la popolazione, approfittando dell'oscurità, aveva evacuata la città, salvandosi nelle vicine boscaglie colle ricchezze che non avevano potuto salvare sugli schifi. Già i filibustieri cominciavano a dubitare della buona riuscita dell'impresa, quando verso le otto del mattino si sparse la voce che Grogner era stato ferito mortalmente e che stava per spirare. A quell'annunzio un grido solo uscí dai petti dei filibustieri. - Vendichiamo il nostro capo. Battagliavano furiosamente da dieci ore. La fame e la sete li tormentava; pure, saldi come pezzi d'acciaio, noncuranti delle cannonate degli spagnuoli, quei valorosi mossero, forse per la decima volta, all'assalto dei forti. Appoggiate le scale, non ostante l'intensità del fuoco nemico, montano con impeto irrefrenabile, scavalcando le merlature, inchiodano sui loro pezzi gli artiglieri ed impegnano una lotta disperata contro le guarnigioni. Avevano dato l'attacco solamente a due forti, riservandosi di impadronirsi piú tardi del terzo, che era il meglio armato e difeso dal marchese di Montelimar, uomo che, come abbiamo detto altrove, godeva grande fama come uomo di guerra. Se la istoria dei filibustieri narrata da Raveneau de Lussan e da altri corsari inglesi e francesi non fosse lí a provare l'eroismo di quei terribili ladroni dell'Oceano Pacifico, si potrebbe porre in dubbio l'esito di quella formidabile impresa. Trecento erano i filibustieri, poiché in quelle dieci ore di combattimento avevano perduto una cinquantina di persone e mille gli spagnuoli e muniti di grosse artiglierie eppure i primi non tardarono ad avere ragione sui secondi di tanto piú numerosi. Dopo un combattimento sanguinosissimo, le due guarnigioni spagnuole furono fatte a pezzi e solamente poche centinaia di spagnuoli riuscirono a salvarsi nelle foreste dopo d'aver gettate le armi. Resisteva però sempre il forte difeso dal marchese, nel quale erano stati rinchiusi il conte di Ventimiglia, Mendoza, il fiammingo e la figlia del Gran Cacico del Darien. Infuriavano tremendamente le artiglierie del fortissimo baluardo, battendo in breccia le due fortezze ormai conquistate e le case della città. Gli archibugieri, numerosi e scelti, facevano del loro meglio per aiutare gli artiglieri, battendo le spianate e le scarpate, con una grandine di palle. Alle undici, malgrado i continui tentativi dei filibustieri, la fortezza resisteva ancora. Raveneau de Lussan, che aveva assunto il comando dei filibustieri, essendo ormai Grogner un moribondo, fece chiamare il guascone. - Signor de Lussac, - gli disse, - noi finiremo di certo per venire a capo di questa dura impresa, poiché i miei uomini non faranno un passo indietro. Siccome però sono pochi e non abbiamo alcun mezzo per surrogare quelli che cadono, vorrei farvi una proposta. - Parlate, signor de Lussan, - rispose il guascone. - Volete che vada a minare qualche angolo del forte? - Mi dispiacerebbe troppo perdere un valoroso come voi. Il conte di Ventimiglia non mi perdonerebbe mai di avervi sacrificato. - Che cosa posso fare dunque? - Andare dal marchese di Montelimar ed intimargli la resa, promettendo salva la vita a lui ed alla guarnigione. - Io non credo che accetti: è un testardo ed un uomo di guerra. Un lampo d'ira passò negli occhi del gentiluomo. - Se rifiuterà non lasceremo vivo un sol uomo, - disse. - Vediamo se si può combinare questo affare senza mandare tante persone a tenere compagnia a compare Belzebú, - rispose il guascone, dopo aver pensato qualche istante. - Che ci consegni il conte, la figlia del grande Cacico del Darien, i miei due amici, e poi vada pure a tenere compagnia a quell'ottimo Consigliere dell'Udienza Reale di Panama. Fu dato l'ordine ai filibustieri ed ai bucanieri di sospendere il fuoco, fu issata su una picca una camicia bianca trovata in una casa e don Barrejo mosse animosamente verso la fortezza. Anche gli spagnuoli, i quali non desideravano affatto irritare troppo quei formidabili scorridori del Pacifico, avevano deposte le miccie e fatti ritirare gli archibugieri che occupavano le merlature. Don Barrejo, il quale portava la picca, si fermò dinanzi al fossato del forte, piantando l'asta su un ammasso di terra. Un ufficiale si era curvato fra due merli gridando: - Che cosa volete? Sbrigatevi perché non vi accordiamo che una tregua di cinque soli minuti. Appena trascorsi riapriremo il fuoco. - Chiedo di parlare al marchese di Montelimar, - rispose il guascone. - Nel medesimo tempo vi avverto che se qualcuno di voi farà fuoco su di me, vi passeremo dal primo all'ultimo, a fil di spada. Un istante dopo il marchese di Montelimar compariva sul terrazzo d'una lunetta, tenendo la spada snudata sotto un braccio. - Chi vi manda? - chiese, rivolgendosi al guascone il quale stava sempre accanto a quella strana e ridicola bandiera. - Raveneau de Lussan, capo dei filibustieri dell'Oceano Pacifico, - rispose don Barrejo. - E Grogner? - Il signor Grogner in questo momento è occupato a fumare la sua pipa e perciò ha rinunziato fino a questa sera al comando. Il marchese aggrottò la fronte poi, dopo d'aver guardato attentamente il guascone, disse: - Ah! Siete uno dei tre spadaccini del conte di Ventimiglia. - Non vi siete ingannato, Eccellenza. Venivo anzi anche a chiedere notizie di quel valoroso gentiluomo. - È sotto la mia protezione. Che cosa volete dunque? Sbrigatevi: i miei uomini sono impazienti di combattere. - Vengo ad intimarvi la resa. - A chi? - A voi. - Non sapete dunque che ho cinquecento uomini e ventidue pezzi d'artiglieria e tante munizioni da radere al suolo la città intera? - E non avete veduto Eccellenza che abbiamo già espugnato due delle tre fortezze che erano pure difese da cinquecento uomini ciascuna e da una quarantina di cannoni? Tutti noi lo abbiamo veduto. Vi arrendete sí o no? Raveneau de Lussan vi promette salva la vita, a condizione che consegnate immediatamente il conte di Ventimiglia, i suoi avventurieri e la figlia del Gran Cacico del Darien. Anche io vi accordo cinque minuti per avere la risposta: dopo daremo l'assalto e come abbiamo preso i due forti, vi assic uro Eccellenza che prenderemo anche questo. - Lasciate che mi consigli coi miei ufficiali, - rispose il marchese. Il guascone prese un sigaro, lo accese servendosi d'un pezzo di miccia che fumava sul margine del fossato e si sedette accanto alla bandiera bianca. I filibustieri intanto, non ben certi che il marchese di Montelimar si decidesse per la resa, si preparavano, sotto la direzione di Raveneau de Lussan, ad un furioso assalto. Avevano messi in prima fila cinquanta uomini muniti di granate da lanciarsi a mano e dietro un centinaio di bucanieri per sterminare innanzi a tutto gli artiglieri. Gli altri tenevano pronte le scale, prese nelle chiese, per montare all'assalto. La risposta del marchese di Montelimar non si fece attendere. - Dite al signor Raveneau, - disse al guascone, - che finché mi rimarrà un uomo ed una carica di polvere io difenderò la fortezza. Andatevene o vi farò fucilare. - Mi ricorderò di questa bella offerta, - rispose il guascone, riprendendo la picca. - Spero di rivedervi presto, signor marchese. Attraversò la spianata senza troppo affrettarsi, malgrado la minaccia del comandante spagnuolo ed avvertí Raveneau della risposta avuta. - Come abbiamo espugnate le altre due, prenderemo d'assalto anche questa, - rispose il gentiluomo francese. Fu dato l'ordine di muovere all'attacco. I filibustieri, impazienti di finirla e di saccheggiare la città prima che gli abitanti portassero via tutte le cose preziose, si slanciarono all'assalto, non ostante il terribile cannoneggiamento degli spagnuoli. Con una corsa fulminea si posero al riparo sotto gli angoli morti della fortezza, rendendo cosí nullo il tiro delle artiglierie e la prima schiera cominciò a scagliare una grandine di granate attraverso le merlature mentre i bucanieri fucilavano gli archibugieri nemici dei ridotti, delle terrazze e delle lunette. Messi in rotta gli artiglieri, i quali non potevano resistere allo scoppio simultaneo di tante granate, i filibustieri appoggiarono le scale e montarono all'assalto. Gli spagnuoli li aspettavano sul piazzale del forte, guidati dal marchese di Montelimar. In un baleno i formidabili uomini del mare scalano la fortezza, superano le merlature e si scagliano contro gli alabardieri, impugnando le pistole e le corte ma larghe sciabole d'abbordaggio. Il guascone, giunto uno dei primi, s'avventa contro il marchese, e mentre intorno a lui ferve ferocissima la mischia, lo investe con una grandine di colpi di spada, urlando: - Arrendetevi o vi uccido! Il marchese, fattosi un po' di largo, affronta coraggiosamente il guascone. Buona lama anche lui si difende disperatamente, opponendo una resistenza che stupisce il terribile spadaccino. Investito con foga estrema, indietreggia fino sul terrazzo d'una lunetta, mentre i filibustieri uccidono rabbiosamente quelli che rifiutano di deporre le armi. - Signor marchese, - disse il guascone, dopo d'aver scambiato una ventina di stoccate, tutte abilmente parate dal gentiluomo spagnuolo. - Questo non può durare molto. Io sono molto piú giovane di voi e poi sono una lama guascone. Arrendetevi o mi vedrò obbligato a uccidervi e ciò, francamente, mi spiacerebbe. La piazza ormai è presa ed ogni resistenza inutile. Gettate la spada e restituitemi il conte, i miei compagni e la figlia del Gran Cacico. Il marchese fece un passo indietro tergendosi colla sinistra il sudore che gli imperlava la fronte e gettò un rapido sguardo intorno. I suoi uomini, dopo d'aver opposta una fierissima resistenza, s'arrendevano a gruppi ed i filibustieri rovesciavano le artiglierie nei fossati dopo averle inchiodate per renderle inservibili. - È la fine, - disse, con voce triste. Poi rimettendosi, riprese a mezza voce: - Può essere una partita rimandata. Gettò la spada nel momento in cui Raveneau de Lussan, seguito da una mezza dozzina di filibustieri accorreva in aiuto del guascone. - Il signor marchese si è arreso, - disse don Barrejo, - e si è arreso ad un de Lussac. Signor de Lussan, non vi è piú nulla da fare qui: questo gentiluomo è sotto la protezione dei guasconi. Raveneau si levò il cappello e salutò cortesemente il difensore del forte, dicendogli: - Il signor de Lussac, un gentiluomo autentico, vi accorda salva la vita ed io non ve la prenderò, signor de Montelimar poiché i filibustieri sanno apprezzare il valore e voi ci avete dato or ora la prova di possederne molto. Voi però ci indicherete subito dove si trova il conte di Ventimiglia. - Seguitemi, - rispose il marchese, togliendosi una chiave che teneva nella fascia azzurra. S'avviò verso il fabbricato centrale del forte che era fiancheggiato da numerose casematte, aprí una porta, poi disse: - Entrate: sono tutti là! Un istante dopo il conte era nelle braccia di Raveneau de Lussan, mentre il guascone appioppava quattro sonori baci sulle gote di Mendoza e di don Ercole. La figlia del Gran Cacico del Darien aveva subito seguito suo fratello, degnando appena d'uno sguardo il marchese di Montelimar, che fino a pochi giorni prima aveva rispettato come fosse suo padre. - Signor conte, - disse il capo dei filibustieri, poiché era stato nominato tale dopo la morte di Grogner, - siete finalmente libero ed avete ottenuta vostra sorella. Che cosa possiamo ancora fare per voi? - Darmi una guida che mi conduca attraverso l'istmo. Ho la mia fregata nelle acque del golfo del Messico e non ho che un solo desiderio. - Quale? - Di toccare al piú presto Cuba. - E poi? - Di tornarmene in Europa, nella mia Liguria. La mia missione è ormai finita, signor de Lussan. - E del signor marchese di Montelimar che cosa dobbiamo fare? chiese il nuovo capo dei filibustieri. - Dategli un cavallo e lasciate che ritorni a Panama. De Lussan lo guardò con stupore. - Avete detto? - chiese. Il figlio del Corsaro Rosso gli si accostò e gli mormorò una parola agli orecchi. - Ho capito, - rispose il gentiluomo francese, sorridendo. Se ne parlava già. Signor conte, andiamo a fare colazione con vostra sorella e col signor marchese. Ce la siamo guadagnata, ve l'assicuro. Mentre Raveneau ed i suoi compagni cercavano asilo in una casa abbandonata, i filibustieri, diventati ormai padroni dell'ultimo forte, si abbandonavano ad un saccheggio furibondo. Non possiamo però passare sotto silenzio la bizzarra singolarità di cui, in quella presa, i filibustieri francesi dettero spettacolo, poiché meglio d'ogni altra cosa dimostra l'indole strana di quella razza di ladroni. Mentre i loro compagni inglesi correvano dietro agli abitanti rifugiatisi nei boschi colle loro ricchezze, facendone ben settecento prigionieri, i francesi si recavano nella cattedrale della città per cantarvi il Te-deum, credendo cosí di praticare le parti di buoni cattolici e di rispettare in tale modo la religione! ... Ingentissimo fu il bottino raccolto dai filibustieri, consistente per lo piú in una quantità straordinaria di perle e di smeraldi, in verghe d'argento ed in settantamila piastre. Si aggiungano a ciò un cannone d'argento massiccio del valore di ventiduemila piastre ed un'aquila d'oro tempestata di smeraldi che pesava sessant'otto libbre, destinati in pia oblazione alla chiesa maggiore della città e presi agli schifi che scendevano il fiume. Inoltre avevano preso oltre settecento prigionieri, anche il governatore della città e siccome non trovavano conveniente condurre con loro tante persone, tanto piú che sapevano essere usciti da Panama grossi corpi di truppe scelte per sterminarli prima che ritornassero verso l'Oceano Pacifico, mandarono un messo al Presidente dell'Udienza Reale affinché li riscattasse tutti contro la consegna d'un milione di piastre e di quattrocento sacchi di mais, essendo a corto di viveri. Avevano iniziate le trattative e già non dubitavano di ricevere le une e gli altri, quando la terza notte dopo l'espugnazione dei forti s'alzò un furioso incendio, prossimo al luogo ove i filibustieri avevano accumulate le loro ricchezze ricavate dal saccheggio. Però non fecero essi alcuna perdita, essendo prontamente accorsi a trarre in salvo le loro cose, meravigliosamente affrontando ogni pericolo; rivolsero poi i loro sforzi a salvare la disgraziata città che in piú parti avvampava; però un buon terzo andò distrutto insieme ad un grosso numero di abitanti. Infettatasi l'aria in causa dei numerosi cadaveri rimasti insepolti, e cominciando a patire molte malattie per tale cagione suscitatesi, inchiodati i cannoni delle fortezze che loro non erano affatto utili, quei terribili ladroni di mare s'avviarono verso l'Oceano Pacifico, conducendo con loro cinquanta ostaggi d'ambo i sessi, i quali dovevano rispondere del riscatto che doveva in parte essere loro pagato e veleggiarono verso l'isola di Puna dove rimasero un mese, Fu un mese di baldoria e fu insieme un sorprendente spettacolo il vedere quei ruvidi avventurieri improvvisarsi gentiluomini, organizzare danze e banchetti che non avevano mai fine, avendo fra i prigionieri moltissimi suonatori di chitarre e di mandole e le piú belle donne di Guayaquil, le quali non vedevano nei loro rapitori piú i disturbatori della loro città e delle sostanze delle loro famiglie, bensí uomini per la maggior parte cortesi e rispettosi, cosicché ebbero quelle disgraziate un non ingrato comp enso dei sofferti terrori e poterono godere di quella libertà che tra le domestiche mura, sotto i gelosi mariti, l'orgoglio e la severità spagnuola non concedeva alle donne. L'amenità dell'isola dava d'altronde maggior risalto a quell'avventura né fuvvi mai prigionia, specialmente per le prigioniere, piú divertente. Verso la fine del mese però quell'allegria fu gravemente turbata, in causa del mancato pagamento del riscatto. Il presidente dell'Udienza Reale di Panama continuava a chiedere dilazioni, sinché i filibustieri insospettiti che, non difficoltà di trovare il denaro cagionasse quel ritardo, bensí la segreta mira di defraudarli e di prendere tempo per radunare forze sufficienti a combatterli, ricorsero ad una crudele risoluzione, malgrado le proteste di Raveneau de Lussan il quale, al pari di Grogner, abborriva le crudeltà. Radunarono perciò gli ostaggi e li obbligarono a tirare a sorte, avendo ormai deciso che le teste di quattro di quei disgraziati dovessero essere consegnate all'ufficiale spagnuolo che era giunto per chiedere una nuova dilazione al pagamento. Purtroppo quegli infelici dovettero sottomettersi alla dura sorte e le quattro teste furono date all'ufficiale, colla dichiarazione che se entro quattro giorni il pattuito riscatto non fosse stato saldato, altre ne sarebbero state mandate al Presidente dell'Udienza Reale di Panama. I sospetti dei filibustieri non erano d'altronde senza fondamento, poiché il giorno seguente riuscivano a catturare un corriere che da Guayaquil andava a Lima, apportatore di lettere nelle quali era detto chiaramente come in aspettazione dei soccorsi attesi si sarebbe mandata qualche somma a Puna per tenere a bada i corsari, aggiungendo che l'esterminio di costoro stimavasi ben piú importante sacrificio che la perdita di cinquanta prigionieri. Come abbiamo detto, fra gli ostaggi vi era il governatore di Guayaquil e siccome ci teneva a non perdere la testa, incaricò un frate che era della brigata, uomo tenuto in molta considerazione presso gli spagnuoli e lo mandò sul continente con pieni poteri perché accumulasse a tutti i costi quanto denaro occorreva per saldare il riscatto. Nell'atto però che il frate partiva, giungeva all'isola uno schifo il quale portava ai filibustieri ventimila piastre in oro e venti sacchi di farina. L'ufficiale che lo montava chiedeva nel medesimo tempo una dilazione di altri tre giorni pel resto del riscatto. I filibustieri non furono renitenti a concederla, dichiarando però che se gli spagnuoli avessero mancato alla promessa avrebbero fatta una nuova visita a Guayaquil e che l'avrebbero distrutta da capo a fondo. La risposta che ne ebbero non poteva essere piú risoluta. Un nuovo messo di chi amministrava le cose di Guayaquil giunse qualche giorno dopo, dicendo che per tutto ciò che rimaneva a pagarsi gli spagnuoli offrivano solamente ventiduemila piastre e che se i filibustieri volevano riattaccare la città vi erano cinquemila uomini agguerriti pronti a riceverli. Nessuno può sorprendersi se a quella dichiarazione vi fu fra i corsari di Raveneau chi proponesse di tagliare all'istante la testa a tutti i prigionieri, le donne comprese. Si opposero molti altri, dicendo che una tale crudeltà nessun vantaggio avrebbe recato, perciò accettate le ventiduemila piastre e messi in libertà gli ostaggi, ripresero il mare per ritentare nuove e piú stupefacenti imprese. %CONCLUSIONE Due giorni dopo la caduta di Guayaquil, il conte di Ventimiglia, sua sorella ed i tre spadaccini lasciavano la città con una scorta di trenta corsari e di dieci filibustieri, i quali avevano deciso di far ritorno in Europa, avendo ormai accumulate sufficienti ricchezze per potere vivere comodamente nei loro paesi. Il marchese di Montelimar era partito il giorno innanzi, non senza pronunziare parole di vendetta contro la giovane meticcia e anche contro il conte. La traversata dell'istmo di Panama fu compiuta a piccole tappe, per non stancare eccessivamente la sorella del conte, e dodici giorni dopo, la piccola carovana giungeva felicemente nel minuscolo porto di Riva dove da tre mesi trovavasi all'âncora la fregata, innalzando lo stendardo di Spagna per farsi credere, dai pochi abitanti della costa, una nave incaricata d'impedire lo sbarco dei legni filibustieri provenienti dalla Tortue. Una scialuppa già aveva raggiunta la spiaggia e si preparava ad imbarcarli, quando il guascone, che durante tutto il viaggio pareva avesse perduto il suo buon umore, trasse in disparte il conte e Mendoza, e disse loro: - Signori, io devo dichiararvi che non ho alcun desiderio di far ritorno in Europa. Per me è questo un grande colpo, tuttavia spero, col tempo, di potermi consolare. Non dimenticate però, signor conte, che la mia spada sarà sempre a vostra disposizione nel caso che vi fosse ancora necessaria. - Che cosa dite, signor di Lussac! - esclamò il figlio del Corsaro Rosso veramente sorpreso. - Oggi siete abbastanza ricco per riparare il vostro castelluccio di Guascogna e coltivare tranquillamente viti e mele. - Che cosa volete, signor conte? Ho quarant'anni e sento un desiderio irresistibile di avere una famiglia. - Ah! ... Birbante! - gridò Mendoza, mentre don Ercole, il quale si era avvicinato al gruppo, scoppiava in una risata. - Si è innamorato della bella sivigliana! ... - Avete indovinato, compare, - rispose don Barrejo. - Di quella graziosa vedova ne farò una signora de Lussac e venderemo vini di Spagna e di Francia all'insegna della Draghinassa guascone! L'indomani, mentre don Barrejo o meglio il signor de Lussac, dopo commoventi addii, riprendeva la via di Panama per raggiungere la sua bella, la fregata spiegava le vele, dirigendosi verso il Capo Tiburon. Anche il figlio del Corsaro Rosso aveva lasciato, al pari del guascone, una gran parte del suo cuore in America, ma voleva riportarlo in Europa unitamente ad un altro che già da tanto tempo batteva insieme al suo: quello della marchesa di Montelimar. E cosí infatti avvenne. Venti giorni piú tardi la magnifica fregata del conte lasciava, durante una notte oscurissima, per sfuggire le crociere spagnuole, l'isola di San Domingo, portando con sé una signora di piú e tre uomini di meno. La bellissima marchesa aveva dato senza rimpianti un addio all'isola, dopo aver affidate le sue immense piantagioni a Buttafuoco, a Mendoza ed al fiammingo, tre amici che al pari del guascone non avrebbero ormai piú potuto trovarsi bene fra la civiltà europea. Rivedremo un giorno quei bravi? È probabile, poiché la storia dei filibustieri non è ancora terminata.

Possedendo, come abbiamo detto, due navi da battaglia, fu deciso, dai quattro capi, in un consiglio tenuto qualche giorno dopo, di tentare innanzi a tutto una spedizione verso Villia, città lontana appena venti leghe da Panama, per provvedersi di viveri, non essendo l'isolotto, coi suoi pochi alberi per la maggior parte infruttiferi, capace di mantenere tanta gente. Le due navi, che erano giunte dai mari del sud, avevano consumate tutte le loro provviste, ed i filibustieri che avevano preso d'assalto Nuova Granata, non avevano portato con sé che delle piastre inutili, in quel momento, come i grani di sabbia ammonticchiati intorno a quell'isoletta deserta. Prima di tentare un colpo di mano su Panama, volevano essere almeno ben forniti di viveri e anche di munizioni. Fu Tusley che s'incaricò dell'impresa. Imbarcatosi con duecento uomini sulle due navi, approda a non molta distanza dalla città, poi muove risolutamente all'assalto ed in poche ore se ne rende padrone, malgrado la fiera resistenza opposta dagli spagnuoli. S'impadronisce di trecento prigionieri, di quindicimila piastre, d'un milione e mezzo di merci, e, non ancora soddisfatto di tanta ricchezza, invia un messo all'alcade della città che si era salvato nelle boscaglie, per proporgli il riscatto dei prigionieri contro il versamento di cinquantamila piastre. L'alcade fa rispondere che egli non poteva offrire a tali ladroni altro che della polvere e delle palle, e le une e le altre erano pronte, e che in quanto ai prigionieri li abbandonava alla Provvidenza e intanto li avvertiva che stava radunando forze imponenti per ricacciarli nell'Oceano Pacifico. A tale risposta Tusley fa incendiare la città, caricano viveri e bottino su due grosse scialuppe che avevano prese sul vicino fiume e cominciano la ritirata. Qui però cominciano i primi disastri. Trecento spagnuoli, imboscati ad un gomito del fiume, s'impadroniscono delle due scialuppe e trucidano gli equipaggi. I filibustieri, che si ritraevano attraverso le boscaglie, a tale nuova mandano altri messi all'alcade, minacciando di massacrare i trecento prigionieri se non viene loro restituito il bottino e pagato il riscatto. Indugiando la risposta, Tusley fa fucilare una parte di quei prigionieri e manda le loro teste a Villia. L'alcade, atterrito, restituisce il bottino e le due barche, e vi aggiunge diecimila piastre per salvare la vita agli altri disgraziati che si trovano nelle mani dei corsari. Non dovevano tardare però gli spagnuoli a prendersi a loro volta delle splendide rivincite. Sorprendono una partita di filibustieri, composta di trentasei uomini, che si era gettata sulla Boccachica per passare alla sponda orientale del continente e li fanno a pezzi, ad eccezione d'uno solo che viene condotto prigioniero a Panama. Quasi nel medesimo tempo sorprendono pure due piccole colonne di filibustieri inglesi, formate di quaranta uomini ciascuna, e le annientano completamente in mezzo alle folte boscaglie dell'istmo. Tusley però, quantunque perseguitato da tutte le parti, conduce la sua colonna fino sulle sponde dell'Oceano e giunge felicemente a Taroga, colle sue venticinquemila piastre intatte, le sue merci, i suoi viveri e le sue due navi. Quella spedizione non era durata che una quindicina di giorni, durante i quali, i filibustieri rimasti sull'isolotto non erano vissuti che di testuggini marine e di poche frutta, con pochissimo piacere del guascone e dei due suoi compagni, i quali si erano specialmente lamentati della pessima qualità dell'acqua e dell'assenza completa di bottiglie di Xeres e di Alicante da vuotare. Ben provvisti di viveri e soprattutto di munizioni, i filibustieri, dopo un nuovo consiglio, decisero di tentare il blocco di Panama, per imporre a quel viceré la consegna della sorella del signor di Ventimiglia e di alcuni prigionieri. Dopo quattro giorni dal ritorno di Tusley, i filibustieri s'imbarcarono. Non erano però piú numerosi come prima, poiché centoquarant'otto francesi si erano separati dai loro compagni, in causa delle solite questioni religiose, navigando verso settentrione, coll'idea di predare le coste della California. Erano però ancora abbastanza bene in forza per farsi temere dagli spagnuoli, tanto piú che erano guidati da quattro valorosissimi capi. Avendo saputo da un prigioniero che due grossi velieri spagnuoli erano attesi da Panama provenienti da Lima con un carico di farine e di denaro, i filibustieri decisero innanzi a tutto di abbordarli, prima che giungessero in porto. La mancanza di viveri era sempre quella che piú preoccupava quegli uomini, non avendo nessun mezzo di procurarsene, fuorché nel saccheggi, poiché tutte le coste erano guardate e tutte le piantagioni erano state distrutte per molte leghe entro terra. Guidavano il primo vascello, il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan; l'altro Tusley e Grogner. Non sarebbe necessario dire che i tre terribili avventurieri avevano preso imbarco sulla nave del conte, ansiosi di aver nuova occasione per menare le loro formidabili draghinasse. - Taroga è un'isola di tartarughe, aveva detto don Barrejo, mettendo i piedi sul ponte della nave. Non siamo già venuti in America per provare il filo della spada contro i gusci di quei rettili. - Ed io non sono venuto per guardare le sabbie ed ascoltare il rumoreggiare della marea, - aveva aggiunto Mendoza. - Ed io non ho lasciato il Brabante per veder arrugginire le mie braccia, - aveva detto il fiammingo. E si erano imbarcati lietamente, promettendosi di compiere altre meravigliose imprese e di non perdere per un solo istante di vista il marchese di Montelimar, che era stato affidato alla loro sorveglianza. Il primo giorno passò senza incidenti. Le due navi, che non erano molto grosse, né molto armate, avevano navigato sempre in vista dell'isolotto, colla speranza di sorprendere i due velieri provenienti da Lima. Il secondo giorno, non avendo incontrato alcun bastimento, avevano fatto un'ardita punta verso Panama, senza però osare accostarsi troppo al porto, non ignorando che il viceré poteva, in poche ore, radunare una squadra considerevole. La mattina del terzo, i gabbieri che erano di guardia sulle coffe mandarono il primo grido d'allarme. - Vele a levante! Il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, i quali erano saliti appena allora in coperta, erano stati i primi a precipitarsi verso il castello di prora. Quel grido di "vele a levante" non aveva mancato di produrre su di loro una certa sorpresa, poiché non era da quella parte che dovevano avanzarsi i due vascelli provenienti dai mari del sud. - Che siano legni che vengono da Panama? si era chiesto il conte. - È quello che purtroppo temo, - aveva risposto Raveneau de Lussan. - Gli spagnuoli devono aver le tasche piene di noi e avranno organizzata qualche flottiglia. - Che noi prenderemo d'assalto e che affonderemo, - disse Mendoza, il quale non aveva indugiato a raggiungerli, insieme ai suoi due compari. - Signor de Lussan, prepariamoci al combattimento, - disse il conte di Ventimiglia. - Abbiamo uomini decisi a tutto e artiglierie non del tutto in cattivo stato. Mostreremo ancora una volta agli spagnuoli come sanno lottare e morire i forti fratelli della Costa. Le trombe avevano suonato. - Tutti in coperta! I filibustieri, sempre pronti a qualunque cimento, si erano slanciati ai loro posti di combattimento: i vecchi bucanieri in coperta, dietro le brande arrotolate sulle murate, ed i corsari nelle batterie. La nave di Tusley e di Grogner aveva subito raggiunta, con una splendida bordata, quella del signor di Ventimiglia, la quale muoveva audacemente incontro alle vele segnalate. - Don Barrejo, - disse il basco, il quale provava il filo della sua draghinassa. - Temo che questa volta la faccenda sia piú seria di quella di Pueblo-Viejo e di Nuova Granata. Quelle navi vengono da Panama; ve lo dice un vecchio uomo di mare che conosce i venti meglio che Eolo in persona. - I capitani delle fregate, che voi sappiate, hanno sempre una buona riserva di bottiglie? - chiese il guascone, il quale stava pure esaminando la sua draghinassa. - Che cosa diavolo mi domandate, don Barrejo? - chiese il basco, non senza un certo stupore. - Il signor guascone ha parlato bene, - disse il fiammingo, colla sua solita gravità. - Rispondete alla sua domanda, don Mendoza. - Io credo che abbiano piú palle che bottiglie, - disse il basco. - Non escludo però che posseggano una piccola cantina. - Non voglio sapere altro, - rispose il guascone. - Andremo ad assaggiare quel vino e vedremo se è piú squisito quello che si trova sepolto nelle cantine o quello navigato. Un grido, che scese in quel momento dalla coffa dell'albero maestro, interruppe la loro conversazione. - Fregata in vista! ... - Ve lo dicevo io? - disse Mendoza. Altro che le navi cariche di farina e di denaro provenienti da Lima. Troveremo ferro e piombo. - Ma anche una cantina, - aggiunse il guascone. Per la terza volta la voce del gabbiere di guardia si fece udire. - E due barconi di appoggio! ... - Quelle non hanno di certo delle bottiglie, - disse il basco. - Conteranno probabilmente un bel numero di corde per appiccarci. - Appiccare noi! - gridò il guascone, trinciando l'aria colla sua draghinassa. - Ah! ... Ci vuole ben altro per appiccare della gente come noi! ... - Già, - disse il fiammingo. - Gente come noi. I filibustieri si preparavano animosamente alla battaglia, cercando di raggiungere la fregata prima che le barcaccie, pessime veliere, potessero accorrere per appoggiarla. Il conte di Ventimiglia, dall'alto del cassero, impartiva con voce squillante gli ordini, mentre Grogner faceva altrettanto sul secondo vascello. La fregata, che era di forte tonnellaggio ed armata di una trentina di cannoni, muoveva pure risolutamente contro i corsari, sicurissima di sgominarli con poche bordate. Il signor di Ventimiglia, accortosi a tempo che gli spagnuoli muovevano all'arrembaggio con animo risoluto, aveva dato l'ordine alle due navi di scostarsi, per prenderli in mezzo, prima che giungessero le barcaccie, le quali contenevano numerosi combattenti e anche dei grossi pezzi d'artiglieria. A mille passi, il combattimento s'impegnò ferocissimo da ambe le parti. La fregata tuonava ed avanzava, tentando di disalberare i due legni corsari; questi rispondevano come potevano, non disponendo che di pochissimi pezzi. A cinquecento passi, gli spagnuoli i quali si tenevano sicurissimi di aver ben presto ragione di quell'accozzaglia di ladroni di mare, imbrogliano le vele di parrocchetto e di pappafico, per essere piú liberi nella manovra e filare sulla nave del conte di Ventimiglia, la quale era piú vicina, per abbordarla. I tamburi rullano fragorosamente sui suoi altissimi ponti ed il grande stendardo di Spagna sventola orgogliosamente al vento. I suoi archibugieri ed i suoi alabardieri sono schierati dietro i bastingaggi, pronti a montare all'abbordaggio, mentre dalle due barcaccie partono scariche violentissime, quantunque quasi inefficaci, in causa della distanza. - Fra poco qui farà molto caldo, - disse Mendoza, il quale non perdeva di vista la fregata. - Se gli spagnuoli muovono su di noi cosí risolutamente, è segno che sono ben decisi a sterminarci. Don Barrejo, temo che le bottiglie del capitano siano un po' dure da guadagnare. - Io ho l'abitudine di rispettare tutte le opinioni, però vi dico che il conte monterà all'abbordaggio prima degli spagnuoli. Ho sete: perché non dovrei bere? - Ben detto, - disse il fiammingo. - Noi berremo il vino di Panama. Le due navi corsare, con una manovra fulminea, avevano ripreso il largo, rispondendo vigorosamente coi loro pezzi. Subivano gravi danni per quel continuo cannoneggiamento, tuttavia non disperavano di dare ai loro nemici un'altra formidabile battuta. La fregata, che precedeva sempre le due barcaccie di parecchie gomene, si getta improvvisamente fra i due legni corsari, alternando scariche di mitraglia e palle. Era il momento atteso dai quattro capi della filibusteria, per tentare un attacco disperato. I due velieri in pochi istanti si stringono addosso al vascello nemico e, come era loro abitudine, scagliano sui ponti un numero cosí enorme di granate, da mettere, in pochi minuti, fuori di combattimento la maggior parte degli archibugieri e degli alabardieri e poi, approfittando della Grande confusione prodotta da tutti quegli scoppi, montano arditamente all'abbordaggio, con un urlio assordante. Bucanieri e artiglieri, tutti si precipitano all'assalto con una ferocia inaudita. Il conte di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, insieme ai tre avventurieri, sono i primi che montano sulla fregata. Un combattimento omerico s'impegna. Anche gli uomini di Tusley e di Grogner hanno abbordata la nave e si rovesciano, con impeto irresistibile, attraverso ai ponti, battagliando come leoni scatenati. Gli spagnuoli, già respinti a prora, attraversano a corsa sfrenata la tolda e si rifugiano sul cassero dove hanno un pezzo da caccia in batteria, ma la pioggia di bombe, scagliate dai filibustieri e dai gabbieri che sono rimasti sulle coffe e sulle crocette dei due vascelli, li raggiungono anche là, causando un panico indescrivibile. Il loro valore nulla può contro quella pioggia di fuoco e contro l'urto formidabile dei corsari, troppo abituati alle strepitose vittorie, ed il grande stendardo di Spagna viene calato fra gli urrah degli assalitori, ai quali la fortuna, ancora una volta, ha arriso. Di cento e venti uomini che si trovavano sulla fregata, ben ottanta erano caduti morti o gravemente feriti. Sbarazzatisi del nemico piú pericoloso, i filibustieri, lasciati alcuni uomini sulla fregata, tornano ad imbarcarsi sui loro legni, i quali durante quel formidabile cannoneggiamento non avevano riportati che pochissimi danni, e si mettono nuovamente in caccia per catturare le due barcaccie che erano montate da numerosi equipaggi. Un nuovo combattimento, non meno feroce e sanguinoso, s'impegna, ma i due legni corsari non tardano ad avere anche questa volta il sopravvento. Con un attacco fulmineo s'impadroniscono della barcaccia maggiore, nonostante la terribile resistenza che oppone l'equipaggio, forte di settanta uomini, dei quali soli diciannove sfuggono alla morte; l'altra, vedendosi perduta, alza tutte le sue vele e cerca di raggiungere la costa. Invece urta contro una scogliera, si spezza a metà e perde la maggior parte della sua gente. Non era però ancora finita e la stella che proteggeva quei formidabili scorridori dei mari non si era ancora offuscata. Erano intenti a liberare la fregata dai morti che la ingombravano ed a rattoppare alla meglio le attrezzature delle loro navi, alquanto malmenate dalle grosse artiglierie nemiche, quand'ecco che altre due barcaccie, montate pure da equipaggi numerosi, compariscono all'orizzonte. I filibustieri, inquieti, interrogano i superstiti della fregata e con minacce di morte riescono a sapere che quelle navicelle avevano ricevuto l'ordine di muovere al piú presto in soccorso della flottiglia. I filibustieri, quantunque esausti per tante ore di combattimento, non si perdono d'animo. Comprendendo che a Panama si ignorava ancora la sconfitta subita dalle navi spagnuole, s'imbarcano sulla fregata e sulla barcaccia catturata, alzano ai corni d'artimone lo stendardo di Spagna e muovono verso quei nuovi nemici che s'accostano fiduciosi, credendo avere da fare coi loro compatriotti. - Don Barrejo, - disse Mendoza, il quale essendo, come abbiamo già detto, uno dei migliori artiglieri della filibusteria, era stato incaricato del servizio del pezzo da caccia del cassero. - Spero che non vi lamenterete piú di non menare abbastanza le mani. - Perdinci, - rispose il guascone, il quale stava accomodandosi alla meglio la sua casacca squarciata da un colpo d'alabarda. - Non credevo d'aver tanto lavoro. La mia draghinassa, a forza di picchiare sugli elmi e sulle corazze, è diventata una vera sega. Sarà necessario che io scovi in qualche luogo un arrotino o finirà per non tagliare piú nemmeno il collo d'una bottiglia. - Cambiatela: ne abbiamo prese un buon numero sulla fregata. - Oibò! ... Io lasciare la spada di mio padre! ... Non sapete che questa lama ha preso parte a piú di venti combattimenti? È una lama storica nella famiglia dei de Lussac. - Mi rincresce che tagli poco ora. - Perché? - Non vi hanno detto che quelle barcaccie sono montate da biscaglini, i migliori marinai che abbia la Spagna? - Basterà per oggi anche contro di loro. - Badate che lavori bene, perché si dice che in quelle navicelle vi sia una grossa provvista di corde. - Che dovranno servire? - Ad appiccarci, se ci prendono vivi. - Dite sul serio? - Lo hanno confessato i prigionieri della fregata, - rispose Mendoza. - Oh! ... I bricconi! ... - Il viceré di Panama è stanco di noi ed ha giurato di farci fare l'ultima danza, appesi ai pennoni. - Brutto ballo, - disse il fiammingo, il quale si trovava presente. - Infatti non deve essere molto piacevole, - rispose il guascone. Mi raccomanderò alla mia draghinassa. - Sapete però che cosa hanno deciso i filibustieri? - Di adoperarle per legare come salami i prigionieri. - Niente affatto: di servirsene per far danzare sui pennoni, o meglio sotto i pennoni, gli equipaggi delle barcaccie. - Non li abbiamo ancora presi. - Eh! ... aspettate un po'. La fregata era giunta allora a buon tiro. Le due barcaccie, ingannate dallo stendardo che sventolava sempre sul corno dell'artimone, non avevano cessato di avanzarsi. Un comando breve, secco, echeggiò sul ponte della nave predata. - Fuoco di bordata! In un lampo la bandiera di Spagna viene ammainata e sostituita dagli stendardi di Francia e d'Inghilterra, e una tempesta di palle prende d'infilata le due barcaccie, disalberandole e rasandole come due pontoni. Una barcaccia s'incendia e brucia come un pezzo di legno secco e le polveri scoppiano con fracasso orrendo, scaraventando in alto la coperta, sventrando la poppa e sfondando le murate di babordo e di tribordo. L'altra però tiene vigorosamente testa all'attacco, cannoneggiando furiosamente coi due soli pezzi che aveva a bordo. La lotta non dura che pochi minuti, poiché in aiuto dei filibustieri accorrono anche i due vascelli, i quali fanno un fuoco infernale sulle due disgraziate navicelle. Quella che brucia va a fondo e nessuno degli uomini che la montano sfugge al disastro, l'altra viene abbordata e presa dopo un brevissimo combattimento. Ventidue filibustieri però cadono gravemente feriti e fra di loro Tusley, il quale doveva morire qualche giorno dopo avendo ricevuto una palla avvelenata. I filibustieri, furiosi per le gravi perdite subite e per aver trovato tante funi destinate ad impiccarli, non ostante le proteste del conte di Ventimiglia, non lasciano vivo nemmeno uno dei prigionieri che montavano la seconda barcaccia. Superbi di tanta fortuna, lo stesso giorno si ritirarono a Taroga per deliberarvi sul da farsi, avendo saputo che non uno bensí cinque dei loro compagni si trovavano prigionieri a Panama, soggetti a durissima schiavitú. Era loro intenzione di muovere audacemente sulla ricca città e di tentarne l'assalto. Ma avendo appreso che una forte squadra aveva lasciato i porti del Perú e che moveva in cerca di loro per finirla una buona volta, decisero di mandare un messo a Panama e d'intimare al Presidente dcll'Udienza Reale la pronta restituzione dei cinque prigionieri e della figlia del Corsaro Rosso, minacciando, in caso di rifiuto, di uccidere, per ognuno di essi, quattro spagnuoli dei tanti che tenevano nelle loro mani. Il Presidente manda ai filibustieri un ufficiale per dire loro a voce che nulla poteva fare e nel medesimo tempo ricorre al vescovo di Panama per tentare se il suo carattere potesse avere qualche efficacia, almeno sui francesi che si piccavano di mostrarsi sempre cattolici. Il vescovo scrisse infatti dicendo che il rifiuto del Presidente da non altro dipendeva che dalla obbedienza che egli doveva agli ordini sovrani, i quali gli proibivano una tale sorta di scambi ed avvertendoli nell'istesso tempo che quattro prigionieri inglesi si erano ormai convertiti al cattolicismo e che erano decisi a rimanere cogli spagnuolí. Quelle risposte, come si può ben comprendere, non erano sufficienti per persuadere quei formidabili corsari. In un altro consiglio decisero di rimandare un altro prigioniero a Panama affinché avvertisse anche a voce il Presidente che erano piú che mai risoluti a massacrare i trecento spagnuoli che tenevano nelle loro mani, anche per vendicarsi delle palle avvelenate usate dagli archibugieri della fregata, le quali avevano causata la morte di Tusley e dei ventidue feriti. Per fare maggior impressione, decapitarono venti prigionieri estratti a sorte e mandarono le teste a Panama. Un tale atroce fatto indusse il Presidente a non piú tardare a mettere in libertà quei prigionieri ed a pagare diecimila piastre. Nel numero mancava però la figlia del Corsaro Rosso. Fu un'esplosione di collera terribile, poiché i filibustieri ci tenevano soprattutto ad avere la fanciulla, perché ormai riguardavano il conte di Ventimiglia come il loro vero capo. Il progetto di trucidare tutti i prigionieri spagnuoli, compreso il marchese di Montelimar, per un momento trionfò ... - Mandate la testa dell'ex-governatore di Maracaibo al Presidente dell'Udienza Reale di Panama, - avevano detto Grogner e Raveneau de Lussan, che parevano i piú inferociti. - Diamo una terribile lezione a quegli uomini che usano contro di noi palle avvelenate, cosa contraria a tutte le leggi della guerra! ... - No, - aveva risposto fermamente il conte. - Io vi lascio liberi e mi risolvo ad andare a Panama a cercare mia sorella. Se avrò bisogno di voi, non dubito che voi accorrerete tutti in mio aiuto. Mettete a mia disposizione una barcaccia, affinché possa avviarmi alla costa ed uno schifo per entrare inosservato in porto. La testa del marchese di Montelimar risponderà della mia vita.

La loro grande ambizione era d'avere un buon archibugio, portante un proiettile del peso di un'oncia, ed una muta di venticinque o trenta cani blood-hound, che impiegavano per la caccia dei buoi selvaggi, allora, come abbiamo già detto, abbondantissimi in San Domingo. Del resto la sola carne di bue o di maiale, malamente arrostita o tutt'al piú cosparsa di pimento o di sugo di limone, non potendo sempre avere del sale, era il loro cibo giornaliero e per bevanda non avevano che dell'acqua e non sempre pura, abitando di preferenza i dintorni delle paludi, piú frequentati dalla selvaggina grossa, che i boschi immensi che occupavano tutto il centro della grande isola. Di comodità, quegli intrepidi cacciatori, non cercavano che una capannuccia che non valeva nemmeno quella che si costruiscono i polinesiani o i negri dell'Africa, appena sufficiente a ripararli dalle abbondanti piogge o dagli ardori cocentissimi del sole. Siccome poi da principio erano senza donne e senza figli, essi avevano presa l'abitudine di vivere due a due o di prendersi un novizio, che non sempre trattavano troppo bene, per aiutarsi scambievolmente. In quella strana società tutto era in comune e chi sopravviveva all'altro restava erede d'ogni cosa. Vi era però anche una certa comunanza di beni fra tutti, dimodoché ciò che mancava ad uno, questo andava a prenderselo da un altro, senza nemmeno chiedere il permesso, ed il rifiutarlo era tenuto come una gravissima ingiuria. Difficilmente perciò avevano questioni fra di loro, e se accadevano, gli amici erano sempre pronti a rappacificarle; se poi i querelanti si ostinavano a non fare la pace, terminavano le questioni a fucilate: guai però se il ferito veniva colpito nella schiena o nei fianchi! Il reo veniva preso e con un colpo di mazza sul cranio si mandava subito all'altro mondo, poiché quegli avventurieri si ritenevano gente d'onore, quantunque usciti per la maggior parte dai bassifondi delle grandi capitali dell'Europa occidentale. Né occorre dire se si attenessero alle leggi del loro paese natio, poiché essi credevano di esserne sciolti, dopo aver passato il tropico e aver ricevuto il battesimo di marinai, cerimonia allora molto in uso per coloro che per la prima volta passavano l'equatore. Forse è per quello che, abbandonati i loro nomi primitivi, ne usavano altri presi a capriccio. Non abbandonavano invece totalmente la loro religione, fossero francesi, inglesi od olandesi; ma questa consisteva soltanto nel nominare Dio e nel farsi di Lui un'idea quale giovava alle loro abitudini. Strano era in essi il modo con cui si univano talvolta in matrimonio colle donne, per la maggior parte indiane o prigioniere europee, comperate come schiave alla Tortue. - Mi dovrai rendere ragione di quanto farai d'ora innanzi con me, - dicevano quei fieri uomini. Poi, battendo sulla canna del loro infallibile archibugio, aggiungevano con voce minacciosa: - Ecco quella che mi vendicherà, se tu non mi ubbidirai! I bucanieri partivano ordinariamente per la caccia allo spuntare del giorno, preceduti dai loro cani e seguiti dall'arruolato. Un bracco camminava dinanzi alla muta e, scoperto il toro o il cinghiale, dava segno agli altri, i quali correndo ed abbaiando, gli si mettevano intorno finché giungesse il padrone. Il colpo era quasi sempre sicurissimo e la prima cosa che faceva il cacciatore, se riusciva a gettare a terra la selvaggina, era quella di tagliarle il garretto. Se la ferita era leggera e la bestia infuriava e caricava, il bucaniere, agilissimo, sapeva mettersi sempre in salvo, arrampicandosi su d'un albero. Di lassú poi finiva facilmente a colpi d'archibugio la bestia, la quale non aveva mai tempo di scappare. Essa veniva subito scorticata, poi il bucaniere ed il suo arruolato ne traevano uno degli ossi maggiori, lo spezzavano e ne succhiavano il midollo ancora caldo e quella era ordinariamente la loro colazione! Mentre l'arruolato s'incaricava di tagliare i pezzi migliori da seccare o affumicare e li trasportava nella capanna, il bucaniere continuava la sua caccia, aiutato dai cani, né smetteva finché calava la notte. Quando poi aveva messo all'ordine quella quantità di pelli sufficiente per costituire un piccolo carico, lo portava alla Tortue o in qualche altro porto tenuto dai filibustieri. Una esistenza condotta con siffatti esercizi e sostenuta col genere di alimenti che abbiamo accennati, salvava quei terribili cacciatori dalle tante malattie alle quali altri andavano soggetti. Tutt'al piú li colpiva talvolta una febbre effimera, che spariva prestissimo con semplici profumi di foglie di tabacco. A lungo andare però le fatiche eccessive e le intemperie dovevano a poco a poco esaurirli. Gli spagnuoli, inquieti per la presenza di quei cacciatori tutti stranieri, per un po' di tempo li lasciarono cacciare, ma quando li videro fondare degli stabilimenti nella penisola di Samana al porto di Margot, nella Savana bruciata, verso i Goniaives, nell'imbarcadero di Mirfolais ed in fondo all'isola Avaches, presero il partito di cacciarli dalla grande isola, dichiarando a quei disgraziati una vera guerra di esterminio. La guerra scoppiò ferocissima. Gli spagnuoli si erano facilmente lusingati di fare una vera strage di quei miserabili, i quali, dopo tutto, non avevano mai recata a loro alcuna offesa. Li sorprendevano spesso quando si trovavano in piccolo numero nelle loro corse, oppure di notte nelle loro abitazioni e, quanti ne prendevano, altrettanti ne trucidavano o li tenevano come schiavi, quasi fossero negri od indiani, facendoli lavorare duramente nelle piantagioni a colpi di sferza. Certamente i bucanieri in tal guisa sarebbero stati a poco a poco distrutti, dalle tante cinquantine lanciate attraverso i boschi, se con miglior consiglio i cacciatori non si fossero finalmente decisi a raccogliersi in corpo, per difendersi. Il bisogno di caccia portava che di giorno si sbandassero, ma alla sera si univano tutti in un luogo stabilito e se qualcuno mancava, argomentando che fosse stato ucciso, sospendevano le loro scorrerie fino a che o l'avessero trovato o vendicato. E cominciò allora una lotta a tutta oltranza, I bucanieri fino allora si erano lasciati trucidare; da quel momento cominciarono a prendersi cosí spaventose rivincite, che tutta l'isola fu inondata di sangue e molti luoghi ricordano anche oggidí coi loro nomi le stragi avvenute. Temendo però i bucanieri di non poter tenere testa alle innumerevoli cinquantine spagnuole, si decisero di trasportare, dopo una lunga lotta, i loro stabilimenti sulle isolette che circondano San Domingo. Non andavano piú ormai alla caccia che in grosse partite, combattendo fieramente quando incontravano il nemico. Alcuni stabilimenti salirono in fama, come quello di Bayaba, il quale aveva un porto vastissimo molto frequentato da navi inglesi, francesi ed olandesi. Appunto da Bayaba, essendo mancati un giorno quattro bucanieri, i loro compagni organizzarono una grossa spedizione per liberarli o vendicarli. Avendo appreso, strada facendo, che erano stati condotti a Santiago ed appiccati, trucidarono gli informatori che erano spagnuoli, poi assalirono furiosamente la città, prendendola d'assalto e massacrando quanti uomini si trovavano rinchiusi fra le mura. Non mancavano però gli spagnuoli di rifarsi di tratto in tratto delle sconfitte che subivano, ma era ben difficile di snidare, come essi desideravano, tutti i bucanieri che scorazzavano per le foreste dell'isola. Col tempo però vi riuscirono, distruggendo tutti i tori e tutti i porci selvatici che infestavano le foreste e le paludi, e quel colpo fu cosí fatale ai bucanieri, da deciderli a rivolgersi al mare per trovare nuovi alimenti e alla terra per ottenere raccolti da trafficare. Gli spagnuoli però si erano ingannati sulle loro speranze, perché i bucanieri, da cacciatori di terra si erano trasformati in scorridori del mare, diventando quei terribili filibustieri che dovevano recare tanti danni alle colonie spagnuole del golfo del Messico e dell'Oceano Pacifico. ... ... ... Il bucaniere, come abbiamo detto, udendo le parole del figlio del Corsaro Rosso, aveva lasciato cadere l'archibugio e si era fatto innanzi, col cappellaccio in mano, salutando rispettosamente con un profondo inchino. - Signore, - disse. - Che cosa desiderate da me? Sarebbe per me un grandissimo onore poter essere utile in qualche cosa al nipote del grande Corsaro Nero. - Non vi chiedo che un asilo sicuro per riposarmi qualche ora ed una colazione, se è possibile averla, - rispose il conte. - Io vi offrirò delle bistecche quante vorrete ed una superba lingua di bue, - rispose il bucaniere. - Tengo in serbo sempre qualche bottiglia di aguardiente per le visite inaspettate e sarò ben felice di offrirvela. - Buttafuoco - rispose il bucaniere sorridendo. - Un nome di battaglia, non è vero? - Il mio l'ho dimenticato - disse il cacciatore, corrugando la fronte. - Varcando l'Oceano, perdiamo i nostri nomi, ma vi posso dire che ero figlio di una buona famiglia della Linguadoca. Che cosa volete? La gioventú talvolta fa commettere delle cattive azioni ... Orsú, non parliamo di questo. È un mio segreto. - Che io non desidero affatto conoscere - rispose il conte. Il bucaniere si passò tre o quattro volte la mano callosa e macchiata di sangue sulla fronte, come se volesse scacciare lontani e dolorosi ricordi, poi disse: - Mi avete domandato un ricovero ed una colazione, ed io sarò orgoglioso di offrire l'uno e l'altra al nipote del grande corsaro. Accostò una mano alle labbra, si mise due dita in bocca e mandò un lungo fischio. Pochi momenti dopo un giovanotto di venti o ventidue anni, biondo, magro, con gli occhi azzurri, vestito come il bucaniere, accompagnato da sette od otto grossi cani, uscí dalla foresta. - Leva la pelle a questa bestia - gli disse ruvidamente Buttafuoco - e portaci al piú presto la lingua e delle costolette. Potranno servire per questa sera. Poi, volgendosi verso il corsaro con una gentilezza strana in un uomo di apparenza cosí rozza, disse: - Signore, seguitemi. La mia povera capanna e la mia misera dispensa sono a vostra disposizione. - Non vi chiedo di piú - rispose il conte. Il bucaniere raccolse il suo grosso archibugio e si mise in cammino, osservando attentamente le macchie, forse piú per abitudine che per altro, poiché i cani non davano alcun segno di inquietudine. - E il bufalo che avete ucciso, lo lasciate là? - chiese ad un certo momento il conte. - Il mio amico non dev'essere lontano - rispose il bucaniere. Incaricherò lui di scorticarlo e di togliergli le parti migliori. - E il resto? - Lo lasciamo ai serpenti e agli avvoltoi, signore, quello che a noi importa sono le pelli che si vendono vantaggiosamente a Porto Bayada agli inglesi o ai francesi che vi approdano in buon numero ogni sei mesi. - Senza venire disturbati dagli spagnuoli? - Oh! guai se ci lasciamo prendere! Ma noi siamo furbi, e poi siamo protetti dai filibustieri della Tortue, nostri buoni alleati. - Avete conoscenti alla Tortue? - Molti, signor conte. - Quando vi siete stato? - Appena tre mesi fa. - Grogner e Davis si trovano ancora colà? Ho delle lettere di raccomandazione per loro e anche per Tusley. Sono i filibustieri piú noti al giorno d'oggi, non è vero? - Sí, signor conte; ma dovreste correr molto, prima di presentargliele. - Perché? - Perché in questo momento lavorano sul continente o, meglio, sull'istmo di Panama, verso il Pacifico. Le loro ultime notizie, recate da un gruppo di filibustieri, sono giunte dall'isola di San Giovanni. Pare che si siano stabiliti colà per dare la caccia ai galeoni che il Perú manda di quando in quando a Panama. - Sicché sarò costretto ad attraversare l'istmo se vorrò trovarli? disse il signor di Ventimiglia, il quale sembrava non troppo lieto di quelle risposte. - Capitano, - disse Mendoza, il quale si era accorto del malumore del corsaro - Pueblo-Viejo si trova sull'istmo e non potremmo giungervi con la nostra fregata. Visiteremo quella graziosa città per andare a stringer la mano al marchese di Montelimar; poi andremo a cercare i famosi filibustieri, senza dei quali nulla potreste fare. - Tu hai sempre ragione, amico - rispose il conte rasserenandosi un poco. - Ecco la mia capanna - disse in quel momento il bucaniere, mentre i cani si slanciavano innanzi, latrando festosamente. Sotto un gruppo di splendide e altissime palme e di cavoli palmisti, sorgeva una miserabile abitazione formata da rami malamente intrecciati e da poche pertiche, con alcune pelli gettate al di sopra per riparare alla meglio il suo proprietario e il suo servo dagli acquazzoni diluviali che, di quando in quando, si rovesciavano sull'isola con furia inaudita. Sotto una piccola tettoia, innalzata a pochi metri di distanza, si trovava la cucina che consisteva in tre o quattro sassi, che dovevano servire da camino, da un paio di spiedi e da un vaso di terra pieno d'acqua. Tutto all'intorno vi erano pelli di bufali stese a seccare e ammassi di carne affumicata e seccata, coperti da gigantesche foglie di banano. - Ecco il mio palazzo! - disse il bucaniere ridendo. - Avrebbe bisogno di molte riparazioni, ma non trovo mai il tempo di diventare un boscaiuolo. Entrate, signor conte. L'interno della catapecchia non valeva piú dell'esterno. Uno strato di foglie secche serviva da letto, ed era tutto il mobilio di quel cacciatore, il quale forse un tempo era abituato al lusso raffinato della capitale della Francia. Appesi ai pali vi erano dei coltellacci imbrattati di sangue fino alle impugnature; dei corni immensi contenenti probabilmente della polvere da sparo; dei sacchetti di cuoio per il piombo e delle zucche che servivano da fiasche. - Un'abitazione da indiani! - disse il conte. - Peggio, signore! - rispose il bucaniere. - Quei selvaggi sanno fabbricarsi delle capanne assai piú comode delle nostre ... Accomodatevi, signori, mentre io vi preparo la colazione. Ecco il mio arruolato che giunge ben carico. Il giovane, lordo di sangue dal viso alle scarpe, avanzava penosamente, portando sulle spalle dei lunghi pezzi di carne che aveva allora levati dal bufalo, ed una magnifica lingua. - Spicciati, Cortal - disse il bucaniere ruvidamente. - Abbiamo delle persone a pranzo e offriremo loro un bell'arrosto di lingua. Vi è del maiale freddo avanzato da ieri? - Sí - rispose il giovanotto. - E la pelle del bufalo? - Andrai a raccoglierla piú tardi. Nessuno ce la porterà via. L'arruolato gettò in mezzo alle erbe la carne, diede uno sguardo di sfuggita agli ospiti, toccandosi con la destra grondante di sangue la tesa del suo cappellaccio scolorito e bucato almeno in dieci punti; poi alimentò il fuoco, mentre il padrone preparava la lingua e la infilava nello spiedo. - Non invidio di certo la vita di quel povero garzone - disse il guascone, indicando l'arruolato. - E forse anche lui appartenne un giorno a qualche buona famiglia. - Quanto dura il loro arruolamento? - chiese il conte. - Tre anni, ordinariamente - disse Mendoza. - Dopo passano a loro volta bucanieri; ma sono tre anni di tribolazioni, poiché vengono trattati come schiavi, e non sono loro risparmiate né percosse, né sofferenze d'ogni specie. I bucanieri, abituati a vivere sempre in mezzo al sangue, diventano ben presto brutali, e per loro, uccidere un toro o un uomo è la stessa cosa. Hanno una sola qualità buona: sono leali e ospitalissimi. - Sicché quando l'arruolato sarà diventato bucaniere, non tratterà meglio il garzone che prenderà al suo servizio. - È cosí, capitano - rispose Mendoza. - Si direbbe anzi che vogliano vendicarsi a loro volta delle busse prese e dei patimenti subiti durante la loro schiavitú. Mentre chiacchieravano, Buttafuoco e il suo servo si facevano in quattro per allestire il pranzo, molto abbondante, è vero, ma anche molto modesto, poiché non consisteva che in un pezzo di maiale freddo, nella lingua del bufalo malamente arrostita e in un cavolo palmista che, bene o male, surrogava il pane che mancava assolutamente. Quei poveri cacciatori soltanto qualche rarissima volta potevano ottenere un po' di grano, e allora era una vera festa per loro. L'arrosto fu presto pronto e fu servito dall'arr uolato su una foglia di banano, insieme con alcune enormi ossa già spezzate per poterne succhiare piú comodamente il midollo crudo e ancora tiepido. - Mi rincresce, signor conte, di non potervi offrire di piú - disse Buttafuoco, il quale cercava di mostrarsi amabile. - Se possedessi ancora il mio castelluccio in Normandia, avrei fatto ben altra accoglienza al nipote del grande Corsaro Nero ... Bah! - aggiunse poi, mentre la sua fronte si aggrottava ed una profonda emozione si dipingeva sul suo volto abbronzato - non vale la pena di risvegliare dei lontani ricordi. Il passato è morto per me, dopo che ho varcato la linea ... Mangiamo, signori! Tagliò la lingua e l'arrosto di maiale, servendosi d'un enorme coltellaccio; spaccò in vari pezzi il cavolo palmista con degli scatti d'ira che tradivano una profonda agitazione, poi con un gesto fece segno ai convitati di servirsi. Mangiarono in silenzio. Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine. Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco: - La fiasca d'onore: vi è un conte fra noi, amico. L'arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un'enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l'una e gli altri nella catapecchia. - Signor conte, - disse il bucaniere con una certa amarezza - io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l'isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va ... quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere ... Signor conte, accettate. - Voi siete commosso, Buttafuoco! - gli disse il signor di Ventimiglia. - Si può esser forti, signor conte, - rispose il bucaniere - si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese ... la mia Normandia ... il mio castello ... una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre ... il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell'abbazia ... Morte dell'inferno! Bevete, signor conte ... berrò anch'io! Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d'un fiato, gridando poi: - Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito! Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato. Non piangevano i suoi occhi, eppure s'indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene. - Bevete, signor conte, - riprese dopo qualche istante, vuotando un'altra tazza. - Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L'avevo sperato un giorno, era una follia certamente ... un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione. - Continuate, Buttafuoco, - disse il conte - siete fra amici. Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata: - Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo! ... Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina! - Ma chi siete voi? - chiese il conte, profondamente commosso dall'intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere. - Lo vedete, - rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente - un cacciatore di buoi ... un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore. Per la quarta volta vuotò la tazza che l'arruolato gli aveva riempita. - Gli anni sono passati, - riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano - Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice ... Un barone della Bretagna la fece sua sposa ... Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello ... Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete! Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse: - Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d'un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent'anni un colpo di spada m'avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d'una prigione ... non avrei macchiato il blasone dei miei avi ... non avrei dimenticata la mia Francia ... non avrei cambiato nome ... non sarei diventato un avventuriero ... non sa rei fuggito come un ladro ... e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura! - Buttafuoco! - gridò il conte. Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi. - È sempre cosí il tuo padrone? - chiese il conte all'arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna. - Io non l'ho mai veduto sorridere - rispose Cortal. - È sempre triste - E non sarà il solo - disse il guascone. - Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri! - E quanti gentiluomini ha rovesciato l'Europa in America! - rispose il corsaro. - È vero, signor conte - rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio semidistrutto. Io non ho veduto Parigi, né ho provato le sue seduzioni fatali. - Rovina di tanta gente dabbene! - disse il conte. - Vale meglio la Provenza! A sua volta si era alzato ed era uscito dalla capanna, cercando il bucaniere. Il cacciatore era scomparso, ma udí parecchi colpi di fucile tra le macchie. Aveva appena terminato il sigaro e stava per rientrare nella capanna, quando vide giungere Buttafuoco piú tetro che mai. Osservandolo attentamente, s'accorse che il fiero cacciatore aveva gli occhi rossi; come se avesse lungamente pianto. - È passata la tempesta? - gli chiese il signor di Ventimiglia con voce dolce. - Gli uragani durano poco a San Domingo - rispose il bucaniere con un triste sorriso. - Bah, tutto è passato, tutto è stato dimenticato! Ho ucciso due maiali selvatici, laggiú sul margine delle paludi ... è il mio mestiere. Il conte gli porse la destra: - Stringetela! - disse. - No, signor conte, io non sono piú degno di porgere la mano ad un onesto gentiluomo. Qui non siamo in Normandia. - Stringetela, vi dico. - Sí, non ora però. Quando noi ci lasceremo per sempre e vi dirò chi sono stato io un giorno ... forse allora ... Signor conte, fra quattro ore il sole tramonterà e la villa della marchesa di Montelimar è lontana. Volete che ci mettiamo in cammino? Non giungeremo a San Josè prima dell'alba, ed in questo paese è meglio marciare di notte. Le cinquantine di quando in quando perlustrano queste foreste e se non sono pericolose le loro alabarde, sono terribili i cagnacci che le accompagnano. - Sono pronto a seguirvi e ad obbedirvi - rispose il corsaro. - Siete ben sicuro che la marchesa non vi tradirà? Io conosco quella bella signora, avendola qualche volta incontrata nei dintorni della sua fattoria. - È una perfetta gentildonna che mi ha già salvato una volta. - Allora basta - rispose il bucaniere. - Chiamate i vostri compagni, signor conte, e dite che si prendano degli archibugi. Ne ho sempre tre o quattro di riserva e tutti di buon calibro, con palle di un'oncia. Mendoza ed il guascone, udendo il comando del conte, erano accorsi, seguiti dall'arruolato, il quale, come se avesse indovinato il pensiero del suo padrone, portava dei fucili e delle munizioni. - In marcia, amici - disse il signore di Ventimiglia. - Buttafuoco ci servirà da guida. Il bucaniere s'accostò all'arruolato, il quale lo interrogava con lo sguardo. - Tu rimarrai qui - gli disse con ruvida bonarietà - e aspetterai il mio ritorno. Che io stia lontano una settimana od un mese, non ti dar pensiero di me. Se gli spagnuoli ti minacciano, rifugiati nella colonia del capo Tiburon e là ci ritroveremo. Guardati dalle cinquantine, e abbi cura dei miei cani. Addio! Chiamò con un fischio stridente il suo bracco favorito e si mise in cammino a fianco del conte e seguito dal guascone e da Mendoza, calandosi il cappellaccio sulla fronte per meglio ripararsi dagli ardentissimi raggi del sole. Attraversò la macchia che serviva a nascondere la sua capanna e dopo essersi orientato con l'astro diurno, si cacciò risolutamente tra le immense boscaglie che si prolungavano verso occidente. Il bracco lo procedeva, fiutando di quando in quando il terreno, e volgendo la testa come per chiedere se era sulla buona via. - Avete la vostra nave, signor conte? - chiese il bucaniere, dopo aver percorso qualche miglio. - Deve attendermi al capo Tiburon - rispose il corsaro. - La villa della marchesa di Montelimar non si trova che a breve distanza dalla rada. La potrete scorgere dalle finestre della fattoria. - Non verranno a cercarci colà, le cinquantine? - Chi lo sa? Battono l'isola in lungo ed in largo, e non si sa mai dove si fermano. La marchesa però è troppo potente a San Domingo per non proteggervi. - Ne ho avuto la prova. - Allora potrete attendere tranquillamente la vostra nave, senza correre il pericolo di farvi prendere - rispose il bucaniere, sorridendo. - So quanto vale quella signora. - La conoscete? - L'ho veduta una sola volta, mentre attraversava a cavallo una foresta e le ho reso, anzi, in quell'occasione, un piccolo servigio. Se non mi fossi trovato sulla sua strada e non le avessi ammazzato il cavallo con un buon colpo di archibugio, non so se la signora di Montemilar sarebbe ancora viva, e se ... Il bucaniere si era interrotto, mentre il suo bracco scuoteva gli orecchi e puntava. - Che cosa c'è? - chiese il corsaro. - Nulla per ora - rispose Buttafuoco la cui fronte si era leggermente aggrottata. - Mi sembrate inquieto. - Posso essermi ingannato - Anche il vostro cane? Il Bucaniere stette un momento silenzioso, osservando attentamente il suo bracco il quale si era fermato e non cessava di alzare e di abbassare le orecchie. - Mi è sembrato d'aver udito un lontano latrato. - Che qualche cinquantina ci dia la caccia? - Può darsi, signor conte. Lasciamo i terreni scoperti e gettiamoci nella foresta. Là saremo piú sicuri.

. - Allora abbiamo smarrite le tracce di quei bricconi, - disse il capo della ronda, confuso. - Non avete veduto passare delle persone che correvano? - Abbiamo udito dei passi precipitosi verso l'opposta estremità di questa via, - rispose Mendoza. - Abitano qui loro signori? - In quella casa che ci sta di fronte, - disse il fiammingo. - Camerati, - disse il soldato, volgendosi verso i suoi uomini. - Riprendiamo la caccia. Buona notte, caballeros! Se i tre avventurieri non scoppiarono in una fragorosa risata fu un vero miracolo: - Voi siete un vero uomo di genio, - ripeté per la seconda volta il fiammingo, guardando con profonda ammirazione il guascone. - Prima era un giaguaro che faceva scappare la gente che poteva darci delle noie, ed ora sono dei nomi rimbombanti che mandano le guardie a passeggiare altrove, signor don Aramejo dei Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos ... - E conte d'Alcalà, - disse il guascone, ridendo a crepapelle. - E grande di Spagna, - aggiunse il marinaio. - Si era appropriato perfino il mio cognome, questo birbone. - Ed ora che cosa facciamo? - chiese il fiammingo. - È vero che abitate qui? - L'avete detto voi e non io, - rispose il guascone. - È vero, non me ne ricordavo piú. Avrete però un domicilio, suppongo. - E voi andate a dormire in mezzo alle strade alla notte? chiese Mendoza. - Avrete anche voi qualche stanza o per lo meno qualche bugigattolo. - Sono giunto in questa città solamente stamane e contavo di alloggiare nella taverna d'El Moro. - Gli è che la nostra casa è un po' lontana, - disse il guascone. - Ho la zampa lunga io. - Si trova fuori dalla città, verso le coste del Pacifico. Il fiammingo guardò Mendoza ed il guascone, un po' sospettosamente. - Orsú, - disse, - della gente che ha tanto fegato non può essere gente ... - Che cosa vorreste dire? - disse il guascone, aggrottando la fronte. - Degli avventurieri al pari di me. Io non esercito alcun mestiere, fuorché quello di menare le mani quando mi capita l'occasione. - Siete molto ricco allora. - Bah! ... Ho fatto un po' di fortuna nelle miniere d'oro di Costarica. Il guascone guardò Mendoza. - Una buona recluta, - rispose il basco. - Volete venire con noi? - chiese Barrejo. - Io seguo sempre la gente di spada, amante delle avventure arrischiate, - rispose il fiammingo. - Anche se quelle persone fossero ... dei filibustieri, supponiamo. - È sempre stato il mio sogno quello di unirmi a quei terribili scorridori del mare. Wan Horn era del Brabante. - Ed io ho combattuto sotto gli ordini di Wan Horn, - disse Mendoza. - Voi! ... - A Vera-Cruz. - Che fortuna! ... Il mio sogno era già quello di recarmi alla Tortue e di arruolarmi. - Non è necessario che intraprendiate un cosí lungo e pericoloso viaggio, - disse il basco. - I filibustieri sono piú vicini di quello che credete. Fra qualche giorno li vedrete a vuotare bottiglie e botti nella taverna d'El Moro. - E gli spagnuoli non lo sanno? - No e badate che non dovranno saperlo per mezzo della vostra lingua. - Un fiammingo non tradisce mai. - Allora seguiteci, - disse il guascone. - Cercheremo di lasciare la città prima che il sole si mostri. La nostra missione ormai è finita ed il conte deve essere molto impaziente. - Badiamo di non cadere nuovamente fra le braccia delle ronde, disse Mendoza. - Se si è sparsa la voce lanciata da quel taverniere del malanno che noi siamo filibustieri, il marchese di Montelimar avrà lanciato sulle nostre tracce i suoi migliori soldati. - È quello che temo anch'io, - rispose il guascone. - D'altronde non possiamo rimanere tutta la notte dinanzi a questa casa, che non è mai stata nostra. - A guardare la luna e fumare sigari, - aggiunse il fiammingo. - In cammino, - disse il basco, risolutamente. - Cerchiamo di guadagnare la grande foresta. - È che non troverete mica un altro don Barrejo a guardia della porta di ponente, - disse il guascone, ridendo. - Scenderemo i bastioni, camerata. Stettero in ascolto e, non udendo alcun rumore, si misero in cammino, premurosi di lasciare quella specie di trappola che per poco non diventava fatale per loro. Avevano già percorso quasi tutta quella viuzza chiusa, quando il guascone, che camminava innanzi a tutti e che stava per svoltare l'ultimo angolo, s'arrestò di colpo, mettendo mano alla draghinassa. - Ohé, amici, - disse. - Sembra che la fortuna non ci sia propizia questa sera. - La ronda? - chiesero ad una voce Mendoza ed il fiammingo, con inquietudine. - Vi sono delle persone munite di torcie che s'avanzano verso di noi e vedo scintillare elmetti corazze, e anche archibugi. - Canarios! - esclamò Mendoza. - Che ci prendano? Aveva fatto qualche passo innanzi, svoltando l'angolo dell'ultima casa di destra. Il guascone non si era ingannato. Sette od otto persone s'avanzavano, rischiarando la via con delle torcie. Erano tutti soldati, però dietro di loro il basco scorse un omaccione vestito di bianco, il quale reggeva una lanterna. - Per la morte di tutti i pescicani del Pacifico! - esclamò, retrocedendo vivamente. - Il taverniere d'El Moro! Siamo perduti! ... - Cerchiamo di aggiungere a tutti i miei titoli quello di conte d'Alcalà, - disse il guascone. - Chissà che la ronda non ci lasci andare un'altra volta. - Se c'è il taverniere colle guardie! ... - Noi abbiamo commesso una grave imprudenza a non sbudellarlo, quando voleva rubarci altre dieci piastre. È proprio vero, - disse il fiammingo. Paghiamogliele, e che ci lasci in pace, - disse Mendoza. Vediamo se si può aggiustare questa faccenda, - rispose don Barrejo. - Riprendiamo il nostro posto dinanzi alla casa che deve figurare come nostra e ripetiamo i nostri discorsi da buoni borghesi che hanno poca voglia d'andarsene a dormire quando splende la luna. Rifecero frettolosamente la via e si fermarono all'estremità opposta della viuzza, fumando e chiacchierando tranquillamente. Proprio in quel momento la ronda, che si era rinforzata di altri due archibugieri e che era sempre seguita da quel dannato taverniere, fece la sua entrata. Vedendo i tre uomini fermi ancora, il capo gridò: - Eccoli! ... Vedremo se saranno loro! ... - Sono certo di non ingannarmi, - disse il taverniere a voce alta. Non possono essere scappati cosí presto. I miei aiutanti sorvegliavano tutte le vie perché non si eclissassero. Sono filibustieri: ve lo dico io. - Il diavolo ti porti all'inferno, - brontolò il guascone, facendo una brutta smorfia. - Quel furfante guasterà tutto. Se ti posso prendere, salderemo i conti: parola di guascone. Il capo della scorta si era fatto innanzi, colla spada sguainata nella destra e una torcia nella sinistra. - Come! - disse. - Siete ancora lí, signor d'Aramejo dei Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos ... - E conte d'Alcalà, - aggiunse il guascone, volgendosi e prendendo una posa da gran signore offeso. - Vi rincresce, signor soldato? - Perché non siete entrato a dormire? - Perché stiamo discutendo sulla luna. Sapreste dirci voi se è abitata o no? - Che cosa volete che ne sappia io, signor ... - Conte d'Alcalà, per Bacco! ... - Conte d'un corno! - esclamò il taverniere, che giungeva in quel momento, asciugandosi il sudore che gli inondava il viso colla salvietta che gli serviva per pulire le tazze di terra cotta. È il mio uomo. Il guascone si era voltato verso il furfante, chiedendogli con feroce cipiglio: - Chi siete voi? - Il taverniere d'El Moro. Non fate lo sciocco, signor mio. Vi ho riconosciuto e cosi pure ho riconosciuto i vostri compagni. - Signor capo-ronda, - disse il guascone, fingendosi altamente meravigliato. - Non vi è in questa città un ricovero pei pazzi? Se l'hanno costruito, afferrate quell'imbecille e cacciatevelo dentro a doppio catenaccio. - Vi dico che è proprio lui! - strillò l'oste. - Voleva scannare o sventrare quell'altro che ha il barbone e che ora è diventato suo amico. Sono dei filibustieri! ... Ve l'assicuro io. - Per satanasso! - gridò Mendoza, facendosi innanzi, colla spada sguainata. - Chi sei tu, mascalzone, che osi insultare il conte d'Alcalà mio padrone? Da dove sei sbucato tu? Che cosa vuoi da galantuomini della nostra specie? - Ma sí, quell'uomo è pazzo da legare, - appoggiò il fiammingo. - Io non ho mai questionato col mio padrone, il signor conte d'Alcalà. - Mariuoli! Avete bevuto nella mia taverna un doblone in tante bottiglie. Il capo della ronda non sapeva piú che pesci prendere. Doveva credere a quel nobilone che aveva tanti titoli intorno al suo blasone od al taverniere? - Signor conte, - disse. - Seguitemi al cabildo. Io devo chiarire questa faccenda. Io conosco l'oste d'El Moro e so che è sempre stato un galantuomo. - E che! - gridò il guascone. - Vorreste tradurre in prigione un signor d'Aramejo dei Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos, conte d'Alcalà? Mi lagnerò col marchese di Montelimar mio amico e vi farò consegnare per un paio di settimane, signor capo-ronda. - Il mio dovere è di non lasciarvi in libertà, almeno pel momento, signor conte, - disse il soldato. - Qui vi è un uomo, noto in tutta Pueblo-Viejo, che vi accusa. - E vi sono anche i quattro miei aiutanti, - disse il taverniere. Il guascone scambiò un rapido sguardo coi suoi compagni, poi, comprendendo benissimo che una battaglia sarebbe stata troppo pericolosa contro quattro archibugieri e due alabarde e peggio, con un uomo inerme come lo era il fiammingo, disse con un fare sdegnoso: - Un conte d'Alcalà non è mai stato rinchiuso in un cabildo. Se volete arrestarci, conduceteci nel palazzo del governatore. Suppongo che avrà qualche camera per rinchiudere, sia pure con trenta sbarre di ferro, delle persone dabbene. Domani poi, furfante d'un taverniere, saprai chi sono io e chi sono le persone che mi accompagnano. Bada però alla tua pancia! ... - Non sarete voi che spillerete vino dal mio barile, - rispose l'oste, che era sempre furioso. - Vedrai, amigo! ... Signor capo-ronda siamo con voi. Vi avverto però che se ci tradurrete al cabildo lavoreranno le nostre spade. - Giacché voi avete affermato di essere l'amico del marchese di Montelimar, governatore della città, vi condurrò da lui, - rispose il soldato. Io ne ho abbastanza di questa brutta faccenda. Amico, - disse il guascone, volgendosi verso il fiammingo, - vi siete provvisto abbondantemente di sigari, come vi avevo ordinato? - Sí, signor conte, - rispose l'uomo barbuto. - Sapete bene che io non scordo mai i vostri ordini. - Date da fumare alla ronda. Il fiammingo trasse da una tasca interna una manata di Cuba autentici e li offrí ai soldati, i quali non si fecero pregare ad accettare la cortese offerta. - Niente al taverniere, - disse il falso conte. - Quello meriterebbe una corda al collo. E ora, signori miei, andiamo a dormire a casa del governatore. Domani questa brutta faccenda sarà finita e quel furfante di taverniere mi farà le sue scuse. Partiamo. - Andatevene al vostro albergo, - disse il capo della ronda all'oste. - Pel momento non abbiamo piú bisogno di voi. - Teneteli d'occhio, perché quei tre signori sono capaci di giuocarvi un brutto tiro. Vi dichiaro che sono dei cattivi avventurieri. - Chiudi il becco, brutto pappagallo, - disse il conte, con voce minacciosa. - Ed ora vattene, o t'insegno io, anche in presenza di questi bravi militi, quanto può costare un'offesa fatta al conte d'Alcalà. - Via, via, a domani, - disse il capo della ronda, prendendo il taverniere per le spalle e spingendolo. - Voi pel momento non entrate piú in questa faccenda. Potreste esservi ingannato. - Ma che! ... Sono cialtroni! ... - Basta, carrai! Andatevene o arresto anche voi. - E allora ci penserò io ad accopparlo, - disse il fiammingo. troppo! ... - Signori, - disse il capo della ronda, il quale gustava il sigaro regalatogli dall'avventuriero. - Vi prego di seguirmi al palazzo del governatore. Io spero che questa faccenda finirà bene per tutti voi. Tre archibugieri si misero dinanzi ai tre avventurieri; il quarto ed i due alabardieri di dietro e si misero in marcia, mentre il taverniere, niente soddisfatto, se ne andava da un'altra parte, brontolando. Mendoza urtò il gomito del guascone. - E ora? - gli chiese sottovoce. - Non vi inquietate, compare, - rispose don Barrejo. - Suona in questo momento mezzanotte e Sua Eccellenza il governatore non prenderà il cioccolatte prima delle nove o delle dieci. In nove ore un bravo guascone può, se vuole, rovesciare anche il mondo. Il marinaio scosse il capo, come uomo poco convinto d'una simile gradassata, però si guardò bene dal rispondere, per non mettere in sospetto i militi della ronda, quantunque fossero tutti occupati a fumare i sigari, veramente eccellenti, dell'uomo barbuto. Dopo aver percorso quattro o cinque vie, il drappello sbucava su una vasta piazza, in mezzo alla quale s'innalzava una magnifica chiesa di enormi dimensioni: quella chiesa che doveva piú tardi far passare un terribile momento agli abitanti della piccola città. Di fronte sorgeva un palazzotto, munito sulla cima di merli e di minuscole torricelle e con un ampio portone che metteva su uno spazioso patio: era l'abitazione di S. E. il marchese di Montelimar, governatore di Pueblo-Viejo. Una grossa lampada, formata da sette od otto candele riunite e racchiuse dentro un enorme globo di vetro giallo, illuminava l'entrata e i due alabardieri che erano di guardia. - S. E. dorme, - disse il capo della ronda, dopo aver dato uno sguardo verso le finestre che erano tutte chiuse ed oscure. - Non c'è nessuna premura, - rispose il guascone. - Mi offrirà il cioccolatte domani mattina, quando si sarà alzato. Oh! ... Siamo vecchie conoscenze. - Chiederò per voi e pei vostri compagni una buona stanza, dei buoni letti ... - E delle bottiglie e una cena, - disse don Barrejo. - Ho dei dobloni da spendere io, e che non sanno che cosa fare in fondo alle mie tasche. Probabilmente si annoieranno come il suo padrone. Eccovene uno purché ci diate da mangiare e da bere. Sono troppo arrabbiato per coricarmi. - Farò il possibile per contentarvi, - rispose il capo-ronda, il quale in fondo doveva essere un brav'uomo. - S. E. ha una buona cucina e un ottimo cuoco, a quanto si dice, e andrò a scovare quanto è rimasto di meglio della cena. Scambiò alcune parole cogli alabardieri di guardia e guidò i prigionieri su per un magnifico scalone di marmo giallo, introducendoli in una stanza situata al primo piano, la cui porta era aperta. - Attendetemi lí dentro, mentre vado ad avvertire il maggiordomo di S. E. Il guascone e i suoi due amici fecero la loro entrata, mentre la ronda si metteva di guardia al di fuori ... Quantunque la mezzanotte fosse già scoccata, quella stanza era ancora illuminata da un paio di candele. Era una specie di sala, ammobigliata senza lusso, poiché non conteneva che una immensa tavola coperta d'un tappeto verde e una dozzina di sedie e due scaffali pieni di libracci polverosi. - Che sia la biblioteca di S. E.? - chiese il guascone. - Cosí parrebbe, - rispose Mendoza, il quale osservava attentamente tutti gli angoli, sperando di trovare qualche uscita ignorata dal capo-ronda. - Ci sono delle inferriate alle finestre? - domandò il guascone. Il fiammingo alzò le pesanti tende e fece una smorfia. - È una sala-prigione, questa, signori miei, - disse. - Quel capo-ronda, malgrado la sua aria d'ingenuo, deve essere un furbo di tre cotte. - Come ve la caverete ora, don Barrejo? - chiese Mendoza, il quale aveva ispezionata inutilmente la camera. - Il vostro amico governatore vi riconoscerà? - Il mio amico! ... Non ho mai veduto il marchese, io! ... Ma non ve ne date troppo pensiero, signor basco. La commedia non è ancora finita. Il fiammingo lo guardò con stupore. - Siete il diavolo voi? - disse. Il guascone si volse guardandosi dietro la schiena. - Io non ho la coda, - rispose poi. - Come vi può essere un diavolo senza quella nera o rossa appendice? Se io non la posseggo, vuol dire che io sono un uomo al pari di voi, signor fiammingo. - Se non siete veramente compare Belzebú, dovete essere qualche suo stretto parente, - disse Mendoza, ridendo. In quel momento la porta si aprí ed entrò il capo-ronda, seguito da due servi africani, i quali portavano dei canestri coperti con delle salviette. - Signor conte d'Alcalà, - disse, rivolgendosi al guascone, mi rincresce dovervi avvertire che non vi sono piú stanze disponibili nel palazzo di S. E. e che quindi sarete costretti a passare la notte qui. Se vorrete vi farò portare dei materassi. - È inutile, - rispose don Barrejo. - Abbiamo piú fame che sonno, piú sete che desiderio di riposarci e ci basteranno un paio di sedie. Io sono un uomo di guerra, e i miei servi sono abituati a dormire sulla nuda terra, quando sono in campagna. - Devo pure avvertirvi, signor conte, che ho ricevuto l'ordine di rimanere con voi. - Eh! - fece il guascone, corrugando la fronte. - Forse voi non gli avete detto che io sono il conte d'Alcalà. - Anzi ho aggiunto tutti gli altri vostri titoli, perché non mi sono ancora sfuggiti dalla mente, tanto sono simpatici. Il capo-ronda aveva pronunciato queste parole con una leggiera punta d'ironia, che non era sfuggita al terribile avventuriero. - Ciò mi rincresce, - disse finalmente il guascone, dopo d'aver fatto alcuni passi lungo l'immensa tavola. - È una prova di poca fiducia. - Io, signor conte, non sono altro che un povero soldato e devo obbedire sempre. - Ci avete portato almeno da mangiare e da bere? - Tutto quello che ho trovato nella cucina di S. Eccellenza il signor Governatore. - Dovevate aggiungere almeno un bossolo e dei dadi, per fare qualche partita al montes. - Un soldato tiene sempre nelle tasche l'uno e gli altri, per ammazzare alla meglio il tempo, quando non è di guardia. - Bene, bene, - disse il guascone. - Cenerete con noi. Congedate almeno quei due negri. Io non amo vedermi intorno delle facce nere quando mangio. Il capo-ronda prese i due grossi canestri e li depose sulla tavola, poi fece un segno ai due schiavi, i quali uscirono subito, dopo d'aver fatto un profondissimo inchino. Mendoza e il fiammingo, che dovevano passare, di fronte al soldato pei servi del conte, vuotarono lestamente i due canestri mettendo sulla tavola della carne fredda, un paio di anitre che erano state appena toccate, del formaggio salato e dei dolci, nonché una mezza dozzina di bottiglie francesi, almeno a giudicarlo dalle etichette dorate. - Ceniamo, - disse il guascone, con fare burbero. - Con un doblone per il cuoco di S. E. potevano fornirci qualche cosa di meglio. - I pranzi non s'improvvisano, signor conte, - disse il caporonda. - La mezzanotte è già scoccata da un bel po' e tutti i negozi sono chiusi. - Bene, bene: mangiamo. I tre avventurieri, ai quali l'appetito non faceva mai difetto a qualunque ora del giorno, si misero a divorare gli avanzi della cena di S. E. il governatore, avanzi già abbondanti anche per quattro uomini. Il capo-ronda, che forse mai si era trovato dinanzi a delle anitre cosí splendidamente arrostite, faceva del suo meglio per gareggiare col signor conte d'Alcalà, d'Aramejo, de Mendoza y Alicante, y Bermejo de los Angelos e d'altri luoghi ancora, e s'attaccava con slancio anche alle bottiglie che il basco andava sturando a due alla volta. Quando tutta quella grazia di Dio fu scomparsa, il capo-ronda, che era diventato di buonissimo umore sotto l'influenza dei vini di Spagna e di Francia, trasse il bossolo e i dadi, ed i quattro uomini giuocarono parecchie partite al montes, scommettendo un bel numero di piastre. Specialmente i tre prigionieri mostravano una calma meravigliosa, piú apparente che reale però, poiché fra un colpo e l'altro dei dadi non cessavano di dare uno sguardo verso le due finestre, paventando la comparsa del sole. Forse il meno inquieto era il guascone. Probabilmente quel diavolo d'uomo doveva aver architettato qualche cosa di straordinario per levare sé e i suoi compagni da quel ginepraio, in fondo al quale potevano nascondersi tre buone corde per appiccarli. Gli spagnuoli non erano troppo teneri, e con ragione, coi filibustieri e di rado se li lasciavano sfuggire di mano, quando avevano la fortuna di potere acciuffare qualcuno di quei formidabili scorridori dei mari americani. Purtroppo il mattino giunse e la luce cominciò a trapelare attraverso le tende. Mendoza ed il fiammingo guardarono con ansietà il guascone, il quale stava in quel momento giuocando dieci piastre contro il capo-ronda. Don Barrejo non pareva affatto preoccupato. Solamente una ruga piuttosto profonda, che gli solcava la fronte, tradiva qualche apprensione. Terminò la partita, intascò il denaro che aveva vinto, poi si alzò, dicendo: - È giunto il momento d'andare a bere una tazza di cioccolatte da S. E. il marchese di Montelimar. Si alza presto, signor soldato? - È molto mattiniero, essendo sempre stato un gran cacciatore, rispose il capo della ronda. - Allora sarà già in piedi. - Lo credo. - Volete degnarvi di andarlo ad avvertire che il conte d'Alcalà desidera salutarlo? - Dovrò anzi spiegargli il motivo del vostro arresto, per evitarmi una punizione. - Andate pure. Il capo-ronda stava per alzarsi, quando la porta si aprí ed entrò un signore piuttosto attempato e vestito come un grande di Spagna. Il signor intendente di S. E. disse il soldato, inchinandosi. - Dov'è questo conte d'Alcalà? disse il vecchio. Sono io, signore, - rispose il guascone, facendo un lieve saluto colla destra. - S. E. il marchese di Montelimar vi aspetta. - Sa perché mi hanno arrestato? - Gli ho narrato il vostro disgraziato caso, signor conte, e spero che tutto si accomoderà. - Sono pronto a seguirvi. - E noi, signor conte? - chiesero Mendoza ed il fiammingo. - Mi aspetterete qui. Io non ho la cattiva abitudine di condurre i servi dinanzi ai gentiluomini. Signor intendente sono ai vostri ordini. - O quel demonio lí ci fa mettere in libertà o rovina tutto e ci fa appiccare, - mormorò il basco. Il finto conte era già uscito, seguendo l'intendente, mentre il capo-ronda rimaneva a guardia del basco e del fiammingo. Dopo aver attraversato parecchi corridoi, che invece delle finestre avevano delle feritoie, poiché tutti i palazzi dei governatori spagnuoli delle colonie dovevano servire da fortezze in caso di pericolo, il guascone fu introdotto in un elegantissimo salotto con divani e poltroncine di seta gialla a fiori rossi e tendaggi ricchissimi, i quali attenuavano assai la luce. Un uomo di circa quarant'anni, d'aspetto distinto, con barba e baffi un po' brizzolati, con due occhi nerissimi e molto vivi, affogato in un enorme colletto inamidato, come si usava in quel tempo, stava seduto dietro ad un bellissimo scrittoio di acagiú, coperto d'un ricchissimo tappeto di seta azzurra a ricami ed ingombro d'una straordinaria quantità di pergamene. - Oh! ... Eccellenza! ... Sono molto lieto di rivedervi dopo tanti anni, - disse il guascone, avanzandosi audacemente colla destra tesa. Il governatore di Pueblo-Viejo non potè fare a meno di alzarsi, guardando fisso fisso l'avventuriero. - Come! ... Non vi rammentate piú del conte d'Alcalà, signore d'Aramejo, di Mendoza y Alicante, y Bermejo de los Angelos? Mio padre era un grande di Spagna. Voi siete bene il marchese di Maracaibo e di San Domingo? - Certo, - disse il governatore, il quale guardava con crescente stupore l'audace avventuriero. - E allora dovete rammentarvi di me, - disse il guascone, il quale giuocava disperatamente le sue ultime carte. - Dove mi avete veduto voi, signor conte? - Nel palazzo di vostra cognata, la bellissima marchesa di Montelimar. Abbiamo bevuto insieme il cioccolatte, Eccellenza, vicino a un tavolo da giuoco o nella gran sala. Ora non mi rammento bene, perché sono trascorsi parecchi anni. - Può darsi, - rispose il governatore. - Ho abitato infatti per qualche tempo il palazzo del defunto mio fratello. - Me ne ricordo come fosse ieri, - proseguí il guascone. - Vi era un concerto quella sera nella dimora principesca dei Montelimar. Ah! ... Che splendida serata! ... - Voi dunque conoscete mia cognata? - La marchesa Carmen di Montelimar! ... È la perla delle grandi Antille! ... - E come, voi, signor conte, vi trovate qui in istato d'arresto? - Sono due mesi che viaggio per recarmi a Panama, dove devo raccogliere una piccola eredità di centomila dobloni, lasciatimi dal duca di Barraquez, mio zio materno. - E la chiamate una piccola eredità? - Eh! ... Miseria, - disse il falso conte. - E perché avete interrotto il vostro viaggio e vi siete fatto arrestare dalle ronde notturne? Mi si dice che avete fatto molto baccano in una taverna della città. - Vi dirò, Eccellenza, che lungo la via, anzi a poche leghe dalla città, sono stato assalito da una turba d'indiani, i quali mi hanno massacrata mezza scorta, uccisi i cavalli e rubate anche tutte le armi da fuoco. È stato un vero miracolo se ho salvato solamente la mia spada e se sono riuscito a liberare due dei miei servi. Gli altri a quest'ora saranno stati già divorati, poveri diavoli. - Questi indiani cominciano a diventare troppo prepotenti! - esclamò il marchese. - Sarà necessario dare loro qualche terribile lezione, caramba. - Era appunto quello che pensavo anch'io, quando sono entrato in questa città, a piedi come un mendicante e senza nemmeno un archibugio, - disse il guascone. - Ed ora che cosa intendete di fare? - Di andarmene al piú presto a Panama, a raccogliere quei pochi dobloni, - rispose il guascone. - Avete già acquistati altri cavalli ed altre armi? - No, Eccellenza, anzi sono molto preoccupato per questo, non essendomi rimasto che una cinquantina di piastre. Gl'indiani hanno portato via tutte le mie valigie, insieme a duemila dobloni che avevo preso con me per le spese del viaggio. Il guascone aveva pronunciate queste parole con accento cosi commosso, che S. E. il governatore fu profondamente impressionato. - Signor conte, - disse, - è uso di aiutarsi fra gentiluomini. Ho nelle mie scuderie dei buonissimi cavalli, dei veri andalusi, e nel magazzino delle armi, archibugi e pistole, in grande quantità. Se volete, approfittate pure senza riguardi di sorta: quando sarete giunto a Panama mi rimborserete gli animali. - E che cosa potrò fare io per voi, Eccellenza? - chiese il guascone, che sembrava vivamente commosso. - Mi saluterete il viceré di Panama, a nome mio. - Farò di piú, Eccellenza. Un uomo che eredita centomila dobloni in contanti ... - Lasciate andare, signor conte. Ah! ... Ed il vostro affare? - Quale? - Spiegatemi perché le mie ronde vi hanno arrestato. Il guascone si mise a ridere. - È stato in causa d'una comica avventura. Eccellenza, - disse. - Non conoscendo la città, mi ero rifugiato, insieme ai miei due servi, in una taverna, per mangiare un boccone e rimettermi un po' dall'emozione provata. Il padrone, avendo saputo, non so come, che io ero un conte, mi fece pagare un'anitra ed una miserabile bottiglia di metzcal, la bagatella d'un doblone. Io protestai, quel briccone protestò pure, anzi lanciò contro di me tutti i suoi cuochi armati di spiedi, e allora sguainai la spada e li mi si tutti in rotta. Io credo che un altro gentiluomo non avrebbe fatto diversamente. - Forse di peggio, - disse il marchese, ridendo. - Ne avrebbe infilzato qualcuno. - E ne avrei infatti sbudellato qualcuno, se non fossero scappati tutti come veltri. - È meglio che l'avventura sia terminata senza spargimento di sangue, conte. Quando volete partire, dunque? - Se fosse possibile, immediatamente, - rispose il guascone, il quale temeva, e non senza ragione, che da un momento all'altro giungessero il taverniere d'El Moro ed i suoi aiutanti. Il governatore batté le mani e subito comparve l'intendente, seguito da due servi negri, i quali portavano su dei vassoi d'argento delle tazze colme di cioccolatte e dei pasticcini. Il marchese scambiò col suo segretario alcune parole a mezza voce, poi, rivolgendosi verso il guascone, gli disse amabilmente: - Spero, signor conte d'Alcalà, che non rifiuterete una tazza di cioccolatte. Già noi in America ne facciamo molto uso, lo sapete. - Ne bevo sempre, quando apro e quando sto per chiudere gli occhi, - rispose il guascone, prendendo una tazza e vuotandola frettolosamente. - Eccellenza, - proseguí poi, - al mio ritorno, se non vi dispiace, verrò a ritrovarvi. - La mia casa è sempre aperta ai gentiluomini d'oltre Atlantico, - rispose cortesemente il governatore, porgendo la destra al falso conte. Don Barrejo gliela strinse calorosamente, fece tre profondi inchini, poi uscí dal salotto, facendone, prima di varcare la soglia, altri tre anche piú profondi. Sul pianerottolo lo aspettava l'intendente. - I cavalli e le armi sono pronte, signor conte, - gli disse. - Il marchese è una persona dabbene, - rispose don Barrejo. - Quando avrò incassata la mia eredità non mi scorderò né di lui, né di voi. Centomila dobloni non sono gran cosa, tuttavia non sono, dopo tutto, cento piastre. - Dite: una fortuna colossale, signor conte. - Peuh, - disse il guascone. - Mio zio avrebbe potuto lasciarmi ben di piú. Era il nipote dell'arcivescovo di Panama, quello morto sei anni fa e so che era ricchissimo. Oh! ... Non importa! ... Signor intendente, volete farmi il favore di far avvertire i miei uomini di venirmi a raggiungere? - Me ne incarico io, - rispose il brav'uomo. - Scendete pure, signor conte, troverete i cavalli pronti dinanzi alla porta del palazzo. - Grazie, signor intendente: quando sarò in possesso dei miei centomila dobloni non mi scorderò di voi. Scese lo scalone, senza troppo affrettarsi, quantunque avesse invece il desiderio di fare una sola volata fino al di là dei bastioni, per paura che da un momento all'altro giungesse quel maledetto taverniere a guastare la faccenda cosi bene incamminata, e uscí dal palazzo. Dinanzi, trattenuti da due negri, scalpitavano tre bellissimi cavalli sauri, dalla criniera lunghissima, bassi di statura, come sono generalmente quelli di Tazza andalusa, i migliori che abbia la Spagna, perché velocissimi, resistentissimi e d'una solidità meravigliosa. Il guascone li esaminò a lungo, da uomo che se ne intende, poi si stropicciò allegramente le mani, dicendo: - Per bacco! ... Il signor marchese di Montelimar possiede dei cavalli splendidi! ... Quando avrò ereditato i miei centomila dobloni, lo pregherò di vendermene alcuni. Non manca nulla; bardatura solida, archibugio appeso alla sella, pistole nelle fonde. È ben gentile S. E. il Governatore. Si capisce che queste parole le aveva pronunciate a voce alta, perché le udissero i due staffieri che trattenevano i cavalli ed i due alabardieri che stavano di guardia dinanzi al magnifico portone del palazzo. In quel momento comparvero Mendoza ed il fiammingo, accompagnati dal capo-ronda, il quale appariva molto avvilito per l'enorme granchio che aveva preso. - A cavallo i miei servi, - disse il guascone, montando in sella, da cavallerizzo esperto. - Vi avverto che ho molta premura e che quindi faremo una lunga trottata. Il basco ed il fiammingo erano rimasti immobili, come trasognati, guardando con profondo stupore quel diavolo d'uomo. Credevano di venire condotti in una prigione meno comoda di quella del palazzo del governatore, per poi venire con ogni probabilità appiccati, e si trovavano invece dinanzi dei magnifici cavalli e delle armi. - Mi avete capito? - gridò don Barrejo, facendo un gesto d'impazienza. - Il signor governatore ha riconosciuto l'errore commesso dalle sue guardie e ci ha rimessi in libertà. Diamine! ... Non poteva certo mantenere l'arresto d'un conte d'Alcalà. Quindi, volgendosi verso il capo-ronda, gli disse con voce severa: - E voi un'altra volta siate piú guardingo, caramba! ... - Signor conte, ricevete le mie scuse, - rispose il povero soldato. - E voi ricevete invece questi, - rispose il guascone, levando da un taschino alcune piastre e gettandogliele dinanzi. - Avanti! Allentò le briglie e si allontanò, seguito dal basco e dal fiammingo, mentre gli alabardieri di guardia gli presentavano le armi e gli staffieri negri si inchinavano fino a terra. Il guascone, che aveva sempre una grande paura che giungesse il taverniere, attraversò la città al trotto, passò il ponte levatoio e lanciò il cavallo a gran carriera, mormorando: - Anche questa volta non hanno avuto il tempo d'intrecciare la corda per appiccarmi.

. - Abbiamo le nostre spade, - rispose il signor di Ventimiglia. Entriamo. I due negri che guardavano il portone, armati di alabarde, lasciarono loro libero il passo, dopo d'aver chiamato una specie di maggiordomo che vegliava alla base dello scalone. Il conte ed i suoi spadaccini furono subito introdotti nel gabinetto da lavoro del Consigliere. Don Juan de Sascho stava seduto dietro il suo enorme scrittoio, fingendo di osservare delle pergamene. - Ah! ... Siete voi, signore? disse, alzando il capo e fissando sul conte uno sguardo acutissimo. Avete presa adunque la vostra decisione? - Sí, signor Consigliere, - rispose il corsaro. - Accettate di tentare la liberazione del marchese di Montelimar? - Quando vorrete, io partirò, ad una condizione però. - Quale. - Oggi da alcuni miei amici io ho avuto l'assicurazione che la nipote del Gran Cacico del Darien è sempre in Panama. - Continuate. - Io non partirò, se prima non l'avrò veduta. - Perché v'interessa tanto quella fanciulla? - Ho da dirle qualche cosa da parte del marchese. - Voi non mi avevate detto ciò ieri sera. Non vi avrei risposto evasivamente. - Dunque, è vero che la fanciulla è qui? - Non ve lo nego piú, - rispose il Consigliere. - Potrò dunque, prima d'imbarcarmi, vederla? - Non ho alcuna difficoltà; però, avendo quella giovane, non so per quale motivo, numerosi nemici i quali hanno già tentato piú d'una volta di rapirla, voi dovrete usare le piú grandi precauzioni. Io l'ho fatta nascondere in una casetta isolata che si trova presso la Punta Blanca. Non concederò quindi il permesso di andarla a vedere che a voi solo. - I miei compagni sono fidati e segreti, signore. - Io non mi fiderò che di voi solo, - rispose il Consigliere, con voce ferma. - Vi darò una guida, un uomo dabbene e saldo di pugno, il quale veglierà su di voi. - E questi uomini? - Andranno intanto a preparare la scialuppa. Ne avete arruolati altri? - No, signore, - rispose il Corsaro. - Ho pensato che è meglio essere in pochi e risoluti, piuttosto che in molti, per una simile impresa. I filibustieri vegliano ed una grossa barca non potrebbe passare inosservata. - Avete ragione ed apprezzo assai la vostra prudenza. Quando partirete? - Possibilmente alla mezzanotte. - Avete noleggiata la scialuppa? - Non ancora. - Presso la lanterna di Granata vi è un uomo che ne possiede molte. Con qualche decina di piastre, appoggiate dal mio nome, vi darà quella che crederete la migliore per la vostra impresa. I vostri uomini potranno aspettarvi là! Il conte si volse verso Mendoza: - Tu conosci quella località! - Sí, signore, - rispose il basco. - Vi raggiungerò il piú presto possibile. Il Consigliere aveva levato da un cassetto una grossa borsa e l'aveva deposta sullo scrittoio, dicendo: - Vi anticipo quaranta dobloni per le prime spese. Gli altri li avrete quando avrete liberato il marchese. Il guascone fu lesto ad impadronirsi del piccolo tesoro. - Ora andate voi ad aspettare il vostro capo, - disse il Consigliere. - State in guardia, signor conte, - sussurrò il guascone al corsaro. Il signor di Ventimiglia alzò leggermente le spalle, dicendo a voce alta. - Mi avete capito: al faro di Granata ai dodici tocchi. Che la scialuppa sia pronta. I tre avventurieri, un po' rassicurati per la tranquillità del conte, uscirono, accompagnati da un servo il quale pareva che li aspettasse nella stanza attigua. Il Consigliere attese che il rumore dei passi fosse cessato, fingendo di osservare le sue pergamene, poi suonò un campanello. Un altro servo entrò. - Dite al mio scudiere che venga subito e che non dimentichi di armarsi. Un mezzo minuto dopo El Valiente faceva la sua entrata, salutando come al solito, in una maniera assai goffa. - Emanuel, - disse il Consigliere indicandogli il conte, - condurrai questo signore alla mia casetta della Punta Blanca e lo lascierai parlare colla señorita. Veglia su di lui. - Sí, Eccellenza, - rispose il bandito, il quale osservava di traverso il conte. La tua testa risponderà della vita di questo signore. - Saprò difenderla, Eccellenza. - Signore, potete andare, - disse il Consigliere al conte. Vi auguro di riuscire nella vostra audace impresa e di rivedervi presto, insieme al marchese di Montelimar. - Fra tre o quattro giorni, spero di essere di ritorno con lui, rispose il signor di Ventimiglia. Salutò ed usci, seguito dal Valiente, il quale aveva strizzato l'occhio al Consigliere come per dirgli: - Quest'uomo è spacciato. Scesero lo scalone ed attraversarono l'ampia piazza, avviandosi poscia verso la marina. Nessuno dei due parlava e parevano entrambi assai preoccupati, nondimeno il conte non sembrava che avesse qualche timore per quel preteso scudiere del Consigliere. Giunti nei sobborghi, i quali si estendevano tutto intorno alla baia, il signor di Ventimiglia chiese al bandito. - Avremo da camminare molto ancora? - Si vede che siete poco pratico di Panama, signore. - Sono sbarcato pochi giorni fa. - Ah! Siete un uomo di mare. - Avete indovinato. - Che cosa fanno dunque quei cani di filibustieri? - Non lo so. - Si dice che preparino un colpo di mano sulla città! - Può darsi. - Siete poco loquace, signore. - La gente di mare parla poco. - Ed anche un po' diffidente verso di me. - Io! - Mi pareva. - Niente affatto. Continuarono a camminare attraverso le viuzze oscure e tortuose dell'ultimo sobborgo e giunsero sulla spiaggia di ponente, una spiaggia sabbiosa, aperta ai venti ed alle onde e che serviva per la demolizione delle vecchie caravelle ormai impotenti a tenere il mare. - Ma dov'è questa casa? - chiese il conte, dopo aver costeggiato per qualche po' le dune di sabbia contro le quali s'infrangevano, rumoreggiando cupamente, le onde del Pacifico. - Io qui non vedo che degli scafi semi-demoliti. - È piú innanzi, - rispose il bandito. - Dubitereste di me, signore? - Vi ho detto di no, quantunque voi mi abbiate condotto in un luogo assolutamente deserto e adatto per le imboscate. - Corpo d'una bombarda! - gridò il bandito. - Vorreste offendermi? Badate che quantunque oggi non sia che un semplice scudiero, ho nelle mie vene sangue di gentiluomini. - Ciò non m'interessa affatto, - rispose il conte. - Come non v'interessa? - gridò il brigante, fermandosi di fronte ad un'alta duna, colla sinistra posata sull'impugnatura della spada. - Voi cercate una lite con me, a quanto mi pare? - O siete voi invece che la preparate? - chiese il Corsaro, facendo atto di snudare pure la sua spada. - Corpo d'un trombone, diventate troppo insolente, signor mio! - Prendetevela come volete, a me non importa, signor bandito. - A me, bandito! - Sí, perché voi mi avete attirato qui, non già per condurmi alla casa abitata da quella giovane meticcia, bensí per assassinarmi. Quanto vi ha pagato don Juan de Sasebo? - Ve lo dirò, quando vi avrò passata la mia spada attraverso il corpo. - Siete ben sicuro di riuscirvi? - chiese il conte con calma. - Nessuno ha mai tenuto testa a El Valiente. - È il vostro nome di battaglia? - Sí, signor mio. - Allora ti farò vedere una cosa strabiliante. - Quale? - Di vedere El Valiente a piegare le ginocchia dinanzi a me e domandarmi grazia. Il bandito proruppe in una risata fragorosa, mentre il conte, che cominciava ad impazientirsi e che temeva di veder accorrere altri spadaccini in aiuto del brigante, sfoderava la spada. - Corpo d'una bombarda, siete coraggioso, signor mio. Un altro che si trovasse dinanzi al Valiente, getterebbe subito la spada e consegnerebbe anche la borsa. - Io non ho mai avuto queste pessime abitudini, - rispose il signor di Ventimiglia. - Orsú finiamola, buffone. Ti darò la lezione che tu meriti. Il bandito si tolse il sèrapè infioccato, uno nuovissimo che doveva aver comperato coi denari del Consigliere e se lo gettò sul braccio sinistro, per essere piú libero nelle mosse, spiccò due salti verso la duna per non esporsi al pericolo di dover indietreggiare verso il mare e cadervi dentro, poi trasse la sua spada, dicendo: - Mi basterà un colpo per spacciarvi. - Qualche botta segreta! - La piú famosa di tutti. - È inutile, brigante, che tu cerchi di spaventarmi. Di botte segrete me ne intendo anch'io. - La mia non potete conoscerla. - Basta, chiacchierone: veniamo ai fatti. Il conte si era messo rapidamente in guardia ed aveva fatto un passo innanzi, facendo qualche finta. Prima di assalire decisamente, voleva accertarsi della forza dell'avversario. Sapendolo forte spadaccino, non dovevano avergli mandato un mediocre tiratore. Il Valiente infatti parò senza scomporsi. - Si vede che sei forte, - disse il conte. - Questo non è ancora nulla, - rispose il bandito. - Vedrete il seguito. Vorrei darvi un consiglio perché non vi tocchi di fare partenza per l'altro mondo come un mussulmano. - Vorresti dire? - Che io al vostro posto, per non perdere tempo, approfitterei di questi pochi minuti per recitare qualche Ave Maria. - Comincia tu, intanto, - rispose il conte, il quale incalzava vivamente. - Non ne ho bisogno. - Te ne pentirai presto. - Che voi siate molto duro da smontare questo è vero, mio signore, - disse il bandito, il quale continuava ad indietreggiare, avvicinandosi alla duna. - Tuttavia spero di riuscirvi quando il vostro braccio darà qualche segno di stanchezza. - Allora dovrai aspettare qualche ora. - Ah! Corpo ... Il conte gli aveva portato una stoccata proprio in mezzo al petto, facendogli uno strappo sulla giacca. Il bandito si era salvato per miracolo, parando di terza e facendo un salto indietro. - Ecco una botta magnifica e che non mi aspettavo, - disse il bandito. - Non vale però quella delle cento pistole. Chi può avervela insegnata? - Un famoso maestro italiano. - Sono formidabili spadaccini gli italiani. Oh li conosco io! - Allora para questa. Il conte pareva che avesse ormai completamente dimenticato il pericolo che poteva minacciarlo e che cominciasse a divertirsi assai di quella terribile partita. Aveva data un'altra stoccata che Il Valiente era pure riuscito a parare appena a tempo. - Corpo d'una bombarda, - borbottò. - La faccenda non cammina come credevo. Quest'uomo è piú solido di quanto supponevo. Stiamo in guardia. Il conte tornava alla carica, impaziente di stancarlo, prima di tentare qualche colpo decisivo. Il bandito però gli sfuggiva sempre, indietreggiando verso la duna. - Tu mi scappi, - disse il corsaro, incollerito. - Mostrami la tua valentia, restando sul posto. Il Valiente non rispose. Pareva che colla mano sinistra tesa all'indietro cercasse qualche cosa. Per alcuni istanti ancora fu un continuo grandinare di colpi, poi il bandito fece un ultimo salto indietro che lo portò addosso alla duna. - Ora non mi scapperai piú! - gridò il conte. - Recita l'Ave Maria. - Eccola, - rispose il bandito. Si era voltato con una mossa fulminea e raccolta una grossa manata di sabbia l'aveva lanciata contro il viso del Corsaro, tentando di acceccarlo. - Bandito! - urlò il conte, il quale, accortosi dell'intenzione del miserabile, si era riparati gli occhi col suo ampio feltro. - Non avrò alcuna misericordia di te! Attaccava nuovamente. Il Valiente ancora una volta sfuggí all'urto, saltando di fianco, poi si abbassò tutto, raggomitolandosi quasi su se stesso. - Il colpo delle cento pistole, - disse il conte, mettendosi in guardia di seconda. - Lo conosco, miserabile, e non sarà la tua spada che mi passerà il petto. Il brigante mandò un vero ruggito. - Eppure bisogna che vi uccida, - disse poi, con voce rauca. - Io l'ho promesso a don Juan de Sasebo ed al marchese di Montelimar. Se mancassi all'impresa sarebbero capaci di farmi appiccare. - Il marchese di Montelimar! - gridò il conte. - Tu l'hai veduto? - Come vedo voi ora. - Dove? - Dal Consigliere. - Tu menti! - Sarò un furfante, ma non un mentitore. Il marchese è qui, perché è scappato da Taroga. Badate! A sua volta si era slanciato furiosamente, vibrando quattro stoccate, una dietro l'altra. Stava per tirarne una quinta, quando cadde, mandando un grido. La spada del conte l'aveva colpito alla gola, affondandovi dentro per parecchi centimetri. Rimase un momento quasi diritto, colle braccia aperte, poi ruzzolò pesantemente fra le sabbie, mormorando: - Sono finito. Il conte aveva ritirata prontamente la spada. - L'hai voluto, - gli disse. - Sono ... morto ... - barbugliò il miserabile. - Alzatemi ... la testa ... il sangue ... mi soffoca ... ve ne prego ... Il conte si curvò sul moribondo per alleviargli le sofferenze, quando si sentí afferrare per una mano strettamente e colpire. Il bandito aveva estratto la misericordia ed aveva vibrato un colpo in direzione del cuore, squarciando la casacca del conte e anche le carni. - Sono ... vendicato, - disse con un soffìo di voce. - Canaglia! - aveva gridato il conte, sentendosi bagnare una mano da alcune goccie di sangue. Riafferrò la spada e la immerse nel petto dell'assassino per ben due volte. Erano stoccate inutili, poiché Il Valiente era ormai morto. - Traditore! - mormorò il conte. - Marchese di Montelimar e anche voi, don Juan de Sasebo, me la pagherete. Si aprí il giustacuore, lacerò la camicia e si guardò la ferita. Brillando splendidissima la luna, poteva giudicare, anche senza torcia, il colpo vibratogli dal brigante. - Bah! - disse. - Non mi pare che sia cosa grave. Cerchiamo di raggiungere i miei spadaccini, se anche essi non sono stati assaliti. So dove si trova la lanterna: vedremo se si troveranno là. Si mise sulla ferita il fazzoletto per arrestare il sangue, si riabbottonò strettamente il giustacuore, armò le pistole che portava nascoste sotto la fascia e, dopo essersi orizzontato, si mise a seguire l'alta duna, senza nemmeno degnare d'uno sguardo il bandito. La notte era magnifica. L'oceano scintillava, riflettendo i raggi dolcissimi dell'astro notturno; la risacca muggiva e rimuggiva, senza produrre troppo fracasso e dal largo soffiava una brezza fresca e vivificante. Il Corsaro, temendo che il bandito avesse dei compagni nascosti fra le dune, affrettava il passo, tenendo la spada sguainata, per essere piú pronto a respingere un qualche improvviso attacco. La lanterna di Granata, destinata ad indicare ai naviganti l'entrata del porto verso la scogliera di ponente, scintillava vivamente, quindi il corsaro non poteva ingannarsi sulla direzione da tenere. Lo inquietava però profondamente il dubbio che anche i suoi spadaccini fossero stati assaliti da qualche banda di masnadieri. Camminò per circa mezz'ora, seguendo le dune e giunse finalmente nei dintorni dell'altissima costruzione che rassomigliava ad una torre, sulla cui cima brillava la grossa lanterna. Vide subito tre ombre ritte sulla spiaggia, occupate, a quanto pareva, a raccoglier frutta di mare. Alzò la voce: - Mendoza! Un triplice grido rispose: - Il signor conte! I tre spadaccini balzarono lestamente sopra le dune e lo raggiunsero. - Non siete stati assaliti? - chiese il conte, con stupore. - No, signore, - rispose il guascone. - Mi pare impossibile! - Eppure non abbiamo fatto altro che divorare ostriche; senza essere disturbati. L'avete trovata vostra sorella? - Sí, sotto forma d'un colpo di misericordia che per poco non mi spaccava il cuore. Guardate! Si aprí il giustacuore e mostrò loro il fazzoletto bagnato di sangue. - Per la mia morte! - gridò il guascone. - Me l'ero immaginato che vi avrebbero teso un agguato. - Signor conte, - disse Mendoza, con voce commossa. È grave la ferita? - Non mi pare. - È necessario medicarvi subito, - disse il guascone. - La fonda è troppo lontana, - disse il fiammingo. - V'è la lanterna, - rispose il guascone. - Andiamo a chiedere ospitalità al guardiano. Se rifiuterà lo getterò giú dalla torre. Venite, don Ercole. Mentre Mendoza si strappava una manica della camicia, per arrestare al conte il sangue, il quale non cessava di sgorgare, i due avventurieri si slanciarono verso la porta della lanterna, picchiando fragorosamente coi pomi delle loro spade. Una vociaccia rauca venne dall'alto. - Chi siete e che cosa volete? - Aprite subito, - rispose il guascone. - Abbiamo raccolto un naufrago e pare che stia per morire. - Portatelo a Panama. Qui non vi sono medici. - Farò io da medico. Aprite subito o getteremo giú la porta. - Aspettate un momento. Mezzo minuto dopo il fanalista comparve, tenendo in mano una torcia. Era un vecchio marinaio dalla lunga barba bianca, ancora molto robusto, col volto quasi annerito dai venti del mare e dai grandi calori equatoriali.- Che cosa volete dunque, voi? - chiese con voce brusca. - Il vostro letto, - rispose il guascone. - Ed io? - Andrete a dormire a casa del diavolo, D'altronde noi vi pagheremo largamente. La fronte rugosa del fanalista si spianò, udendo parlare di compensi. In quel momento giunse il conte, il quale s'appoggiava al braccio di Mendoza. - Dov'è questo naufrago? - chiese il guardiano del faro. - Eccolo, - rispose il guascone indicandogli il conte. - Ma le sue vesti sono piú asciutte delle mie! - Sotto sono però bagnate di sangue. - Si tratta d'un ferito, allora. - Basta, fate lume e guidateci nella vostra stanza. Il guardiano salí la scaletta, brontolando e si fermò al secondo piano del faro, introducendoli in una stanzetta la quale non conteneva che un letto ed un paio di cassettoni sgangherati. - Lasciate questa torcia e tornate alla vostra lanterna, - disse il guascone. - Se avremo bisogno di voi vi chiameremo, e voi, don Ercole, andate a tenergli compagnia. Pel momento la vostra spada non è necessaria. Mendoza ed il guascone tolsero al conte la giubba, il giustacuore e la camicia e osservarono attentamente la ferita. In quell'epoca cosí ricca di guerre, tutti gli spadaccini erano un po' medici e sapevano fare delle fasciature e curare benissimo delle stoccate. Con un solo sguardo il basco ed il guascone s'avvidero che la lama della misericordia non aveva prodotto gran che di male. La punta però aveva tagliate le carni per una lunghezza di cinque o sei centimetri ed in prossimità del cuore. Il bandito aveva tirato giusto il suo colpo: se la sua mano fosse stata piú ferma avrebbe spacciato il conte. - Niente di grave, è vero, amico? - chiese il signor di Ventimiglia. Molto sangue e nient'altro. vero, signore, - rispose Mendoza. - È stato un colpo di pugnale. - Sí, datomi quando l'assassino era stato toccato. - Chi credete che abbia ordito l'agguato? - Il marchese di Montelimar, d'accordo col Consigliere. - Ma se il marchese è a Taroga? - disse il guascone. - Vi era, volete dire, perché ora si trova qui. - Tonnerre! - È scappato! - Chi ve lo ha detto? - L'assassino, prima di morire. Che vi abbia ingannato? - chiese Mendoza, il quale fasciava intanto la ferita con un pezzo di lenzuolo trovato in un cassettone. - Non credo. D'altronde non aveva alcun motivo di tenermelo nascosto o d'ingannarmi. Allora bisogna riprenderlo, - disse don Barrejo. Senza di lui non potrò mai sapere dove quei dannati hanno nascosta mia sorella. E lui od il Consigliere devono cadere nelle nostre mani. Essi hanno preparato un agguato a me, e noi ne prepareremo uno a loro. - Noi siamo sempre pronti, è vero, Mendoza? - disse il guascone. - Anche a dar fuoco a Panama, - rispose il basco, il quale aveva terminata la fasciatura. - Dovremo però agire colla massima cautela, - disse il conte. - Domani, giacché la mia ferita non presenta alcun pericolo, torneremo alla fonda della Castigliana e studieremo sul da farsi. Conto specialmente su di voi, don Barrejo, che possedete una fantasia cosi ricca di trovate. - Mi occuperò di questo affare, signor conte. - Intanto occupiamoci di un altro piú pressante, - disse in quel momento il fiammingo, entrando. - Che cosa c'è dunque d'urgente? - chiese il conte. - Mi dispiace darvi una brutta nuova, signore, - rispose il fiammingo. - È caduto giú dal faro il guardiano? - chiese il guascone. - S'avanza un grosso gruppo di soldati attraverso alle dune. - Tonnerre! - esclamò don Barrejo. - Vengono a prendere voi, - disse il conte, - Mi pareva impossibile che il marchese ed il Consigliere vi lasciassero tranquilli. A me lo spadaccino ed a voi le guardie. - Scappiamo, - disse Mendoza. - Non potremo, - rispose don Ercole. - Il drappello si è diviso e s'avanza da due opposte direzioni, per prenderci in mezzo. - E poi il signor conte è debole e non potrebbe resistere ad una lunga corsa, - aggiunse il guascone. - Io però ho un'idea. Don Ercole, sono ancora lontani? - Un migliaio di passi e mi è parso che non abbiano molta fretta da avanzarsi. - Perdinci! ... Che occhi che hanno i fiamminghi! - esclamò don Barrejo. - Vincono quelli dei guasconi. - Fuori la vostra idea, don Barrejo, - disse il conte. - Non abbiamo tempo da perdere. - Voi, Mendoza, andate a vedere se la porta del pianterreno è ben chiusa; voi, signor conte, rimanete pure qui, anzi fareste bene a coricarvi un po', e voi, don Ercole, venite sulla lanterna. Io rispondo di tutto. Uscirono e salirono rapidamente la scaletta esterna che girava in forma di spirale intorno alla torre, giungendo ben presto sotto la cupoletta dove brillava una grossissima lanterna con vetri. Il fanalista stava seduto in un angolo della terrazza, occupato a fumare la sua grossa pipa. - Dove sono? - chiese il guascone a don Ercole. - Eccolo laggiú, il primo drappello. Il guascone guardò nella direzione indicata e vide infatti, a circa ottocento passi dal faro, avanzarsi una minuscola colonna, composta da non meno di due dozzine d'uomini. Seguiva la spiaggia lungo le dune. Brillando sempre la luna, non era possibile ingannarsi, poiché le corazze, gli elmetti, gli archibugi e le alabarde scintillavano vivamente. - Segue le dune di settentrione. - Vogliono proprio prenderci in mezzo. Ah! ... La vedremo. Quando si è un po' furbi, si può sempre sfuggire ai pericoli. Armò una pistola, si levò da una tasca una manata di piastre e s'avvicinò al guardiano, il quale, tutto immerso nel gustare il suo tabacco, non si era nemmeno degnato di voltarsi, pur avendoli uditi a salire. - Vecchio mio, scegli, gli disse il guascone, mostrandogli l'arma da fuoco ed il denaro. Vuoi piombo o argento? ... - Che cosa volete? - chiese il guardiano, balzando in piedi e lasciando cadere la pipa. - Assassinarmi forse? - Niente affatto, anzi vi offro un buon gruzzolo di piastre, però voi dovete ubbidirmi senza perdere un solo istante. Se rifiutate, allora non rispondo della vostra vita. - Dite, - rispose il vecchio, spaventato. - Innanzi tutto spogliatevi del vostro vestito bigio, che mi è assolutamente necessario. - E poi? - Lasciatevi legare sotto il vostro letto. - Volete portar via o guastare la lanterna? - Non sapremmo che cosa farne di questo grosso fanale. Sbrigatevi, o invece delle piastre vi caccio una palla nel cervello. - Scelgo le piastre, - disse il guardiano, dopo una breve esitazione. - D'altronde una resistenza da parte mia sarebbe impossibile. - Voi siete un uomo ragionevole, - rispose il guascone. - Ecco le piastre e giú il vestito. Il fanalaio, che ci teneva piú all'argento che al piombo, fu lesto a obbedire. Il guascone infilò i calzoni, indossò la grossa casacca di panno bigio con bottoni di metallo giallo, e si mise in testa il berrettone di tela cerata. - Somiglio ad un fanalista? - chiese a don Ercole, il quale stava legando ed imbavagliando il disgraziato sorvegliante. - Potreste lasciare la spada per la lanterna, - rispose il fiammingo, sorridendo. - Quando sarò vecchio, amico. Ora conducete, o, se vi piace meglio, portate quest'uomo nella camera del conte e cacciatelo sotto il letto. - Preferisco portarlo. - Ed ora a noi, signori soldati, - mormorò il guascone, quando fu solo. Raccolse la pipa del sorvegliante la quale fumava ancora e si sedette su un gradino della scala esterna, mettendosi a sua volta in osservazione.

. - Vi avverto, don Barrejo, che, dopo quello che state bevendo, io non metterò fuori piú un soldo, perché il famoso doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar l'abbiamo già fatto rotolare, tutto d'un pezzo! ... - Tutto il doblone bevuto! ... - gridò il guascone. - Me lo ha detto or ora il taverniere. - Quello è un ladro! ... Noi abbiamo bevuto un doblone? ... Quanto fa pagare queste bottiglie? - Che ne so io? L'aritmetica non è mai stata il mio forte. - Vi ripeto che è un ladro! ... - È probabile, tuttavia non andrò a gridarglielo sul muso. - Voi non siete un guascone. - Volete far nascere delle questioni? Sapete che il signor conte ci ha raccomandato la massima prudenza e che ci troviamo in mezzo a nemici. - Un guascone non ha mai paura. Andrò a rompere la testa a quel ladrone che divora, con qualche bottiglia, dei dobloni. - Uno ... uno solo, don Barrejo, - disse Mendoza. - In Guascogna con un doblone si beve un anno intero. - Qui siamo in America. Il guascone, che aveva bevuto un po' troppo, anzi molto, scattò. - Ladri di spagnuoli! - urlò, fracassando la tazza che aveva appena allora deposta. - A vuotare le tasche! Questa scena comica, che poteva però con molta probabilità diventare tragica da un momento all'altro, succedeva in una delle numerose taverne di Pueblo-Viejo, una cittadina spagnuola distante non molte decine di leghe dalle coste dell'Oceano Pacifico, assai ben munita di forti e di artiglierie e che cominciava in quell'epoca ad assumere una certa importanza, malgrado la vicinanza di Nuova Granata. La taverna era una delle piú rispettabili della città, frequentata assiduamente da borghesi e soprattutto da avventurieri reduci dal Messico, ben forniti d'oro e pronti a qualunque sbaraglio; e tutto pel motivo che il taverniere offriva alla sua rispettabile clientela dello Xeres e dell'Alicante autentico, il quale aveva attraversato lealmente l'Atlantico ed era maturato sotto il dolce sole della vecchia Spagna, la madre patria. All'ingiuria scagliata dal guascone, dai trenta o quaranta bevitori che occupavano in quel momento la sala della taverna, centellinando le loro bottiglie e chiacchierando amichevolmente da tavolino a tavolino, un grido d'indignazione si era alzato. - Chi è che ci offende? - Gettate fuori dalla porta quell'ubbriacone! ... - Pestate il muso a quel mascalzone! ... - Fuori! ... Fuori! ... Il guascone era balzato in piedi, rosso come un gambero cotto, colla sinistra posata fieramente sulla sua terribile draghinassa. - Pare che si gridi contro di me, - disse, saettando, coi suoi occhietti neri, borghesi e avventurieri. - Fuori, mascalzone! - urlò un omaccio barbuto, che portava al fianco una draghinassa non meno lunga di quella del guascone. Don Barrejo si volse verso il basco, il quale stava sorseggiando tranquillamente il suo Xeres, come se la cosa non lo riguardasse affatto. - Avete mai veduto, compare, della gente cosí insolente? chiese. - Quando io sto gustando del buon vino, divento sordo, - rispose il basco, il quale rideva sotto i baffi. - Io faccio una frittata di tutti questi pappagalli! ... - Badate che quei pappagalli hanno becco e artigli e che sono capaci di fare a pezzi un guascone, abiti al di qua o al di là del mar di Biscaglia, - rispose il basco. - Picchiano sodo, quando ci si mettono, e hanno del coraggio da vendere, ve lo dico io. Gli avventurieri si erano radunati in un angolo della sala, urlando sempre: - Fuori! ... Fuori! ... - Chi fuori? - urlò il guascone con voce formidabile. - Tu, che sei briaco, - rispose l'omaccione barbuto. - Un guascone! ... In quel momento comparve il taverniere, armato d'una pesante casseruola, seguito da quattro aiutanti che si erano muniti frettolosamente di spiedi, anzi cosí frettolosamente, che uno portava ancora infilzata un'anitra mezzo arrostita. - Che cosa vuole questa gente? - urlò il guascone. Poi, vedendo l'anitra infilzata nello spiedo, comandò con voce tuonante: - A me quel morto, ladro d'un taverniere! ... Ci servirà da cena e pago io questa volta, è vero, Mendoza? - Te lo getto sul muso, brutto meticcio! - strillò il taverniere. E poi ti romperò la testa colla mia casseruola! Uno scoppio di risa immenso accolse la risposta del taverniere, ma non rise il terribile guascone. - Tonnerre! - urlò. - Da quando si caricano i guasconi a colpi di casseruola! ... Furfante d'un taverniere, lascia almeno il posto ai tuoi aiutanti! Hanno degli spiedi e gli spiedi sono armi in tutti i paesi dell'orbe terracqueo! ... Fu uno scoppio di risa che seguí la truce risposta del guascone. Ridevano i borghesi e gli avventurieri, ma forse rideva di piú il basco, quantunque gli spiacesse che quel rodomonte si compromettesse, dopo le tante raccomandazioni del figlio del Corsaro Rosso. - Quest'uomo è pericoloso, - ripeteva il bravo marinaio. - Il mio doblone gli è salito al cervello e chissà ora che cosa farà questo stretto parente del diavolo. La nostra missione finirà qui, pur troppo. Il taverniere, irritato dalle risa sardoniche dei borghesi e degli avventurieri, si era avanzato minacciosamente contro il guascone, colla casseruola alzata, urlando ferocemente: - Fuori di qua, ubbriacone, o ti rompo il muso! ... Via! ... Via! ... Non voglio scandali qui! Don Barrejo, che già vedeva rosso, divenne questa volta pallido. - Miserabile! - tuonò. - Il muso lo hanno gli animali e non già gli uomini e meno ancora i guasconi! A me dare del maiale ... Spillerò il tuo sangue e lo darò da bere a questa onorevole compagnia. Un urlo d'indignazione si alzò fra i presenti. - Bevilo tu! ... - Vivaddio, - gridò il guascone. - Lo berrà allora la mia spada! ... - Se avrà sete, - disse Mendoza, il quale non cessava di ridere. Il taverniere aveva fatto qualche passo innanzi, impugnando sempre la sua terribile casseruola. Era un omaccio, alto e grosso quanto l'avventuriero barbuto, capace di dare una solenne lezione al rodomonte del mar di Biscaglia, se avesse avuto fra le mani qualche cosa di meglio d'una casseruola. Sicuro però di essere validamente spalleggiato dai suoi aiutanti e dai suoi clienti, si avanzò intrepidamente contro il guascone, gridando: - Uscite sí o no, ubbriacone? La mia taverna è frequentata da persone dabbene, che non desiderano affatto di essere disturbate. - E che si lasciano derubare come pecoroni, - rispose il guascone, - perché tu sei il piú grande ladro che io abbia conosciuto sulla terra. - A me, ladro! - strillò il taverniere, inferocito. - Ora ti accoppo! Aveva fatto un altro passo innanzi, minacciando di far uso della sua casseruola. Il guascone che doveva aver perduto l'orientazione dopo le copiose bevute, trasse con un gesto maestoso la sua draghinassa e si mise bravamente in guardia, dicendo a Mendoza: - Avanti i guasconi! Il lupo di mare rimase tranquillamente seduto dinanzi alla sua tazza, ancora quasi piena, dicendo: - Ma che! ... Io sono un basco che abita dall'altra parte del mar di Biscaglia! Don Barrejo fece una smorfia, poi si slanciò come un toro furioso contro il taverniere, vociando come un ossesso: - Largo ai guasconi! La sua draghinassa piombò con un fragore assordante sulla casseruola, facendola saltare dall'altra parte della sala con un fragore assordante, poi si precipitò contro l'aiutante che aveva ancora infilzata l'anitra nello spiedo. Levargliela di colpo con una puntata meravigliosa e gettarla sul tavolino, proprio dinanzi a Mendoza, fu l'affare d'un momento. - Per la cena, compare! - gridò. - Lo Xeres mi ha messo indosso un appetito sorprendente. La mangeremo quando avrò accoppata tutta questa gente. Ecco quello che sanno fare i guasconi! Gli aiutanti ed il taverniere, spaventati dall'aspetto terribile del formidabile spadaccino, erano scappati piú che in fretta in cucina, gettando gli spiedi; però non era scappato l'uomo barbuto, un vero tipo d'avventuriero giunto forse dal Perú o dal Messico. - Señor, - disse, facendosi innanzi e sguainando a sua volta la sua draghinassa. - Contro i cuochi del taverniere combattete meravigliosamente e fate fuggire perfino le casseruole. E le spade? Vorrei vedervi se sareste capace di fare altrettanto. Ci avete fatto ridere ed ora cominciate ad annoiarci. O uscite, o vi accenderemo qui dei ceri. Mendoza, che fino allora aveva riso, si era alzato, snudando rapidamente la sua spada. Don Barrejo, accortosene, si volse verso di lui, dicendogli: - Ohé, compare, lasciate fare ai guasconi. I baschi verranno dopo se ve ne sarà bisogno. - Voi avete bevuto troppo e un colpo di spada piomba senza accorgersene. - Vi darò ora, compare, una solenne smentita. L'omaccio barbuto buttò a terra la sua draghinassa, dicendo con voce irata: - Mi pare che si chiacchieri troppo qui. Sareste voi invece i pappagalli? - Se non sono sordo, voi avete detto ad un guascone del pappagallo! - gridò don Barrejo. - Guascone o non guascone, vi dico che se non siete un pappagallo sarete di certo una scimmia rossa! - urlò l'avventuriero, impazientito. - Avete udito, compare? - chiese il guascone, volgendosi verso Mendoza, il quale frenava a stento le risa. - Ci ha chiamato scimmie rosse. - Voi solo, per ora, - rispose il filibustiere. - Lo dico anche a voi, - disse l'avventuriero irritato. - Avete udito, compare? - chiese il guascone. Mendoza posò la spada sulla tavola e levò di sotto la casacca una navaja, aprendola. Fra il profondo silenzio che regnava nella sala, disse con voce grave: - Se il mio amico non vi getterà a terra, quest'arma, che non è lunga nemmeno un terzo della vostra spada, vi spaccherà la gola. Parola di basco! ... - Uh! che spacconi! - gridò l'avventuriero. - Ohé, compare, aspetterete prima che gli tagli la barba, disse il guascone. - Potrebbe far deviare la lama. - Io però prima ti metterò in bocca le budella! - I guasconi non hanno mai mangiato di questa roba, rispose don Barrejo. - Finitela, cialtrone! - A me cialtrone! - Buffone! - A me buffone! - Pauroso! - Un guascone! - Vieni avanti furfante! - Ecco che ti faccio la barba! Il guascone si era slanciato innanzi, colla draghinassa tesa, minacciando di passare da parte a parte l'avventuriero. Questi aveva fatto subito un salto indietro, mettendosi in guardia. - Tu non sei uno spadaccino, - disse il guascone. - Tu credevi di aver dinanzi qualche indiano e non un maestro d'armi. Allunga un po' la gamba destra, per Bacco! ... Quella lí è la guardia d'uno scolaro. - Canarios! Prendi questa! ruggí l'avventuriero, tirando un colpo furioso. Il guascone fu lesto a parare. - Non è cosí che si attacca, - disse don Barrejo. - Il vostro maestro non valeva niente: era un vero asino. - Pretendete d'insegnare la scherma a me? - urlò l'omaccione barbuto, sbuffando. - Un guascone insegna la scherma a tutti gli spadaccini del mondo, esclusi gl'italiani. Ah! ... Quelli sono veramente terribili e fanno sudare a freddo ed a caldo. - Tirate, invece di chiacchierare, scimmia rossa! I bevitori, che si erano addossati alle pareti per non prendersi qualche colpo di draghinassa, per la terza volta scoppiarono in una clamorosa risata. Il guascone li guardò trucemente. - Silenzio o dopo verrà la vostra volta, - disse. - Le scimmie rosse talvolta sono pericolosissime. - Ma basta, chiacchierone! - urlò l'avventuriero. - Tirate o vi faccio portare da bere. - Fate pure, però vi avverto che vuoterò la coppa dopo d'avervi tagliata la barba e d'aver spillato un po' del vostro sangue. Quella gamba è sempre fuori di posto! ... Allungatela dunque un po' piú! ... - Questo è troppo! ... - È ancora poco: alzate la mano sinistra. Che diavolo! ... Il vostro maestro non valeva nemmeno un fico secco. La risposta fu un'altra terribile stoccata, che avrebbe indubbiamente passato il guascone da parte a parte, se non fosse stato lesto a parare anche quella. - Ecco una bellissima botta, - disse don Barrejo. - Il vostro maestro non era un vero asino. - Era del Brabante, - disse l'avventuriero. - Scuola fiamminga: ottima, non c'è che dire. Siete anche voi del Brabante? - Certo. - Toh! ... Ed io che vi avevo preso per uno spagnuolo autentico. - No, sono fiammingo. - Non mi rincresce di saperlo, - disse don Barrejo, sempre calmo. - Quella scuola non la conoscevo prima di questo momento. Date un'altra stoccata dunque. - Credete di essere in una sala d'armi? Badate che io intendo di uccidervi. - Fate pure, senza preoccuparvi della mia persona, - disse don Barrejo. - Allora parate anche questa! Il guascone aveva fatto un salto indietro, guardando con un certo stupore il suo avversario. - Questi sono colpi maestri, - disse. - La faccenda comincia a diventare un po' seria. In gamba, guascone! L'avventuriero tornava alla carica, premuroso di finirla con quell'indiavolato chiacchierone. Tirò una dietro l'altra quattro o cinque stoccate, con rapidità fulminea, poi, non essendo riuscito nel suo intento, fece passare la draghinassa dalla mano destra a quella sinistra, dicendo al guascone, che aveva sempre parato con un'abilità straordinaria: - Ora vi darò la botta segreta che mi ha insegnato quell'asino, come voi l'avete chiamato, del mio maestro. Poi, volgendosi verso il taverniere ed ai suoi aiutanti che stavano impalati sulla porta della cucina, aggiunse: - Preparate i ceri pel signore: fra mezzo minuto quest'uomo sarà morto! Il guascone ebbe un moto di collera. - Tonnerre! - esclamò. - Volete spaventarmi? Se non fossi un guascone vi confesso, signor uomo barbuto, che le vostre lugubri parole mi avrebbero sinistramente impressionato. Poi, guardando il taverniere che era ritornato tenendo nelle mani due candele, gli disse: - Lasciate pure i ceri in cucina per ora: vivaddio sono ancora vivo e non sono ancora ben certo che la draghinassa del signore spacchi in due la mia carcassa. Non sono già fabbricato con mollica di pane io e qui dentro vi sono delle ossa e ossa guascone. - Spaccone! - gridarono gli avventurieri ed i borghesi. Mendoza impugnò la spada e, muovendo verso di loro, disse con voce grave: - Silenzio, voi! ... Qui vi sono in giuoco due vite umane e non dovete parlare. Don Barrejo: in guardia! ... - Lasciate fare a me, compare, - rispose il guascone. - Sono molto curioso di conoscere queste famose bòtte segrete dei maestri fiamminghi. Quando tornerò in patria le insegnerò ai miei amici. La calma meravigliosa del terribile spadaccino aveva impressionato i bevitori. Un profondo silenzio regnava nella taverna. Si sarebbe detto che tutti trattenevano il respiro per non turbare i due avversari. L'omaccio barbuto si era messo in guardia, piegando le ginocchia e aggomitolandosi quasi su sé stesso, per non offrire forse troppo bersaglio al guascone. La sua draghinassa stava tesa, in linea diritta; senza la piú piccola oscillazione. Studiava certamente il suo colpo misterioso. Don Barrejo lo fissava intensamente, come se cercasse di leggergli dentro gli occhi la stoccata che stava meditando. Aveva presa la guardia di seconda, scoprendosi tutto. - Deve essere ben sicuro di sé stesso, - mormorò Mendoza, che era pure un bravissimo spadaccino, - per esporsi in tale modo. Che faccia un arresto? Il fiammingo continuava ad abbassarsi verso terra, anzi aveva appoggiata la mano sinistra sul pavimento di legno, come se avesse voluto tentare il famoso colpo del cartoccio e s'allungava innanzi, tenendo sempre la draghinassa in linea. Il guascone seguiva attentamente tutte quelle mosse misteriose, domandandosi, non senza una certa inquietudine, che specie di colpo stava per portargli quell'uomo barbuto. Certo avrebbe preferito un attacco furioso, accompagnato da urla e da gran colpi. Nondimeno quell'accidente d'uomo conservava una calma ammirabile e non staccava un solo istante i suoi sguardi da quelli del fiammingo. Si sarebbe anzi detto che cercava di affascinarlo come i serpenti affascinano i piccoli volatili. Nella sala continuava a regnare un assoluto silenzio. Tutti attendevano con ansietà quel terribile colpo che doveva, probabilmente mandare all'altro mondo uno o l'altro dei due avversari. Ad un tratto il fiammingo, che non aveva cessato di abbassarsi contro il pavimento, allungandosi come un crotalo, scattò con impeto terribile. La sua lama scintillò un momento solo e andò a colpire il guascone, non già verso il cuore, bensí verso il basso ventre. Si udí un colpo secco e con immenso stupore di tutti la draghinassa del fiammingo, invece di squarciare gl'intestini di don Barrejo, saltò verso il fondo della sala, spaccando alcune bottiglie che si trovavano su un tavolo. Il fiammingo si era prontamente rialzato, guardando con spavento il guascone, il quale rideva a crepapelle, mentre gli spettatori prorompevano in un applauso fragoroso, gridando: - Bella parata! ... - Meravigliosa! ... - Siete un famoso spadaccino! ... - Offriamogli da bere, caramba! ... L'uomo barbuto, rosso di collera, s'avvicinò al guascone, dicendo: - M'avete vinto: uccidetemi! ... - Ma che! ... Non ammazzo nemmeno i mosquitos io, eppure quelli qualche volta non mi lasciano dormire. Che cosa volete che ne faccia della vostra pelle, io? Fosse quella d'un giaguaro o d'un coguaro varrebbe almeno qualche cosa; quella umana non può servire che agli antropofaghi del Darien e quelli sono un po' troppo lontani. - Siete una piazza inattaccabile, voi? - Una roccia guascone, - rispose don Barrejo. - Che cosa posso fare ora per voi? Riprendere la mia draghinassa e ricominciare il duello? - Adagio, caballero, - disse il taverniere, avanzandosi. - Voi non riavrete la vostra spada, se prima quel signore là non mi pagherà le quattro bottiglie d'aguardiente e le due di malaga autentica che mi ha spezzate. - Chi è quello là? - chiese il guascone. - Voi. - E volete che io paghi? - Dieci piastre. - Bah! ... Cane d'un ladro! - urlò il guascone. - Ci hai rubato prima un doblone, dandoci da bere dei veleni, ed ora vuoi derubarci ancora? - Basta! - vociò il taverniere, furibondo. - Ne ho fino sopra i capelli di voi! ... Va' fuori, mascalzone! ... - A me! ... - Corpo di Satana! - gridò il fiammingo. - L'oste è diventato matto! Dammi la mia draghinassa o ti getto in aria anche le botti che hai in cantina. - Pagatemi le dieci piastre! - strillò il taverniere. Il guascone fece colla sua draghinassa un terribile molinello, tuonando: - Avanti i guasconi, i baschi ed i fiamminghi! ... Finiamola con quell'impertinente! L'impertinente però, se non era un uomo di spada, non era nemmeno un pauroso, poiché scaraventò addosso ai due filibustieri ed al fiammingo che si era unito a loro, una casseruola, mentre i suoi aiutanti, non meno inferociti di lui, facevano volare piatti e bottiglie, facendo un fracasso infernale. I bevitori, spaventati, temendo di tornarsene a casa colla testa rotta, spalancarono la porta, scappando a tutte gambe. Il guascone, Mendoza ed il fiammingo facevano intrepidamente fronte all'assalto dell'oste e dei suoi quattro uomini, scaraventando sedie e sgabelli in tutte le direzioni, e fracassando fiaschi e bottiglie. Xeres, Malaga, Alicante, Porto e Aguardiente scorrevano sui banchi e sui tavoli, mentre piatti, bottiglie, casseruole, secchi, padelle e spiedi continuavano a volare attraverso la sala, aumentando i danni. - Accoppiamo questi manigoldi! - urlava ferocemente il guascone, il quale battagliava furiosamente contro quella grandine di proiettili, menando colpi di draghinassa. Il fiammingo aveva sradicata una tavola e, dopo averla rovesciata, vi si era nascosto dietro, rimandando al loro indirizzo bottiglie e tondi, con una rapidità prodigiosa, mentre il basco non cessava di lanciare sgabelli. Quella battaglia durava da qualche minuto, quando uno dei bevitori usciti poco prima, rientrò, gridando: - La ronda! ... Scappate! Il guascone afferrò la tavola dietro la quale si riparava Mendoza e la scaraventò contro il taverniere ed i suoi aiutanti, fracassando una cinquantina di bottiglie che stavano allineate sul banco. I cinque uomini, spaventati dal fracasso prodotto da tutti quei vetri, infilarono la porta, urlando a squarciagola: - A noi, guardie! ... Ci accoppano! ... - Scappiamo, - disse il fiammingo. - Signori, vi è un'altra uscita dalla parte della cucina. - Guidateci, - disse il guascone. - E la mia draghinassa? - L'ha portata via quell'oste maledetto. - Furfante! ... - Ve lo avevo detto io che era un ladrone patentato! - disse don Barrejo. - Ci ha rubato un doblone! - Scappiamo! - gridò Mendoza. I tre avventurieri si precipitarono verso la cucina, saltando sopra i tavoli e gli sgabelli che ingombravano il suolo. - Satanasso! - gridò l'uomo barbuto. - Hanno chiusa la porta! ... - Si salta dalla finestra, - disse il guascone. - Ve ne sono due qui, se non m'inganno. Signor basco sfondatene una. - Lasciate a me quest'incarico, - rispose il fiammingo. - Sono forte come un toro! ... - Infatti avete delle buone spalle, molta polpa e molte ossa, disse il guascone. Il fiammingo, vedendo appesa alla parete una grossa mazza di legno che serviva certamente ai cuochi del taverniere per battere le costolette, l'afferrò e percosse cosí furiosamente le imposte d'una finestra, da farle cadere sulla via con un fracasso indiavolato. Quattro o cinque voci si erano subito alzate. - Ohé! ... Volete accoppare la gente? - Che cosa succede in questa taverna, questa sera? - È scoppiata una rivoluzione? Il guascone fu lesto a saltare sul davanzale ed a gettarsi sulla via, cadendo in mezzo ad un gruppo di nottambuli. - Chi siete? urlarono in coro. - Scappate! gridò il guascone. - È fuggito un giaguaro che stava chiuso in una gabbia e sta divorando l'oste! I nottambuli, udendo quelle parole, alzarono i tacchi, scomparendo con velocità fulminea attraverso le viuzze della città. - Voi siete un uomo di genio, - disse il fiammingo, il quale a sua volta era saltato sulla strada. - Chi sarebbe entrato lí dentro, sapendo che vi è un giaguaro? Ah! ... La splendida trovata! Anche il basco aveva fatto il suo salto. - Lasciate i giaguari ed i coguari e giuocate di gambe, - disse. - Volete farvi prendere dalla ronda? - A vento in poppa! - gridò il guascone, allargando le sue lunghissime e magre gambe. - Facciamo correre la ronda. Signor fiammingo, badate che i guasconi ed i baschi sono agili come i cervi. - Lo so, - rispose l'omaccio barbuto, prendendo lo slancio. Si erano messi tutti tre in corsa, seguendo la riva d'un torrentello il quale pareva che tagliasse a metà Pueblo-Viejo. Avevano percorso un due o trecento passi, quando sbucarono in una via trasversale, che era ingombra di persone. Vedendo comparire i tre fuggiaschi, un grido si alzò fra quei nottambuli. - Ecco i ladri! ... - Ferma! ... Ferma! ... - Chiama la ronda! ... - Maledetto oste! - vociò il guascone, sguainando la sua draghinassa. - È sempre fra i miei piedi! ... Ora lo sgozzo come un pollo! ... - Apriteci invece il passo! - gridò il fiammingo, il quale si trovava inerme. Il guascone piombò in mezzo al gruppo, dando piattonate a destra ed a sinistra, mentre Mendoza punzecchiava colla sua spada i piú vicini, urlando: - Largo! ... Largo! ... Abbiamo un giaguaro alle spalle ed è rabbioso! Fu un'altra fuga generale. Il taverniere però, che sapeva di non aver nella sua cantina alcuna bestia feroce, si gettò da un lato, continuando a gridare: - Aiuto! ... I ladri! ... Avanti la ronda! Il guascone ed i suoi due compagni avevano ripreso lo slancio, mentre dalla taverna che era vicinissima, uscirono precipitosamente due alabardieri e due archibugieri difesi da corazze d'acciaio e da elmetti. - Accoppateli! - urlò l'oste. - Sono filibustieri! Non ci voleva di piú per mettere le ali ai piedi della ronda. I filibustieri erano troppo temibili per lasciarli scappare impuniti, sicché i quattro bravi militi si slanciarono dietro ai fuggiaschi, urlando a loro volta: - Ferma! ... Ferma! ... I filibustieri! ... All'armi! ... All'armi! ... - Tonnerre! - gridò il guascone. - Eccoci sulle spalle un grosso affare! ... Gambe, Mendoza! ... Gambe fiammingo! ... - Io non ho i garretti dei baschi e dei guasconi! - brontolò l'omaccio barbuto, il quale soffiava come un mantice. - I fiamminghi non sono cani da corsa! Bene o male, sagrando e sbuffando, teneva però dietro ai lesti figli del mar di Biscaglia, i quali filavano come lepri inseguite dai bracchi. Quella seconda corsa non durò però molto, poiché il guascone, che stava dinanzi a tutti, tutto d'un tratto si fermò, facendo poi tre o quattro salti indietro. - Che cosa c'è? - chiese Mendoza, il quale giungeva buon secondo. - La via è chiusa! - Non c'è un passaggio? - No, compare. - Date la scalata alla casa che ci chiude il passo! ... Ai guasconi nulla è impossibile. - Non sono un gatto. - Allora siamo presi! ... La ronda ci è alle spalle! - disse il fiammingo. - Datemi un spada. - Per cosa farne? - chiese il basco. - Per cacciare la ronda. - E farci fucilare? Contro gli archibugi non valgono le armi bianche. - Io credo, signori, - disse don Barrejo, ringuainando la draghinassa, - che la divertentissima scena finisca proprio in fondo a questa via senza uscita. La colpa è della vostra barba, signor fiammingo. Se voi rimanevate zitto, io accoppavo quel ladrone di taverniere e tutto sarebbe finito lí. - Se l'avessi saputo prima, me la tagliavo, - rispose il fiammingo. - Ecco la ronda, - disse Mendoza, ringuainando pure la spada. Siamo fritti. - Non ancora, compare, - rispose il guascone. - Lasciate fare a me e vedrete che colpo giuocherò io in Pueblo-Viejo! ... - Io sono certo di prendere d'un colpo solo dos paiaros e un golpe come dicono questi spagnuoli. - Signor fiammingo, avete un sigaro? - Dei cubani e dei migliori. - Datemene uno e voi accendetene un altro. Diamine! ... Si può ben fumare in barba alla luna. In quel momento i due alabardieri ed i due archibugieri si precipitarono entro la via senza uscita, gridando con voce minacciosa: - Arrendetevi o facciamo fuoco! ...

. - Il fatto è che abbiamo avuto una fortuna straordinaria. - Guai se gli avventurieri non avessero sempre una buona stella che li proteggesse! - Sarà ben lieto il conte di vederci giungere al campo, ben montati e anche con una recluta. - E soprattutto sarà lieto delle notizie che gli portiamo, - aggiunse il guascone. Ormai sa dove si trova il marchese e non indugerà ad andarlo a trovare. Io non dubito che assalirà Pueblo-Viejo, quantunque non abbia con sé molte forze. - So che ha mandato un corriere all'isola San Giovanni, per avere dei rinforzi. È probabile che a quest'ora qualche partita di filibustieri sia già giunta al suo campo. Nessuno può negare aiuti al figlio del Corsaro Rosso. - E poi non ci siamo noi? - disse il guascone. - Noi tre siamo capaci di dare la scalata ad un campanile difeso da una bombarda. - Senza scendere da cavallo, - aggiunse il fiammingo. - Precisamente. Avevano messi i cavalli al passo e stavano salendo una collina coperta da rade palme e da gruppi di cespugli, dietro la quale doveva scorrere il Chagres, l'unico fiume che solchi l'istmo di Panama e che è nondimeno d'una certa importanza. Stavano già, sempre chiacchierando, per raggiungere la cima per scendere poi attraverso un ampio vallone, quando arrestarono bruscamente i cavalli, guardandosi l'un l'altro con una certa ansietà. - Che sia il fiume che produce questo fragore? - chiese il guascone, dopo d'aver ascoltato qualche istante. - A me pare il galoppo di parecchi cavalli, - rispose Mendoza. - Che cosa ne dite voi, fiammingo? - Che ci si dà la caccia, - rispose l'avventuriero. - Che abbiano già scoperte le nostre tracce? - si chiese don Barrejo. - Lesti, raggiungiamo la cima e vediamo chi avrà ragione. Allentarono le briglie e strinsero le ginocchia, non avendo speroni. I tre andalusi si misero al trotto, quantunque la collina fosse molto ripida ed in pochi minuti raggiunsero la cima, fermandosi dinanzi ad un ampio vallone cosparso di cespugli e di macigni e che scendeva verso il Chagres. Di lassú i tre avventurieri potevano dominare un immenso tratto di paese, era quindi facile per loro scoprire dei cavalieri. - Non vedo che il fiume, - disse il guascone. - E questo lo udite? - chiese il basco, curvando rapidamente il capo. Un colpo d'archibugio era rimbombato ed una palla era passata su di loro, fischiando sinistramente. - Ci assassinano a tradimento! - urlò il guascone. In quel momento una mezza dozzina d'uomini, montati anch'essi su bellissimi cavalli, si mostrò sul margine d'un palmeto. Erano cavalleggieri spagnuoli, mandati certamente dietro ai tre audaci avventurieri dal marchese di Montelimar. - Al galoppo! - gridò il guascone, nel mentre una seconda detonazione rintronava. - Non mi aspettavo una simile sorpresa, - brontolò Mendoza. - Dovevano aspettare che noi fossimo giunti almeno in vista del campo. I tre andalusi si erano lanciati nel vallone, saltando agilmente i cespugli ed i massi, senza che i cavalieri avessero bisogno di aizzarli. Il terreno era tutt'altro che favorevole per una corsa furiosa, essendo cosparso d'ostacoli e anche di crepacci, tuttavia i tre avventurierí che sapevano d'aver sotto dei saltatori meravigliosi e resistentissimi, erano certi di tenere gli assalitori a grande distanza. Gli spagnuoli, superata la cima, si erano a loro volta slanciati nel vallone, urlando e sparando, di quando in quando, un colpo d'archibugio, piú per intimorire i fuggiaschi che colla speranza di colpirli. Se sudavano gli andalusi dei tre avventurieri, non faticavano meno quelli degli spagnuoli: i quali forse non erano migliori di quelli del governatore. La corsa diventava sempre piú furiosa e anche sempre piú pericolosa. Il basco, il guascone ed il fiammingo, tutti buoni cavalieri per loro fortuna, poiché il marinaio, prima di diventare filibustiere, aveva servito in un reggimento di cavalleria, avevano un gran da fare per evitare gli ostacoli. Ogni dieci o quindici passi erano costretti a trattenere bruscamente i cavalli e ad allargare le gambe per permettere loro di varcare dei profondi crepacci. - Tenete bene strette le briglie - gridava di quando in quando don Barrejo, il quale era sempre il primo. - Chi cade è un uomo perduto! ... Reggete bene i cavalli! Gli spagnuoli facevano sforzi prodigiosi per guadagnare via e giungere a tiro d'archibugio, essendo rimasti indietro durante l'ultima salita del colle. Spronavano senza misericordia e gridavano a squarciagola, per aizzare sempre piú i loro magri cavalli, senza riuscire però a guadagnare un metro sui fuggiaschi. La corsa durava da una buona mezz'ora, sempre attraverso a quell'aspro e selvaggio vallone il quale pareva che non dovesse finire mai, quando il guascone mandò un urlo di rabbia. - Che cosa avete, don Barrejo? - chiese Mendoza, spaventato. Cede, il vostro andaluso? - C'è che la via è tagliata, - rispose il guascone. - Non è possibile! ... Siamo passati per di qua sette giorni or sono. - Ed ora non si può passare piú, sangue di Belzebú! ... Alto, amici! ... Fermate i cavalli prima che si spezzino il cranio. Erano giunti ad una svolta della valle e dinanzi a loro si ergeva una roccia colossale, la quale ostruiva completamente il passaggio. Dietro era franata una quantità enorme di terra e di massi i quali avevano formato una specie di collinetta. - Siamo presi, - disse il fiammingo. - No, signore, - rispose il guascone, il quale non si perdeva mai d'animo. - Avete un archibugio appeso alla sella e delle pistole, nelle fonde. Prendiamo posizione e difendiamoci. - Di dove passiamo? - chiese Mendoza. Non vedete che la roccia è tagliata a picco? - Fate coricare i cavalli e nascondiamoci dietro i loro corpi. Badate di non alzare la testa. Presto: gli spagnuoli giungono! In un lampo balzarono di sella, levarono gli archibugi e le pistole, poi fecero coricare i cavalli sull'orlo d'un crepaccio. I sei cavalleggieri giungevano a gran galoppo, rossi di collera, colle spade in pugno. Vedendo i tre cavalli stesi a terra, fermarono i propri e ringuainarono le spade, staccando invece dalle selle gli archibugi. Si erano fermati a soli duecento passi dai fuggiaschi, quindi avevano subito indovinato il motivo di quella improvvisa sosta. Il capo squadrone che li comandava s'avanzò solo, per vedere dove si nascondevano i tre avventurieri, i quali si guardavano bene dal mostrarsi. - Olà! - gridò, vedendo brillare la canna d'un archibugio dietro uno dei tre andalusi. - Siete presi, a quanto pare. Spero che non avrete nessuna voglia d'impegnare la lotta con noi, che siamo piú numerosi e anche ben risoluti a ricondurvi da S. E. il governatore di Pueblo-Viejo. Vi arrendete sí o no? - Il signor conte d'Alcalà non si arrende mai e si batte invece sempre! - gridò il guascone, mostrandosi. - Ah! ... Ah! ... Siete voi quello che si era spacciato per l'amico di S. E. il governatore! ... - In persona, caballeros. - Non ne dubitavo. Dunque vi arrendete? - Il conte d'Alcalà non ha mai risposto di sí a questa domanda. Però si potrebbe forse intenderci, senza sprecare inutilmente della polvere e delle palle e massacrarci a vicenda. - Che cosa volete dire, señor? - Che con un po' di dobloni si potrebbe accomodare questa faccenda. Il capo squadrone fece un gesto di collera. - I soldati spagnuoli non si vendono, bandito! - gridò. - E poi S. E. il governatore pagherà la vostra cattura a un prezzo ben piú caro. - Si capisce che non vi hanno detto che io sono diretto a Panama, dove vado a raccogliere una eredità di cento mila dobloni. Invece di attaccare briga con noi, serviteci di scorta e vi pagherò tutti da vero principe, - disse il guascone. - Preferisco fucilarvi sul posto, señor. - Vi faccio un'altra proposta allora. - Sembra che vi piaccia troppo di chiacchierare, bandito. - No: sono conte d'Alcalà, signore d'Aramejo, de Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos. - E grande di Spagna, lo sappiamo, - disse il capo squadrone ironicamente. - Sí, anche grande di Spagna, - rispose il guascone, sempre calmo. - Finitela! ... - Vi propongo un duello. - A chi? - A voi, caballero. - Siete pazzo? - Niente affatto, perché vi offro delle splendide condizioni. Se voi mi ucciderete, vi do la mia parola d'onore che i miei due compagni si arrenderanno, se io avrò la fortuna di fare invece la pelle a voi, ci lascierete andare tranquillamente. - Dopo morto? ... - Ci lascieranno andare i vostri cavalleggieri. - Preferisco fucilarvi, se non vi arrendete. - Provatevi, dunque! ... Vi avverto però che ho con me un terribile filibustiere che non sbaglia mai il bersaglio. Figuratevi che a duecento metri spacca una nocciuola e spegne con una palla la fiamma d'una torcia. - Spaccone! ... Va' a raccontarlo a tuo nonno, se l'hai ancora vivo. - È morto vent'anni fa. Il capo squadrone, che doveva averne fin sopra i capelli di quella chiacchierata, volse le spalle e raggiunse i suoi uomini, i quali erano nel frattempo balzati a terra, nascondendosi dietro ai loro cavalli. - Signor basco, - disse il guascone, volgendosi verso Mendoza. Io non sono un cattivo archibugiere, e spero pure che il fiammingo non sia uomo da sprecare inutilmente del piombo, però conto specialmente su di voi. M avete detto di essere stato bucaniere, prima di diventare filibustiere. - Credo d'aver ammazzato un migliaio di bufali nelle foreste di San Domingo e di Cuba. - Smontatemi dunque quei soldati. Quando non avranno piú cavalli, se ne andranno di certo. A voi il primo colpo. Il filibustiere che si era steso nel crepaccio per mettersi completamente al coperto dalle palle, si rizzò sulle ginocchia, tenendosi sempre riparato dietro all'andaluso che gli stava dinanzi, e puntò risolutamente l'archibugio. I cavalleggieri stavano in quel momento rimontando a cavallo, per tentare una carica disperata a colpi di spada e di pistola. Mendoza mirò l'animale che montava il capo squadrone, un bellissimo destriero tutto bianco, e fece subito fuoco. Un urlo di collera, seguito da una salva di bestemmie, accompagnò lo sparo. Il cavallo bianco era caduto, sbalzando di sella il capo squadrone. Colpito in direzione del cuore aveva fatto, prima di stramazzare, uno scarto cosí fulmineo, rizzandosi poscia sulle zampe di dietro, da non lasciate il tempo al suo padrone di abbandonate le staffe e di saltare da una parte. I cinque cavalleggieri, vedendo il loro capo a terra, caricarono ventre a terra, quantunque la discesa che conduceva verso la frana fosse coperta di massi enormi staccatisi dalla colossale roccia piombata dall'alto. - A noi, fiammingo - gridò il guascone. Due spari rimbombarono, uno dietro l'altro, destando l'eco della vallata, seguiti da due sonori nitriti e da due altre imprecazioni. Altri due cavalli erano caduti in mezzo alle roccie, trascinando con loro i cavalieri. Gli altri tre si erano fermati, facendo un fulmineo volteggio, poi erano fuggiti verso lo svolto del vallone, presso cui si trovava il caposquadrone, piú furibondo che mai. - Se siamo terribili spadaccini, siamo pure formidabili archibugieri, - disse don Barrejo. - Signor fiammingo, siete veramente un uomo prezioso, malgrado la vostra immensa barba. - Non sono forse io del Brabante? - disse il fiammingo, con solenne gravità. - Per le centomila code del diavolo, io non avevo saputo, prima d'oggi, che i brabantini fossero anche abilissimi archibugieri! ... - E questo non è nulla! ... - Allora siamo sicuri di smontare tutti! I due cavalieri che erano stati scavalcati, approfittando dei crepacci e delle rocce, si erano rapidamente allontanati, strisciando come serpenti ed abbandonando i loro cavalli moribondi. I loro compagni, trovandosi nell'impossibilità di riprendere la carica e per paura di venire a loro volta smontati, si erano trincerati dietro una roccia, sparando alcuni colpi d'archibugio. Non dovevano essere cattivi bersaglieri, poiché al terzo sparo il bel l'andaluso del fiammingo si rizzò di colpo, mandando un lungo nitrito, sferrò alcuni calci e poi cadde di quarto, tre metri piú innanzi della spaccatura. - Ecco una vera disgrazia, - disse il guascone. - Quell'animale valeva almeno duecento piastre e non potrò piú rimandarlo a S. E. il marchese di Montelimar. È vero che non avevo proprio quest'intenzione. Le sue scuderie sono piú ben fornite delle mie, diamine. Ohé, signor Mendoza, dormite sui vostri allori? - Aspettate un po' e vedrete che cosa sanno fare i filibustieri. Cerco di gettare a terra un uomo ed un cavallo insieme. - E quel cavalleggiero cerca di spaccare la mia testa, - rispose il guascone, gettandosi precipitosamente a terra, mentre il suo feltro, forato da una palla, balzava lontano parecchi passi. - Questa è una vera battaglia! ... - I guasconi sono sempre stati battaglieri, quindi non vi dispiacerà, - disse il fiammingo, colla sua solita calma. - Preferiscono sempre però un corpo a corpo, a colpi di spada. - Fate per ora un corpo a corpo a palle di piombo. - Sono troppo traditrici, perché ammazzano senza nemmeno dire: ohé, guardatevi che vi mando a visitare l'altro mondo. - Già, è un brutto affare. Un colpo d'archibugio aveva interrotto il loro discorso. Il filibustiere aveva fatto fuoco e, come aveva promesso, aveva ammazzato un altro cavallo e l'uomo che gli stava dietro. - Signor Mendoza, - disse l'incorreggibile chiacchierone. Voi siete un tiratore veramente tremendo. - Come il fiammingo è un brabantino, io sono un filibustiere, rispose Mendoza. - Avete ancora delle munizioni? - Tre colpi soli: S. E. il governatore ci ha forniti poco bene. - Forse presentiva che noi li avremmo adoperati contro i suoi armigeri, - rispose il guascone. Una scarica in quel momento partí ed un altro cavallo del governatore, dopo d'aver spiccato un salto, cadde fulminato. - È il mio, - disse il guascone, bestemmiando. - Non valeva la pena di regalarci dei cavalli cosí splendidi, per farli poi massacrare dai suoi cavalleggieri. - Se ci avesse dati dei muli sfiniti, sarebbe stata la medesima cosa. - Signor fiammingo, guardate troppo il vostro archibugio. Sono tutti cosí lenti i brabantini quando devono sparare? - Anch'io aspetto la mia occasione, - rispose l'avventuriero. - Tiriamo insieme dunque: scommetto un doblone, da bersi alla taverna d'El Moro, che io abbatterò un cavallo e due uomini. - Bum! - fece Mendoza. - Altro che bucaniere! ... - Accettato, - rispose il fiammingo. Fecero fuoco contemporaneamente e fu il brabantino che gettò giú un altro cavallo. - Per centomila code del diavolo! - esclamò don Barrejo. - Si vede che i guasconi non sanno tirare che gran colpi di spada. Signor fiammingo, terrò in serbo il doblone per berlo alla vostra salute. Corpo di Belzebú! ... Ecco che la faccenda diventa proprio seria. Gli spagnuoli, furibondi di essere tenuti in iscacco da quei tre terribili avventurieri, sparavano senza posa, tenendosi coricati dietro le sporgenze del terreno. Rispondevano colpo per colpo alle archibugiate del basco, del fiammingo e del guascone, cercando di avanzarsi. Non avevano però fortuna. Sia che un certo panico si fosse manifestato fra di loro; sia che i loro archibugi avessero una portata assai minore, le loro palle passavano sopra le teste degli avventurieri, senza causare alcun danno. Il guascone ed i suoi compagni, ben nascosti dietro ai cavalli, dei quali due non davano piú segno di vita, resistevano con tenacia ammirabile. Ma dopo un quarto d'ora si trovarono tutti tre senza munizioni. Non avevano che le pistole e le spade. - Ladro d'un governatore! - borbottò don Barrejo. - Poteva essere piú generoso. Non ha badato a darmi dei cavalli di valore ed ha economizzato sulle munizioni. Ora verrà il buono. Poi, volgendosi verso i suoi due compagni, disse: - Non usate le pistole che all'ultimo momento e tenetevi pronti a caricare colle spade. - lo non ne ho, - disse il fiammingo. - Caricherete colla sella del vostro cavallo, - disse il guascone. Gli spagnuoli non avevano cessato di avanzarsi. Ben risoluti ad impadronirsi dei tre avventurieri, prendevano però le loro precauzioni, non ignorando ormai d'aver da fare con persone risolute e pronte a qualunque sbaraglio. Strisciavano fra i massi, cercando di non esporsi e scivolavano fra i crepacci. Anche essi dovevano aver lasciati gli archibugi presso i cavalli. Erano cosí pervenuti ad una distanza di una ventina di metri, quando si udirono in aria due sibili acuti. Tutti avevano alzata la testa. - Delle freccie! - aveva esclamato il guascone. - Benissimo! ... Gli spagnuoli dinanzi e gl'indiani in alto. Si stava meglio a Pueblo-Viejo. Sette od otto uomini dalla pelle ramigna, quasi interamente nudi, colle teste adorne di piume variopinte e che tenevano in mano dei lunghi archi, erano comparsi fra le alte rocce del vallone. Non correvano però in aiuto né degli spagnuoli, né degli avventurieri, perché lanciavano i loro pericolosi dardi tanto contro gli uni che contro gli altri. Per essi l'uomo bianco rappresentava il nemico, a qualunque nazione appartenesse. - Don Barrejo, che cosa facciamo? - chiese Mendoza, il quale si era prontamente riparato dietro una sporgenza dell'enorme roccia, insieme al fiammingo. - Carichiamo gli spagnuoli, che sono per ora i piú pericolosi, rispose il guascone. I cavalleggieri, che si trovavano maggiormente esposti alla pioggia di dardi, non avanzavano piú, anzi balzavano a destra ed a sinistra per evitare d'essere colpiti. - Approfittiamone, amici, - disse il guascone. I tre avventurieri balzarono innanzi, scaricando un colpo di pistola ognuno, non volendo rimanere affatto senza munizioni, poi il guascone ed il basco caricarono colle loro draghinasse, urlando ferocemente. Gli spagnuoli che già si trovavano a mal partito in causa delle freccie e che avevano perduto un altro uomo, colpito in pieno petto da una palla di pistola, fuggirono precipitosamente su pel vallone, traendosi dietro i cavalli rimasti vivi. - Io spero di non rivederli piú, - disse il guascone, rifugiandosi precipitosamente dietro la roccia, per non prendersi qualche freccia attraverso il corpo. - Non sono però scappati gl'indiani, - disse il fiammingo. - Non sarà facile a loro di colpirci. Bisognerebbe che girassero il vallone e noi sappiamo quanto è lungo. - Mi pare che si siano divisi, - disse Mendoza. - Alcuni di loro inseguono i cavalleggieri: vedo infatti lassú volare dei dardi. - Cosí affretteranno la loro ritirata, signor basco. - E gli altri assedieranno noi, don Barrejo. - Aspetteremo la notte. - Ed intanto ci ammazzano l'ultimo andaluso! - gridò il fiammingo. Infatti l'ultimo andaluso, colpito da cinque o sei freccie, era caduto addosso agli altri due, nitrendo lamentosamente. - Ah! ... furfanti! ... - gridò il guascone. - Non ne avevano abbastanza della carne qui, senza ammazzarci anche quella povera bestia. - Ci impediscono di fuggire, - disse Mendoza. - Quante piastre perdute! ... - Un migliaio per lo meno, don Barrejo. - Ci rifaremo al saccheggio di Pueblo-Viejo. Per bacco! ... Mi viene una superba idea. - Dite. - Di far pagare questi tre cavalli a quel furfante di taverniere. Se riesco a scovarlo, lo farò urlare come una coyota. Mentre si scambiavano quelle parole, tranquilli come se fossero al sicuro dentro un castello, gl'indiani non cessavano di scagliare freccie e di mandare, di quando in quando, il loro acutissimo urlo di guerra. Sprecavano però inutilmente i loro dardi, poiché i tre avventurieri si guardavano bene dal lasciare l'angolo della roccia. - Suppongo che non avranno delle migliaia di freccie, - riprese il guascone, dopo un breve silenzio. - Ne hanno già scagliate parecchie dozzine. Ah! ... Se avessi un po' di polvere! ... - Non abbiamo che tre cariche, - disse Mendoza. - E di pistola ... - Tiro troppo breve. - Lo so, signor basco. Io continuo a tormentarmi il cervello per trovare un mezzo qualunque che ci permetta di andarcene, e non trovo nulla. Ciò m'inquieta. - Qui non corriamo alcun pericolo, - disse il fiammingo, il quale masticava l'ultimo pezzo del suo sigaro. - Non sono gl'indiani che m'inquietano, - rispose il guascone. - Il sole, forse? - Me ne infischio del caldo. Sono gli spagnuoli. - Se sono scappati! ... - E se ritornassero con dei rinforzi e ci trovassero ancora qui? ... - Che frittata! - esclamò Mendoza. - Fortunatamente Pueblo-Viejo non è tanto vicina ed i cavalleggieri sono quasi tutti smontati. - E quelli montati possono correre innanzi e tornare alla testa di qualche squadrone. - Ah diavolo! - brontolò Mendoza, grattandosi furiosamente la testa. - Voi mi avete messo una pulce terribile in un orecchio. È necessario prendere una risoluzione eroica. Credete che questa roccia sia proprio inaccessibile? - Io non l'ho ancora osservata attentamente, - rispose il guascone. - Si può provare. - Non ci colpiranno gl'indiani? - chiese il fiammingo. - Non credo, perché l'angolo della roccia si prolunga. - Tentiamo, - disse Mendoza, risolutamente. - State attenti alle freccie; non sono già molto pericolose in pieno giorno. Presero gli archibugi, armi troppo preziose, anche se pel momento scariche, per lasciarle agli altri, impugnarono le tre pistole cariche e scivolarono lungo la parete dell'enorme roccia, girandola verso l'opposta parte del vallone. Gl'indiani non potevano accorgersi di quella ritirata, impedendo la frana di osservare ciò che succedeva in basso. I tre avventurieri, procedendo cauti e nel piú profondo silenzio, riuscirono finalmente a raggiungere l'altro angolo, il quale si appoggiava contro la parete rocciosa del vallone. Per un caso assolutamente straordinario, l'enorme rupe, nel precipitare, si era per cosí dire smussata verso la base, lasciando un passaggio fra il proprio angolo e la parete che scendeva a picco. - L'ho sempre detto io, che tutti gli avventi hanno la loro stella! - esclamò il guascone, trionfante. - Un cavallo non potrebbe passare, ma un uomo sí. Prenderemo quei signori indiani alle spalle! ... - Infatti noi abbiamo una fortuna veramente straordinaria, disse Mendoza. - Chi avrebbe potuto supporre che qui esistesse un passaggio? - Dentro, amici, - comandò don Barrejo. - Spicciamoci, giacché gl'indiani non si sono ancora accorti della nostra scomparsa. Odo sempre le freccie fischiare dall'altra parte della frana. Si curvò e si mise a strisciare sotto la rupe, seguito tosto da Mendoza e dal fiammingo. Quella specie di galleria si prolungava per una quindicina di metri, ingombra di terriccio e di macigni. I tre avventurieri l'attraversarono rapidamente e giunsero dietro la frana. - Laggiú mugge il Chagres, - disse il guascone. - Dobbiamo attaccare alle spalle gl'indiani o scappare? I"Veramente ad un guascone ripugna di mostrare i talloni al nemico. - Io direi di dare l'attacco, - rispose Mendoza. - Se si accorgono della nostra fuga non cesseranno di perseguitarci. Io so quanto sono testardi quei maledetti uomini rossi. - Voi meritereste di essere promosso generale. - Perché, don Barrejo? - Gli uomini si conoscono nei momenti difficili. Scappano almeno gl'indiani quando odono dei colpi di fuoco? - Come conigli. - Allora cerchiamo di sorprenderli. Che cosa dite voi, signor fiammingo? - Conosco anch'io quella gente che ha la pelle color rame e vi posso dire che è sempre meglio dare l'assalto. - Riusciremo noi a sorprenderli? - Basta arrampicarsi sulla roccia, - rispose Mendoza. - Qui è piú accessibile che dall'altra parte. - Noi siamo gente sempre straordinariamente fortunata, - disse il guascone. - Se gl'indiani non si accorgono della nostra scalata, faremo una carica a fondo. Compare Mendoza, insegnateci la via. Non siete piú giovane, questo è vero, però potete competere con un gatto selvaggio. Questi filibustieri sono veramente meravigliosi! ... - Ora vi darò una prova di che cosa sono capaci i figli della Tortue, - rispose il basco. - Se non faccio fuggire gl'indiani, che un giaguaro mi divori. - Brutta scommessa, - disse il guascone, scuotendo la testa. Il filibustiere osservò attentamente l'enorme frana, poi, avendo scoperto una specie di gradinata, si mise a salirla. Non era già una gradinata regolare, tuttavia il lupo di mare aveva dato arditamente l'assalto, ansioso di piombare alle spalle degl'indiani, i quali non cessavano di scagliare freccie nel vallone, per impedire la fuga agli assediati. Il guascone ed il fiammingo gli si erano messi dietro, pronti ad aiutarlo nella temeraria impresa. Puntando i piedi sulle sporgenze ed aggrappandosi agli sterpi, il lupo di mare raggiunse senza troppa fatica la cima e scivolò inosservato verso gli alberi che coprivano il margine del vallone. - Ecco il momento di mostrare a quel terribile guascone che anche i baschi valgono qualche cosa, - brontolò. - Che tutta la gloria spetti a lui, perché abita dall'altra parte del mar di Biscaglia, comincia un po' a seccarmi. Canarios! ... Anche noi siamo famosi per menare le mani e per uccidere, sia pure a colpi di navaja. Don Barrejo ed il flemmatico fiammingo lo avevano raggiunto, senza che le pelli-rosse se ne fossero accorte. - Signor Mendoza, - disse don Barrejo, - non sarebbe questo il momento di dare una prova della vostra abilità? - Che cosa volete dire? - chiese il filibustiere. - Abbiamo gl'indiani a soli venti passi da noi e ci voltano le spalle ed io ho udito vantare la straordinaria abilità dei baschi. - A giuocare di spada? - Le spade sono le armi dei guasconi, - disse don Barrejo. È il colpo della navaja che io vorrei vedere. Si risparmierebbe una carica di polvere. - Ho capito, - rispose il basco, sorridendo. - L'avete sempre la vostra navaja? - Preferirei lasciare la spada per la mia arma nazionale. - Fate un buon colpo dunque! Vedremo se la pelle degl'indiani è piú dura di quella degli uomini di razza bianca. Una cosí tremenda stoccata, data a distanza, potrebbe produrre un effetto straordinario. - Vi contenterò, - rispose Mendoza. - Sarà una palla risparmiata. Fermatevi qui e non fate rumore! GI'indiani si trovavano a trenta o quaranta passi, nascosti dietro gli enormi massi della frana. Credendo che gli avventurieri si trovassero sempre riparati dietro l'angolo dell'enorme roccia, non cessavano di lanciare delle freccie, senza guardarsi alle spalle. - Sotto, Mendoza, - disse il guascone. - Lasciate fare a me, - rispose il basco. - Tenetevi pronti a caricare a colpi di spada, se non volete consumare le nostre ultime munizioni. Silenzio! Si era allontanato, strisciando, dopo essersi sbarazzato dell'archibugio il quale non poteva essergli piú di nessuna utilità. Sulla mano allargata teneva la terribile navaja basca, colla punta rivolta verso il polso ed il manico al di fuori. Strisciava come un serpente, senza produrre il menomo rumore. Il guascone ed il fiammingo lo seguivano a breve distanza, tenendo pronte le pistole, pronti a portargli aiuto nel caso che il colpo fosse mancato. Ad un tratto Mendoza si fermò dietro il tronco d'una grossa palma. GI'indiani non erano che a dieci o dodici passi e gli volgevano le spalle, intenti a lanciare, senza interruzione, delle freccie. Si udí un leggiero sibilo e qualche cosa scintillò in alto. La navaja era stata lanciata, piantandosi fra le spalle d'un selvaggio e con tanta violenza da troncargli di colpo la colonna vertebrale. I suoi compagni, vedendolo cadere, avevano fatto tre o quattro salti innanzi, urlando spaventosamente. Il guascone sparò un colpo di pistola, poi caricò colla sua terribile draghinassa. Era una carica affatto inutile, perché i figli delle foreste, spaventati di vedersi dinanzi quei tre uomini bianchi, si erano precipitati sotto la vicina boscaglia, correndo come lepri. Quasi nel medesimo istante si udirono rimbombare nel vallone parecchi colpi d'archibugio. - Gli spagnuoli! - gridò il guascone, mentre il basco s'impadroniva della navaja. - Gambe, amici!

Sbrigatevi ad aprire la porta; abbiamo molta fretta. - E non ti hanno dato nessuna carta? - Non sono un soldato, io? - È vero, ma ci hanno dato anche il comando di impedire l'uscita a qualunque persona. - Era per i borghesi, quello. - Aspetta che chiamo l'anziano: io non voglio assumermi questa responsabilità. Entrò in una vicina caserma e uscí subito con un altro soldato, munito di una lanterna, il quale trascinava con gran fracasso un enorme spadone. - Guarda questi uomini, Barrejo - disse la sentinella. - Fulmini! - mormorò Mendoza. - Il guascone! Ora siamo fritti! Il conte trasalí e portò rapidamente una mano sulla pistola di Martin, pronto ad impegnare una lotta disperata. Il guascone si avvicinò a loro e non potè trattenere un gran gesto di stupore nel riconoscere la propria corazza e le proprie vesti che il conte indossava. - Ah, camerata! - esclamò sbarrando gli occhi. Poi, volgendosi verso le due sentinelle, disse loro: - Continuate la ronda voi, io conosco queste persone. Aspettò che si fossero allontanate, poi, dopo aver alzato una seconda volta la lanterna per guardare bene in viso il conte ed il suo compagno, chiese: - Che cosa fate ancora qui, nei miei panni, signore? Siete ben voi che mi avete dato quei venti dobloni! - Sí, messer Barrejo - rispose il signor di Ventimiglia. - E che cosa siete venuti a fare qui? - A offrirvi altri dieci dobloni, se non vi rincresce. - Per tutti i venti del mare di Biscaglia! Volete far di me un milionario? - No, voglio ingrassarvi, perché siete troppo magro. - Tutti i guasconi sono magrissimi, signor conte. Ma che muscoli d'acciaio abbiamo! - Chi sa che un giorno non li veda al lavoro! Orsú, volete guadagnare altri dieci dobloni? - Che cosa devo fare? - Una cosa semplicissima. Aprirci la porta e lasciarci andare in campagna. - E null'altro? - chiese il guascone con stupore. - Nient'altro. Vi avverto che abbiamo detto ai vostri camerati che siamo corrieri del governatore. - E non avete paura d'incontrare i bucanieri? Si dice che stiano organizzandosi per tentare un colpo di mano sulla città. - Non vi occupate di questo, messer Barrejo. Apriteci la porta e altre dieci monete d'oro andranno a ingrossare il vostro piccolo tesoro. - Vi apro anche tutte quelle della città - rispose don Barrejo. Venite, signor conte. I miei camerati non vi daranno alcun fastidio. Afferrò un'enorme chiave che stava appesa ad un chiodo e aprí la pesante porta laminata di ferro, conducendoli attraverso un massiccio bastione forato nel mezzo da uno stretto passaggio. - Eccovi in campagna - disse dopo aver aperta un'altra porta. Mi permettete di scortarvi per qualche tratto? - Vi ho detto che noi non abbiamo paura - disse il conte. - Non ne dubito, signore, ma che volete, mi piace immensamente la vostra compagnia. - Non sarà per sorvegliarci, spero - disse Mendoza. - Oh! un guascone! ... Noi non siamo abituati a mentire. - Allora venite - disse il conte. - Potreste darci qualche preziosa informazione. - Sono tutto a vostra disposizione, signor conte - rispose il guascone. - Potreste, per esempio, dirci dove potremo trovare dei cavalli. - Vi è un corral a mezzo miglio di qui, annesso ad una grande fattoria. Se avete ancora di quei bei dobloni, potrete acquistarne finché vorrete. - Le nostre borse sono ancora assai fornite, malgrado il salasso fatto alla mia. - Vi guiderò io. - Ed i vostri camerati che non vi vedranno tornare non si allarmeranno? - Vadano al diavolo! - disse Barrejo alzando le spalle. - Non sono padrone di fare una passeggiata notturna e di scortare delle persone raccomandate da Sua Eccellenza il Governatore? - Oh, è vero! - disse il conte ridendo. - Noi siamo personaggi importantissimi. - Che viaggiano però senza carte - aggiunse maliziosamente il guascone. - Le teniamo sempre sulla punta delle nostre spade. Il soldato capí a che cosa voleva alludere il conte e, quantunque guascone, credette opportuno di troncare il discorso. Si erano inoltrati per una viuzza fiancheggiata da bellissime agavi, piante tessili che danno dei fili elastici e fini e dalle cui foglie gli indiani estraggono una bibita fermentata detta pulque, molto spumante e anche molto gradevole. Di là da quelle enormi siepi, si estendevano immense piantagioni di canne da zucchero e di caffè, le maggiori risorse di quella fertilissima isola. Per la tenebrosa campagna volavano sciami di Moscas de luz, insetti che tramandano una luce ben piú potente delle nostre lucciole, e nei solchi delle piantagioni e attorno agli stagni muggivano i grossi rospi gialli e neri con appendici cornute e fischiavano migliaia e migliaia di batraci. I tre uomini camminarono in silenzio per un buon quarto d'ora, rischiarando la via con la lanterna; poi, giunti ad una biforcazione, il guascone si fermò. - Ci lasciate? - chiese il conte. - Questo dipende da voi, signore - rispose il soldato. - Che cosa volete dire? - Signor conte, io sono un uomo d'onore e sono un cadetto d'una famiglia nobile della Guascogna. Già. Voi saprete che, piú o meno, noi siamo tutti nobili nel mio paese, ma anche poveri, poveri, perché i nostri padri non ci lasciano per eredità che una buona spada e delle lunghe lezioni di scherma. - Che cosa volete concludere, signor Barrejo? - Che vorrei sapere chi siete e perché siete fuggito da San Domingo, mentre era stato dato l'ordine d'impedire l'uscita a tutti gli abitanti. Il conte rimase un momento muto, guardando il soldato, poi disse: - Scommetterei che voi già lo sapete. - Forse. - Sono il capitano della fregata che entrò nella rada ieri mattina che due ore fa è stata cannoneggiata dagli spagnuoli. - Dei filibustieri, non è vero? - Siete molto perspicace, signor Barrejo. Ora andrete ad avvertire certamente il governatore. - Io? - esclamò il guascone. - Io tradirvi? Mai! Siamo uomini d'onore, noi. - Allora avrò soddisfatta la vostra curiosità. - Signor conte, se vi facessi una proposta? - Dite pure. - Noi guasconi siamo gente di guerra e non amiamo lasciar arrugginire inutilmente le nostre spade. La mia dorme da due anni in San Domingo e minaccia di non saper piú uscire dal fodero. Volete arruolarmi? Coi filibustieri vi è sempre occasione di menar le mani. - E anche di morire piú facilmente! - aggiunse Mendoza. - Ho trentadue anni e ne ho già abbastanza della vita - disse il guascone. - Mi volete, signor conte? Vi giuro che sarò una buona lama. - E poi lo liberereste da molti fastidi - aggiunse il marinaio, a cui non dispiaceva affatto quel fracassone. - Sia! - disse il signor di Ventimiglia. - Un bravo soldato di piú sulla mia nave non sarà d'impiccio. - Voi non siete spagnuolo, quindi potete passare al nemico - disse Mendoza. - Sono un soldato di ventura e null'altro, e come tale posso offrire la mia spada ed il mio braccio a chi meglio mi piace. - Conoscete S. Josè? - Conosco mezzo San Domingo. - Sapreste condurci nella tenuta della marchesa di Montelimar? - Anche con gli occhi bendati. - Andiamo a procurarci dei cavalli, prima di tutto. Io non dubito che gli spagnuoli ci diano la caccia. - Potete esserne certo, signor conte - rispose il guascone. - Ci lanceranno anche addosso qualche banda dei loro terribili cani. - In cammino allora, Barrejo - disse il conte. - Non ho alcun desiderio di farmi mordere i polpacci da quelle bestiacce. - Dovremo prendere la via dei boschi, signor conte. Le vie sono battute dalle ronde e potrebbero arrestarci. - Ve ne sono molte fuori della città? - Eh, un bel numero. - Andiamo a visitare i boschi. Il guascone gettò via la lanterna, la cui luce poteva tradirli e attirare qualche ronda in perlustrazione o alla caccia di bucanieri. Quelle bande di soldati, formate da cinquanta uomini ciascuna, erano incaricate di impedire ai bucanieri, alleati dei filibustieri, di dare la caccia ai numerosi tori selvatici che in quell'epoca scorrazzavano liberamente per le foreste dell'isola. Non osando gli spagnuoli affrontare quei terribili cacciatori, i quali non sbagliavano mai un colpo, avevano deciso di affamarli e perciò avevano istituite quelle compagnie volanti. Dapprima le avevano munite d'armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s'accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria. I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un'altra parte. I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico. Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente. E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, - ed erano molti - che infestavano le immense foreste dell'isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini. - Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia - aveva detto il soldato al conte. - Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s'infuriano o vengono disturbati! La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature. A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori. I cotoni selvatici s'alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici. Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine. Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un'oscurità quasi completa. - Ho la bussola nella testa - ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte. E pareva infatti che quel diavolo d'uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d'orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie. Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni. Un fracasso indiavolato s'alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni. Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo. - Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d'avere dentro il cervello? - chiese Mendoza. Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose: - Pare proprio che si sia guastata. - Chi? - La mia bussola. - Ecco una faccenda seria per la gente di mare. - E anche qualche volta per la gente di terra, - rispose l'avventuriero, il quale appariva sconcertato. - Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte. - Spero, don Barrejo, che non avrete l'intenzione di farci divorare dai caimani, - disse il signor di Ventimiglia. - Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, - rispose il guascone. - Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l'alba. - Ed intanto schiacciamo un sonnellino - aggiunse Mendoza. L'erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia. - E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi - disse il guascone. - Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi! - Avete un sigaro, don Barrejo? - chiese il conte. - Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico. - Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo. - Zitto, signore! - Che cosa c'è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa. - Altro che caimano! È una cinquantina che s'avvicina. Zitti! Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l'enorme tronco d'un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna. - Adesso ci prendono! - borbottò Mendoza. - Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo. - Zitto, eterno brontolone! - sussurrò il conte. - Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta. - Ben detto, signor conte, - disse il guascone. - D'altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia. - Purché non abbiano con loro dei cani, - disse Mendoza. - Ecco quello che temo, - rispose il guascone. - Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d'archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone. - Ricco di guasconate! - disse Mendoza, un po' ironicamente. - Mi vedrete all'opera, camerata, - rispose il soldato, un po' piccato. - Silenzio, s'avanzano. Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d'una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d'alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri. Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d'un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce. A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri. Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l'aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde. - Camerata, - sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza - voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola. - È un affare che sbrigherò io, - rispose il filibustiere. - Alla cinquantina penseremo io e il signor conte. Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l'uno presso l'altro, pronti a sguainare le spade. Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l'enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico. Un grido s'alzò fra gli uomini d'avanguardia della cinquantina - Ay, perrito! Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi. Mendoza, che lo teneva d'occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio. Allora gli spagnuoli, credendo d'aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi. - Ecco la cinquantina sgominata! - disse il guascone ridendo. Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d'aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte! - E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo - disse Mendoza. - Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia. Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia. - Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! - brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. - Quanto durerà questa storia? Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa. Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse. Quella galoppata furiosa durò un'ora, poi il guascone si fermò. - Può bastare - disse. - La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati. - Se non sapete nemmeno dove si trovi! - disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna. - Camminando sempre, si va anche a Parigi - rispose Barrejo. - Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma - aggiunse il conte. - Ma non alla villa di Montelimar - ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore. - Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano - disse il guascone. - Anche questo è un brutto vizio. - Mi correggerò col tempo. - Siete ormai troppo vecchio per farlo. - I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli. - Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto. - E non le vostre gambe. - Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? - chiese il conte. - Io per conto mio, farei colazione - disse Mendoza. - Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane. - Contentati di accendere la tua pipa, per ora - rispose il conte. - Se non basta, stringi bene la cintura. - Ottimo consiglio! - sentenziò gravemente il guascone. - Che non farà bene a nessuno - brontolò Mendoza - Mettetelo in pratica voi. - Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? - chiese il conte. - Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all'alba. - E i caimani? - chiese Mendoza. - prima avevate una gran paura di quelle bestiacce. - Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi - Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione - disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. - Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza? - Saranno forse di piú - rispose il filibustiere imitandolo. Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo: - Nulla: possiamo riposarci. Non era però troppo facile socchiudere gli occhi. I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d'accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d'un quarto d'ora. Era però molto tardi, e l'alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto. Alle tre e mezzo, durante l'estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell'aurora e le stelle scompaiono. I tre filibustieri - poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale - si riposavano da un paio d'ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi. - In marcia, signor conte - disse il guascone, alzandosi rapidamente. - Cercherò di orientarmi. - È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? - chiese Mendoza beffardamente. - S'incaricherà il sole di rettificarla - rispose l'avventuriero. - Speriamo che sia un abile meccanico. - Vedrete, camerata. Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo. - La cinquantina! - gridò Mendoza facendo un salto. - Sí, che spara con le sue alabarde! - osservò il guascone sorridendo. - Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri? - Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde. - Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere. - Andiamo a trovarlo - rispose il signor di Ventimiglia. Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente. Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa: - Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me! - Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli - rispose il conte in francese purissimo, perché l'intimazione era stata fatta in quella lingua. - Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero. - Del Corsaro Nero! - gridò il bucaniere, lasciando cadere l'archibugio e facendosi innanzi. - Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!

Come abbiamo già detto, era una splendida nave da combattimento capace di affrontare due galeoni spagnuoli, salda di fianchi e molto slanciata, con un'alberatura immensa per poter approfittare delle piú deboli brezze. Mai i filibustieri della Tortue e nemmeno gli spagnuoli, avevano veduto una cosí magnifica nave da battaglia solcare le acque del golfo del Messico. La Santa trinità della Grande armada aveva ben poco da invidiare sia per bocche da fuoco, sia per numero d'uomini, sia per velocità. Salpate le âncore, la Folgore - poiché possiamo ormai chiamarla cosí - aveva descritto un mezzo giro su se stessa per prendere il vento di filo, poi si era messa in corsa verso il capo Tiburon per passarvi di traverso. Il figlio del Corsaro Rosso, sprezzante di ogni pericolo, non aveva nemmeno dato l'ordine di spegnere i due grossi fanali che scintillavano a babordo ed a tribordo del cassero, né il fanalone di prora collocato sul castello. Non voleva lasciare all'oscuro gli artiglieri dei due pezzi da caccia, sui quali molto contava per mitragliare le scialuppe spagnuole, forse già in moto per tentare un abbordaggio furibondo. Con due bordate la fregata attraversò la rada, poi mosse arditamente verso il capo, mentre gli artiglieri soffiavano vigorosamente sulle micce e gli archibugieri montavano sulle coffe e sulle crocette, dove avevano già accumulato non poche granate da lanciarsi a mano, come usavano i filibustieri di quei tempi. S'avanzava superba, la forte nave, sicura di passare tranquilla attraverso l'agguato teso dagli archibugieri e dalle cinquantine del governatore di San Domingo, sprezzante del pericolo che la minacciava. Fra la luce sprizzante dai due grandi fanali di poppa, spiccava, come una macchia di sangue, il figlio del Corsaro Rosso, signor di Ventimiglia, di Valpenta e di Roccabruna, il discendente dei tre formidabili corsari che un giorno avevano portato lo spavento in tutte le colonie spagnuole del gran Golfo del Messico. Col portavoce nella destra e la sinistra appoggiata sulla guardia della sua spada di combattimento, una specie di draghinassa, larga e pesante come quella che portava il guascone, il fiero giovane aspettava intrepidamente l'attacco, tenendo gli sguardi fissi sulle vele della sua superba nave. Un sorriso sardonico, quel sorriso sprezzante che aveva reso cosi celebre il famoso Corsaro Nero, gli errava sulle labbra sottili. - Mi rido di voi tutti, - pareva che dicesse. - Io sono il figlio del terribile Corsaro Rosso che vi ha fatti tremare e del formidabile Corsaro Nero mio zio. Chi oserà assalirmi? La Folgore non trovando entro la rada vento sufficiente, s'avanzava adagio adagio verso il capo, impaziente di provare le vigorose carezze del Gran Golfo. Era tutta coperta di vele: dalla tolda ai contra-pappafichi ed al vecchio pennone di civada del bompresso. Quantunque delle grosse ondate irrompessero di quando in quando attraverso il promontorio, rumoreggiando cupamente, rullava dolcemente tanto era bene equilibrata. - Mi guarderà la marchesa? - si chiese il conte. - Se potesse vedere come si batte un signor di Ventimiglia e ... Una cannonata, che si ripercosse cupamente sotto le foreste che coprivano il promontorio, gli interruppe la frase. - Ah! - esclamò, volgendosi verso il guascone che gli stava vicino, facendo saltellare nella tasca i suoi famosi dobloni. - Pare che gli spagnuoli si siano accorti che noi cerchiamo di scappare; non è vero, don Barrejo? - Non sono mai stato sordo, signor conte - rispose l'avventuriero, sorridendo. - Badate che qualche palla non vi porti via la testa. - Vi ho già detto che compare Belzebú non sa che cosa farne, a casa sua, dei guasconi. Noi siamo gente troppo pericolosa anche nell'inferno. - Siete un tipo meraviglioso, don Barrejo. - Niente affatto. Volete che si prenda degli altri diavoli capacissimi di stroncare le code o le ali ai suoi figli? Il diavolo non sarà cosí stupido, suppongo. - Signor conte! - gridò Mendoza, che stava dietro di loro, alla ribolla del timone. - Guardatevi da quel guascone: deve essere il nipote od il pronipote di messer Belzebú! Ci porterà sfortuna, lo giuro ... - Su una botte di Alicante, - disse il bravo guascone, scoppiando in una sonora risata. Quattro o cinque colpi di cannone, partiti dall'estremità del Capo, rumoreggiarono in quel momento, lanciando i loro proiettili attraverso le vele della fregata. - Pare che questi non siano dolci - disse il guascone, curvando il capo e sguainando con un gesto tragico la sua famosa draghinassa. Vengano all'abbordaggio gli iberi della vecchia o nuova Castiglia, ed io mostrerò loro come si battono i forti spadaccini della Guascogna ... La voce metallica del figlio del Corsaro Rosso soffocò le sue ultime parole: - Che il diavolo vi porti! - disse il conte. - E dove? Se non lo sa nemmeno lui? - Che vi porti in paradiso, allora, - disse Mendoza. - Lassú non c'è l'Alicante della marchesa di Montelimar. La voce metallica del figlio del Corsaro Rosso soffocò le sue ultime parole: - Fuoco di bordata! Passiamo attraverso al capo! Mitragliate le scialuppe! Fuoco! ... Cinque barcaccie, montate ognuna da venticinque uomini fra rematori ed archibugieri, si erano staccate dalla spiaggia e s'avanzavano con furia, allargandosi a ventaglio, per prendere in mezzo la fregata ed abbordarla da due lati. Gli archibugieri tiravano sul ponte, mantenendo il fuoco vivissimo. I due pezzi da caccia, montati su grossi perni giranti, scaricarono sulle due piú vicine una terribile bordata di mitraglia, mentre i dieci pezzi di tribordo lanciavano i loro proiettili verso le boscaglie, in mezzo alle quali si nascondeva l'artiglieria spagnuola. Una delle cinque scialuppe, la seconda, crivellata di proiettili, affondò quasi subito. Le altre però non interruppero per questo la loro marcia e mossero con coraggio meraviglioso all'abbordaggio, mentre gli archibugieri raddoppiavano il fuoco. Il figlio del Corsaro Rosso, accortosi di aver da fare con gente di fegato, imboccò il portavoce e gridò: - Tutti i bucanieri in coperta! Tutte le navi filibustiere avevano sempre un buon numero di quei meravigliosi tiratori. Si può anzi dire che essi costituivano la vera forza dei legni corsari, perché, come abbiamo già detto, quegli intrepidi cacciatori non fallivano mai i loro colpi. Al comando lanciato dal conte, trenta uomini dai volti assai abbronzati e barbuti, che portavano pesanti archibugi dalla canna lunghissima, erano saliti rapidamente in coperta, stendendosi lungo la murata di tribordo e quella dell'altissimo cassero. - A voi le scialuppe! - gridò il signor di Ventimiglia, con voce metallica. - A noi le cinquantine e le artiglierie spagnuole. La battaglia si era impegnata con grande ardimento da una parte e dall'altra. Se tuonavano tremendamente i ventidue pezzi della fregata, i pezzi spagnuoli, che dovevano essere pure numerosi e anche ben collocati dietro le alte rocce del capo e fra le boscaglie, rispondevano con egual furore. Era quasi un colpo a colpo. Le scialuppe intanto non cessavano di avanzare, stringendo l'arco, senza badare al pericolo che correvano di venire travolte dalla prora della fregata. I bucanieri però arrestarono ben presto il loro slancio. Una terribile pioggia di piombo cadde dopo poco su di esse, facendo una strage orrenda di archibugieri e di rematori. Essi, calmi ed impassibili malgrado il grandinare di palle d'ogni calibro, sparavano a colpo sicuro, uccidendo o storpiando un uomo ad ogni scarica. La Folgore, guidata da Mendoza, il quale era il piú abile pilota che si trovasse a bordo, come era pure il miglior artigliere, virò di bordo quasi presso al Capo, si rimise al vento e dopo aver scaricata un'ultima bordata, prese il largo con la prora volta a ponente. Le artiglierie spararono ancora pochi colpi, forando qualche vela e troncando qualche gomena, ma poi sospesero il fuoco, diventato ormai inutile. - Ebbene, don Barrejo, che cosa ne dite? - chiese il conte al guascone, il quale non si era allontanato dal suo fianco, senza aver mai dimostrata la menoma apprensione. - Io dico, signore, che quei filibustieri hanno in mezzo al petto un pezzo di coda di compare Belzebú - rispose l'avventuriero. - Io ho assistito a parecchi combattimenti in Francia ed anche nell'Estremadura, ma non ho mai veduto degli uomini cosí intrepidi. C'era uno dei vostri archibugieri che sparava e nello stesso tempo fumava la pipa. - Vedrete presto il secondo. - Ci batteremo ancora? - Siamo in caccia. - E chi è la selvaggina? - La Santa Maria. - La conosco: un bel galeone e anche bene armato, signor conte, ma che non avrà in questo momento nemmeno un doblone a bordo perché parte da San Domingo. È probabile che vada a caricare verghe d'oro a Vera Cruz, e perciò vi consiglierei d'attenderlo al ritorno. - Non sono i dobloni che io cerco - rispose il signor di Ventimiglia alzando le spalle. Sono un corsaro un po' diverso dagli altri e non è la sete d'oro o di conquiste che mi hanno fatto lasciare l'Europa. Poi, come parlando fra sé, riprese: - Cinque o sei ore di vantaggio! Sarà necessario spiegare altra tela. Imboccò il portavoce e comandò: - Fuori gli scopamari ed i coltellacci! A riva i gabbieri! Una ventina di filibustieri, lesti come scoiattoli, balzarono sulle griselle, scomparendo attraverso la velatura. - Don Barrejo, - disse il conte - non vi sembra che sia giunto il momento di riposarci? In tre giorni non abbiamo dormito sei ore. - Parrebbe anche a me, signore - rispose l'avventuriero, il quale sbadigliava come un orso. - È vero bensí che i guasconi possono farne senza, almeno cosí si afferma nel mio paese; io credo però che si siano ingannati. - Allora buona notte - disse il conte ridendo. - Dite a Mendoza che vi assegni una cabina nel quadro. Discese dal ponte di comando, scambiò alcune parole col suo luogotenente e scomparve sotto il cassero. - Io non trovo di meglio che imitarlo - disse il guascone. - Qui non vi sono le botti della marchesa di Montelimar da spillare. La fregata intanto continuava la sua corsa verso ponente, affrettando la marcia. S'era coperta di vele, dalla cima al ponte, e teneva bravamente il mare, salendo e scendendo graziosamente le larghe ondate del golfo del Messico. I danni causati dal combattimento, danni quasi insignificanti, erano stati prontamente riparati dal numeroso equipaggio, ed i pochi feriti erano stati trasportati nell'infermeria ed affidati al medico di bordo. Sulla tolda non erano rimasti che venticinque uomini, pel servizio delle vele e pochi artiglieri. Sulle coffe invece e sulle crocette erano stati collocati sette od otto gabbieri, incaricati di dare l'avviso nel caso molto probabile che la Santa Maria si mostrasse, non essendo mai stati i galeoni, velieri troppo eccellenti, in causa della loro estrema pesantezza. La notte passò senza avvenimenti. La Nuova Castiglia, che aveva ripreso il nome di Folgore, a ricordo della famosa nave del Corsaro Nero, non aveva cessato di veleggiare, facendo delle rapide punte, ora al sud e ora verso la costa di San Domingo, senza riuscire a scoprire il galeone. Ai primi albori il figlio del Corsaro Rosso era già in coperta, pronto ad impegnare la lotta colla Santa Maria. Il guascone, non importa dirlo, vi era di già, insieme a Mendoza. Ci teneva a dimostrare che i guasconi non erano affatto dormiglioni e che non la cedevano ai marinai abituati alle lunghe veglie. - Non vi è da menare le mani, signor conte? - chiese al giovane capitano, il quale stava osservando attentamente l'orizzonte con un buon cannocchiale. - La mia draghinassa si lagna continuamente e ha già un mezzo pollice di ruggine. Imbarcandomi su una filibustiera credevo di aver molto lavoro. - E le cannonate di ieri sera le avete dimenticate, don Barrejo? - Le ho solamente udite, signor conte. - Dovevate fermare le palle colla vostra famosa draghinassa. Il guascone fece una smorfia. - State sicuro, le occasioni non vi mancheranno per dimostrare che i guasconi non sono da meno dei filibustieri, - aggiunse poco dopo il conte. - Aspettate che la Santa Maria si mostri. - L'abborderemo? - I galeoni non si arrendono senza combattimento. Non sono già caravelle, don Barrejo. Se poi vorrete ... Un grido sceso dall'alto gli troncò la frase: - Vela a babordo, dritta il pennone di trinchetto. - Vedete che avevate torto a lamentarvi, don Barrejo, - disse il conte, puntando il cannocchiale nella direzione indicata dal gabbiere. Mendoza aveva fatto subito echeggiare il suo fischietto. Chiamava in coperta la guardia franca e gli artiglieri. Il luogotenente, che si era appena coricato, era prontamente accorso in coperta, mentre nelle batterie e nelle corsie si gridava: - All'armi! ... La Santa Maria! ... Che fosse veramente il galeone che il figlio del Corsaro Rosso attendeva con tanta impazienza per impadronirsi del segretario del marchese di Montelimar, nessuno avrebbe potuto affermarlo con piena sicurezza, data la distanza e la poca luce che ancora regnava sulle acque dello splendido e grandioso golfo messicano. Poteva darsi invece che si trattasse di qualche veliero filibustiere, uscito dalla Tortue per dare la caccia ai piccoli legni costieri spagnuoli trafficanti con Porto-Principe o coll'isola di Go ave. Il giovane corsaro non staccava dal suo occhio destro il cannocchiale, seguendo attentamente la rotta della nave segnalata. Aspettava che la luce diventasse piú intensa, prima di pronunciarsi. - Nave d'alto bordo, - disse finalmente, volgendosi verso il suo luogotenente ed al guascone che gli stavano dietro. - L'alberatura è imponente. - Che sia proprio la Santa Maria? - chiese il signor Verra. - Le piccole navi di cabotaggio non osano spingersi al largo, quando si trovano nelle acque battute dai filibustieri della Tortue, voi lo sapete quanto me. Se non fosse un legno capace di difendersi, non veleggerebbe cosí lontano dalle coste. - Devo dare l'ordine di prepararci alla lotta, signor conte? - Se è un galeone, non si arrenderà alla prima intimazione. Checché si dica, la vecchia Spagna non manca di ardimentosi marinai. Prendiamo le nostre precauzioni, poiché, se si tratta veramente della Santa Maria, non le darò tregua finché non avrò nelle mie mani il cavaliere Barquisimeto. Quell'uomo mi è assolutamente necessario, mi avete compreso, Verra? - E noi lo prenderemo, per centomila code di Belzebú! ... - esclamò il guascone. - Sí, lo avremo, - appoggiò il luogotenente, scendendo rapidamente la scala del ponte di comando. Il conte aveva puntato nuovamente il cannocchiale. Il sole s'alzava maestoso sull'orizzonte, lanciando obliquamente i suoi raggi attraverso le acque, tingendoli di mille riflessi porporini e d'oro. Le vele segnalate spiccavano vivamente sull'azzurra superficie del golfo. Era un'alta alberatura che raccoglieva vento verso i confini dell'orizzonte visibile. - Non può essere che la Santa Maria, - disse il conte, abbassando l'istrumento. - Io credo, don Barrejo, che avrete da menar le mani e che questa volta non vi mancherà l'occasione di mostrare ai miei marinai il valore dei guasconi. - Spero, Signor Conte, che voi non mi farete l'offesa di dubitare del coraggio dei costieri del mar di Biscaglia, - rispose l'avventuriero. - Non vi avrei arruolato. - Morte e dannazione eterna! Sarò il primo a saltare sulla Santa Maria. - Dopo di me, don Barrejo, - rispose il corsaro. - Nessuno deve passarmi avanti: sono il figlio d'un corsaro. - Ebbene, sarò il secondo, - disse il terribile guascone. - Ed io il terzo allora, - rispose una voce. Era Mendoza, il quale era salito inosservato sul ponte di comando. - Ah! siete voi, compare? - disse il guascone, mentre il conte scendeva sulla tolda per accertarsi se gli uomini erano tutti ai posti di combattimento. - Vi starò alle costole, signor guascone, - disse il lupo di mare. - Per sorvegliarmi? - chiese l'avventuriero, aggrottando la fronte. - Ma che? Per prendervi i dobloni che avete in tasca, affinché non cadano nelle mani degli spagnuoli e farvi celebrare un centinaio di messe, - rispose il basco, ridendo. - Mi augurate la morte forse? - Ad un guascone! Se non crepano mai! ... - Avete ragione, compare. - Nessuno li vuole: sono troppo pericolosi. - È proprio vero, - rispose don Barrejo, con accento grave. Siamo troppo terribili noi, del mare di Biscaglia. - Dì ponente o di levante? - Sempre di ponente. Quelli di levante non sono guasconi. - È vero: sono baschi quelli! - disse Mendoza, scoppiando in una risata. - Questi indiavolati guasconi hanno sempre ragione! - Sfido io! ... Siamo guasconi, sí o no? - Guasconissimi! ... - E allora è inutile discutere, - disse l'avventuriero. In quel momento il conte rimontava la scala del ponte di comando, seguito dal luogotenente. - È la Santa Maria, - disse a Mendoza che lo interrogava collo sguardo. - Non è piú possibile ingannarsi. Prendi tu la direzione del timone, in attesa di sparare un buon colpo di cannone. Mi occorre un albero di quel galeone. - L'avrete, signor conte, - rispose il lupo di mare. - Con cinquanta dobloni di regalo, se riuscirai. - Morte e dannazione! - esclamò il guascone, mordendosi le labbra. - Nel mio paese per un simile premio ammazzerebbero dieci persone. Perché mio padre non ha fatto di me un cannoniere? Il compare però mi pagherà il doblone che ha perduto nelle cantine della marchesa di Montelimar. Perdinci! Non l'ho mica dimenticato, e i guasconi hanno la memoria buona. Una viva agitazione regnava sulla fregata. La notizia che si trattava di abbordare un galeone spagnuolo, si era sparsa dovunque e l'intero equipaggio si preparava animosamente all'abbordaggio, certo di aver non poco da fare, sapendo che quei grossi velieri erano poderosamente armati e montati da marinai scelti, composti per la maggior parte di biscaglini. La Folgore si era messa in gran corsa per raggiungerlo. Tutte le vele erano state spiegate e Mendoza aveva presa la ribolla del timone. Il galeone, accortosi d'aver dietro la poppa una nave corsara, si era subito diretto verso la costa sandominghese, per cercare qualche rifugio in qualcuno dei numerosi porti o rade dell'isola, protette da qualche forte. Il conte però, accortosi a tempo delle sue intenzioni, aveva lanciata la Folgore lungo la spiaggia, per impedire al galeone di sfuggire all'abbordaggio. Essendo il vento piuttosto debole e contrario, con quattro bordate lunghissime si portò all'altezza del galeone, poi mosse arditamente verso il largo, facendo cosí capire agli spagnuoli che non vi erano altre speranze che la resa a discrezione o un combattimento disperato. - A me, Mendoza! - gridò il conte. - Questo è il buon momento! Il galeone non si trovava che ad un miglio di distanza e veleggiava pesantemente. Era uno di quei grossi navigli che gli spagnuoli adoperavano per trasportare in Europa i tesori strappati alle miniere allora inesauribili del Messico, del Guatemala e di Costarica, larghi di fianchi, a due ponti, ma troppo pesanti per poter gareggiare colle svelte navi dei filibustieri i quali, forti dell'appoggio dei bucanieri, pensavano piú alla velocità che al numero dei pezzi di cannone. - A te, Mendoza! - gridò il conte. - Spaccami l'albero maestro di quel galeone e fermalo in piena volata! - Se colla mia draghinassa potessi farlo, non esiterei un solo istante, - borbottò il guascone. - Il compare ha davvero una fortuna indiavolata, però mi pagherà il doblone! Il galeone, accortosi di essere inseguito da una grossa nave capace di disputargli e anche fargli pagare caramente la vittoria, aveva cambiato bruscamente rotta, forse colla speranza di rifugiarsi nel piccolo porto di Jacmel e mettersi sotto la protezione dei fortini colà eretti dagli spagnuoli. Ma aveva da fare con degli arditi uomini di mare, che conoscevano perfettamente le coste dell'isola e per di piú con una velocità troppo rapida, per poter sfuggire ad un abbordaggio. Il conte, accortosi dell'intenzione dei suoi avversarii, strinse verso la costa per tagliare loro il passo e impedire di cercare un rifugio. La Folgore, che conservava tutta la sua immensa velatura essendo il vento favorevolissimo, giungeva colla velocità d'una rondine marina. Giunta a cinquecento metri dal nemico sparò un colpo a sola polvere, ma il galeone non credette di obbedire all'intimazione. Vedendo che era impossibile raggiungere il piccolo porto, virò nuovamente al largo, mentre il suo equipaggio si preparava animosamente ad impegnare là lotta. - Ah! non volete fermarvi! - disse il conte. - A te allora, Mendoza. Il lupo di mare balzò verso il pezzo di caccia di tribordo e lo puntò sul galeone, il quale aveva, a sua volta, aggiunto nuove vele a quelle già spiegate, per far almeno correre per un po' ancora la fregata. - Che gli altri non facciano fuoco! - gridò il conte col portavoce. - Conservate i vostri colpi pel momento dell'abbordaggio. Mendoza, sei sicuro del tuo tiro? - Accordatemi almeno tre palle, - rispose il basco. - Anche sei, se vuoi. - Allora qualche albero andrà giú: che nessuno parli. - Nemmeno io? - chiese don Barrejo scherzando. - Voi meno degli altri, signor guascone. Un profondo silenzio regnava sulla fregata, rotto solo dal tamburellare delle vele e dai leggieri sibili della brezza la quale faceva vibrare cordami. Tutti gli occhi si erano fissati sul galeone, il quale continuava la sua fuga verso ponente, tendendo però sempre a gettarsi verso la costa che era visibilissima, e non lontana piú di sei o sette miglia. Mendoza continuava a rettificare la mira del pezzo, borbottando e soffiando come una foca. Si sa già che i tiri in mare, contro un corpo mobile e colle improvvise scosse che subisce la nave, sono sempre difficilissimi, specialmente su velieri, i quali non hanno una assoluta stabilità a causa dei soprassalti del vento. L'impresa del basco non era quindi una cosa da ridere. A un tratto una fortissima detonazione che scosse tutto il cassero della Folgore, rimbombò; il pezzo da caccia aveva finalmente fatto fuoco. Mendoza e il guascone che gli stava presso erano saltati in mezzo alla densa nuvola di fumo, mentre il conte ed il suo luogotenente si curvavano sul ponte di comando, come se cercassero di seguire la corsa del proiettile. Mendoza aveva mandato un grido di collera. Non era stato l'albero maestro del galeone a precipitare sulla tolda, bensí il pennone dell'immensa vela di gabbia era spaccato a qualche metro solo dalla coffa. - Ah, lupo mio, non hai strappato che una penna a quell'uccellaccio! - disse il conte. - Era un'ala che io volevo. - Ho ancora cinque palle a mia disposizione, capitano - rispose il basco. - Non ti disperare però: anche una penna è qualche cosa e quel galeone non correrà piú come prima. Un rimbombo spaventevole coprí le sue ultime parole. Il galeone aveva scaricato tutti i suoi pezzi di babordo d'un colpo solo, ma non avendo le artiglierie di quei tempi, ad eccezione dei lunghi pezzi da caccia, che un tiro molto debole, i proiettili non giunsero fino alla fregata. - Quella gente ha polvere e ferro da sprecare! - disse il conte. Che abbiano voluto solamente spaventarci? Oh, siamo troppo abituati a quella musica, non è vero, signor Verra? - Non produce piú alcun effetto su di noi - rispose il luogotenente, il quale stava caricando tranquillamente la sua pipa. - Prima che quelle palle giungano fino a noi, io avrò terminata la mia fumata. Intanto Mendoza, aiutato da alcuni filibustieri aveva ricaricato il pezzo non potendo per il momento servirsi dell'altro, a motivo della posizione che occupava il galeone. Per la seconda volta aveva corretto la mira. Gli spagnuoli avevano subito approfittato di quella sosta per rialzare la loro vela e fissare un lembo alla coffa, non potendo pensare a sostituire il pennone. - Compare, - disse il guascone al basco - badate di non perdere i dobloni, altrimenti non potrete piú restituire quello che avete perduto con me nelle cantine della marchesa. Mendoza non rispose; continuava a mirare attentamente, spostando lentamente la bocca del pezzo per mantenerlo sulla linea del galeone. Il colpo partí, seguito, dopo qualche istante, da un urrà fragoroso e dalle grida di: - Bravo, Mendoza! Non era un'altra penna che il basco aveva strappato alla nave avversaria. L'albero maestro, spaccato un po' sotto la coffa, era caduto attraverso il galeone, spezzando, col proprio peso, le sartie ed i paterazzi e facendo inclinare fortemente la nave sul babordo. La grande vela latina e quella quadrata soprastante erano pure cadute, ingombrando la tolda e coprendo buona parte dell'equipaggio. - Ecco un tiro meraviglioso! - esclamò il guascone. - Il mio doblone è al sicuro. - Siete soddisfatto, signor conte? - chiese Mendoza trionfante. Il signor di Ventimiglia, invece di rispondere, sguainò la spada, gridando con voce tonante: - All'abbordaggio, miei bravi! ... Fra dieci minuti il galeone sarà nelle nostre mani!

Non abbiamo a fondo che una sola ancora. - Benissimo: è un brav'uomo che non si lascia mai cogliere di sorpresa. Ah, i marinai genovesi! Nessuno può eguagliarli. - Conte, - gridò la marchesa - che cosa dite voi? - Un momento ancora, signora - rispose il fiero giovane. - Mendoza, sono tutti a bordo i miei uomini? - Tutti, capitano. - Siamo in ottanta e faremo sudare freddo quelli che vorranno impedirci di prendere il largo ... Ora a voi, signora di Montelimar. Io ho vinto la corsa al gallo e voi mi siete debitrice d'un bacio. Permettete dunque che io ne deponga uno sulle vostre belle mani. Sarà certamente il primo e l'ultimo, poiché, se non accade un miracolo, fra pochi minuti scomparirà anche l'ultimo conte di Ventimiglia, di Roccabruna e di Valpenta! - Di Ventimiglia, avete detto? - esclamò la marchesa. - Sí, signora, io sono il figlio di quel Corsaro Rosso che i vostri compatrioti hanno appiccato! La marchesa stette muta per qualche istante, in preda ad una vivissima emozione. - Signor conte, - disse - io non lascerò arrestare sotto i miei occhi, nel mio palazzo, un gentiluomo come voi. - Che cosa volete fare, signora? - Salvarvi! - In qual modo? - Seguitemi tutti e, soprattutto, fate presto. Il capitano degli alabardieri sarà irritato per questa lunga attesa. Aprí la porta del salotto e introdusse i tre corsari in una stanza da letto, la sua probabilmente, a giudicare dalla ricchezza della mobilia, e s'avviò ad un caminetto che era chiuso da una lastra di bronzo lavorata a cesello. Mise una mano su uno dei tanti fiori che la ornavano e premette rapidamente. La lastra subito scattò, aprendosi: Tosto apparvero dei gradini che conducevano in alto. - È un passaggio segreto, aperto nello spessore della muraglia - disse la marchesa - e da tutti ignorato. Conduce ad una delle piccole torricelle che s'innalzano sul tetto. Salite e aspettatemi lassú piú tardi. - Il bacio, marchesa - disse il conte. La bella signora gli porse la mano. Il corsaro vi depose un bacio, poi si slanciò su per la scaletta, seguito da Mendoza e da Martin. La marchesa rinchiuse la lastra, mormorando: - Povero giovane! Uccidere un cosí valorose gentiluomo? No, non voglio; anche essendo un nemico del mio paese, io lo salverò, checché debba accadermi. Non voglio che si dica che un Montelimar ha tradito un suo ospite. Chiuse la porta ed entrò nel salotto, mettendosi a centellinare una tazzina di cioccolata, sforzandosi di parere perfettamente tranquilla. Un momento dopo il maggiordomo entrava, annunziando il capitano Pinzon. - Passi pure - rispose la marchesa continuando a sorseggiare la cioccolata. Il capitano degli alabardieri, un soldataccio con due enormi baffi grigiastri e gli occhi vivissimi, entrò togliendosi il cappello di feltro. - A quale onore debbo la vostra visita? - chiese la marchesa, sempre tranquilla, additandogli una poltrona. - Spero che accetterete un po' di cioccolata che viene dal Guatemala, dal paese cioè che produce la piú eccellente cioccolata del mondo. Il capitano rimase un po' sorpreso, poi disse: - Perdonate, signora, se vi disturbo; ma sono stato mandato dal governatore della città. - Per arrestarmi? - chiese la bella vedova ridendo. - Non voi, ma una persona che poco fa deve aver fatto colazione qui, con voi. - Eh, che cosa dite, capitano? - esclamò la marchesa aggrottando la fronte e alzandosi di scatto. - Arrestare chi? - Quel conte che si veste tutto di rosso. - Lui! Un gentiluomo? - Un bandito, signora! - Lui? È impossibile! - È un Ventimiglia, un parente di quei terribili corsari che con Pierre le Grand, con Laurent, con Wan Horn e con l'Olonese, hanno espugnato tante città del Golfo del Messico. - Oh, mio Dio! - esclamò la marchesa, lasciandosi cadere sulla poltrona. - Se vi foste ingannati? - Abbiamo la prova che è certamente un Ventimiglia. - In quale modo avete potuto ottenerla? - La lama che era rimasta infissa nel petto del conte di Sant'Iago portava inciso il nome del suo uccisore. - Allora avrete già distrutta la sua fregata? - Non ancora, marchesa - rispose il capitano. - Aspetteremo che la notte cali per abbordarla. Dov'è quel signore? - È già partito. - Partito? - esclamò il capitano diventando livido. - Mi ha lasciato mezz'ora fa, dopo aver fatto colazione con me, dicendomi che andava a fare una passeggiata nel giardino. Il capitano si diede un pugno sulla corazza. - Che egli mi abbia veduto attraversare le cancellate del giardino? - sí domandò, tirandosi furiosamente i baffi. - Fuggito! Ma dove? Si sarà probabilmente nascosto in qualche luogo ... Diaz! Un sergente degli alabardieri, a quella chiamata, entrò nel salotto. - Prendi dieci uomini e va a frugare il giardino del palazzo. Forse il corsaro è ancora là. - Subito, capitano - disse il sergente, uscendo rapidamente. - Signora marchesa, - disse il capo del drappello, quando furono nuovamente soli - io ho l'ordine di visitare minutamente le vostre stanze. - Fate pure, capitano i rispose la bella vedova. - Ma sono certissima che non lo troverete nel mio palazzo. - Eppure io sono sicuro, signora, di poterlo scovare in qualche luogo - rispose il capitano. - Dalla città non può uscire, perché tutte le porte sono bene guardate; imbarcarsi nemmeno, perché sulle calate abbiamo mandato parecchi drappelli di soldati, e la sua nave sta per essere circondata dai galeoni e dalle caravelle. È ora di finirla con questi Ventimiglia e noi la finiremo. Signora, vado a visitare il palazzo.

Come abbiamo detto, era un'opera saldissima, difesa e guernita di grossa artiglieria e ben munita di archibugieri e di combattenti. Ad ogni intimazione di resa aveva risposto con cannonate, che atterravano le case della città. Il conte di Ventimiglia, che aveva sempre combattuto in prima fila, spalleggiato da Mendoza, dal guascone e dal fiammingo ed i tre capi corsari si erano radunati dietro uno dei bastioni, mentre i vecchi bucanieri si sforzavano, senza alcun risultato apprezzabile, di decimare gli artiglieri della fortezza, i quali si tenevano nascosti dietro i grossi merli, in attesa di mitragliare gli assalitori. - Signor conte, - disse Grogner, il quale appariva preoccupato. - Vi è proprio necessario il marchese? - A me non importano le ricchezze di Granata, - rispose il figlio del Corsaro Rosso. - È quell'uomo che io voglio e sarà la mia parte di saccheggio. - Vostro padre non agiva diversamente, - disse Tusley. - Voi siete sempre stati corsari dilettanti, ma che terribili dilettanti! ... Allora prendiamo d'assalto la fortezza, - disse Raveneau de Lussan, il quale non dubitava mai di nulla. - Come è caduta nelle nostre mani la città, cadrà anche quella. - Vi propongo di aspettare la notte, - rispose Grogner. - Mi ricordo che una volta i filibustieri hanno fatto uso, con buon successo, di palle di cotone infilate nelle bacchette dei loro archibugi. - Ed io, - disse una voce, - mi ricordo che una volta degli uomini audaci hanno fatto saltare un fortino con qualche barile di polvere. Tutti si eran voltati. Era don Barrejo che aveva pronunciato quelle parole. - Se volete farvi mitragliare, siete padronissimo, - disse Grogner, un po' ironicamente. - Sono un guascone. - Ed io sono di Bordeaux. - Ho molto piacere di saperlo, signor Grogner, però devo dirvi che i bordolesi non valgono proprio i guasconi. Ciò detto lo spadaccino volse le spalle e si allontanò, per recarsi in cerca di Mendoza e del fiammingo. La battaglia intanto continuava furiosissima, fra i filibustieri e la fortezza. Tutti i vecchi bucanieri, famosi già per l'esattezza dei loro tiri, erano stati chiamati a raccolta per decimare gli artiglieri spagnuoli e, come prima, non avevano avuto altro successo che quello di provocare un formidabile e pericolosissimo cannoneggiamento. Pareva che il marchese di Montelimar avesse giurato di farsi seppellire sotto le rovine della fortezza, piuttosto che ammainare il grande stendardo di Spagna che sventolava orgogliosamente al di sopra della batteria centrale. Il guascone, noncurante delle palle che piovevano da tutte le parti, sventrando le case della città, aveva finito per trovare i due compari, i quali, in attesa della decisione che dovevano prendere i quattro capi della filibusteria, si erano seduti sul margine d'un fossato, vuotando tranquillamente una grossa fiasca di vino che avevano scovata in mezzo alle rovine d'una abitazione. - Come! - disse don Barrejo, fingendosi indignato. - Si vuotano dei boccali senza di me? - Io vi credevo già disteso in qualche cantina, pieno d'Alicante, da scoppiare, - rispose Mendoza. - Non ne avete scoperta alcuna? - Con questa gragnuola di bombe che lanciano gli artiglieri del marchese di Montelimar, è troppo pericoloso. Aspettate almeno che sia finita. - Se finirà, - disse il fiammingo. - E noi che cosa siamo? - gridò il guascone, dopo d'aver dato un lungo bacio alla fiasca. - Siamo o non siamo uomini di guerra? Spetta solamente a noi, giacché i capi sono imbarazzati, a far tacere quei bronzi. - Che cosa volete dire, don Barrejo? - chiese Mendoza. - Che tre uomini della nostra forza non dovrebbero fermarsi dinanzi ad un forte. Che diamine! ... Siamo o non siamo tre terribili fracassoni? Non ho già accettato di diventare un filibustiere per fumare solamente dei sigari e fare delle passeggiate sul mare o sotto i boschi. - Questo compare deve avere qualche idea grandiosa, - disse il fiammingo, il quale ad ogni colpo di cannone tracannava una lunghissima sorsata del liquido racchiuso nella fiasca. - È superba, amici, - rispose il guascone. - Vi propongo nient'altro che di far saltare il forte. - Con noi insieme? - chiese Mendoza. - Alto là, camerata! ... Io non ho ancora alcun desiderio di prendere il mio passaporto per l'altro mondo. - Spiegatevi meglio, don Barrejo, - disse Mendoza. - Vi ho detto che giacché il forte non si arrende, noi lo faremo saltare. - Tutto d'un pezzo? - Non ho questa pretesa. Basterà un angolo. - E da quell'angolo saliremo all'attacco, - disse il fiammingo. - Benissimo, don Ercole, - rispose il guascone. - Quando faremo il colpo? - chiese Mendoza. - Questa sera e saremo, io spero, favoriti da un buon uragano. Vi sono delle dense nubi all'orizzonte e cadrà certamente un furioso acquazzone. - E la polvere? - chiese Mendoza. - Ecco chi ce la procurerà, - rispose il guascone. Un uomo s'avanzava lungo il margine del fossato, fischiando tranquillamente, quantunque buon numero di palle cadessero anche oltre il bastione. Era Raveneau de Lussan. Vedendo i tre uomini seduti intorno alla fiasca, si fermò, dicendo: - È cosí che voi combattete? - Signor de Lussan, - disse il guascone, - noi cerchiamo in fondo a questa fiasca la soluzione d'un grande problema. - Quale? - Quella di darvi nelle mani la fortezza. Il gentiluomo guardò attentamente l'avventuriero, poi disse, ridendo: - Ah! ... Il famoso guascone! ... Credevo di vedervi già sui bastioni della fortezza. - Adagio, mio caro signore, - rispose don Barrejo, un po' piccato. - Io non vi ho detto, poco fa, di farla capitolare in dieci minuti. Voi siete? - Della Turenna. - Io della Guascogna: due dipartimenti che hanno dato sempre dei bravi soldati. - Non dico il contrario signor ... - Per voi sono Gastone de Lussac, per gli altri don Barrejo. - Un gentiluomo della Guascogna! - esclamò Raveneau, un po' sorpreso, tendendogli la destra. - Voi già sapete che sulle coste del mar di Biscaglia il sangue azzurro abbonda, - rispose l'avventuriero. Possiamo offrirvi un sorso? - Il buon vino non fa mai male e si sa che i guasconi sanno berlo sempre eccellente. Prese la fiasca che don Barrejo gli offriva e bevette alcuni sorsi. - Ora, signor di Raveneau, dovete mettere a nostra disposizione due barili di polvere, - disse il guascone. - Per che cosa farne? ... - Non ve l'ho detto? Noi vogliamo, questa sera, far saltare almeno un pezzo della fortezza. - Voi siete pazzi! ... - Niente affatto, signor Raveneau - disse Mendoza. - Abbiamo compiuto noi tre ben altre imprese. - E vi assicuro che domani il marchese sarà nelle mani del conte di Ventimiglia, - aggiunse don Barrejo. - Sapete bene che gli è necessario. - Siete della brava gente, - disse il gentiluomo turennese. Prima del tramonto, se la fortezza non si sarà resa, avrete i due barili di polvere. Arrivederci presto, signor de Lussac e badate che le palle non risparmiano neanche i guasconi, ve lo assicuro io. Ciò detto si allontanò, mentre i tre compari riprendevano la bevuta, senza occuparsi della battaglia che ferveva nel centro della città. Mentre una grossa partita di corsari, scelti per lo piú fra gli antichi bucanieri, tenevano occupata la guarnigione del forte, gli altri, dopo d'aver cacciati dalla città gli abitanti, non desiderando fare dei prigionieri, i quali potevano creare piú dei serii imbarazzi che altro, si erano dati al saccheggio. Furono però in gran parte delusi, poiché gli abitanti, che erano stati avvertiti dell'avvicinarsi di quei formidabili ladroni, avevano avuto il tempo di sotterrare la maggior parte delle loro piú preziose cose. Durante tutta la giornata il cannone non cessò di rombare, sventrando un gran numero di case e mettendo a dura prova l'ostinazione e la bravura dei bucanieri. Il marchese di Montelimar, il quale forse aveva saputo della presenza del figlio del Corsaro Rosso fra i filibustieri, difendeva tenacemente la rocca e non si curava di rispondere alle continue intimazioni di resa. Nemmeno la minaccia fattagli da Grogner di passare a filo di spada l'intera guarnigione, nel caso che i filibustieri fossero riusciti ad impadronirsi della fortezza, lo aveva scosso. Quando il sole scomparve, le artiglierie spagnuole tuonavano piú furiosamente che al mattino, alternando palle e bordate di mitraglia. Il cielo era diventato oscurissimo ed enormi nuvole correvano all'impazzata, spinte da un fortissimo vento di ponente. In lontananza lampeggiava e rumoreggiava il tuono. I tre avventurieri che non avevano lasciato, durante tutte quelle ore, il fossato del bastione, si erano alzati. Raveneau de Lussan aveva mantenuta fedelmente la sua parola, facendo portare loro due barilotti di polvere di trenta libbre ciascuno. - Compari, - disse il guascone. - Questo è il momento buono per tentare il colpo. Avete le miccie, signor Mendoza? - Me ne hanno date una mezza dozzina, - rispose il basco. - Don Ercole, voi non avete paura? - Un fiammingo! ... Che cosa dite, signor mio? - Benissimo: andiamo a vedere se possiamo diroccare un pezzo di quella maledetta rocca. - E se possiamo anche prendere il marchese. - Oh! ... Oh! ... Don Ercole! ... Ora andate troppo innanzi. Vi sono duecento uomini dentro la fortezza e non sarà cosa facile fare i conti con loro, pur essendo noi guasconi, baschi e fiamminghi. Se gli spagnuoli non tirano come i filibustieri, sanno lavorare benissimo di spada e d'alabarda, signor mio. Chi s'incarica dei barilotti? - Io, - rispose prontamente il fiammingo. - Don Ercole deve essere sempre un Ercole, - disse Mendoza, gravemente. Cominciava a gocciolare, quando lasciarono il fossato del bastione. Non erano però le gocce che cadono da noi. Rimbalzavano sulla terra come se fossero enormi chicchi di grandine, con un rumore strano, tanto erano grosse. I filibustieri si erano affrettati a rifugiarsi nelle case, mentre i venti pezzi della fortezza, non cessavano di tuonare come se volessero gareggiare coi fulmini che squarciavano, di quando in quando, le tempestose nubi gravide di pioggia. I tre avventurieri attraversarono il bastione e s'avviarono verso la fortezza, seguendo dei viottoli per non ricevere qualche bordata di mitraglia. Un quarto d'ora dopo giungevano sulla spianata. Pioveva a dirotto ed i filibustieri avevano sospeso il fuoco. Anche gli spagnuoli non sparavano che qualche raro colpo, tenendosi certi che i loro nemici non avrebbero osato assalirli con una cosí pessima notte. Sparavano ancora per avvertirli che vegliavano e che non volevano lasciarsi sorprendere. - Siate prudenti, - disse il guascone ai suoi due compagni. Collocheremo i barili sull'angolo di ponente della fortezza che mi è parso meno robusto degli altri. Quello che vi raccomando è di non far rumore. - Gli spagnuoli stanno fumando dietro ai merli o nelle casematte, disse il fiammingo. Solamente dei pazzi come noi potrebbero passeggiare sotto questo acquazzone indiavolato. - Vi lagnate? - Niente affatto: è un bagno delizioso. La giornata è stata straordinariamente calda. - Con quel po' di vino che abbiamo bevuto! - brontolò Mendoza. Protetti dalle tenebre avevano attraversata felicemente la spianata e stavano inerpicandosi su per la scarpata, tenendosi curvi verso terra. Ogni quattro o cinque minuti un colpo di cannone echeggiava sopra le loro teste, seguito poco dopo dal fragore di una casa che crollava. I tre avventurieri erano però ormai al sicuro. Solamente i fucili avrebbero potuto snidarli, ma gli spagnuoli, che si tenevano dietro alle grosse merlature, non li avevano ancora scorti. L'oscurità d'altronde era fittissima, dopo che i lampi erano cessati. Arrampicandosi come le capre, il guascone, ed i suoi compagni riuscirono finalmente a raggiungere l'angolo del forte ed a cacciarsi sotto una specie di arcata, la quale sorreggeva una lunetta armata d'un paio di pezzi. - Ecco una mina pronta, - disse il guascone, sottovoce. Quest'arcata non può resistere all'esplosione di sessanta libbre di polvere. - L'intera lunetta cadrà, insieme ai pezzi che regge. - Un assalto sarà possibile dopo, almeno da questa parte. Signor Mendoza, preparate le miccie. - Gli spagnuoli non vedranno la luce che proietteranno queste miccie? - chiese il corsaro. Il guascone, senza badare che poteva prendersi una palla d'archibugio nel cranio, lasciò l'arcata e si spinse fuori, guardando verso i merli che proteggevano la lunetta. - Ma che! - disse. - Chi si occupa di noi? Piove e quando piove si ama meglio stare al coperto. Termineremo i nostri affari, senza che nessuno venga ad inquietarci. Tornò verso l'arcata dove Mendoza ed il fiammingo stavano preparando la miccia. - Siamo al sicuro, - disse loro, - almeno fino a che i barili scoppieranno. Sono bene assicurate le miccie, signor Mendoza? - E lo domandate ad un vecchio filibustiere? - Date fuoco dunque e poi via di corsa. Il basco accese l'esca e dette fuoco alle due funicelle incatramate e cosparse di polvere da sparo. Il guascone si assicurò prima che tutto fosse fatto esattamente, poi alzò i tacchi, dicendo: - Alla larga! ... Non saltiamo insieme alla fortezza. Lasciarono l'arcata e si slanciarono a corsa disperata giú per la scarpa. Avevano percorsi pochi metri, quando si udí una voce a gridare: - All'armi! ... I filibustieri! ... Poi rimbombò un colpo d'archibugio. - Gambe! - gridò il guascone, il quale spiccava dei salti straordinarii. Sette od otto spari rimbombarono. Gli spagnuoli dovevano però aver sparato a casaccio essendo l'oscurità sempre profondissima. In un lampo i tre avventurieri scesero la scarpata, attraversarono la spianata e si precipitarono attraverso la prima viuzza che si videro dinanzi, rifugiandosi in una catapecchia disabitata. Gli spagnuoli, credendo che i filibustieri tentassero una sorpresa, sparavano furiosamente in tutte le direzioni. Cannoni ed archibugi tuonavano con un crescendo spaventoso, bombardando i quartieri della città. Lampi vivissimi illuminavano la notte, mentre una immensa nube rossastra s'alzava sulla fortezza, prodotta forse da numerosi falò accesi sulle spianate interne. I filibustieri, i quali avevano già scorti i tre terribili avventurieri scendere a corsa disperata la scarpata al balenar delle artiglierie, erano balzati fuori dai loro rifugi, impegnando risolutamente la lotta a colpi d'archibugio, in attesa di montare all'assalto. Si erano radunati dietro la cattedrale che s'innalzava sulla piazza maggiore, per essere piú pronti a formare le colonne d'attacco sotto la guida dei rispettivi capi. Il guascone, da una finestra della catapecchia, fissava intensamente due piccoli punti luminosi che brillavano sotto l'arcata. Erano le miccie dei due barili. - Ancora mezzo minuto e la lunetta salterà, - disse al basco che gli stava dietro. - L'arcata protegge le miccie dalla pioggia. La batteria centrale continuava sempre piú furiosa i suoi tiri. I filibustieri, non curanti della pioggia che si rovesciava con estrema violenza sulla città, avevano già formate le colonne d'assalto e s'avanzavano attraverso le strette viuzze, stringendo le sciabole d'arrembaggio e cercando di riparare le pistole da quel diluvio. Ad un tratto un lampo vivissimo brillò sotto l'ultimo angolo della fortezza, seguito da un rimbombo assordante e da un fragore sinistro. I due barili erano scoppiati quasi contemporaneamente, ed avevano mandato all'aria l'arcata, facendo crollare l'intera lunetta. Un grido immenso echeggiò subito fra le tenebre, lanciato da centinaia di bocche. - All'assalto! Le quattro colonne, guidate dal figlio del Corsaro Rosso, da Grogner, da Tusley e dal signor Raveneau de Lussan, si erano slanciate su per le scarpate, urlando ferocemente. I tre avventurieri avevano prontamente raggiunto il loro capitano per essere i primi a montare all'attacco. La fortezza tuonava con un frastuono orrendo. Tutta la guarnigione era accorsa sugli spalti, affollandosi specialmente verso la lunetta che piú non poteva difenderli. L'esplosione di quelle sessanta libbre di polvere aveva prodotto uno squarcio largo parecchi metri, facendo franare il terrazzo ed i due pezzi d'artiglieria che vi si trovavano. La colonna del figlio del Corsaro Rosso, composta dei sessanta uomini della fregata e dei tre avventurieri, fu la prima a giungere dinanzi alle rovine della lunetta. I filibustieri di Tusley e di Raveneau de Lussan avevano dato l'attacco dall'altra parte, per distogliere una parte delle forze spagnuole e, come usavano sempre, si erano messi a scagliare bombe verso i merli per allontanare i difensori, con poco successo però, in causa della pioggia che continuava a cadere con estrema violenza. Il conte che era alla testa della colonna si slanciò risolutamente fra le rovine della lunetta, gridando con voce tuonante: - All'assalto, miei valorosi! Stava per spingersi in alto, quando un uomo gli si gettò dinanzi, dicendogli: - Lasciate che vi faccia scudo, signor conte. Era il guascone. - Grazie, - rispose il signor di Ventimiglia, - ma il primo devo essere io. Voi passerete dopo di me. Scostò colla sinistra il valoroso avventuriero e si precipitò all'attacco, sparando le sue pistole e poi impugnando la spada. I tre avventurieri ed i corsari della Folgore lo avevano seguito, pressati dai filibustieri di Grogner, i quali erano pure giunti. Una mezza compagnia di alabardieri difendeva l'angolo del forte. Il conte si scagliò risolutamente fra le alabarde, aprendosi il passo a gran colpi di spada ed impegnò la lotta, spalleggiato vigorosamente dai suoi uomini. Il passaggio era stretto, sicché combattevano male tanto gli spagnuoli quanto i filibustieri, anche perché né gli uni né gli altri potevano far uso degli archibugi con quell'acquazzone furioso che non accennava a cessare e che bagnava le polveri. Il conte, che combatteva disperatamente, facendo impeto contro gli avversarii, validamente appoggiato dalle draghinasse dei tre fracassoni, le quali tagliavano le aste delle alabarde come se fossero fuscelli di paglia, riuscí finalmente ad aprire il passo ai corsari ed a sbucare sul terrazzo. Gli spagnuoli, quantunque scoraggiati, si ressero ancora per parecchi minuti, disputando ferocemente il terreno palmo a palmo; poi, sopraffatti dal numero, poiché anche i filibustieri di Grogner erano montati all'assalto, si ripiegarono confusamente verso l'ampio piazzale del forte, tentando d'arrestare quella valanga umana a colpi di cannone. Anche quelli che difendevano le merlature di ponente, contro gli infruttuosi attacchi delle genti di Tusley e di Raveneau de Lussan, erano accorsi per prendere parte alla lotta, incoraggiatí dalla presenza del marchese di Montelimar. Una mischia sanguinosa s'impegnò davanti al castello centrale, con perdite gravissime da ambe le parti, mischia che ebbe però la durata di brevi istanti, poiché i filibustieri delle due altre colonne ne avevano subito approfittato per scalare i merli ed invadere la piazza. Presi di fronte e alle spalle, gli spagnuoli, giudicando ormai inutile ogni resistenza, gettarono le armi. I filibustieri, resi feroci da tanta resistenza, stavano per precipitarsi sui disgraziati e passarli a fil di spada, quando il conte di Ventimiglia intervenne. - Si ringuainino le spade e le sciabole d'arrembaggio! - gridò, con voce tuonante. - Dove combatte un Ventimiglia non si assassina della gente inerme! ... Giú le armi! ... È il figlio del Corsaro Rosso che ve lo ordina! ... - Obbedite! - gridò Raveneau de Lussan ai suoi uomini. Uno spagnuolo che aveva il vestito macchiato di sangue, si era fatto largo fra i suoi soldati e si era avanzato verso il conte, seguito da un altro che portava una lanterna staccata dalla batteria. - Mi avete preso, signor di Ventimiglia, - disse, con voce un po' aspra. - Che cosa volete fare ora di me? - Chi siete voi? - chiese il figlio del Corsaro Rosso. - Il marchese di Montelimar. Il conte aveva mandato un grido, fissando attentamente il gentiluomo. - Che cosa volete ora da me? - seguitò il marchese, incrociando le braccia. - Avevo già saputo che mi cercavate. - Questo non è né il luogo, né il momento, - rispose il conte. - Volete favorire nel mio gabinetto? - Sono pronto a seguirvi. Grogner si avvicinò al conte, dicendogli: - Non vi fidate di questa gente. - Sono un gentiluomo, - rispose il marchese con fierezza. - E poi, noi lo accompagneremo, - disse il guascone. - Signor Grogner, - disse il conte, - occupatevi dei prigionieri e saccheggiate quanto credete che possa essere utile ai vostri uomini. - Come volete, conte, - rispose il filibustiere. - Sono ai vostri ordini, marchese, - disse il signor di Ventimiglia. Il gentiluomo spagnuolo sorrise tristamente; poi, preceduto dal soldato che portava la lanterna, entrò nel castello del forte, seguito dal figlio del Corsaro Rosso e dai tre avventurieri, mentre i corsari si rifugiavano nelle casematte, in attesa che l'acquazzone cessasse, conducendo con loro i prigionieri. Il marchese attraversò parecchi androni ingombri di barili di polvere e di piramidi di palle, poi aperse una porta, dicendo: - Entrate, conte: qui non avrete nulla da temere.

. - Dovranno prima cercare la costa che noi abbiamo attraversata, e quella non sarà tanto larga da permettere loro di avanzare tutti insieme. Saranno costretti a venire avanti in fila indiana, e noi avremo cosí tutto il tempo per fucilarli uno dopo l'altro. Ci tengo piú alla mia pelle che alla loro. - Ben detto, - disse Mendoza - E noi siamo uomini da non aver paura nemmeno del diavolo, - aggiunse il guascone. - Se si presentasse, con un colpo della mia draghinassa, taglio il naso anche a lui. Le cinquantine si erano in quel frattempo riunite, occupando tutta l'estremità della penisoletta. Il fuoco era stato sospeso, avendolo giudicato affatto inutile e gli ufficiali discutevano animatamente, additandosi l'un l'altro la savana, mentre alcuni soldati, armati di lunghe canne, cominciavano ad esplorare il fondo, per cercare fra le pericolosissime sabbie mobili, la costa. I cani giravano lungo le rive, guatando ferocemente l'isolotto e abbaiando con furore, impazienti di muovere all'attacco. Qualcuno si era già gettato in acqua e nuotava innanzi e indietro. Abituati alla caccia all'uomo, non attendevano che un segnale dei loro padroni per spingersi coraggiosamente avanti, e i segnali non tardarono a farsi udire. Pochi fischi s'alzarono fra i soldati incaricati del loro ammaestramento e tutti i cani si gettarono lestamente in acqua nuotando in gruppo serrato. - Don Barrejo, attento alle gambe! - disse Mendoza, armando l'archibugio. - Quelle brutte bestie hanno una gran voglia di mangiarvi i polpacci. - Guardatevi piuttosto le vostre, - rispose il guascone. - Io non ho paura dei cani, anzi neppur dei leoni. Non siamo del mar di Biscaglia. - Anch'io - Tacete e attenti ai mastini, - disse il bucaniere. - Appena sono a tiro sparate. La muta nuotava vigorosamente dirigendosi verso l'isolotto, e i loro padroni non cessavano d'aizzarla con grida altissime. Già non distava che una cinquantina di metri dalla riva, quando un'improvvisa agitazione si manifestò fra i nuotatori. Non avanzavano piú e latravano furiosamente, volgendo la testa verso i soldati come per chieder loro qualche aiuto. - Ah, ah! - esclamò il guascone, scoppiando in una risata. - Hanno trovato il loro pane e non saranno essi che lo mangeranno! - Che cosa succede? - chiese il conte. - Una cosa semplicissima - rispose don Barrejo. - Stanno per perdere le loro zampe. Altro che mangiare le nostre! Gli jacarè amano avere i cani dentro il loro ventre: vedrete che bell'assalto! - Sí, sono i caimani che giungono - disse Buttafuoco. - Ci faranno risparmiare le munizioni. I mastini si erano messi a ululare sinistramente ed avevano voltato le spalle all'isolotto nuotando disperatamente verso la penisoletta. Ad un tratto una brutta testa, armata di due formidabili mascelle, emerse bruscamente e si gettò sull'ultimo cane, tagliandolo d'un colpo a metà. Era un mostruoso caimano che aveva fatto il suo colpo. Le savane di San Domingo, piú che quelle delle altre grandi isole del golfo del Messico, sono infestate da sauriani enormi e anche ferocissimi, che si fanno temere dai piú audaci cacciatori. Hanno una resistenza cosí straordinaria che non muoiono neppure quando il gran calore asciuga tutta l'acqua delle paludi. S'innestano nel pantano, scomparendovi dentro, specialmente là dove le erbe sono foltissime e aspettano dormendo la stagione delle grandi pioggie. Allora gonfiano i polmoni e si lasciano trasportare dove l'acqua è piú profonda. Specialmente allora sono temibili perché, spinti dalla fame, si gettano su uomini e su animali. Hanno poi un debole pei porci e pei cani. Per procurarsi questi animali, osano qualunque cosa. I mastini, che gli spagnuoli avevano lanciati contro l'isolotto, vedendo il loro compagno scomparire, avevano battuto precipitosamente in ritirata, inseguiti accanitamente da una vera truppa di sauriani. Di quando in quando un mastino scompariva, urlando disperatamente e non tutto d'un colpo, poiché i caimani ci tengono a soffocare i cani lentamente come se godessero di quella lenta agonia. Anzi, anche se affamati, non li divorano subito. Li seppelliscono in mezzo al fango e li lasciano imputridire. Gli spagnuoli, vedendo le loro bestie in pericolo, avevano aperto un fuoco vivissimo contro quei feroci predoni che muovevano all'assalto a grandi sbalzi, facendo risuonare sinistramente le loro enormi mascelle armate di formidabili denti. Buttafuoco si era alzato. - Giacché i caimani corrono tutti da quella parte, e i nostri nemici sono occupati, approfittiamone per fuggire. Seguitemi sempre e non lasciate la costa. Tenendosi sempre nascosti dietro gli enormi tronchi dei noci, raggiunsero la riva e scesero nell'acqua. Buttafuoco era dinanzi a tutti, e non cessava di perlustrare il fondo. Nessuno si era accorto della loro fuga. Gli spagnuoli avevano impegnata una vera battaglia contro i caimani che accorrevano da tutte le parti della savana, attratti dai guaiti lamentevoli dei mastini. Si udivano passare a tre o a quattro alla volta, rapidi come frecce, coi dorsi rugosi coperti di piante palustri. Buttafuoco procedeva rapidamente, seguendo la costa la quale pareva che avesse la larghezza di un paio di metri. Quantunque l'acqua non fosse profonda piú di tre o quattro piedi, rendeva però la marcia assai difficoltosa Moltissimi uccelli scappavano dinanzi a loro, alzandosi fra i gruppi di canne, minacciando di tradire la direzione che tenevano. Erano gruppi di tringhe per lo piú, uccelli grossi come le allodole, le gambe lunghissime e la carne deliziosissima e di arzavole, anitre di piccole dimensioni, perché non sono piú grosse d'un piccione, colla testa nera e violacea, con una linea bianca sulla cima e gli occhi azzurrini, volatili anche questi pregiatissimi. - Questa savana è un paradiso, - mormorava Mendoza, il quale seguiva con gli occhi spalancati i voli di tutti quegli uccelli. - Peccato non rimanere qui qualche settimana! Scommetterei che anche le magre gambe di questo spaccone di guascone s'ingrasserebbero e che farebbero voglia ai cani degli spagnuoli. Bah! ... Ci rifaremo piú tardi, se ci lasceranno un momento di tregua! La ritirata continuava sempre rapidissima, poiché Buttafuoco temeva che gli spagnuoli si accorgessero della fuga dei loro avversari e che, sbarazzati i cani, si slanciassero alla conquista dell'isolotto. Fortunatamente la costa si prolungava attraverso la savana ed il bucaniere, già pratico di quelle vaste paludi, non s'ingannava sulla solidità del fondo. La sua canna s'affondava continuamente a destra e a sinistra, sempre attento alle sabbie mobili e filava sicurissimo sulla costa, dicendo sempre ai suoi compagni: - Non deviate mai: seguite le mie tracce. Abbiamo la morte, da una parte e dall'altra. La marcia durò venti minuti, poi il piccolo gruppo raggiunse un secondo isolotto, molto piú piccolo del primo e molto piú fangoso e che era coperto di nidi di caimani. Le spiagge erano gremite di piccoli coni, non piú alti di un piede, composti di fango e di rami malamente intrecciati e che contenevano parecchi strati di uova non piú grosse di quelle di un'oca, ma piú lunghe, piú bianche e col guscio assai rugoso e con molti geroglifici. I negri non hanno alcuna difficoltà a mangiarle, quantunque sappiano di muschio. Il tuorlo è piccolissimo, appena colorito e l'albume azzurrognolo; e ben cucinato diventa cosí duro da doverlo tagliare col coltello. Che quelle uova siano veramente eccellenti, come affermano i negri, vi sarebbe forse da dubitarne; si sa però che i figli dell'Africa sono molto diversi da noi. Un pezzo di tromba d'elefante o una frittata di vermi di terra o di cavallette, fa lo stesso per quei corpi. In questo equivalgono ai chinesi ed ai malesi. - Che peccato non avere gli intestini dei negri, - disse Mendoza. Qui ci sarebbero da fare delle gigantesche frittate. Non ne avremmo il tempo, - rispose il bucaniere. - Gli spagnuoli si sono accorti della nostra ritirata e scommetterei che a quest'ora marciano sulla costa. Se i cani non abbaiano piú, vuol dire che la battaglia contro i caimani è terminata e che ora quei signori d'oltremare si occuperanno di noi. Lesti, attraversiamo anche questo isolotto e cerchiamo di raggiungere la terra ferma. - Nemmeno un momento di riposo? - chiese Mendoza. - Neanche un minuto - rispose Buttafuoco. - Si giuoca la pelle. - Ah! ... Se don Barrejo potesse darmi un pezzo delle sue gambe! ... Ne ha perfino di troppo lui. - In questo momento vorrei averle anche piú lunghe, - rispose il guascone. - Uh! Che superba cavalletta! Pure scherzando quei valorosi uomini si eran rimessi in corsa, passando come frecce sotto le piante che coprivano in gran numero il secondo isolotto. Splendidi cespi di rododendri, alti piú di dieci metri, crescevano dovunque, mostrando i loro grossi rami ed i grappoli di fiori porporitii, mentre sopra di loro torreggiavano delle superbe palme coronate da parasoli di lunghissime foglie palmate, ricadenti elegantemente con spate d'un violetto iridescente listato di porpora, e fiocchi di frutta che sembravano mele verdi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono anche quell'isolotto e, con un vero grido di gioia, salutarono la terraferma, la quale non si trovava lontana piú di cinquecento metri, mostrando la fronte di una fitta foresta formata da colossali platani. - Là è la nostra salvezza, - disse Buttafuoco. - Anche se gli spagnuoli gireranno la savana, noi giungeremo alla fattoria della marchesa di Montelimar prima di loro. - Ci permetterà il fondo di attraversare questo ultimo bacino? chiese il signor di Ventimiglia. - Io non dispero, - rispose il bucaniere. Esaminò rapidamente la riva, tastando sempre le sabbie poi si ricacciò in acqua. La fortuna assisteva i fuggiaschi, poiché il bravo bucaniere aveva trovata senza molte difficoltà un'altra costa e anche piú elevata delle altre, quindi piú sicura. I quattro uomini, tenendo sempre gli archibugi alzati, mossero lestamente verso la terraferma, mentre in lontananza si udivano dei colpi d'archibugio. Già stavano per raggiungerla, quando ad un tratto il bucaniere affondò fino a mezzo il petto. - Fermi! - gridò. - Le sabbie mobili! Quel valoroso, che scherzava dinanzi alla morte e che da solo si sentiva in grado di tener fronte ad una cinquantina di alabardieri, era diventato spaventosamente pallido. - Una corda! una corda! - gridò dopo qualche istante d'angoscioso silenzio. - Se non l'avete, sono perduto! - Io ne ho sempre in tasca - rispose Mendoza, tirando fuori un gherlino incatramato, grosso come il dito mignolo. - Non fate un passo innanzi, voi - gridò Buttafuoco, vedendo che l'imprudente marinaio stava per abbandonare la costa della savana. - Gettatemi la corda e strappatemi da questa terribile trappola. Il conte, che era dinanzi al guascone e al basco, gliela lanciò destramente, trattenendo l'altro capo. Il bucaniere, che affondava lentamente ma continuamente nel fondo traditore, se la legò sotto le ascelle, dicendo: - Levatemi da questa tomba e badate di non cadere. Vi è la morte sotto ed intorno a voi. I tre uomini unirono i loro sforzi, badando bene a non perdere l'equilibrio. A piccoli tratti ben misurati strapparono il brav'uomo dalle sabbie che già si aprivano per inghiottirlo. - Non mi aspettavo di trovarle qui - disse Buttafuoco. - Che la costa sia proprio finita? Sarebbe la nostra rovina. - Che pieghi invece? - Me ne accerterò all'istante, signor conte. Aveva subito ripreso il suo sangue freddo. Riafferrò la canna che si era piantata profondamente nella fanghiglia e avanzò prima a destra poi a sinistra, con estrema precauzione. Un grido di trionfo avvertí il conte che la buona via era stata ritrovata. - Siamo salvi! - aveva esclamato Buttafuoco. La costa in quel punto descriveva una curva pur continuando ad avvicinarsi alla riva. Il bucaniere, dopo essersi ben assicurato della sua direzione, si spinse risolutamente innanzi e raggiunse felicemente la terraferma, subito seguito dai compagni. - Siamo al sicuro, qui? - chiese Mendoza. - Per un po' di tempo, non avremo nulla da temere, - rispose il bucaniere. - Solamente i cani potrebbero darci qualche fastidio; non essendo però noi indiani, non sono troppo temibili. - Ve ne abbiamo dato un esempio, - disse il guascone. Moltissimi conigli, dal pelame rossiccio chiaro e la coda lunga, che stanno fra i nostri conigli e le lepri, scappavano dinanzi a loro, mentre fra i rami svolazzavano dei grossi curlam, bellissimi trampolieri della famiglia dei francolini, colle piume brune-porpora sul dorso, con una striscia bianca ai lati della testa, il becco aguzzo e duro come una lama di acciaio, che adoperano per difendersi non solamente contro i cani, ma anche contro i cacciatori. Buttafuoco descrisse nel bosco un grand'arco di due tre chilometri, poi, persuaso che i nemici non erano ancora giunti fin là, si decise a sparare alcuni colpi d'archibugio, gettando a terra due coppie di galli del collare, un paio di sgarze, graziosi aironi grossi poco piú d'un tordo, col ciuffo e le piume verdi, mentre il corsaro, che aveva caricato il suo fucile pure a migliarola, mitragliava alcune pernici americane, un po' meno grosse di quelle europee e d'una fecondità prodigiosa, perché depongono perfino quaranta uova. Carichi di tutti quei volatili, fecero ritorno all'accampamento improvvisato da Mendoza e dal terribile guascone. - Gli spagnuoli? - disse subito Buttafuoco. - Io credo che stiano cenando pacificamente, - rispose don Barrejo, il quale aveva subito adocchiati i bellissimi pennuti. - Sicché voi volete dire che noi possiamo imitarli, - disse il bucaniere, sorridendo. - Quando uno dorme o mangia, io ho sempre avuto l'abitudine di imitarlo, - rispose il guascone. - I guasconi sono sempre furbi, - disse Mendoza. - E come se ne vantano! - disse don Barrejo. - Degnatevi almeno di preparare la cena. - Ci penso io, signor bucaniere. - Ed io vi aiuto, - aggiunse il marinaio. Mentre i due compari, i quali pareva che andassero pienamente d'accordo quantunque non si risparmiassero vicendevolmente le stoccate, a colpi di lingua però, si occupavano alacremente della cena, il conte e Buttafuoco si erano spinti verso la riva della savana, temendo sempre una sorpresa. Tanto all'uno che all'altro pareva impossibile che gli spagnuoli si fossero immobilizzati sulla penisoletta, senza tentare la traversata della palude. Forse aspettavano la notte per spingersi innanzi e sorprenderli. Il bucaniere però non era uomo da cadere cosí grossolanamente in un agguato. Abituato alle sorprese ed alla vita dei boschi, conosceva troppo bene i suoi eterni nemici, coi quali già troppe volte aveva avuto da fare. - Avremo il tempo di cenare e anche di riposarci qualche ora, aveva detto al signor di Ventimiglia. - Sarà l'ultima volta che noi passeremo fra queste lagune e coi nemici alle spalle. La marchesa s'incaricherà poi di farci raggiungere il capo Tiburon. Rimasero in osservazione sulle rive della savana per qualche tempo, poi si ripiegarono lentamente verso l'accampamento, attratti anche dal profumo squisitissimo che giungeva fino a loro. Mendoza ed il guascone avevano fatto dei veri miracoli: galli dal collare, sgarze e pernici erano stati superbamente arrosolati e non chiedevano altro che dei buoni colpi di dente. - Signor conte, - disse Buttafuoco, - voi avete due cuochi insuperabili. Il mio arruolato, malgrado tutta la sua buona volontà, non vale tanto. - Se mi sarà possibile ve ne cederò uno, - rispose il signor di Ventimiglia. Un uh! ... feroce fu la risposta dei due compari: i quali ormai sentivano di non poter vivere lontani l'uno dall'altro nemmeno un mezzo minuto. - Questi uomini non saranno mai dei buoni arruolati pei bucanieri, - disse Buttafuoco, scuotendo la testa. - Peccato! La cena fu fatta in fretta, avendo udito in lontananza dei latrati i quali potevano annunciare la vicinanza di quegli accaniti nemici. - Bah! - disse Buttafuoco. - Ci riposeremo nella villa della marchesa. Questo non è terreno propizio per chiudere gli occhi. Signori, uno sforzo ancora che spero sarà l'ultimo. - Questa è una vitaccia da cani, - disse Mendoza. - È vero, don Barrejo? - Da presidiarios, compare, - rispose il guascone. - Allora rimanete qui, - rispose il bucaniere, - e finite la vostra digestione con un chilogramma o due di piombo spagnuolo. - Oh no, signore, disse Mendoza. - Io non lascerò mai il mio signore. - E nemmeno io, aggiunse il guascone. - La mia draghinassa è troppo necessaria in questo momento, al signor conte. - E allora movetevi, - disse il bucaniere. - Pensate che non vi lascerò dormire finché non giungeremo nella fattoria, e, se il vostro padrone non si lamenta, non ne avete il diritto nemmeno voi. - Io sono pronto a percorrere anche mille miglia d'un fiato e senza mandare un sospiro, - disse don Barrejo. - Non sono già un guascone di carta pesta, io! Il bucaniere rimase alcuni istanti in ascolto, scotendo la testa piú volte, poi, volgendosi verso il conte, disse: - Se non sono gli spagnuoli, sono i cani che giungono. Marciamo, signori, e senza chiacchierare. Per la seconda volta la notte era calata e, quantunque da quarant'otto ore non facessero altro che fuggire, si erano rimessi in cammino attraverso l'oscura foresta, rasentando di quando in quando degli ampi stagni sotto le cui acque fangose udivano nitrire o vagire i caimani. In lontananza, verso la savana, i cani continuavano a latrare e a guaire. Guidavano le cinquantine sulle coste, oppure avevano cominciata la caccia per loro conto? Era piú probabile questo, non potendosi ammettere che gli spagnuoli osassero avanzarsi fra le sabbie mobili, specialmente di notte. Buttafuoco di quando in quando si fermava per ascoltare, poi si rimetteva in cammino con maggior lena. Pareva che non fosse punto tranquillo. - Che cosa temete dunque? - chiese ad un tratto il conte, che gli camminava da vicino. - Non so, - rispose evasivamente il bucaniere. - Vi dico solo di fare uno sforzo supremo per guadagnare terreno. - Siamo ancora molto lontani? - Non credo. Queste foreste non le conosco, tuttavia sono quasi certo di essere sulla buona via. È la nostra ridiscesa verso ponente che non mi rassicura molto. Se sapessi dove si trovano le cinquantine, non m'inquieterei troppo. Bah! Vedremo e sapremo difenderci. Si erano impegnati nuovamente fra pessimi terreni paludosi, ingombri di ninfee rosse, di nelumbi gialli, di pontideire turchine e di canne, le quali formavano dei grossi mazzi piumati, perciò la marcia non poteva riuscire molto rapida, malgrado la buona volontà dei fuggiaschi. Buttafuoco continuava a dare segni d'inquietudine ed il conte lo udiva di quando in quando brontolare. Eppure, quantunque i cani continuassero ad abbaiare in lontananza, nessun pericolo pareva che li minacciasse. Marciavano già da qualche ora sempre in mezzo alle canne, quando il bucaniere si fermò di colpo, dicendo rapidamente: - Abbassatevi! Il conte il basco ed il guascone si erano affrettati ad obbedire. - Che cosa c'è dunque? chiese il conte, dopo qualche istante di attesa. - Rimanete qui, signore, rispose Buttafuoco. - Siamo piú vicini di quello che crediamo alla villa della marchesa; non so però se potremo facilmente raggiungerla. Io mi domando se per caso gli spagnuoli hanno indovinato le nostre intenzioni. - Perché dite questo, Buttafuoco? - Mi spiegherò quando sarò tornato. - Vi allontanate? - È necessario, signor conte: ma la mia assenza non sarà lunga. Voglio essere certo che non cadiate in qualche imboscata. Quello che vi raccomando è di non muovervi, qualunque cosa dovesse accadere, e se vi attaccano, di resistere fino al mio ritorno, altrimenti non saprei piú ritrovarvi fra tutte queste canne e queste erbe palustri. E poi potreste cadere nella savana tremante che deve trovarsi sulla vostra destra, e non uscireste mai piú da queste sabbie. - Dunque siamo seriamente minacciati? - disse il signor di Ventimiglia un po' preoccupato della brutta piega che prendevano le cose. - Non so nulla per ora. Addio, signor conte, e se non mi spaccano il cranio con una palla, mi rivedrete presto. Ciò detto il bucaniere si mise a scivolare fra le canne, senza produrre il piú leggero rumore, allontanandosi velocemente. - Che questa caccia non finisca piú? - disse il guascone. - Signor conte, avete fatto male a lasciare San Domingo. Se foste ritornato nella mia soffitta, nessuno sarebbe venuto a cercarvi di certo. - Ma se volevate accopparci! - disse Mendoza. - Perché vi avevo creduto due ladri - rispose don Barrejo. - Se avessi saputo con quali persone avevo da fare, non avrei sfoderato la mia draghinassa. Speriamo che tutto finisca bene. Non è la pelle che mi dispiacerebbe perdere, bensí i miei dobloni. - Ci tenete tanto? - Un guascone non è mai stato un signore - rispose l'avventuriero con gravità. - Il signor conte può affermarlo. - Io tengo piú alla mia carcassa, quantunque nemmeno i baschi siano mai stati castellani, don Barrejo. - Zitti! - disse il signor di Ventimiglia. - Non è il momento di discutere con la lingua, bensí con l'archibugio. Aveva aperto con precauzione il gruppo di canne che serviva loro di nascondiglio e osservava attentamente dinanzi a sé. - Vengono? - chiese Mendoza. - Non vedo nessuno; eppure se fossi a bordo della mia fregata, mi troverei meglio che qui, anche se ci fossero due galeoni dietro poppa. Un leggiero fruscio si fece udire in quel momento, poi, dopo qualche istante, comparve Buttafuoco. - Partiamo subito, signore! - disse - o non giungeremo mai piú alla fattoria della marchesa. Stiamo per essere circondati. - Ancora? - chiese il conte. - Sono già giunti? Eppure odo sempre i cani latrare verso la savana! - Io non so quante cinquantine si siano messe in campagna per catturarci. A quanto pare gli spagnuoli ci tengono a prendervi. Dopo tutto, non hanno torto: i tre corsari hanno lasciato troppi ricordi nel golfo del Messico! In marcia, signori! Ogni minuto perduto è un grave pericolo di piú per noi. - Riusciremo a passare inosservati? - Sí, lungo la savana tremante - rispose Buttafuoco. Ripartirono velocemente, tenendosi nascosti dietro alle canne, guidati dal bucaniere. Di quando in quando Buttafuoco si gettava a terra e accostava un orecchio al suolo, ascoltando attentamente, poi si rialzava e ripartiva con maggiore velocità. Dopo cinque o seicento metri, i quattro fuggiaschi si trovarono sulla riva di un'altra savana. - Questo è il momento terribile! - disse Buttafuoco. - Le cinquantine sono sulla nostra sinistra. Vi concedo cinque minuti di riposo poiché avrete da mettere, molto probabilmente, le vostre gambe ad una dura prova. - Finiremo col diventare cani levrieri - disse Mendoza, scuotendo il capo. - Questo è un allenamento in piena regola. Il bucaniere lasciò trascorrere i cinque minuti, poi si alzò dicendo: - Tenete pronti gli archibugi! Vengono! ... - Ah! ... poveri i miei dobloni! - mormorò il guascone. Buttafuoco si era slanciato a corsa disperata. Pareva che un improvviso terrore avesse colto quell'uomo che pure sembrava avesse un cuore di bonzo. Ad un tratto si udirono alcuni colpi di archibugio, accompagnati da altissime grida e da latrati furiosi. Le cinquantine si erano accorte del passaggio dei fuggiaschi ed avevano aperto il fuoco. - Fulmini! Piove piombo! - esclamò il guascone, il quale apriva piú che poteva le sue lunghe e magrissime gambe. Alcuni uomini, preceduti da parecchi cani, si erano slanciati fuori dai gruppi di canne, urlando a piena gola: - Ferma! ... Ferma! ... - Sparate prima sui cani! - gridò Buttafuoco. - È necessario! Si era fermato contro il tronco d'una palma e aveva imbracciato l'archibugio. Sette bestiacce giungevano l'una dietro l'altra, con le gole spalancate, urlando come lupi famelici. Buttafuoco sparò il primo colpo, abbattendo il capo-fila che era il piú grosso e che probabilmente doveva essere anche il piú feroce e pericoloso. Il conte ed i suoi compagni a loro volta fecero fuoco, gettandone giú altri, poi snudarono le spade, tenendosi in parte riparati dietro al tronco della palma. Non erano indiani da scappare dinanzi a quei feroci mastini che incutevano agli ingenui figli dell'America centrale, non abituati a vedersi assaliti da bestie cosí grosse, tanta paura Un luccicare d'acciaio, sette od otto colpi, menati con forza terribile, e le bestie rimasero a terra, sbudellate o decapitate. Gli spagnuoli, che avevano contato sull'assalto di quei mastini, vedendoli stramazzare l'uno dietro l'altro, ricominciarono a sparare, ma essendo costretti a far fuoco correndo, le loro palle non colpivano mai il segno, anche a causa dei canneti, dietro ai quali si riparavano i fuggiaschi. Buttafuoco ed i suoi compagni avevano subito ripresa la corsa, non avendo alcun desiderio d'impegnare una battaglia che non offriva nessuna possibilità di riuscire a loro favorevole, dato il numero degli assalitori. Sbarazzatisi dei cani, i soli che avrebbero potuto raggiungerli e dare loro molto da fare, si erano raccomandati alle proprie gambe, poiché ormai la loro salvezza non consisteva che nella robustezza e resistenza dei garretti. Buttafuoco, abituato alle fughe precipitose, correva con uno slancio invidiabile. Quel diavolo d'uomo, quantunque non piú giovane, filava come un vero daino inseguito da una muta furibonda. Chi si trovava male era sempre Mendoza, il quale non finiva mai di borbottare, assicurando di essere ormai finito, dopo tante scappate. Il guascone invece allargava sempre piú le sue gambe smisurate e pareva che se ne ridesse di quella corsa indiavolata. Buttafuoco pure, di quando in quando, faceva qualche breve sosta per sparare qualche archibugiata, ma piú per concedere ai suoi compagni un mezzo minuto di riposo che colla speranza di abbattere qualche nemico. Quella corsa furiosa durava da circa mezz'ora e gli spagnuoli erano rimasti tanto indietro da non scorgerli piú, quando Buttafuoco andò a urtare contro una palizzata. - Siamo salvi! - gridò. - Ecco la fattoria della marchesa di Montelimar!

- Abbiamo messo in fuga una cinquantina e le abbiamo ucciso il cane che la precedeva - rispose il conte. - Ora comprendo! - disse Buttafuoco. - Quella cinquantina deve averne incontrata qualche altra fornita di cani, ed ora molti uomini ci seguono e non cesseranno di marciare finché non ci avranno raggiunti ... Brutto affare! - Cerchiamo di raggiungere al piú presto la tenuta della marchesa di Montelimar - disse il conte. - È ancora troppo lontana - rispose il bucaniere. - Anche correndo rapidissimi, non potremmo giungervi prima del sorgere del sole. - Che siano vicini gli spagnuoli? - Essi, forse no; ma i cani sí; e quelle bestiacce sono piú pericolose degli uomini. Io li conosco troppo bene! Non per nulla li chiamano cani strangolatori. Guardatevene, signor conte. - Che cosa decidete? Aspettare qui il loro assalto o continuare la marcia? Invece di rispondere, Buttafuoco osservò attentamente la foresta foltissima, dove un infinito numero di liane s'intrecciavano in mille modi attorno agli alberi, formando dei bellissimi festoni. - Cerchiamo di far perdere le nostre tracce ai doz - disse poi. - Forse ci riusciremo con una marcia aerea. Si tratta solo di far presto, e di guadagnare piú strada che potremo. Si gettò in spalla l'archibugio, s'aggrappò ad un ammasso di liane, che pendevano intorno al tamarindo, e si issò a forza di braccia, dicendo: - Cercate d'imitarmi. - Diamo la scalata alle griselle del bosco! - disse Mendoza. Preferisco una manovra marinaresca a questa interminabile marcia ... Signor Barrejo, fingete di trovarvi a bordo di un treponti. Il conte, il quale aveva perfettamente compreso quello che il bucaniere stava per tentare, si era subito inerpicato attraverso un altro festone di sipos, mostrandosi abilissimo ginnasta. Buttafuoco raggiunse i grossi rami del tamarindo e, servendosi sempre di quelle resistentissime corde vegetali, passò su di un enorme cotoniere, poi su una palma, quindi su di un cavolo palmista, continuando intrepidamente la sua marcia aerea. Passare da una pianta all'altra non era difficile, poiché gli alberi crescevano cosí vicini gli uni agli altri da intrecciare i loro rami. Anche senza le liane, quella manovra, per uomini agili, sarebbe stata possibile. Il bracco, destinato purtroppo a cedere sotto i denti dei ferocissimi e robustissimi cani cubani, seguiva da terra il padrone, latrando lamentosamente. - Quello stupido ci tradirà! - disse Mendoza al bucaniere, approfittando d'una breve sosta. - È vero - rispose Buttafuoco armando l'archibugio. - Mi rincresce, ma la sua morte è necessaria. Aveva appena terminato di parlare che già il povero bracco stramazzava al suolo, fulminato dall'infallibile palla del cacciatore. - È strano! - disse il bucaniere passandosi una mano sulla fronte. - Mi pare di aver commesso un delitto. Bah! la necessità non ha legge nella foresta! Ricaricò l'archibugio e si mise in ascolto. Dei lontani latrati avevano risposto a quel colpo di fucile. - Gli spagnuoli hanno raccolto una truppa di doz - disse poi. - Fortunatamente potranno assediarci, ma non raggiungerci. - E la cinquantina che li segue? - chiese il conte. Buttafuoco alzò le spalle. - Le alabarde perderanno subito contro gli archibugi - disse. Io non mi occupo affatto di quei manici di scope. Riprendiamo la nostra marcia, signore. I doz cubani hanno scoperto le nostre tracce e le seguono ostinatamente; noi non dobbiamo fermarci qui, cosí vicini al mio bracco. Ripresero la loro ginnastica indiavolata, scivolando fra i rami e le liane, ora innalzandosi ed ora abbassandosi fino quasi a terra, guardandosi bensí dal toccarla per non lasciarvi la menoma traccia. Avevano percorso altri cinquecento metri e stavano per rifugiarsi tra le fronde di un simaruba, quando udirono, a non molta distanza, dei furiosi abbaiamenti. I doz cubani erano giunti e, non avendo piú trovato le tracce dei fuggiaschi, sfogavano il loro malumore con terribili e minacciosi latrati. - Devono aver trovato il cadavere del mio bracco, - disse il bucaniere, il quale si era messo a cavalcioni d'un grosso ramo, accanto al conte. - Che ci scoprano? - chiese questi. - Non ve lo saprei dire, signore, - rispose Buttafuoco. - Quei maledetti cani hanno un olfatto meraviglioso. - Siamo su un albero ben alto. - Lo vedo bene, - rispose il bucaniere, sorridendo. - Eppure non sono affatto tranquillo. I mastini che adoperano, ve l'ho già detto, sono terribili. - Non fiatiamo. - E sarà meglio per noi. I doz cubani continuavano a latrare furiosamente, a non meno di cinquanta passi. Come Buttafuoco aveva detto, dovevano aver scoperto il cadavere del bracco e si aggiravano intorno alla foresta cercando le orme dei fuggiaschi. Ad un tratto si fece udire un latrato sonoro, piú acuto degli altri, seguito da un fruscio di foglie. - Vengono! - disse il bucaniere. - Che nessuno parli. Mendoza ed il guascone si erano rannicchiati sul loro ramo, tenendo gli archibugi in mano. Buttafuoco ed il conte li avevano subito imitati, cercando di rendersi invisibili. Attraverso la cupa e tenebrosa foresta si udí un frastuono di latrati acuti che si perdettero subito in lontananza. - Sono passati! - disse il bucaniere al conte. - Ora attenti alla cinquantina. Non deve essere molto lontana; ne sono sicuro. - Che si avanzi? - chiese sottovoce il signor di Ventimiglia. - Segue sempre i cani. Ascoltate attentamente: udite? - Sí, un leggiero fruscio. - Sono gli spagnuoli che marciano attraverso il bosco. - Che ci scoprano? - Per Bacco! Non hanno già gli occhi d'un giaguaro, - rispose Buttafuoco. - E poi il fogliame ci copre interamente. - E se fossero archibugieri? - Non ve ne sono fra le cinquantine, - rispose Buttafuoco. Nessuno sparerà contro di noi un colpo di fucile, ve l'assicuro io. Zitti tutti! Può essere l'avanguardia della cinquantina che perlustra. Il fruscio aumentava, mentre i latrati dei cani diventavano sempre piú fiochi. Probabilmente i terribili mastini avevano trovata una vecchia traccia e la seguivano colla loro abituale ostinazione. Un momento dopo, cinque uomini armati di alabarde s'aprivano il passo attraverso i folti cespugli, fermandosi quasi sotto l'enorme albero. - Carrai! - esclamò uno. - Dove sono scappati quei maledetti perros? - Saranno vicini ai fuggiaschi, Alonzo - rispose un altro. - Possono strangolarli sul colpo! Erano tre, non è vero? - Almeno io non ne ho veduti altri, quando hanno ucciso il nostro Cid. - Che gambe avevano quegli uomini per percorrere una tale distanza? Scommetterei che erano bucanieri. - T'inganni, Diaz. Sono gli uomini usciti da San Domingo e che hanno ucciso quel povero Barrejo. - Caramba! Noi lo vendicheremo. - Taci! I cani ritornano. Ed infatti i latrati che poco prima erano diventati fiochi si facevano udire ora piú distinti. La terribile muta, accortasi di correre su una vecchia traccia, ritornava a corsa sfrenata, latrando rabbiosamente. Passò un minuto, poi venticinque o trenta cani, enormi, col pelame ispido, le teste grosse e le mascelle assai sporgenti, somiglianti molto ai cani americani che vengono chiamati dai piantatori della Virginia e della Luisiana blood hound, balzarono addosso ai cinque soldati con tale impeto che per poco non li gettarono a terra. - Una corsa inutile, è vero, miei piccini? - disse colui che chiamavano Diaz. - Non vi scoraggiate. Quei bricconi non avevano le ali e quindi sapremo ritrovarli. - Tu sei un vero imbecille che non conosci i cani cubani. - Sarò anche un cretino, ma intanto sono ritornati con gli orecchi bassi e senza le prede. Uno scoppio di risa salutò quella risposta. - Voi siete dei triplici cretini! - gridò Diaz furioso. - Da dove venite? Dai presidios forse? - O dalla via dell'Alcalà di Madrid? - Caramba! - urlò Alonzo. - Siamo dinanzi al nemico e urlate piú forte dei nostri mastini! È cosí che voi preparate le imboscate? Vi denuncerò tutti al governatore di San Domingo e vi farò disarmare. Il sergente sono io! - Portategli dell'aguardiente e non si ricorderà piú di avere dei galloni - disse un altro soldato con voce ironica. - Se parli ancora ti uccido, miserabile! Seguí un profondo silenzio, poi la voce del sergente si fece ancora udire: - Via, piccini! Quei birbanti non devono essere molto lontani. I cani a quell'ordine si slanciarono in tutte le direzioni, cacciandosi in mezzo alle macchie. S'avanzavano e retrocedevano fiutando rumorosamente l'aria, poi tornavano ostinatamente verso il drappello, abbaiando sordamente. - Ci sentono - disse Buttafuoco, accostando le labbra ad un orecchio del signor di Ventimiglia. - Che ci scoprano? - chiese il conte. - Sarà un po' difficile. Tuttavia teniamoci pronti ad annientare con una scarica l'avanguardia delle cinquantine - rispose il bucaniere. - Il mio archibugio è pronto. - Ed anche il mio. Non fate però fuoco se prima non vi do il comando. Le ricerche dei cani durarono un buon quarto d'ora, poi essi ripresero la corsa, seguendo la traccia di prima. Non avendone trovate altre piú recenti, si ostinavano su quella vecchia lasciata forse da qualche negro fuggiasco. L'avanguardia della cinquantina, dopo una breve discussione, prese il partito di seguirli, e scomparve ben presto attraverso la foresta. - Finalmente possiamo respirare liberamente! - esclamò il guascone. - Mi pareva di sentirmi i denti di quei cagnacci nelle gambe. - Avrebbero trovato ben poco da rosicchiare, signor soldato - disse Mendoza ironicamente. - E per questo forse se ne sono andati a cercare dei polpacci piú rotondi. Malgrado la gravità della situazione tutti si erano messi a ridere, perfino Buttafuoco. - Che cosa facciamo dunque? - chiese il conte. - Scendiamo? - Sarebbe una grave imprudenza - rispose il bucaniere. - I cani possono ritornare, scoprire le nostre orme e darci la caccia. Avete fretta di giungere a San Josè? - Nessuna: la mia fregata non lascerà i paraggi del capo Tiburon, se io non mi farò vedere, ed il mio luogotenente è troppo furbo per lasciarsi sorprendere e battere dai galeoni spagnuoli. - Allora vi consiglio di passare la notte qui. - Cosí diventeremo dei volatili! - disse Mendoza. - Purché non giungano i cacciatori! - Vi ho detto che le cinquantine non hanno armi da fuoco - disse il bucaniere. - Dei cacciatori con le alabarde ne parleremo! Accettate, signor conte? - Giacché non si può far di meglio e la prudenza lo esige, passiamo la notte quassú - rispose il signor di Ventimiglia. - Ed il vostro arruolato non verrà scoperto? La capanna non è molto lontana. - Non si lascerà sorprendere, ve lo assicuro io. Ha dei buoni cani che l'avvertiranno in tempo dell'avvicinarsi delle cinquantine. Sono perfettamente tranquillo per lui. Ah, me lo ero immaginato! Che brutta faccenda se avessimo lasciato questo asilo ... Le vedete, signor conte? - Chi? - Le cinquantine: sbucano ora dal bosco e avanzano a catena. Gli spagnuoli vi considerano persone pericolosissime, perché vi fanno l'onore di mandarvi dietro due colonne. - Potevano risparmiarsi quest'onore - brontolò Mendoza. - Io non lo desideravo affatto. Il conte si era alzato sul ramo che gli stava sotto e guardava attentamente nella direzione che il bucaniere gli indicava. L'albero che serviva loro d'asilo si trovava a poche decine di metri dal margine del bosco, sicché essendo la notte abbastanza chiara, i filibustieri potevano scorgere benissimo le persone che fossero avanzate nella vicina pianura terminante verso gli stagni e le paludi. Il conte, che era molto alto, potè vedere le due cinquantine camminare cautamente fra le alte erbe, con le alabarde in resta e con una mezza dozzina di altri cagnacci dinanzi. - Che ci circondino? - chiese al bucaniere. Il bucaniere non rispose. Seguiva con gli sguardi la manovra un po' complicata che eseguivano in quel momento le due colonne. A un tratto gli sfuggí un'imprecazione. - Circondano e battono le macchie - disse facendo un gesto di collera. - Sgombriamo di qui prima che giungano, o saremo persi. Stavano per lasciarsi scivolare giú dai rami, quando dei latrati furiosi si fecero udire a breve distanza, poi la torma dei doz, che poco prima si era allontanata, si scagliò intorno alla pianta, spiccando salti indiavolati. - Ah, maledetti! - gridò Buttafuoco. - Sono riusciti a scoprirci. Signori, preparatevi a vender cara la vita e soprattutto mirate attentamente, prima di consumare una carica di polvere. L'avanguardia accorreva, aizzando con altissime grida la feroce muta, credendo forse che quelli che cercava si fossero nascosti in mezzo ai cespugli, invece che fra i rami del gigantesco albero. - Ay hiyiito! - urlavano. - Ay perritos! - Che uno solo di voi si occupi dei cinque che guidano i cani! - disse il bucaniere. - Gli altri facciano fuoco con me sulle cinquantine. - Me ne incarico io! - disse il guascone. - Fra mezzo minuto i cinque soldati saranno a terra. - Bum! - mormorò Mendoza. - Quante guasconate! Le due cinquantine, udendo i latrati dei cani, si erano prontamente raccolte, credendo forse di dover subire un improvviso attacco, poi erano tornate ad allargarsi, accostandosi con precauzione alla macchia, con l'evidente intenzione di accerchiarla. Uno colpo di fuoco fu il principio delle ostilità. Il guascone aveva scaricato il suo archibugio contro i cinque uomini dell'avanguardia, i quali avevano commesso l'imprudenza di mostrarsi e la palla non era andata perduta. I superstiti erano subito fuggiti, non potendo impegnare una lotta con le loro alabarde e con le spade, buone solamente in un combattimento a corpo a corpo. - Benone! - disse il bucaniere, vedendo un soldato a terra. L'avanguardia è per ora fuori combattimento e si guarderà dal tentare qualche cosa. Occupiamoci ora delle cinquantine e non lasciamo loro il tempo di accerchiarci. - E i cani? - chiese Mendoza. - Lasciateli urlare: piú tardi penseremo a disfarcene. Si mise a cavalcioni del ramo, appoggiando le spalle contro il tronco della pianta e sparò un colpo. Un grido lo avvertí che la sua palla, come sempre, era giunta a destinazione. Il corsaro e Mendoza a loro volta fecero fuoco. Le cinquantine arrestarono subito il loro movimento aggirante e si gettarono in mezzo alle altissime erbe, cercando di rendersi invisibili. - Che cosa vorranno ora tentare? - si chiese il signor di Ventimiglia con inquietudine. - Cercheranno di raggiungerci strisciando - rispose il bucaniere, il quale invece appariva perfettamente tranquillo. - Bah, finché avremo polvere e palle, saremo sempre noi i padroni della situazione. Gran bella idea hanno avuto i governatori di sostituire con le alabarde gli archibugi! Hanno fatto meravigliosamente il nostro gioco. Siete pronti? - Sí - rispose il conte. - Mirate fra le erbe, specialmente là dove si agitano. Se noi spareremo bene, i nemici se ne andranno e non oseranno assalirci. I tre uomini ricominciarono a sparare, mentre il guascone, non sapendo che cosa fare, se la prendeva coi cani, facendo piovere addosso a loro una tempesta di rami secchi, ma non osando consumare le munizioni diventate troppo preziose in quel momento. E come lavorava il bravo soldato! Sicuro di non correre il pericolo di prendersi un colpo d'archibugio dalle due cinquantine, fracassava legna e la scaraventava addosso alle bestie, facendole urlare di dolore. Buttafuoco, il conte e Mendoza intanto continuavano a sparare a lunghi intervalli, facendo di tratto in tratto retrocedere le cinquantine. Di quando in quando un grido echeggiava fra le erbe, annunciando che qualche uomo era stato colpito. Era soprattutto il bucaniere che faceva dei colpi meravigliosi. Prima di far fuoco cambiava piú di dieci volte posizione, abbassava e rialzava il pesante archibugio e, quando sparava, la detonazione era seguita quasi sempre da un urlo o da una bestemmia. Se non uccideva, di certo feriva o storpiava. - Che uomini! - mormorava Mendoza, il quale pareva che fosse altamente stupito di quei tiri. - Si vantavano i filibustieri, ma questi bucanieri sono inarrivabili! Ora comprendo perché sono riusciti ad espugnare Vera-Cruz e anche Panama, sotto la guida di quel diavolo di Morgan! Gli spagnuoli peraltro, degni discendenti di quei formidabili conquistatori che con un pugno d'uomini avevano rovesciato i due piú potenti imperi dell'America, quello dei Messicani e quello dei Peruviani, quantunque sprovvisti di ogni arma da fuoco, si mantenevano coraggiosamente sul posto, esponendosi audacemente al tiro del bucaniere e dei suoi compagni, convinti di poter facilmente aver ragione di quel piccolo gruppo di avversari. Strisciavano fra le erbe, ansiosi di venire ad un corpo a corpo e di giungere sotto l'albero. Quella tenacia parve sconcertare Buttafuoco. - Devono avere qualche progetto - disse il bucaniere al conte. - Quale? - chiese il signor di Ventimiglia. - Io non riesco a indovinarlo; ma non sono affatto tranquillo. - Che contino sui cani? Buttafuoco scosse la testa. - Forse piú tardi - disse poi. - Li vedete? - Io no. - E voi, Mendoza? - Non vedo altro che delle erbe che continuano a muoversi rispose il marinaio. - Ed io, che ho gli occhi d'un vero guascone, scorgo qualche altra cosa - disse don Barrejo, il quale era salito molto in alto, con la speranza di fare un buon colpo contro l'avanguardia. - Dite. - Fanno dei fasci. - Di legna? - Sí. - Se riescono a giungere qui, ci bruceranno o per lo meno ci arrostiranno un po'. Manovra vecchia che non sempre è riuscita completamente. Signori, avete tutti le spade? - E che tagliano come rasoi - disse Mendoza. - Io non vorrei provarle sul mio collo, ve lo giuro. - Che cosa volete fare delle nostre spade, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Tagliare le alabarde? Avrebbero un cattivo giuoco. - No; ma usarle contro quei dannati cani - rispose il bucaniere. - Se è per questo, non v'inquietate. - Me ne incarico io - disse il guascone. - Sempre spaccone! - brontolò Mendoza. - Questi uomini sono davvero incorreggibili. - Continuate il fuoco - disse il bucaniere. - Anche voi, soldato. L'avanguardia non pare che abbia voglia di punzecchiarci le gambe con le sue alabarde. - Già, non arriverebbero fino alle mie - rispose il guascone. - Ci vorrebbe una scala. Ora butto giú un uomo ogni mezzo minuto! I quattro uomini ricominciarono a sparare fra le erbe, con crescente rabbia. Il bucaniere, il quale misurava bene i suoi colpi, faceva dei tiri meravigliosi, tuttavia gli spagnuoli non cessavano di guadagnare terreno, malgrado le enormi perdite che subivano. Degli uomini certo cadevano di quando in quando morti o feriti, pure essi s'avvicinavano con un'ostinazione ammirabile alla macchia scivolando fra le alte erbe. Che cosa volevano tentare? Se avessero avuto qualche archibugio si sarebbero certamente sbarazzati, con poche scariche, di quel piccolo gruppo di nemici. Probabilmente volevano tentare un disperato assalto all'arma bianca. Buttafuoco s'infuriava, bestemmiando e sparando senza tregua. - Che non riesca questa volta a farli scappare? - brontolava. Che uomini abbiamo dunque noi dinanzi? Sono fusi con acciaio temprato nelle acque del Guadalquivir? Invano le palle fischiavano o miagolavano sopra le erbe ed invano i quattro assediati sparavano con rabbia crescente. Le due cinquantine, risolute a por fine a quel combattimento che costava loro molte perdite, non cessavano di avanzarsi e di circondare la macchia. - Ebbene, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia ad un certo momento. - Come va questa faccenda? - Che cosa volete che vi dica, signor conte? - rispose il bucaniere. - Io sono meravigliato. In vita mia non ho mai veduto degli uomini cosí coraggiosi. Queste due cinquantine sono stupefacenti! Al loro posto io sarei già scappato! - Purché non facciano invece stupire noi, - disse Mendoza. - È quello che attendo, - rispose il bucaniere, - anzi che temo. Questa ostinazione mi dà molto a pensare. - Che cosa temete, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Non lo so e non sono affatto tranquillo. - Per tutti i pescicani del mar di Biscaglia! _ esclamò il guascone. - Qui l'affare sembra che cominci ad imbrogliarsi! - Voi che siete un guascone dovreste sbrogliarlo subito, - disse Mendoza. - Ci sono i cani sotto di noi. - Pei guasconi valgono meno dei lupi. - Tacete e fate fuoco invece, - disse il bucaniere. - Non è colle chiacchiere che si guadagnano le battaglie. - Toh! La chiama una battaglia! - brontolò Mendoza. - Io la chiamerei una misera scaramuccia! Quattro colpi d'archibugio rimbombarono uno dietro l'altro, facendo scappare una mezza dozzina di spagnuoli; gli altri però non lasciarono le erbe e continuarono a spingersi audacemente attraverso la foresta, sul cui margine erano ormai giunti. - Morte dell'inferno, - disse Buttafuoco, gettando via il cappello. - Ora non li fermeremo piú. - Gli spagnuoli? - Se si gettano fra i cespugli, nessun occhio potrà scovarli e nessuna palla potrà raggiungerli. Che cosa vorranno fare? Arrostirci? Si era voltato verso il guascone, il quale era disceso su uno dei rami piú bassi. - Signor soldato, - gli disse - volete prendervi la briga ora di distruggere la muta che urla sotto i nostri piedi? Dovete aver ancora una sessantina di colpi da sparare. - Io spero di averne anche di piú - rispose il guascone, il quale conservava un sangue freddo ammirabile. - Giacché l'avanguardia vi lascia inoperoso, massacratemi quei dannati mastini. - Preferirei uccidere degli uomini, - rispose Barrejo. - Ma quelli sono meno pericolosi! Vi affido un incarico piú difficile. - Un posto d'onore, - brontolò Mendoza, ridendo. - Sia pure - disse il guascone. - Se quei cani valgono gli uomini, m'incarico io di fare di loro una gigantesca frittata. Armò l'archibugio che aveva già caricato e con un colpo ben aggiustato abbatté il cane piú grosso, spaccandogli la testa. - E uno! - disse. - Quello non mangerà piú i miei polpacci. Mentre il guascone si arrabattava contro i mastini che latravano a piena gola intorno all'albero, impazienti di piantare i loro formidabili denti nelle carni dei fuggiaschi, Buttafuoco, il conte e Mendoza non cessavano di sparare qualche colpo a casaccio contro le cinquantine ormai scomparse nel bosco. Gli eroici soldati della vecchia Spagna, per nulla atterriti da quelle incessanti archibugiate che mettevano a dura prova il loro coraggio, non cessavano di avanzare, risoluti a raggiungere l'enorme albero de l cotone e a venire ad un corpo a corpo, sicuri, dato il loro numero, di aver facilmente ragione dei loro nemici. Avevano però da fare con uomini ben risoluti a vendere cara la pelle. Mentre il guascone continuava a fucilare i cani, Buttafuoco aveva impegnato una rapida conversazione col conte, interrotta di frequente dalle archibugiate di Mendoza. - È necessario sloggiare e salvarci fra le paludi - aveva detto il bucaniere. - Potremo spezzare il cerchio di ferro che sta per serrarsi intorno a noi? - aveva chiesto il signor di Ventimiglia. - Con una scarica improvvisa di archibugi ci apriremo una breccia sufficiente per passare. - E dopo? - Ci rifugeremo in mezzo ai pantani. - Mi hanno detto che queste paludi hanno dei banchi di sabbie mobili. - Li conosco. - E i cani? - Il vostro compagno sta fucilandoli con rara maestria. Ancora qualche minuto e non vi sarà piú un mastino sotto di noi ... Ah, ecco quello che temevo! Un bagliore sinistro era balenato a breve distanza dall'albero, poi un fastello di legna veniva scaraventato contro il tronco del bombax, facendo scappare i cinque o sei cani sfuggiti ai colpi del guascone. Un fumo denso, soffocante, che provocò agli assediati una tosse violentissima e che fece lagrimare istantaneamente i loro occhi, si alzò subito. - Del pimento! - gridò Buttafuoco. - A terra, amici, o non potremo piú resistere! Lasciate gli archibugi e preparatevi a lavorare con le spade. Giú! Un secondo fascio di legna, pure acceso, era stato scagliato. Anche quello era formato di rami di pepe rosso di Cajenna che sprigionavano un fumo infernale. - Sono carichi gli archibugi? - chiese Buttafuoco, il quale stava per spiccare il salto. - Sí! - Giú! e mano alle spade! I quattro uomini si lasciarono cadere. Un mastino si precipitò sul bucaniere, tentando di saltargli alla gola e di strangolarlo, ma il cacciatore, che si aspettava quell'assalto, balzò indietro con agilità prodigiosa afferrando il fucile per la canna e gli fracassò il cranio con un terribile colpo di calcio. Anche altri due, che si erano scagliati contro il conte e contro il guascone, non ebbero miglior fortuna. Due fulminei colpi di spada li fecero cadere l'uno sull'altro, con le gole squarciate. - Fuoco sulle cinquantine! - tuonò allora il bucaniere. Gli spagnuoli accorrevano con le alabarde in resta, urlando a piena gola: - Arrendetevi! Siete presi! Quattro colpi d'archibugio furono la risposta; poi il bucaniere ed i suoi compagni, approfittando della confusione manifestatasi fra gli assalitori per quell'improvvisa scarica, si slanciarono a corsa disperata verso il margine della foresta per guadagnare le paludi. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe degli altri e che era tutto nervi e muscoli, aveva la velocità d'un proiettile: chi si trovava forse un po' male era Mendoza; tuttavia non rimaneva indietro di molto. Gli spagnuoli si erano slanciati a loro volta, urlando ferocemente e aizzando i due ultimi cani che erano loro rimasti. Pareva però che le povere bestie, impressionate probabilmente dalla strage fatta dei loro compagni, non avessero molto desiderio di far la conoscenza con gli archibugi e con le spade di quei formidabili avversari, poiché non osavano spingersi troppo innanzi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono la piccola pianura e raggiunsero il margine delle paludi. - Fermatevi! - gridò Buttafuoco. - Vi possono essere dei banchi di sabbie mobili. Fate fronte agli spagnuoli per qualche minuto finché io non trovo il passaggio. Gli assalitori, vedendo i quattro uomini fermarsi e caricare precipitosamente gli archibugi, si arrestarono anch'essi, non osando esporsi al tiro di quei terribili tiratori. Buttafuoco, avendo scorto una lingua di terra coperta in parte di canne e di erbe palustri, si era slanciato risolutamente innanzi per cercare un passaggio che li conducesse in qualche luogo sicuro. Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

Abbiamo però un buon vantaggio e dei buonissimi cavalli, che ho scelto con molta cura. Quello stupido, con tutto quel vino che aveva bevuto, non può essersi svegliato tanto presto. Forse dorme ancora, mentre noi invece galoppiamo. - E spingeremo sempre piú forte. Mi preme giungere a Guayaquil prima che possa giungervi il marchese. - Quando vi saremo? - Domani sera, mi ha detto Mendoza. - Fors'anche prima, signor conte, - disse il basco, che si teneva sempre dinanzi, mentre don Ercole formava la retroguardia. - Affretta piú che puoi. - E la vostra ferita non s'inasprirà? - Non occupartene, - rispose il corsaro. - Si rimarginerà piú tardi. I quattro cavalli continuavano intanto la loro rapidissima corsa, essendo la strada in ottimo stato e anche molto ampia. Lungo i margini magnifici, i filari di enormi palme si stendevano senza interruzione, mentre al di là apparivano delle splendide piantagioni d'indaco e di zucchero. A mezzanotte il conte fece mettere i cavalli al passo, per non stancarli troppo, poi verso il tocco ripresero il galoppo, mentre la luna appariva dietro le piante che coronavano una collina. Avevano percorso cosí un paio di leghe, senza aver incontrato anima viva, quando Mendoza che aveva l'udito piú acuto di tutti, arrestò bruscamente il suo andaluso, dicendo: - Fermi tutti! ... - Avete veduto qualche gattaccio? - chiese il guascone. - Non scherzate, don Barrejo: questo non è il momento. Stettero in ascolto e parve loro di udire un lontano fragore. - Il galoppo di parecchi cavalli? - chiese il conte, con una certa inquietudine. - O è invece il rombo d'una cascata? - disse don Barrejo. - A me sembrano cavalli - rispose Mendoza. - Che il marchese ci dia la caccia? - domandò il conte. - Cosí presto? - disse il guascone. - Poteva aspettare almeno l'alba e starsene comodamente a letto. Che sia un nottambulo costui? Tornarono ad ascoltare e ben presto si convinsero che non si trattava d'una cascata, bensí d'un buon numero di cavalli galoppanti sulla strada di Guayaquil. - Dobbiamo dare battaglia signor conte? - chiese il guascone, il quale era sempre pronto a menare le mani od a sparare archibugiate. - Preferirei cercare un rifugio e lasciar passare il marchese, - rispose il signor di Ventimiglia. - E dopo? Se entra in Guayaquil prima di noi, non so se noi potremo poi fare altrettanto. Io vi proporrei di tendergli una imboscata e di fucilare per bene i suoi uomini. - E farci prendere? - disse Mendoza. - Non avrà già con sé quattro o cinque uomini di scorta. Si direbbe dal fragore che giunge fino a noi, che è un intero squadrone quello che galoppa. - Gettiamoci in mezzo alle piantagioni, - propose don Ercole. - Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la luna sorge, - rispose il conte. - Se vi fossero delle macchie! - Ah! ... Il ponte del diavolo! - esclamò in quel momento Mendoza. - Signor conte, a gran carriera. Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità. Quella corsa furiosa durò una buona mezz'ora, poi Mendoza la rallentò, dicendo: - Ci siamo. Cinquanta passi piú innanzi vi era un ponte in muratura; assai largo, gettato su un fiume poverissimo d'acqua. Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e s'avanzò rapidamente verso la riva, dicendo: - Seguitemi, signor conte. - Perché vuoi farci guadare il fiume? - chiese il corsaro. Nemmeno sull'altra riva vedo delle macchie bastanti per nasconderci. - E la vôlta del ponte, non la contate? ... I cavalieri che c'inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che cercano si trovano invece sotto. - Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, - disse il guascone. - Sono anch'io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori, anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la corsa. Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte, immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia. - Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, - disse il conte. - Potrebbero nitrire e tradirci. I tre spadaccini furono lesti ad obbedire. Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento piú fragoroso. Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra. Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte, per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri. - Non devono essere lontani piú di mezzo miglio, - disse il signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese? - Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio. - Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno? - Poteva aspettare la sera e portarlo via. - A tutto non si pensa sempre ... eccoli ... non ti far vedere. Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa sfrenata, con un fracasso indiavolato. Il conte udí distintamente il marchese a gridare: - Spronate sempre: non devono essere lontani. I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere. - Grazie, Mendoza, - disse il conte, battendo sulle spalle del basco. - Tu ci hai salvati. - Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata - rispose il filibustiere. - La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata troppe fatiche. - Ma senza la tua idea a quest'ora saremmo nelle mani del marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si possa essere, non si può sostenere l'urto di un mezzo squadrone. - Signor conte, - disse il guascone avvicinandosi coi cavalli. - Rimontiamo in sella? - Preferisco rimanere qui per qualche ora, cosí i cavalli si riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre ombre. - Temete che ritorni? - Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate le piantagioni. - Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi piacciono i gamberi? - Diventate pazzo, don Barrejo? - Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l'è mangiato vivo, senza dividerlo con me. Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata. - Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra compagnia diventano allegri e burloni, - disse don Barrejo. - Che cosa avete voi nelle vostre vene? - chiese il conte. - Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate. - Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è cosí. Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre. L'indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli potevano tornate da un momento all'altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte, tuffando le braccia nell'acqua fresca del fiumiciattolo. Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i due compari in meno di mezz'ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di averle vuotate di quanto contenevano. Alle due del mattino il conte, non udendo piú alcun rumore nei dintorni del corso d'acqua, diede il segnale della partenza. Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento all'altro i cavalieri del marchese. La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo cosí ai quattro avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici. Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i quali s'affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata. Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva trovarsi la salda fortezza di Guayaquil. Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova. Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche luogo per perlustrare le piantagioni? Qualche ora piú tardi, raggiunta la cima della prima altura e trovato un piccolo bosco, si accamparono. Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e tuttavia trovati da tutti squisitissimi. Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare. - Amici, in guardia! - gridò il conte, correndo verso il suo destriero e staccando rapidamente l'archibugio. - I nostri andalusi hanno fiutato qualche cosa. - Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! - disse il guascone. - In arcione! - comandò in quel momento il basco. Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via, lanciando i cavalli a corsa sfrenata. - Che cos'hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare? chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d'archibugio. - Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco della collina. Cercavano di sorprenderci, signore. - Erano molti? - Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e delle canne d'archibugio e nient'altro. - Soldati erano di certo, - rispose il conte. - Amici, armatevi e tenetevi pronti. - Che i gamberi ci portino sfortuna? - si chiese il guascone. - Se sarà vero, non ne mangerò piú in tutta la mia vita. Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d'archibugio partí dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s'inalberò, poi stramazzò al suolo. Quasi nell'istesso tempo una scarica nutrita partiva dall'altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole. Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella tempesta di palle. - Don Barrejo, salvatevi! - gridò il conte il quale era subito balzato in piedi impugnando le pistole. - Ve l'ordino! ... Siamo presi! Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi compagni, fuggí a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che avrebbe potuto essere a loro piú utile libero che prigioniero. Il brav'uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto. Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan. Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le spade. Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi montati. - Pare che siate preso, signor conte, - disse, con ironia. - La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita. - Ah ... Voi, signor marchese! - rispose il corsaro, con voce alterata. - Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole. Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli, spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo. - Prima di arrendermi, - disse, - voglio sapere da voi, signor marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete l'intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole. - Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte, - rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei suoi compatriotti. - Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le decisioni che prenderà il presidente dell'Udienza Reale. - Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei miei compagni, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda. - No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell'Udienza ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle colonie spagnuole dell'America centrale. - Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato l'Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l'Atlantico per ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del Darien. La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata. - Sapete voi dove si trova? - chiese dopo qualche istante di silenzio. - Sí, a Guayaquil. - Perché v'interessate tanto di quella giovane meticcia? - Per Bacco! ... È mia sorella! - gridò il conte. - Sapete che io l'ho sempre tenuta come mia figlia e che ella mi ama come se fossi suo padre? - Perché ignora forse che suo padre era un conte di Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello. - Questo è vero, - rispose il marchese. - Che cosa risolvete dunque? - Preferirei di non farvela vedere. - Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, - rispose il conte, con voce risoluta. - Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi. - Impegnate la vostra parola di gentiluomo? - Sull'onore dei Montelimar. - Basta cosí, - disse il conte. Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza. Il marchese si era voltato verso i suoi uomini. - Date tre cavalli a questi signori, - disse. Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati. - Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. - Vi prego di seguirmi. - Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di Ventimiglia. - Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde io non vi odio affatto. - Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, - rispose il conte, con ironia. - Avevo i miei motivi per fare ciò, allora. - Avreste ora cambiata idea? - Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi. In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari. - Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione. - Saranno cacciatori, - rispose il marchese. Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone. Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri. Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa. Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi. Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno. Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino. - Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia. - A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera. Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi. - Deve essere Neala, - disse il marchese. - È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il quale appariva assai commosso. - Sí, conte. Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra. Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi. Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso. - Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo cosí presto. - No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi. - Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che ... Il conte lo interruppe bruscamente. - Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana. La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia. Era certamente il sangue che segretamente parlava. - Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa ... - Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell'Oceano Pacifico, dove l'aria è piú balsamica e piú pura che qui - disse il corsaro. - Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete. Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo: - Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

- Abbiamo interrogato piú di venti persone e ne abbiamo ubriacate altrettante; ma nessuno ha saputo dirci dove si trova il segretario del marchese. - Eppure mi hanno assicurato che deve trovarsi qui - disse il signor di Ventimiglia. - Egli solo può dirci i nomi di coloro che hanno pronunciato l'infame sentenza contro il Corsaro Rosso ed il Corsaro Verde e che li hanno fatti impiccare. - Che quel furfante abbia fiutato il pericolo e abbia preso il largo? Voi sapete che gli spagnuoli hanno molte spie. - È impossibile! La nostra fregata è creduta da tutti una nave spagnuola, spedita qui a proteggere la città contro una sorpresa da parte dei bucanieri e dei filibustieri - rispose il conte. - Se avessero avuto qualche sospetto, i galeoni e le caravelle che si trovavano qui ci avrebbero già dato battaglia. Avete notato nulla di insolito nel porto? - No, signor conte. Le navi mercantili hanno caricato tutto il giorno zucchero e caffè, e quelle da guerra non hanno lasciato i loro ancoraggi - rispose Mendoza. - Eppure non mi sento affatto tranquillo. Basterebbe la piú lieve imprudenza per farci bombardare dai forti e dalla flotta. - Nessuno la commetterà, conte; l'equipaggio è sempre consegnato a bordo e ho fatto collocare delle sentinelle dinanzi alle due scale e perfino dentro le scialuppe. - Malgrado ciò, io vorrei andarmene al piú presto. Questa commedia non può durare a lungo, e la mia impresa potrebbe finire qui. Ah, se potessi vedere la marchesa per dieci minuti soli, mi risparmierebbe la fatica di cercare quell'inafferrabile cavaliere. Deve ben sapere qualche cosa dell'infamia commessa da suo cognato. Stette un momento silenzioso, poi soggiunse: - Non deve essersi coricata: proviamo, miei bravi, tenete pronte le spade e anche le pistole. - Sono tre ore, capitano, che aspettiamo la buona occasione per menare le mani - disse Martin. - Seguitemi. Assicuratisi che la via era deserta, l'attraversarono senza far rumore e si avviarono verso il palazzo dei Montelimar che si trovava a breve distanza. Il conte, invece di avvicinarsi al portone, girò intorno al magnifico giardino, cinto da una cancellata di ferro che si prolungava lungo i fianchi del fabbricato. Guardò in alto e scorse due finestre illuminate. - Sono ancora svegliati - mormorò. Ad un tratto trasalí. Delle note dolcissime, che uscivano dalle due finestre che non erano chiuse, l'avevano colpito. Qualcuno suonava il mandolino nel palazzo. Chi? Un servo od una cameriera, no, di certo. Non l'avrebbero osato, se la marchesa si fosse già coricata. - Che sia lei? - si disse. Si volse verso i due marinai, i quali avevano sguainate le lunghe spade per premunirsi contro una possibile sorpresa, e disse loro: - Dobbiamo superare la cancellata. - Un gioco da fanciulli per dei marinai - rispose Mendoza. - Montiamo all'arrembaggio - disse Martin. Il conte s'aggrappò alle sbarre, le salí fino alla cima, lesto come uno scoiattolo, varcò le punte e si lasciò cadere dall'altra parte, in mezzo ad un'aiuola di splendidi fiori. I due marinai erano saltati nel giardino, quasi nello stesso tempo. - Oh! c'è da battagliare, qui? - chiese Mendoza. - Lascia in pace la tua spada, per ora - rispose il conte di Ventimiglia. - Vedremo piú tardi se vi sarà bisogno di un po' di buon acciaio. Seguitemi senza rumore. Attraversarono il giardino, cercando di non fare scricchiolare la ghiaia dei viali, e giunsero sotto le finestre illuminate. Il mandolino continuava a suonare una dolcissima signadilla. - Non può essere che la marchesa - mormorò il conte. - Questa signadilla è stata suonata stasera durante la festa, e cerca d'imitarla ... Che io abbia tanta fortuna? Un gigantesco bombax, alto una trentina di metri, col tronco coperto di bitorzoli spinosi, s'alzava di fianco al palazzo, spingendo i suoi rami quasi presso alle finestre illuminate e anche piú sopra. - Ecco quello che mi occorreva - mormorò il conte. - Rimanete qui e non state in pensiero. La mia assenza non sarà lunga. S'aggrappò con precauzione ai bitorzoli, per non ferirsi le mani, e cominciò a salire, mentre Mendoza e Martin si sdraiavano alla base del tronco, nascondendosi quasi interamente tra le alte erbe che vi crescevano intorno. Bastarono pochi secondi al robusto e agilissimo gentiluomo per raggiungere il grosso ramo che rasentava una delle due finestre illuminate. Guardò attraverso i vetri socchiusi. La finestra prospettava su un elegante gabinetto dalle pareti coperte di arazzi di Granata e ammobiliato elegantemente, quantunque tutti i mobili fossero pesantissimi, come si usava in quell'epoca. Un lampadario d'argento, con parecchie candele, lo illuminava vivamente. Non vi era però alcuna persona; tuttavia la mandola non aveva cessato di suonare. Una cosa colpí subito il giovane conte. Era la veste di seta guernita di smeraldi, che la marchesa aveva indossata durante la festa, e che era stata gettata su un piccolo divano moresco scintillante di ricami d'oro e d'argento. Stava per spiccare il salto, quando udí Mendoza chiedere: - Chi vive? Una voce, che il conte riconobbe subito, rispose: - A voi lo domando: che cosa fate qui, bricconi? - A noi, bricconi! - gridò Martin. - Il conte di Sant'Iago! - mormorò il figlio del Corsaro Rosso, stringendo i denti. Non trovandosi che ad un'altezza di quattro metri, l'agile giovane si lasciò cadere dalla pianta. Mendoza e Martin stavano già con le spade in pugno di fronte al capitano degli alabardieri, il quale aveva pure sguainata la sua lama. - To'! - esclamò il signor di Sant'Iago con voce beffarda. - Il Conte de Miranda che cade dall'alto! Siete andato a far provvista di frutti di bombax? Vi avverto che non sono mangiabili e servono soltanto a fare un pessimo cotone. - E voi siete venuto qui a fare raccolta di fiori, non è vero? chiese il conte di Ventimiglia, rosso di collera. - Può anche darsi; ma almeno io li raccolgo in terra, mentre voi cercate i frutti presso le finestre, senza pensare che se vi scivola un piede potreste rimanere zoppo tutta la vita; un vero peccato per un cosí bel giovane! - Mi pare che voi scherziate - disse il conte di Ventimiglia. - E se cosí fosse? - chiese il capitano. - Penso che questo non sarebbe il posto. Lassú le finestre sono illuminate e mi spiacerebbe che ci vedessero. - La marchesa di Montelimar? - chiese il capitano ironicamente. - Se quella signora può impressionarvi, possiamo cercare altrove un posto dove nessuno venga a disturbarci. Oh, lo conosco questo giardino e so anche dove si trova un bellissimo prato che sembra stato preparato appositamente per incrociare due spade! - È una sfida che voi mi lanciate? - Prendetela come volete; a me importa poco. - Dov'è quel prato? - chiese il conte di Ventimiglia con ira ... - Fretta di morire? - Sono ancora vivo, signor di Sant'Iago; e se la vostra mano è lesta, la mia lo è altrettanto. - Cosí l'accordo sarà perfetto - rispose il capitano sempre ironico. - Vi avverto però che io la scorsa settimana spacciai un rivale che mi dava noia. - Me lo avete già detto, e ciò non produce su di me alcun effetto. Ho battuto piú d'un capitano, ed erano spagnuoli come voi! - Che cosa avete detto? - chiese il conte. Il figlio del Corsaro Rosso si morse le labbra, irato di essersi lasciato sfuggire quelle parole. - Signor conte, - disse il capitano - volete seguirmi fino a quel prato? Là potremo discorrere tranquillamente e anche divertirci. - Eccomi! - disse il figlio del Corsaro Rosso. - E quegli uomini? - chiese il signor di Sant'Iago, indicando Mendoza e Martin. - Non daranno qualche impiccio, se non a voi, almeno a me? - Qualunque cosa debba succedere, questi miei marinai non daranno fastidio a nessuno; vi do la mia parola d'onore. - Mi basta: venite, signori. Forse serviranno a qualche cosa - aggiunse poi col suo solito accento beffardo. Il capitano si cacciò sotto un boschetto di palme, lo attraversò sempre seguito dal Corsaro e dai due marinai, e sbucò in una piccola prateria coperta da un'erba piuttosto folta e circondata da ogni parte da splendidi palmizi. - Ecco un bel posto per parlare liberamente - disse volgendosi verso il conte di Ventimiglia. - E anche per uccidersi senza che nessuno intervenga, non è vero, capitano? - chiese il figlio del Corsaro Rosso. Il conte di Ventimiglia incrociò le braccia e, guardando il conte di Sant'Iago il quale si era esposto ai raggi della luna che allora sorgeva, gli chiese con voce secca: - Che cosa volete ora? Ditemelo subito, perché ho molta fretta. - Carrai! Correte molto presto incontro alla morte, voi! - Caramba! Pare che voi vi siate dimenticato d'una cosa, signor capitano! - Volete dire? - Che il quattordici ha vinto il tredici. - Credete di spaventarmi? - Niente affatto: mi hanno detto che siete coraggioso. - Tagliamo corto, conte. - Che cosa desiderate? - Darvi un buon colpo di spada - rispose il capitano, con voce rauca. - Quando un rivale mi attraversa la via o mi dà ombra, io lo mando a riposare nel cimitero di San Domingo. - Siete terribile! - Lo proverete fra poco, se non scapperete. - Che cosa dite, capitano? Io fuggire dinanzi alla vostra spada? Sono un gentiluomo ed un uomo di guerra, mio caro spaccamonti! - Rajo de Sol! Mi avete insultato! - urlò il conte di Sant'Iago. - Pare anche a me. - Vi ucciderò al primo attacco! - O al ventesimo? - Vi burlate di me? - Cosí pare - rispose il figlio del Corsaro Rosso, snudando la spada e mettendosi rapidamente in guardia. - Lampi e folgori! - Folgori e cannonate! - È troppo, conte de Miranda. - E la luna è splendida! Ci batteremo magnificamente senza aver bisogno né di torce, né di fanali. Signor capitano degli alabardieri di Granata, vi aspetto. Il conte di Sant'Iago aveva a sua volta snudato la lunga spada; ma tutto ad un tratto ruppe la guardia, dicendo: - Vi siete fatto annunciare col titolo di conte de Miranda: lo siete davvero? - Sono un gentiluomo e vi basti questo. - Spagnuolo? - Che io sia o non sia spagnuolo, non vi deve interessare. D'altronde se vorrete sapere il mio nome, lo troverete inciso sulla lama della mia spada ... Ed ora basta, capitano: ho fretta. Entrambi si rimisero in guardia, mentre Mendoza e Martin si erano un po' scostati, per lasciare ai due rivali la maggiore libertà possibile. Il conte di Ventimiglia volgeva le spalle alla luna che si mostrava maestosa al di sopra delle alte palme del giardino: il capitano invece era interamente illuminato. Si guardarono l'un l'altro, fissandosi intensamente con ira: poi il capitano, che pareva il piú impaziente, malgrado l'età, fece tre o quattro finte per vedere se l'avversario si smascherava o se tradiva il suo giuoco. Il giovane capitano della Nuova Castiglia non si mosse. Stava saldo come una rupe, con la spada in linea, lo sguardo attento. - Carrai! - esclamò l'alabardiere. - Vi giudico già di una buona lama, ma vedremo in seguito se parerete queste botte che sembrano finte. Il signor di Ventimiglia non rispose. Non doveva essere certamente alle sue prime armi, a giudicare dalla sua calma. - Sfonderò quel muro d'acciaio e di carne - disse il capitano, il quale perdeva la sua calma. - Ecco una buona stoccata! Paratela! Era partito a fondo con velocità fulminea, ma il conte con una parata di seconda, altrettanto rapida, aveva scartato la lama del capitano. - Carrai! Che braccio solido, signor de Miranda. Non mi aspettavo una simile resistenza. Il giuoco però è appena cominciato e la luna non tramonterà prima dell'alba. Anche questa volta il figlio del Corsaro Rosso non rispose. Guardava intensamente la punta della spada del capitano che l'astro notturno faceva scintillare sinistramente. - Non siete cortese, conte - disse il signor di Sant'Iago, rimettendosi in guardia. - Sapete che oggi usa battersi, scambiandosi frasi gentili? Un colpo di spada, che per poco non lo sorprese, fu la risposta del signor di Ventimiglia, colpo appena parato di terza, con solo un secondo di vantaggio. - Diavolo! - brontolò il capitano. - Qui non ci vogliono chiacchiere! Fece un passo indietro, tastando prima il terreno col piede sinistro per non scivolare, poi prese una guardia di seconda, dicendo: - Vi aspetto, conte! Il figlio del Corsaro Rosso, messo un po' in sospetto da quella mossa, si guardò bene dall'attaccare e rimase fermo, con la spada in linea, sempre minacciando il petto del capitano con un colpo d'arresto. - Non assalite dunque, signor conte de Miranda? - Non ho mai fretta, capitano. - V'aspetto da un mezzo minuto. - Potete aspettarmi anche mezzo secolo, se cosí vi piace. - Ah, per le corna del diavolo! Per la terza volta il conte di Ventimiglia stette zitto. Ratto come un lampo si era allungato tutto, facendo due salti innanzi ed era piombato sull'avversario, portandogli un colpo in mezzo al petto. Fu un grande miracolo se anche quella stoccata venne parata dallo schermitore spagnuolo; nondimeno la casacca di seta rimase tagliata per un bel tratto. - Caramba! Vi slanciate, signor conte, e cercate anche di sorprendermi, mentre io vi dico delle galanterie. Due centimetri piú innanzi, e mi toccavate. Un'altra volta ricordatevi che bisogna allungarsi ... Un grido gli spezzò la frase. La spada del signor di Ventimiglia era nuovamente scattata e la lama era entrata piú di mezza nel petto del capitano. Egli rimase un momento in piedi, trattenendo la lama del conte con la mano sinistra; poi si rovesciò pesantemente a terra, spezzandola. Cinque pollici di acciaio della spada spezzata rimasero conficcati nel suo stomaco, all'altezza della quarta costola di sinistra. - Morto? - chiesero ad una voce Mendoza e Martin facendosi innanzi. Il conte gettò a terra il troncone della spada e si curvò sul capitano che si contorceva fra gli spasimi d'un'atroce agonia. - Forse non siete ferito gravemente, signor di Sant'Iago - gli disse. - Possiamo ancora salvarvi. - Credo d'aver avuto il mio conto - rispose il capitano. - Per bacco! Avete la mano piú lesta della mia! Morirò presto e ciò mi rincresce per una sola cosa. - Quale? - Per non aver avuto il tempo di mandarvi a bordo le mille e cento piastre che mi avete vinto. - Non ve ne date pensiero; ditemi invece che cosa possiamo fare per voi. - Chiamate i servi della marchesa di Montelimar. Almeno morrò sotto il tetto della donna ... che amo e per la quale muoio. - Lasciate che cerchi di togliervi prima il pezzo di lama che vi è rimasta nel petto. - Mi uccidereste piú presto. No ... no ... i servi ... mandate ... correte. - Mendoza! Martin! chiamate gente al palazzo! I due marinai partirono di corsa; mentre il signor di Ventimiglia, piú commosso di quel che volesse sembrare, teneva alzata la testa del capitano, affinché il sangue non lo soffocasse. Era appena trascorso un minuto, quando si videro dei lumi e degli uomini avanzare attraverso i viali. - Signor conte, - disse il figlio del Corsaro Rosso - sono obbligato a lasciarvi. Non voglio che si sappia che sono stato io a ferirvi. - Vi ringrazio - rispose il capitano con voce fioca. - Se guarirò, spero che mi accorderete la rivincita. - Quando vorrete. Si alzò e si allontanò rapidamente, avviandosi verso la cancellata. Mendoza e Martin, dopo aver avvertiti i servi della marchesa, si erano a loro volta allontanati, scavalcando i ripari. Quando i valletti giunsero sul prato, il capitano era svenuto, ma teneva le mani serrate strettamente sul pezzo di lama. - Il capitano degli alabardieri di Granata! - esclamò il maggiordomo della marchesa, il quale guidava i servi. - È un amico della padrona! Presto, portiamolo al palazzo! Quattro servi sollevarono con precauzione il ferito e lo trasportarono in una stanza a pianterreno, adagiandolo su di un letto, mentre un quinto correva a cercare il medico di famiglia. La bella marchesa di Montelimar, avvolta in una vestaglia di seta azzurra, era subito scesa, e chiedeva al maggiordomo con voce angosciata: - Mio Dio, che cosa è successo, Pedro? - Hanno ferito gravemente ... - Il conte de Miranda? - gridò la marchesa impallidendo. - No, Signora, il conte di Sant'Iago. - Il capitano degli alabardieri? - Precisamente - Con qualche pistolettata? - Con un terribile colpo di spada; ha ancora mezza lama conficcata nel petto. - Un duello? - Cosí pare. - Ed il feritore? - Scomparso, signora. - E dove si sono battuti? - Nel vostro giardino. - Quell'uomo cercava sempre di uccidere ed ha avuto il suo conto. Chi può aver vinto la migliore lama del reggimento di Granata? Chi? Non è morto, è vero? - Solamente svenuto, ma io credo che non se la caverà. - Lascia che lo veda. Il maggiordomo si trasse da una parte, ed essa entrò nella stanza dove si trovavano alcuni servi affaccendati a bagnare le labbra e le narici del ferito con aceto, per cercare di farlo rinvenire. Il capitano giaceva sul letto con le braccia aperte, il volto cadaverico, la fronte ancora corrugata. Un sibilo, piuttosto che un respiro, gli usciva dalla bocca semiaperta. Aveva sempre il pezzo di lama piantato in mezzo al petto, presso il cuore, non avendo nessuno osato levarlo, per timore di provocare una violentissima emorragia. Il giubbetto di seta a righe azzurre e rosse, con grandi alamari d'argento, era squarciato per una lunghezza di parecchi pollici, ma nessuna goccia di sangue aveva macchiato la camicia. La lama serviva da tampone. - Disgraziato! - mormorò la marchesa con voce commossa. - Lo spadaccino che lo ha cosí terribilmente ferito non può essere di San Domingo, poiché tutti avevano pura della spada di quest'uomo ... È stato avvertito il medico, Pedro? - Sí, signora marchesa - rispose il maggiordomo. - Non tarderà a giungere. - Se non viene subito, questo povero conte muore. - Eccolo: odo della gente entrare. La porta si era aperta ed un vecchio, vestito interamente di seta nera, seguito da un giovane che portava una cassetta, erano comparsi. Erano il medico e il suo aiutante. - Signor Escobedo - disse la marchesa, andando incontro al vecchio - Vi raccomando quel signore: è il conte di Sant'Iago. Fate il possibile per strapparlo alla morte. - Oh! È il terribile spadaccino, marchesa? - chiese il medico. Quando si tratta di colpi di lama, l'affare è sempre serio. Vediamo. S'accostò al letto, mentre il suo aiutante apriva la cassetta contenente parecchi ferri chirurgici, e diede un lungo sguardo al ferito, il quale non aveva ancora ripreso i sensi. - Ferita grave, è vero, signor Escobedo? - chiese la marchesa. - Una stoccata terribile, marchesa - rispose il medico, facendo una smorfia e tentennando il capo. - Il suo avversario doveva avere un pugno ben solido. - Sperate di salvarlo? - Non posso darvi una risposta sicura, marchesa. Ritiratevi tutti a lasciatemi solo col mio aiutante. È necessario operare subito. La marchesa, il maggiordomo e i servi si affrettarono a sgombrare. - Una pinza forte, Maurico - disse il dottore quando furono soli, volgendosi verso l'aiutante. - Volete estrarre la lama, dottore? - Non posso certo lasciargliela nel petto! - Non morrà subito? - È quello che purtroppo temo. La punta deve aver offeso gravemente il polmone. In quel momento il conte emise un profondo sospiro e alzò le braccia, posando le mani sul pezzo di lama che gli usciva dal petto. - Sta per tornare in sé - disse il medico, il quale si era curvato sul ferito. Il capitano emise un altro sospiro piú lungo del primo e che terminò con una specie di rantolo, poi alzò lentamente le palpebre e fissò il dottore con uno sguardo velato. - Voi ... - balbettò. - Non parlate, signore. Un sorriso contorse le labbra del conte. - Sono ... un uomo ... di guerra ... - disse con voce spezzata. - Sono finito ... è vero? ... Il dottore scosse il capo senza rispondere. - Quanti minuti ... ho ... di vita? Parlate ... lo voglio. - Potreste vivere anche un paio d'ore, se non vi levo il pezzo di spada. - E levandolo? ... ditelo! - Pochi minuti forse, signor conte. - Mi ... basteranno ... per vendicarmi ... Ascoltatemi ... - Se parlate troppo vi ucciderete anche piú presto. Un altro sorriso comparve sulle smorte labbra del capitano. - Ascoltatemi ... - disse con suprema energia. - Sulla lama ... vi è inciso ... un nome ... quello del mio avversario ... Voglio conoscerlo ... prima di morire. - Bisognerebbe levarvela dal petto. Il conte fece un cenno affermativo. - Lo volete proprio? - chiese il dottore. - Già ... morrò ... egualmente. - Maurico, le pinze. L'aiutante portò due piccolissime tenaglie, un pacco di cotone e delle fasce, per arrestare subito il sangue che sarebbe sgorgato dalla ferita. - Presto ... - mormorò il conte. Il medico afferrò la lama e la trasse, a piccole scosse, dal corpo. Il conte aveva stretto le labbra per non gridare. Dall'alterazione del viso e dal sudore vischioso che gli copriva la fronte, si capiva quanto doveva soffrire. Fortunatamente quella dolorosissima operazione non durò che pochi secondi: subito dalla ferita sgorgò un getto di sangue che l'aiutante fermò con delle bende. - Il nome ... il nome ... - balbettò il capitano con voce spenta - presto ... muoio ... Il dottore pulí la lama lorda di sangue con un asciugamano, e vide apparire delle lettere incise sull'acciaio, sormontate da una piccola corona di conte. - Enrico di Ventimiglia - lesse. Il capitano, nonostante la sua estrema debolezza ed il dolore che lo tormentava, si era quasi alzato a sedere, esclamando con voce rauca: - Ventimiglia! ... Un nome di corsari: il Rosso ... il Verde ... il Nero ... Un Ventimiglia! Tradimento! - Conte, vi uccidete! - gridò il medico. - Ascoltate ... ascoltate ... la fregata ... giunta ieri ... è corsara ... la comanda quello vestito di rosso ... correte dal governatore ... avvertitelo ... fatela abbordare ... presto ... la città è in pericolo ... Muoio ... ma vendicheranno la mia morte ... Ah! Il capitano era ricaduto sui guanciali. Rantolava ed impallidiva a vista d'occhio. Il sangue filtrava attraverso le filacce e le bende arrossando la camicia e la giubba. Ad un tratto una spuma sanguigna comparve sulle labbra del disgraziato, poi le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi già spenti. Il capitano degli alabardieri di Granata era morto. - Maestro, - disse l'aiutante al medico, il quale teneva sempre in mano il pezzo di lama - che cosa farete ora? - Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse! ... Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa. - Sarò muto, maestro. - Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte. - E voi? - Corro dal governatore. Avvolse nell'asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere. - Dunque, dottore? - chiese. - È morto, marchesa - rispose Escobedo. - La ferita era terribile. - E non vi ha detto chi lo ha ucciso? - Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina. - E ora? - Penso io a tutto. Prima dell'alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui. - È quello che temevo. - Buona notte, marchesa. M'incarico io di ogni cosa.

- Dimenticate, compare, quel doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar. Era Alicante o Xeres? - Xeres. - I baschi sarebbero meno gentiluomini dei guasconi? Vivaddio! Era Alicante! ... Di vini spagnuoli io me ne intendo. - I baschi sono galantuomini, - rispose gravemente Mendoza, ridendo. - Riconosco il mio torto, ma pel momento voi, don Barrejo, non avrete quel doblone, perché avendolo scommesso in una cantina dovremo berlo in un'altra cantina. Vi pare? Fuori del mar di Biscaglia! - Non ho mai trovato un compare cosí furbo! - gridò don Barrejo. - Credevo che i guasconi fossero i piú furbi dell'orbe terracqueo ed ora m'accorgo che i baschi sono ... - Che cosa? - chiese Mendoza, ridendo. - Fiori di canaglie! - Volete provocarmi, don Barrejo? Lo sappiamo già che i guasconi sono spadaccini e anche attaccabrighe. - E i baschi? - Testardi. - Una parola molto sonora e che non dice nulla, - disse il guascone. - Perdinci! ... Vuol dire che quando un basco ha detto una cosa, vivo o morto, sarà sempre quella. - Ah! ... Ho capito! ... Come quella di bere il doblone. - Ecco i guasconi che ridiventano furbi. - Che il diavolo vi porti all'inferno, - disse l'avventuriero, ridendo. - Me l'avete ben giuocato quel doblone. - State sicuro: andremo a berlo in qualche cantina dell'America centrale. Mentre i due compari discutevano sul doblone e la fregata riprendeva la sua corsa verso ponente, riparando alla meglio i danni subiti durante quell'accanito combattimento, il signor di Ventimiglia aveva pregato cortesemente il segretario del marchese di Montelimar di seguirlo nel salotto del quadro. - Sedetevi, cavaliere, - disse il conte, quand'ebbe chiusa la porta, indicandogli una sedia. - Abbiamo molto da discorrere fra noi. - Ciò mi stupisce molto, - rispose il segretario del marchese, il quale appariva assai pallido e molto inquieto. - È la prima volta che io vi vedo, signore. - Ne sono convinto, perché solamente da qualche mese mi trovo nelle acque del Golfo del Messico. - Per quale motivo? - Per cercare voi, prima di tutto, - rispose il conte, sedendosi di fronte al segretario. - Sono dunque un uomo cosí prezioso? - L'avete veduto or ora. Per avervi nelle mie mani, ho messo in pericolo la mia fregata e anche la vita mia e quella del mio valoroso equipaggio. Sapete già chi sono? - Il figlio del Corsaro Rosso. - Avete conosciuto mio padre? Il segretario del marchese di Montelimar diventò livido, ma non rispose. - Cavaliere, - disse il conte con voce un po' aspra - non dimenticate che siete completamente in mia balia e che, se anche sono un gentiluomo, ho nelle vene il sangue dei formidabili corsari che devastarono le colonie spagnuole del grande Golfo. Rispondete alle mie domande. - Ebbene, sí, l'ho conosciuto - rispose il segretario del marchese. - Dove? - A Maracaibo. - Quando? - Il giorno antecedente al suo supplizio. Questa volta fu il conte che divenne pallidissimo, mentre un lampo d'ira illuminava i suoi occhi. - Sapevano d'impiccare un gentiluomo? - chiese con voce sorda, stringendo i denti. - Io credo di sí. - Chi pronunciò la sentenza di morte contro mio padre e contro tutti i suoi marinai sfuggiti al naufragio? - Non lo so. - È inutile che cerchiate d'ingannarmi! - disse il signor di Ventimiglia balzando in piedi. - È stato il marchese di Montelimar, vostro signore. - Perché chiedermelo allora? - disse il cavaliere. - Volevo essere sicuro della cosa. Il conte girò due o tre volte intorno alla tavola che occupava il centro del salotto; poi, fermandosi bruscamente dinanzi al segretario, il quale lo guardava con terrore, gli disse: - Mio padre ed i miei due zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero, erano venuti in America per vendicare la morte del loro fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca Wan Guld e non già per corseggiare, come fanno tutti gli altri filibustieri della Tortue. I Ventimiglia hanno ancora nel Piemonte terre e castelli, quanti forse non ne possiedono i vostri grandi di Spagna o i vostri conquistadores arricchitisi con le spoglie dei disgraziati cacichi del Messico o del Perú. - L'avevamo saputo dal nostro ambasciatore, accreditato presso la corte dei duchi di Savoia - rispose il segretario del marchese di Montelimar. Il conte fece un gesto con la destra, come per allontanare qualche lontano ricordo, poi riprese: - Torniamo al nostro discorso, cavaliere. Mio padre, prima di partire per l'America insieme con i suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il Corsaro Verde, aveva sposato una principessa del Brabante che morí dandomi alla luce. Io non so in quale epoca egli sposò qui la figlia del grande cacico Hara, re del Darien, dalla quale ebbe una figlia. Ne avete udito parlare? - Sí, vagamente. - Quando la nave di mio padre naufragò sulle coste di Maracaibo, quella bambina si trovava fra i superstiti, non è vero? - Chi ve lo disse? - Un giorno, frugando fra le carte di mio padre, appresi che io avevo una sorellina in America. Morgan, che è oggi il governatore di Giamaica e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, mi ha confermato, or non è molto, che la notizia era vera. Che cosa ne ha fatto il marchese di Montelimar di quella fanciulla? Parlate, cavaliere! Perché se un'infamia fosse stata commessa, guai al vostro signore! Un Ventimiglia non perdona! Il figlio del Corsaro Rosso, cosí parlando, era diventato terribile. I suoi lineamenti si erano alterati, assumendo una espressione selvaggia ed i suoi occhi mandavano lampi sinistri. - Mi avete capito, cavaliere? - gridò, battendo fortemente il pugno sul tavolino. - Che cosa ne avete fatto di mia sorella? Io sono venuto appositamente in America per cercarla, risoluto a mettere sottosopra il gran Golfo, pur di trovarla! Ho nelle mie vene, ve lo ripeto, il sangue di gente di guerra e di corsari e farò vedere ai vostri compatriotti, al balenar delle mie artiglierie, lo stemma dei Ventimiglia. - Calmatevi, signor conte - disse il segretario. - È morta o viva mia sorella? - È viva. - Me lo giurate? - Sul mio onore! - Con questa affermazione voi avete salvata la vita al vostro signore. - Volevate ucciderlo? - Sí, con un buon colpo di spada - rispose il conte. - Dove si trova mia sorella? - Non ve lo saprei dire, signor conte sul mio onore. - Che sia un onore dubbio? - chiese il signor di Ventimiglia, facendo un gesto di minaccia. - Dovrò andare dal vostro signore a chiedere notizie di mia sorella? Ditemelo. Il cavaliere impallidí, poi divenne rosso. - Signor conte, - disse, con voce fremente, - quando un hidalgo spagnuolo giura sul suo onore, non vi è gentiluomo di Europa che possa stargli di fronte, perché innanzi a tutto noi siamo cavalieri, ci abbia creato Filippo secondo o Carlo quinto. Se dubitate, io sono pronto ad incrociare la mia spada contro di voi. I gentiluomini della vecchia Castiglia muoiono, ma non si arrendono! ... Mi avete capito, signor conte? Il signor di Ventimiglia lo aveva guardato con viva sorpresa. Per qualche istante strinse l'impugnatura della sua spada, poi disse: - No, cavaliere. Ho avuto torto a offendervi e da buon gentiluomo vi faccio le mie scuse. Voi dunque non sapete dove si trova mia sorella? - Io ho udito dire una sera dal marchese di Montelimar che l'aveva affidata ad un mayoral della costa del Pacifico. A Panama o dove? Questo non lo so; ve lo affermo solennemente, signor di Ventimiglia. - Ad un mayoral? Che cos'è? Io non conosco perfettamente la vostra lingua. - Ad una specie d'intendente - rispose il cavaliere. - Che voi non conoscete? - No. - Sicché sarà necessario che io vada a scovare il vostro signore. - Se riuscirete a sapere dove si trova. - Lo so di già - rispose il conte. - È impossibile! - Allora vi dirò che il vostro signore si trova ora a Pueblo-Viejo. Il segretario del marchese ebbe uno scatto e fece un gesto d'ira. - Chi ve lo ha detto? - chiese con i denti stretti. - La marchesa Carmen di Montelimar, non è vero? Oh! ... lo so che ha sempre odiato suo cognato, come so pure che ha favorito la vostra fuga da San Domingo. - V'ingannate, signore! - rispose il conte. - Lo avevo saputo prima da mio cugino Morgan. - L'uomo nefasto che ci ha rovinato Panama e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. - Precisamente, signor Barquimiseto. Il segretario del marchese di Montelimar si morse le labbra a sangue. - E voi andate a trovare il mio signore? - chiese. - Vi ho detto che sono venuto in America per cercare prima di tutto mia sorella! - E poi? - Ah! ... Il resto non vi riguarda, signore. - Ma s'indovina: voi siete venuto qui per vendicare vostro padre. - Io non ho ancora detto questo. Voi dunque non sapete dove si trova la nipote del grande cacico del Darien? - No, ve l'ho già detto, È stata affidata ad un mayoral e non ne so di piú. - Me lo dirà il marchese - disse il conte, alzandosi impetuosamente. - Vi avverto intanto che voi rimarrete mio prigioniero fino a che la mia missione non sarà finita; e due uomini vigileranno, giorno e notte, su di voi. Non contate quindi su di un possibile tentativo di fuga, poiché i miei filibustieri sono d'una fedeltà a tutta prova e non esiterebbero un solo istante ad uccidervi. D'altronde io farò quanto posso per rendervi meno pesante la prigionia, perché pranzerete alla mia tavola e sarete trattato c on tutti i riguardi ai quali ha diritto un cavaliere spagnuolo. Addio, signore; potete andare a riposarvi nella cabina che sta di fronte a noi: siete mio ospite. Ciò detto il conte uscí dal salotto e salí in coperta dove l'attendevano con viva impazienza il suo luogotenente, Mendoza e il terribile guascone. - Dunque? - chiese il signor Verra. - Ho finalmente la certezza che mia sorella è viva - rispose il signor di Ventimiglia. - Voi non potete immaginare quale desiderio abbia io di vedere quella fanciulla color cioccolata o rame finissimo. Farà furore alla corte dei duchi di Savoja, i quali già non ignorano la storia dei tre formidabili corsari. Poi, volgendosi verso Mendoza, gli domandò: - Tu che sei uno dei piú vecchi filibustieri e che hai combattuto con mio padre e con i miei zii, credi che io possa da solo condurre a fine una tale impresa? - No, signor conte - rispose il marinaio, tirandosi la barba. Non si ripete due volte la fortuna di Morgan, e gli spagnuoli sono formidabili nell'America centrale. Chi rifiuterà però un aiuto al figlio del Corsaro Rosso, al nipote dei corsari Verde e Nero? Forse che i piú famosi filibustieri non operano di là dell'istmo? David, Pusley e Grogner sono là! Andiamo a trovarli, e nessuno di loro si rifiuterà di mettere le sue navi, i suoi uomini, le sue spade e i suoi pezzi a disposizione d'un conte di Ventimiglia. - Potremo noi trovarli? - Io so di positivo che, dopo la loro disastrosa crociera verso lo stretto di Magellano, hanno conquistato l'isola di San Giovanni e che là meditano chi sa quali formidabili imprese ai danni della Spagna! - San Giovanni, hai detto? - Sí, una piccola terra che dista appena cinque leghe dal continente. Andiamo a trovare quei leoni, signor conte, e faremo cadere il marchese di Montelimar e anche un'altra volta Panama. Il filibustiere non ha mai avuto paura e lo troverete sempre pronto a qualsiasi cimento. - Sono i moderni guasconi. - disse don Barrejo. - Che gente meravigliosa! ... Il conte stette un momento immerso nei suoi pensieri, poi disse: - Credo anch'io che non si possa fare diversamente. L'aiuto di quei terribili filibustieri mi è necessario per lottare col marchese di Montelimar. Ma sei proprio certo, Mendoza, che si trovino sulle coste del Pacifico? Morgan mi aveva detto che erano partiti verso il sud, per aggirare la Terra del Fuoco e tornare nel Golfo da quella parte. - È vero, signor conte; ma la loro impresa è fallita e sono tornati verso il settentrione ancora in buon numero. Si dice che abbiano con loro non meno di ottocento uomini e che si propongono di mettere a sacco tutta l'America centrale. - Eh, con una simile forza non mi stupirei! So quanto valgono quegli uomini. E dove lasceremo noi la fregata? - La rimanderemo alla Tortue, signore - disse il luogotenente. Voi sapete bene che mai gli spagnuoli oserebbero assalire la rocca dei filibustieri. Volete affidare a me l'incarico? Lasciatemi una trentina di uomini ed io m'impegno di sfuggire alle crociere dei galeoni e delle caravelle spagnuole. - E poi, non avete vostro cugino? - chiese Mendoza. - La Giamaica ha porti sicuri, ed il signor Morgan è un uomo da difendere la vostra fregata contro tutti gli attacchi. - E sarà meglio! - disse il signor di Ventimiglia. - Signor Verra, date la rotta ai vostri piloti e andiamo a scovare, prima di tutto, il marchese di Montelimar a Pueblo-Viejo. Se non mi dirà dove si trova mia sorella, guai a lui! ... Sarò implacabile come mio zio, il Corsaro Nero!

È bensí vero che gli spagnuoli avevano una grande paura di quei ladroni di mare che, come abbiamo detto, ritenevano figli di Belzebú. Non erano però finite le peripezie dei filibustieri. Gl'indiani, per ordine del governatore di Panama, bruciavano boscaglie e piantagioni, per affamarli e li assalivano a colpi di freccia in mezzo alle sterminate foreste. Presso la cittaduzza di Ginandejo, gli spagnuoli, raccolti in uno stretto passaggio, tendono un agguato e mandano alcuni abitanti incontro ai filibustieri per invitarli a recarsi nelle loro fattorie a ristorarsi, promettendo viveri e vino in abbondanza. L'agguato però non ha anche questa volta nessun successo. I filibustieri, furiosi per tale tradimento, tagliano a pezzi le cinquantine spagnuole, saccheggiano la città e poi la incendiano, per punire gli abitanti di essersi prestati a preparare l'agguato. Dopo quattordici giorni di marce continue, di combattimenti incessanti, i filibustieri giungevano finalmente, laceri, affamati, essendo tutto stato bruciato dinanzi a loro, sulle rive dell'Oceano Pacifico, di fronte all'isola di Taroga, sulla quale speravano trovare altri compagni venuti dall'Atlantico.

. - Io e don Ercole abbiamo battagliato contro le guardie della Capitaneria del Porto, signor di Ventimiglia, e, quando si combatte, la sete viene sempre, almeno ai guasconi. - E anche ai fiamminghi, a quanto pare, - aggiunse Mendoza. Don Ercole, invece di rispondere, si accontentò di versare attraverso la sua bocca di lupo nordico l'ultimo bicchiere rimasto sulla tavola. La taverniera giungeva in quel momento portando un cesto pieno di bottiglie. Il conte aveva già, prima dell'entrata dei due avventori, posato sull'angolo della tavola un bel mucchio di piastre, poteva quindi fornire abbondantemente da bere e realizzare nel medesimo tempo un bel guadagno. - Ora, donna Panchita, parliamo, - disse il conte, mentre Mendoza e don Barrejo continuavano a sturare bottiglie. - Io sono venuto qui per chiedervi una informazione. - A me, signor conte! - esclamò la bella castigliana, con stupore. - Avete molte conoscenze in città. - Sono nata qui. - Avete mai udito nominare un certo don Juan de Sasebo, consigliere dell'Udienza Reale di Panama? La castigliana pensò un momento, poi rispose: - Sí, io ho avuto occasione di fornire a quel consigliere del mio vino. - Quello doveva essere un gran furbo, - disse il guascone. Sapeva dove poteva trovare il buon vino. - Allora voi sapete, Panchita, dove abita, - riprese il conte. - In calle dell'Arameio. - Siete certa di non ingannarvi? - Certissima, signor conte. Sono andata io coi miei due servi a portargli una cinquantina di bottiglie. - Tonnerre! ... Bevono i consiglieri dell'Udienza Reale di Panama! - borbottò il guascone. - E poi danno a me della spugna! ... - È lontana da qui la sua abitazione? - riprese il signor di Ventimiglia. - Si trova di fronte al palazzo del Viceré. - Lo sai tu, Mendoza? - Saprò trovarlo, - rispose il basco. - Che uomo è quel don Juan de Sasebo? _ chiese il corsaro alla bella castigliana. - Sulla quarantina e uomo coraggiosissimo, perché si dice che un tempo fosse stato aiutante di campo del re di Spagna o d'uno dei suoi parenti. - Sapete dirmi altro? - No, signor conte. - Avrete cinquanta piastre per le informazioni datemi. - Voi siete troppo generoso. Che cosa posso fare per voi? - Darci una stanza o due per poterci riposare alcune ore, - rispose il signor di Ventimiglia. - Non ne ho che una, con sei lettucci che in questo momento sono tutti vuoti. - Non chiedo di piú. Il conte si era alzato. I tre avventurieri, che avevano già dato fondo anche a parecchie altre bottiglie, si erano pure levati. L'ostessa accese una candela di sego e salí una scala, introducendo i suoi ospiti in uno stanzone, che era occupato da un bel numero di letti tutti vuoti. Appena entrati, furono colpiti da uno strano fragore che si ripercuoteva al di fuori. - Che cos'è questo? - chiese il conte. - È il fiume che passa proprio sotto la posada, signore, - rispose la castigliana. - E che ci canterà la ninna nanna, - aggiunse il guascone, per farci addormentare piú presto. Badate di non dormire coi due occhi chiusi, - disse il conte. Che cosa temete, signore? Chi mi assicura che gli uomini che avete fugati non tornino per cercarvi? - Tanto peggio per loro, signor conte. Io e don Ercole ci siamo accontentati di battagliare; se ci compariscono dinanzi un'altra volta, li uccideremo, è vero, signor fiammingo? - Certo, - rispose l'omaccione. - E se tornassero in buon numero? - disse Mendoza. - Forse che noi non siamo le quattro piú formidabili lame della filibusteria? - rispose don Barrejo. - Corichiamoci, - disse il conte. - Dormiremo con un occhio aperto. - Buona notte, caballeros, - disse la bella sivigliana. Il guascone fece un galante inchino, dicendo: - Bella signora, io vi contraccambio l'augurio e cercherò di sognare i vostri occhi fulgidissimi. Voi cercate di sognare almeno i miei baffi. L'ostessa scappò via, ridendo, mentre i quattro avventurieri si gettavano vestiti sui letti, mettendosi accanto le spade e le pistole, non essendo proprio sicuri di passare la notte tranquillamente. Purtroppo erano stati buoni profeti! Sonnecchiavano da un paio d'ore, quando furono bruscamente svegliati da alcuni colpi sonori picchiati contro la porta della posada. Il conte ed il guascone erano stati i primi a gettarsi giú dai letti. - Tonnerre! - esclamò quest'ultimo, afferrando la sua draghinassa. Che non si possa dormire cinque minuti a Panama? Queste sono le guardie, - disse il conte, aggrottando la fronte. In quel momento la porta della stanza si aprí e comparve l'ostessa, appena coperta da una manta rigata, in preda ad un vero spavento. - Caballeros, - disse, con voce affannata. - Vi sono giú dieci o dodici guardie del porto, che domandano di perquisire la fonda. - È profondo il fiume? - chiese il conte. - Profondissimo, caballero. - Potete tenere a bada quegli uomini per qualche minuto? - Dirò loro che mi lascino almeno il tempo di vestirmi. - Quella finestra dà sul fiume? - Sí, caballero. - Noi scapperemo di là; ci permettete di rivedervi? - La mia fonda è sempre aperta per voi, signor conte. - Ritorneremo domani sera. Si tolse da una tasca una borsa ben fornita e gliela mise nelle mani, dicendole: - Addio, bella vedova: conto sulla vostra furberia. I colpi risuonavano piú sonori: le guardie picchiavano furiosamente coi calci degli archibugi e colle impugnature delle spade, gridando con voce minacciosa: - Aprite o gettiamo giú la porta! ... Ordine del viceré! Mentre l'ostessa usciva correndo, per rispondere, il guascone spalancò la finestra che dava sul fiume. Un corso d'acqua, piuttosto impetuoso, scorreva sotto la posada, lambendone la parete. Il conte s'affacciò e lanciò un rapido sguardo. - Quello che mi rincresce, - disse, - è di dovere bagnare le pistole. Bah! ... Ci rimarranno le spade, è vero, don Barrejo? - Talvolta sono piú preziose delle armi da fuoco, perché almeno sono piú sicure, - rispose il guascone. - Sapete tutti nuotare? - Tutti! - risposero ad una voce i tre avventurieri. - Saltiamo, prima che le guardie buttino giú la porta. - A me prima, signor conte, - disse il guascone. Salí sul davanzale, si assicurò bene la draghinassa e saltò risolutamente nel fiume, il quale scorreva quattro metri piú sotto. - È profonda l'acqua? - chiese il conte, quando lo vide ricomparire. - Si nuota magnificamente, - rispose il guascone. - Giù tutti! Uno dietro all'altro saltarono e trovarono tanta acqua da sprofondare, senza toccare il letto del fiume e da ritornare, senza incidenti, a galla. La corrente, che era rapidissima, li prese e li trascinò via. Erano però tutti abilissimi nuotatori e, quantunque i gorghi cercassero di quando in quando di subissarli e di attirarli nei loro giri vorticosi, dopo quattro o cinquecento metri presero terra a breve distanza l'uno dall'altro. - Con una notte cosí afosa, un bagno non fa veramente dispiacere, disse Mendoza. - Specialmente quando salva la pelle, - aggiunse il guascone, il quale si stringeva addosso i panni per sbarazzarsi dell'acqua che li inzuppava. Il conte si era affrettato a salire la riva, per vedere dove avevano approdato. Si trovavano sul margine d'una piantagione di zucchero, coperta di canne altissime le quali potevano offrire un ottimo rifugio. Era molto difficile che le guardie andassero a scovarli fino là, quindi pel momento nulla potevano temere. - Che cosa faremo, ora? - chiese il guascone. - Qui non vedo né una posada, né una taverna, né una venta. - Vorreste bere ancora, don Barrejo? - chiese il conte. - Eh! ... Se fosse possibile vuotare qualche bottiglia di Alicante per asciugarsi piú presto, non ne sarei dispiacente, - rispose il guascone. - Succhiate una canna da zucchero. Qui ve ne sono delle centinaia di migliaia. - Le lascio ai fanciulli, signor conte. - Allora aspettate che il sole vi asciughi. Noi non possiamo rientrare in città, inzuppati come siamo. E poi non dimenticate che oggi o questa sera dovremo fare una visita. - Ad una taverna? - A don Juan de Sasebo. - Volete proprio vederlo? - Se il marchese di Montelimar non mi ha ingannato, mia sorella si trova nelle mani di quel consigliere. - Allora andremo a prenderlo pel collo e, se resisterà, stringeremo forte. Io mi domando che cosa faremo noi, intanto? - Guardate ed imitatemi, - disse Mendoza. Estrasse la draghinassa e cominciò ad abbattere le canne, formandone in terra un fitto strato. - Signor conte, - disse poi. - Potete coricarvi e terminare il sonno cosí malamente interrotto dalle guardie. Qui nessuno verrà di certo ad importunarci. Il guascone ed il fiammingo non avevano indugiato a fare altrettanto, sicché in pochi minuti si prepararono un giaciglio, se non troppo comodo, per lo meno bene asciutto. - Dormiamo, in attesa che il sole renda le nostre vesti almeno un po' presentabili, - disse il conte. Si gettarono sullo strato di canne, uno presso all'altro ed essendo la notte caldissima non tardarono ad addormentarsi, quantunque fossero ancora inzuppati d'acqua. Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto. La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna. - Andiamo a fare una prima esplorazione in città, - disse il conte. - Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo. - Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, - rispose il guascone. - No, come un montone, - disse Mendoza. - Vada anche pel montone! ...

Noi abbiamo il pessimo vizio di aver sempre sete, forse perché respiriamo troppa aria salata. - L'ho anch'io quel vizio: eccomi subito! Lasciò cadere in un vecchio cassone i venti dobloni, facendoli saltare l'uno sull'altro, per udire meglio il suono dell'oro; poi tirò fuori una bottiglia e dei bicchieri. Mentre versava, il conte, che aveva quasi la medesima statura del guascone, si spogliava rapidamente, per indossare il vestito del soldato. Quand'ebbe finito di abbigliarsi, vuotò a sua volta un bicchiere di aguardiente, poi, volgendosi verso il guascone, gli disse: - Ed ora lasciatevi legare ed imbavagliare. Scendendo avvertiremo qualcuno che è toccato un accidente al signor Barrejo, cosí verranno a liberarvi. - Siete gentile, signor conte, ma preferirei non sentirmi un fazzoletto sopra i baffi. - Le tentazioni sono pericolose per tutti. Potreste pentirvi dell'affare concluso e mettervi a gridare dietro di noi: al ladro! Il guascone fece un superbo gesto di diniego, poi si voltò per lasciarsi legare. Mendoza e Martin che, come tutti i marinai, non mancavano mai di corde, in pochi momenti ridussero il soldato all'impotenza; lo imbavagliarono per bene e lo gettarono sul letto. - Buona fortuna - disse il basco un po' ironicamente. Il guascone si agitò un po' tentando di rispondere, poi restò immobile come se si fosse addormentato di colpo. Il figlio del Corsaro Rosso si calò l'elmetto sul viso per non essere riconosciuto, aprí la porta con la chiave che il guascone gli aveva data e scese tranquillamente da una lunghissima scala, seguito dai suoi due uomini. Erano entrati in una vecchia casa a tre piani che aveva i gradini ormai consumati e le pareti annerite, abitata certamente da popolani. Stavano per uscire sulla via, quando sulla porta s'incontrarono con una vecchia negra, la quale portava sulla testa lanuta un gran canestro pieno di banane. - Buon giorno, signor Barrejo - disse vedendo il corsaro. - V'ingannate, buona donna - rispose il conte. - Sono un suo amico. Anzi, appena potrete, salite nella sua soffitta, perché pare che quel povero uomo non stia troppo bene. Ciò detto varcò la soglia e si allontanò velocemente, sempre accompagnato dai due filibustieri, i quali potevano benissimo essere scambiati per due marinai frettolosi d'imbarcarsi. La via era quasi deserta, poiché gli abitanti di tutte le città spagnuole del Golfo del Messico hanno l'abitudine di sospendere da mezzogiorno alle quattro i loro affari per schiacciare un sonnellino. - Martin, tu che conosci a menadito la città, guidaci verso il porto - disse il conte, quando si trovarono in mezzo a degli orti. - Non ne siamo lontani che due tiri d'archibugio - rispose il mulatto. - Mi preme di vedere come hanno circondato la mia fregata. - Ma non potremo raggiungerla senza destare dei gravi sospetti - osservò il prudente Mendoza. - Lo so, ed è questo che mi dà noia. Come potremo noi metterci in relazione col mio luogotenente? Ecco la gran questione. Io non dubito che egli possa aprirsi un varco fra i galeoni, le caravelle e rifugiarsi tranquillamente alla Tortue. Eppure è necessario che io m'imbarchi, prima che il segretario del signor di Montelimar si rechi nei Messico. - Forse a me riuscirebbe - disse Martin. Un mulatto non può destare gravi sospetti, e voi sapete che io nuoto meglio d'un pesce e che so anche percorrere dei tratti lunghissimi sott'acqua. - Lo so bene - rispose il conte. - Ed appunto per questo ti ho arruolato. - Non sarà quindi una faccenda difficile per me calarmi inosservato in mare e raggiungere la fregata. - Potrebbero scorgerti e ucciderti. Degli ordini severissimi saranno stati dati perché io non possa raggiungere la mia nave, o mandare qualche messo. - Non vi occupate di ciò, capitano - rispose il mulatto. - Se gli spagnuoli sono furbi, io non lo sono meno di loro. - Vedremo - rispose il signor di Ventimiglia, il quale appariva molto pensieroso per la brutta piega che prendevano le cose. Si erano rimessi frettolosamente in marcia, attraversando dei giardini e delle piccole piantagioni di banani, e tenendosi prudentemente lontani dalle rare case che sorgevano qua e là. Un quarto d'ora dopo giungevano in vista della rada, sbucando in un luogo quasi deserto. Il conte si era bruscamente fermato e borbottava stringendo i pugni. - Affare serio! - disse Mendoza. E l'affare era veramente grave. Quattro galeoni, quelle grosse navi per lo piú destinate a portare i prodotti delle preziose miniere del Messico e dell'America centrale in Europa, e cinque caravelle avevano lasciato i loro ancoraggi ed erano andate a radunarsi presso l'uscita del porto, disponendosi su una doppia fila: i primi dinanzi, le seconde, molto piú deboli e meno equipaggiate, di dietro. In mezzo alla rada, del tutto isolata, stava la fregata del conte, una splendida nave a tre alberi, lunghissima e stretta, e armata di ben ventiquattro pezzi d'artiglieria lungo i fianchi e di due grosse caronade in coperta, sull'alto cassero. Sulle calate, ingombre di mercanzie, numerosi alabardieri passeggiavano, sorvegliando attentamente, a quanto pareva, le navi mercantili e le barche da pesca che dovevano probabilmente aver ricevuto l'ordine di non lasciare gli ancoraggi. - Come se la caverà il luogotenente? - si chiese il conte, il quale con un solo sguardo aveva abbracciato la situazione. - Che cosa ne dici tu, Mendoza? - Io dico, signor conte, che il signor Verra si leverà d'impiccio con molto onore, e che darà una terribile lezione ai galeoni e anche alle caravelle - rispose il vecchio filibustiere. - Ha un bel numero di bocche da fuoco e della gente che ha un cuore che non ha mai tremato. - È vero, ma ... - fece il figlio del Corsaro Rosso, scuotendo la testa. - Voi sapete, signor conte, quale paura hanno gli spagnuoli dei filibustieri. Ci credono figli del diavolo. - Non dico di no, Mendoza. - E allora vedrete quali miracoli saprà compiere il vostro equipaggio guidato dal signor Verra! Forse che i liguri non sono sempre i primi marinai del mondo? - Ma una palla di cannone può uccidere l'uomo piú audace del mondo. - Non un filibustiere però - rispose Mendoza, - specialmente quando ha in mano un buon archibugio o si trova dietro a un pezzo di cannone. Il corsaro sorrise, senza mostrarsi peraltro troppo persuaso dalle parole del vecchio filibustiere. - Cerchiamo un po' d'ombra - disse dopo qualche momento. Il sole è caldo nel grande golfo. A cinquanta passi da loro, presso una scogliera scendente ripidissima verso la rada, s'alzavano dei maestosi banani con foglie enormi. La raggiunsero e si gettarono sotto quegli splendidi vegetali, già carichi di enormi grappoli. - Armiamoci di pazienza ed aspettiamo - disse il conte. - Io sono certo che, appena le tenebre caleranno, i galeoni e le caravelle daranno battaglia alla mia nave. - Io spero di raggiungere la fregata innanzi che si spari il primo colpo di cannone - disse il mulatto. - Datemi le vostre istruzioni, signor conte. - Non avrai da dire al mio luogotenente che una sola cosa: che ci aspetti al capo Tiburon e che sorvegli attentamente il passaggio della Santa Maria. - Permettetemi, capitano, che aggiunga una cosa - disse Mendoza. - Parla pure, amico. - Suppongo, Martin, che tu aspetterai che il sole scompaia per gettarti in acqua. - Non è necessario - rispose il mulatto. - Nuoterò sempre sott'acqua. - E come faremo noi a sapere se giungerai alla fregata? È troppo lontana per poter scorgere un uomo. - E vuoi concludere? - chiese il conte. - Che ci faccia segnalare se ha potuto dare al luogotenente le vostre istruzioni. - Sei sempre furbo, tu. Dirai al signor Verra, Martin, che accenda quattro fanali verdi disposti in fila sul cassero. - Sarà fatto, capitano - rispose il mulatto. Si levò la casacca, i pantaloni, gli stivali e gettò a terra le pistole e la spada. Non portando né camicia né mutande, era rimasto completamente nudo. - Che Dio vi aiuti, signor conte, - disse - Io non dimenticherò le vostre istruzioni. - Va, amico, e guardati dalle palle degli spagnuoli - disse il signor di Ventimiglia. - Addio, camerata - disse Mendoza. - Guardati anche dai pesci-cani. - Io me ne rido di quelli - rispose il mulatto. Spiccò tre o quattro salti, come per provare l'elasticità delle sue membra, poi si gettò fra le rocce che scendevano accavallate bizzarramente verso la rada, strisciando come un serpente. In pochi istanti raggiunse il fondo e, con un magnifico salto di testa, scomparve sott'acqua. - È un vero diavolo! - disse il conte. - Io non ho mai veduto un nuotatore piú abile di lui. - Scommetterei la mia spada contro una carica per la mia pipa - rispose il marinaio - che egli riuscirà ad eludere la sorveglianza degli spagnuoli e a passerà sotto i loro nasi senza che se ne accorgano ... Là! là: lo vedete? È rimontato. A duecento metri dalla riva un punto scuro era comparso sulla superficie della rada scomparendo poi quasi subito. Il mulatto aveva fatta la sua provvista di aria, mettendo fuori solamente il naso, poi si era rituffato, nuotando sempre sott'acqua. Era impossibile che i soldati, che vegliavano sulle calate che si trovavano alquanto discoste dal luogo occupato dai due corsari, avessero potuto accorgersi di qualche cosa. E poi quella macchia bruna si poteva anche benissimo scambiare per una testa di pesce. Altre due volte il conte e Mendoza, i quali spiavano ansiosamente la superficie della baia, videro spuntare il naso del mulatto, poi piú nulla. La distanza era ormai troppo considerevole e cominciava a scendere l'oscurità. - Giungerà? - si chiedeva ansiosamente il conte. - Non pensate a lui capitano - rispondeva Mendoza. - È piuttosto della fregata che noi dobbiamo occuparci. Io non so che cosa aspettino i galeoni e le caravelle. - La notte. - Io, se fossi il comandante della squadra, assalirei subito. - Il combattimento non tarderà ad impegnarsi. Non vedi che delle scialuppe cariche di soldati si staccano dalle calate e prendono il largo? - Pessima manovra, signor conte! Non ne sfuggirà una alle bordate della fregata. Il conte si era alzato e si era messo a passeggiare nervosamente intorno ai banani; Mendoza invece aveva caricato la sua pipa e fumava placidamente. Quella calma del vecchio marinaio era piú apparente che reale, poiché di quando in quando si dimenticava di tirare e la pipa si spegneva. Intanto le tenebre scendevano rapidamente avvolgendo la città, il porto e le navi. La fregata, che si trovava presso la bocca d'uscita, non si scorgeva quasi piú. Ad un tratto il corsaro mandò un grido: - Il segnale! Ah, bravo Martin! Quattro fanali verdi, che spiccavano vivamente nella profonda oscurità, disposti l'uno dietro l'altro, erano comparsi sull'altissimo cassero della fregata. - Ve lo avevo detto io, capitano, che quel diavolo sarebbe riuscito - disse Mendoza vuotandosi la pipa. - Ora potremo andare un po' in campagna a gustare i vini di San Josè. Si dice che siano squisitissimi. - Adagio Mendoza. La fregata non è ancora fuori del porto. - Se è per questo, riaccendo la pipa; sono sicuro che passerà fra i galeoni e le caravelle. Una volta fuori del porto, le diano la caccia se ne sono capaci. - Se riesce ad aprirsi il varco, sarò pienamente tranquillo, mio bravo marinaio. Nessuno può raggiungerla e nemmeno ... Un colpo di cannone interruppe il suo discorso. La Nuova Castiglia aveva aperto il fuoco, sfidando le navi spagnuole a battaglia. Quel sinistro rimbombo, che si ripercosse fragorosamente contro le case della città, fu seguito da un breve silenzio, poi si udí una seconda cannonata. Il corsaro e Mendoza avevano scalate rapidamente le rocce, per meglio assistere alle diverse fasi del combattimento. L'uno e l'altro, quantunque avessero piena fiducia nella robustezza e nell'armamento della nave e nel coraggio dell'equipaggio, formato interamente d'intrepidi filibustieri reclutati alla Tortue, erano in preda ad una profonda angoscia. Sapevano bene che la Spagna aveva pure valenti marinai, capaci di disputare lungamente la vittoria. Un altro mezzo minuto trascorse, poi terribili bordate partirono dai galeoni e dalle caravelle. La battaglia era cominciata.

. - Direte che noi siamo indiscreti, signora, - disse Buttafuoco - ma in questi due giorni di caccia ostinata non abbiamo avuto il tempo di fare un pasto regolare. - Due giorni, barone di ... - Barone! - esclamò il signor di Ventimiglia, balzando in piedi, mentre il bucaniere faceva alla marchesa un rapido gesto. - Perdonate, Buttafuoco - disse la bella andalusa. - Vi avevo, in un momento di distrazione, scambiato per il barone di Giralda. Il conte aveva guardato attentamente il bucaniere, il quale era divenuto pallidissimo. - Chi siete voi dunque? - gli chiese. - Buttafuoco! - rispose l'avventuriero, con un'amarezza cosí profonda che non sfuggí al corsaro. - Voi mi nascondete il vostro nome. - Il mio l'ho sepolto nell'oceano, sotto la linea equatoriale - rispose il bucaniere con voce cupa, passandosi piú volte una mano sulla fronte, come per tergersi delle stille di sudore freddo. - Dicevate, signora marchesa? ... - Non ricordo ... ah ... sí ... mi avete detto che da due giorni le cinquantine vi danno la caccia. - E con molti cani per di piú. - E siete riusciti sempre a sfuggire agli agguati? Qui non vi troveranno; non è vero, signor conte? - Disperavo di poter raggiungere la vostra fattoria, marchesa - rispose il corsaro. - Non saprei ancora dirvi come siamo passati attraverso le cinquantine. La bella andalusa rimase qualche istante come immersa in un profondo pensiero; poi, guardando il conte, gli chiese: - Io non so che cosa darei per conoscere quale imperioso motivo ha ricondotto qui, dopo tanti anni, il figlio ed il nipote dei tre formidabili corsari. Un capriccio, qualche vendetta od altro? Non si arriva dall'Europa, né si gioca audacemente la vita, come avete fatto voi, senza un motivo grave. Credo di avervi già dato sufficienti prove di amicizia, perché possiate ritenermi una donna incapace di tradire uno dei vostri segreti e di perdervi. - Oh, marchesa! - protestò il signor di Ventimiglia. - Forse voi fra ventiquattro ore tornerete ad imbarcarvi sulla vostra fregata - proseguí la bella andalusa con un sospiro - e noi, probabilmente, non ci rivedremo mai piú ... ed il bel sogno sarà finito. Parlate; siete fra una gentildonna ed un gentiluomo. - Buttafuoco? ... - Io so chi è! - disse la marchesa. - Voi dunque volete conoscere per quale ragione io ho lasciato l'Europa per corseggiare l'America? Non per sete di avventure; non per sete di ricchezza, che io disprezzo altamente, signora, avendo laggiú sulla riviera ligure terre e castelli ... è per chiedere a vostro cognato, l'ex governatore di Maracaibo, che cosa ha fatto di mia sorella, della nipote del gran Cacico del Darien! - Del Darien! - esclamarono ad una voce la marchesa ed il bucaniere. - Mio padre, prima di salpare per l'America insieme ai suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il corsaro Verde, per compiere una vendetta, aveva sposato una duchessa del Brabante, la quale morí giovanissima, dopo d'avermi dato alla luce, e perciò non conobbi mai - disse il signor di Ventimiglia con voce triste. - In una delle sue crociere attraverso il golfo, mio padre naufragò e trovò asilo sicuro presso il gran Cacico del Darien, nemico giurato e terribile dei vostri compatrioti, signora marchesa. Ebbe aiuti, onori e gli fu offerta in isposa una principessa del paese, dalla quale ebbe una figlia. Quando mio padre fu sorpreso nei bassifondi di Maracaibo, e fu preso ed appiccato, non come un valoroso marinaio che lottava per una santa causa, ma come un volgare malfattore, aveva con sé quella fanciulla. Che cosa ne ha fatto vostro cognato, il marchese di Montelimar, ex governatore di Maracaibo? Io lo ignoro. Perciò sono venuto qui a chiedergli stretto conto di mia sorella e, se l'ha uccisa, vi giuro, signora, che l a lama di Ventimiglia berrà il suo sangue. Allevato alla Corte dei duchi di Savoia, io ho sempre ignorato che mio padre avesse lasciata qui una figlia. Informato qualche anno fa da Morgan, il famoso conquistatore di Panama, ed ora governatore della Giamaica, di questo fatto, da lui conosciuto probabilmente per mezzo di Jolanda sua moglie, la figlia del Corsaro Nero, sono venuto a cercarla. Abbia pur nelle vene sangue indiano, è sempre mia sorella e la troverò, o vivaddio rinnoverò le gesta dei tre corsari e non tornerò in Europa senza prima aver compiuto terribili vendette. - Vorreste vendicare anche la morte di vostro padre? - disse la marchesa, la quale l'aveva ascoltato col piú vivo interesse. - Su questo argomento, marchesa, per il momento non posso parlare - disse il conte quasi con ira. - Lo leggo nei vostri occhi. - Può essere. - E questa vostra sorella dove l'anderete a cercare? - disse Buttafuoco, il quale fino allora era rimasto silenzioso. - Il marchese di Montelimar me lo dirà - rispose il conte. - Ormai so dove si trova; poi spero d'avere, fra qualche giorno, nelle mie mani il suo segretario. Se non fosse per questo, la mia fregata non mi aspetterebbe al capo Tiburon, a rischio di essere catturata dai galeoni o dalle caravelle spagnuole. Che cosa ne dite, Buttafuoco? Il bucaniere approvò con un gesto del capo. - Siete soddisfatta, marchesa? - chiese il conte. - Forse non quanto desidererei - rispose la bella andalusa.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l'Italia e siate venuto in questi mari lontani. - Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette - rispose il conte con voce sorda. - È probabile che anch'io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio. Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo: - Bevete, signore: l'aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri. In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo: - Sono qui, signora: sono entrati. - Chi? - chiese la marchesa aggrottando la fronte. - Una cinquantina intera. - Con qual diritto? - Ordine del governatore di San Domingo. - Comincia a diventare noioso quel signore! - disse la marchesa alzandosi. - Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa ... Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza. - Che cosa volere fare, Marchesa? - chiese il bucaniere. - Nascondervi. - Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo. La signora di Montelimar ebbe un sorriso. - Lasciate fare a me, conte - disse. - Avete qualche nascondiglio segreto anche qui? - Vi mando nelle mie cantine. - Bel luogo! - disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone. - Marto, conduci questi signori nell'ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte. I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d'un paniere dove aveva messo i resti della cena. Giunti all'estremità dell'ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime. - Compare, - disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza - giú vi è da bere a crepapelle. - E noi berremo! - rispose il filibustiere. - Ne assaggeremo un po' da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante. Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell'ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili. - È un paradiso un po' oscuro, ma pur sempre un paradiso, - disse Mendoza, facendo schioccare la lingua. - Passate, signori, - disse il negro - perché devo ostruire l'entrata con dei barili. - Non ci seppellirai vivi, spero - disse il guascone. - Non abbiate questo timore - rispose l'africano sorridendo. Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s'affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l'apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio. - Speriamo che questa avventura sia l'ultima! - disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. - Che ne dite, Buttafuoco? - Eh! - rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. - Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo. - Che ci vengano a scovare? - Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte. - Se verranno, ci difenderemo - disse Mendoza. - Qui siamo come in una casamatta. - Ma senza uscite - aggiunse il guascone. - Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all'ingiro. - In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare - disse Mendoza. - Quale? - chiese il conte. - Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell'Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte. Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo? - Un guascone non rifiuta mai di bere! - rispose l'avventuriero, con sussiego. - Signore conte, - disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa - dove avete raccolti questi due diavoli? - Uno l'ho pescato nel mar di Biscaglia - rispose il signor di Ventimiglia. - E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. - Ma anch'io ho respirato l'aria salubre del mar di Biscaglia. Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d'un mulo centenario. - Fate pure - disse il signor di Ventimiglia. - Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po' di respiro, chiudere gli occhi. - Ed io altrettanto - aggiunse il bucaniere. - Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia. - Un guascone non s'addormenta mai in faccia al nemico - disse don Barrejo. - E nemmeno un basco! - aggiunse Mendoza. - Si sono ben appaiati - brontolò il bucaniere. Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell'imminente pericolo che li minacciava. - Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? - disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti. - E che! ... Un guascone! ... - Questi guasconi sono dunque delle macchine? - Quasi, compare. - Se provassimo la nostra resistenza al vino? - Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s'incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare - disse l'avventuriero. - Quantunque guascone! ... - Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito ... - Guardate che bella pancia ha quel bottale! ... Scommetterei che contiene dello Xeres. - No, dell'Alicante. - Ma che! ... Xeres. - Me ne intendo io di vini di Spagna! - Anche senza assaggiarli? ... Compare! ... Voi siete un uomo meraviglioso! ... Scommettiamo uno dei vostri dobloni? - Vada per il doblone, - rispose don Barrejo, - Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione. Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all'insaputa dell'intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell'ambra. - Caramba! - esclamò il marinaio. - Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante! ... Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

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