Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL BENEFATTORE

662574
Capuana, Luigi 10 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Che abbiamo fatto di male mio padre, mia madre, la zia, io? ... E perchè mio padre non è più chiamato, come una volta: il Benefattore? - Perchè il mondo è cattivo, gliel'ha detto il notaio. - È stato ed è davvero un benefattore; posso proclamarlo con orgoglio. - Appunto per ciò! ... E fossero soltanto essi cattivi ed ingrati! Ma costringono ad essere o ad apparir tali anche gli altri, perchè non tutti abbiamo la forza e il coraggio di ribellarci a un pregiudizio, di opporci a un'ingiustizia ... Io, che lei stima meno cattivo di parecchi, io sono un vigliacco ... me lo lasci dire; un vigliacco! Mio padre è peggio di me, perchè la vigliaccheria gli sembra prudenza. Deve averlo notato: in questi ultimi mesi, egli è venuto soltanto due volte laggiù. Io ho osato di venire, di accompagnarla spesso, ma non ho mai saputo osare ... Si fermò, torcendosi le mani, alzando rabbiosamente gli occhi al cielo, con tale espressione di dolore che anche miss Elsa, voltatasi a guardarlo, non potè far a meno di fermarsi, lievemente arrossita in viso; la reticenza l'aveva turbata. - Paese che vai, usanza che trovi! - ella disse sorridendo con lieve espressione di tristezza. - E poi - riprese Paolo, quasi non avesse udito quelle parole ... - se anche avessi saputo osare ... che cosa avrei conchiuso? - Bisogna essere sinceri, per restare onesti, - mormorò miss Elsa. - Bisogna, in certe circostanze darsi un bel colpo di pistola a una tempia! - Sarebbe vero dunque che lei non crede in Dio, lei? - domandò miss Elsa con dolcissimo accento di compassione e di rimprovero. - Se Dio esistesse, non permetterebbe tante infamie! - Oh, no, signor Paolo, non parli così! Del bene e del male che facciamo siamo responsabili noi. - E di quello che ci costringono a fare gli altri? - Nessuno può costringerci a fare il male. - Non tutti siamo santi o eroi. - Basta essere uomini di retto cuore. Ora scendevano lentamente. Lo stradone in quel punto tagliava una collina, s'inoltrava tra due alte sponde che formavano rampe coperte di erbe selvatiche tutte in fiore. Cardi rizzavano spinosi steli coronati da ciuffi azzurri, violetti, gialli; pianticine rampicanti con fiori rossi a stelline, sembravano cosparse di macchie di sangue cascate sul verde delle foglie; arbusti con rami sottili, quasi delicate braccia di strani candelabri a cui fossero attaccate rigide lamette verdi, spiccavano con mucchi di chioccioline aggrappatevi attorno, e si sarebbero detti carichi di bacche biancastre. - Ecco come siete voialtri! - disse miss Elsa, che si era fermata ad ammirare. - Una fioritura bella, ma selvaggia, ma ... - Inutile o nociva ... Ha ritegno di dirlo? - Nociva, no; quelle piante usurpano il terreno, impediscono che le rampe scoscendano, quando piove troppo, e ingombrino lo stradone. - Lei vuol sviare il discorso! - esclamò Paolo. - Non posso farle dire quel che non vuol dire. - Mi perdonerà, se parlo? - Non dirà certamente nulla che non dovrei udire. - Io l'amo! Io sono pazzo di lei! ... E il giovane, pronunziate queste parole con voce soffocata dalla grande commozione, nascose la faccia tra le mani, quasi avesse paura di scorgere l'impressione che esse dovevano aver fatto su colei alla quale erano indirizzate. - Pazzo? - rispose miss Elsa con voce un po' velata. - Eh, via! Lei esagera, alla siciliana ... Ma che mi volesse bene, io lo so da un pezzo; attendevo che me lo confessasse; cominciavo a dubitarne ... Paolo si slanciò a prenderla per una mano. Si sentiva davvero impazzire, ma di gioia, di felicità ... E portò alle labbra la mano bianca e fine che miss Elsa gli cedeva abbandonatamente. Dietro alcune piante di fichi d'India si udì uno scoppio di risa. Paolo, voltatosi sdegnosamente verso quel punto, vide sparire a un tratto, tra le grosse e spinose foglie dei fichi d'India, la testa del contadino che si era accorto di quel bacio e aveva maliziosamente riso ... Impallidì e rimase impietrito. - Come sono disgraziato! - esclamò dopo un istante. - Perchè? - Ci hanno visto! - Non abbiamo fatto niente di male. - Ah! Ora costui andrà a spargere in paese ... - Che importa? - M'importa per lei, non per me. - Ma io le darei a baciare la mano al cospetto di tutti. Sì - ella soggiunse dopo breve pausa - lei ha ragione! Sciocca sono io, che non so ancora abituarmi al vostro modo di vivere e di pensare. Come siamo distanti! Io le ho espresso francamente, schiettamente quel che sento e penso. Perchè avrei dovuto esitare, mentire? E così non le nascondo che sono lieta di esser certa finalmente che non mi sono ingannata. - Grazie, Elsa!.. Mi permette di darle del tu? - Volentieri. Non siamo fidanzati sin da questo momento? ... Oh! ... Ora ho paura di sembrarti sfacciata. - No, Elsa, no! ... - Che pensi? - Vorrei inseguire, raggiungere colui che ha riso, avvertirlo, minacciarlo perchè taccia ... - Faresti peggio. Per chi dobbiamo nasconderci? Appena arrivata al cottage , io dirò ai miei parenti ... - Ti prego, Elsa; attendi qualche poco prima di far questo. - Ma io soffrirei se dovessi nascondere a mio padre e alla mamma ... - Attendi un altro po'! Mio padre ... Ebbene, mi ribellerò; non sono più sotto tutela! Miss Elsa, appena essi furono usciti dalla gola dello stradone, si era appoggiata a un palo del telegrafo per lasciar passare due carri che salivano lentamente verso Settefonti; Paolo aveva pronunciato sotto voce la sua frase di ribellione; e la bionda creatura, già diventata triste e pensosa alla preghiera di attendere prima di parlare del loro fidanzamento ai suoi parenti, lo fissò quasi atterrita ... - Ha fatto male - ella disse dolcemente, con grande tristezza. - Non avrebbe dovuto parlare oggi ... Saremo fidanzati più tardi, se potremo esser tali. Per ora non ha nessun impegno, non ha nessun dovere di ribellarsi contro suo padre. Dio mio! Perchè ha parlato? ... Mi lasci andar sola. Non le dico addio, ma a rivederci.. Non vorrei esser cagione di dolore a nessuno! ... Il mio cuore, Paolo, non dubiti, non cambierà in niente per questo ... A rivederci! E vedendola andar via, con passi affrettati, e poi sparire dietro la siepe d'agavi americane che cingevano da una parte la svoltata dello stradone, Paolo credette che la sua felicità si allontanasse e sparisse per sempre. Non era durata neppure mezz'ora!

Se c'è chi può lagnarsi, siamo noi proprietari che ci abbiamo visto mancare le braccia dei contadini, e abbiamo dovuto pagarli come li paga lui. Ma ora anche questo guaio cesserà; non occorrono più grandi lavori laggiù. Io non sono spericolato, come il canonico e tant'altri. Il mondo, infine, è di chi se lo piglia. Siamo curiosi noi! Don Liddu, per esempio, si è ingrassato a spese dell' inglese tre anni. Quasi tutto l' Albergo del Gallo era occupato da lui che vi aveva istallato i suoi uffici di amministrazione, lasciando appena una stanza per i forestieri, quando ne capitava uno. Ed ora che vede sfuggirsi questa mammella succhiata tre anni comodamente, Don Liddu piange e si strappa i capelli. Dice che è rovinato, perchè la clientela gli si è sviata, e già Maccarone gli ha preso il posto, con la Locanda della Luna là di faccia, quasi per fargli maggior dispetto. Che pretendeva? Che l' inglese rimanesse eternamente all'albergo? Egli ha laggiù un'abitazione da principe - posso dirvelo io che l'ho visitata - proprio da principe, da farci vergognare delle nostre catapecchie. Dovrebbe vivere con la famiglia all'albergo? ... Sarà una bella giornata domenica prossima. Mezzo paese invitato; banda, fuochi d'artifizio. Pranzo per una settantina di persone ... Verrà appositamente il cuoco di una gran trattoria da Catania ... Alla faccia nostra! Sia! L' inglese , l'altra volta, ce l'ha spiattellato sul viso in Casino: - Potreste fare una Società, mettere insieme i capitali che tenete morti in casa, e chiederne altri al credito bancario, se non bastassero. La Sicilia diventerebbe un giardino; produrrebbe dieci, venti, cento volte più che oggi non dia. Invece, state qui in Casino, a morir d'ozio! Non ha forse ragione? - Dovrebbe dare l'esempio lei ... - Non ne ragioniamo! È inutile! Quando si vedeva messo alle strette, il Sindaco se la cavava sempre così: - È inutile! Non ne ragioniamo!

- Abbiamo dovuto sparare all'aria, per atterrirli, lottare corpo a corpo ... Era stato un terribile quarto d'ora! Fortunatamente, all'infuori di una larga ferita alla testa e qualche contusione, Paolo Jenco non aveva riportato altro dall'assalto furibondo dei contadini. Quei galantuomini che più avevano soffiato nel fuoco e provocato la sommossa, si erano chiusi nelle loro case, paventando che i contadini imbestialiti non trascorressero; il Sindaco si era fatto vivo all'ultimo, ed era accorso soltanto dopo che aveva udito da una finestra: Hanno ammazzato il figlio del Sindaco! Al cottage si affollavano tutti coloro che volevano diminuire la propria responsabilità, mostrando di giudicare severamente l'atto barbarico dei contadini. Soltanto il dottor Medulla non aveva avuto l'impudenza di venir a offrire l'aiuto della sua arte al ferito; si era scusato con un biglietto, dicendosi indisposto. E mentre Paolo, assistito dalle signore, da miss Elsa in particolar modo, si sforzava di mostrarsi meno sofferente che non era, il signor Kyllea conduceva parecchi visitatori a osservare i guasti del giardino che sembrava percosso da un uragano, e i guasti lassù, dove bisognava ricominciare da capo l'opera di muratura del condotto dell'acqua. Il notaio La Bella si mordeva la lingua, per non compromettersi, stimmatizzando l'opera ipocrita di certa gente che sapeva lui; gente che faceva servire ai suoi bassi interessi fin il sentimento religioso ... E per ciò egli, uomo pacifico, che non avrebbe schiacciato neppure una mosca noiosa, davanti a quelle devastazioni, si sfogava a dire: - Poichè ci si erano messi, dovevano compir l'opera. Li sfruttiamo, li trattiamo peggio di animali, li mettiamo su, per cattivi fini, e poi sbraitiamo che il governo non ci tutela i beni e le vite contro l'avidità dei contadini! Facciamo i socialisti, gli anarchici, i rivoluzionari per comodo nostro, spargiamo di petrolio la catasta ... e poi non vorremmo che qualcuno vi appiccasse fuoco! - E se venivano a bruciarvi la Banca ? - Benvenuti! Avrei spalancato la porta, avrei consegnato tutta quella cartaccia imbrattata, per farne un bel falò ... Tanto, la povera gente non ha quattrini da spendere in contratti ... E poi, non si deve fare repulisti del vecchio? Ah! Poichè ci si erano messi! ... E tornato al cottage , vedendo Paolo con la testa fasciata, gli spiattellava bruscamente: - Puoi ringraziare tuo padre! ... Anche ora, dopo quel che è accaduto, tuo padre accende una candela a Cristo e una a Maometto, come il romito di Lampedusa; dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Dà ragione al signor Kyllea, e non dà torto ai contadini; e si agita per far scarcerare gli arrestati, per non irritare gli animi, per non lasciar fòmite di odii ... Bella scusa! Quasi voglia ringraziarli perchè non ti hanno proprio ammazzato! Paolo però li ringraziava davvero. Da due giorni egli godeva una felicità immensa, vicino a miss Elsa che gli curava la ferita meglio di un medico, con mani carezzevoli, e più con quegli sguardi traboccanti di affetto e di gratitudine. Egli solo era accorso, egli solo aveva messo a cimento la sua vita in quella terribile mattina! Nessuno dei due aveva fatto il minimo accenno a quel che era avvenuto tra loro lungo lo stradone; eppure si erano detti tante e tante cose! - Come finirà? - domandava, tremante ancora la signora Kyllea. - Non potremo più vivere tranquille! Da due notti non chiudo occhio ... Mi sembra di dover sentire nuovamente quelle grida ... La zia brontolava in inglese: - Andiamo via! Torniamo in Inghilterra! - Che cosa dice? - domandò Paolo a miss Elsa. - Vuole andar via! Tornare in Inghilterra ... Ma è possibile? - Oh, no! - esclamò Paolo. E i suoi occhi, e il suono della sua voce dissero qualche cosa di più. Miss Elsa sorrise tristamente. Qualche ora dopo, approfittando dell'occasione di esser rimasti soli in salotto, Paolo le disse: - Vuole andar via anche ... lei? - Mio padre, in un momento di sdegno, ha pensato di vendere i terreni; ma ora non ci pensa più. - Ma ... lei ... lei, dico! Avrebbe voluto darle del tu, e per ciò esitava parlando. - Io non ho volontà, - rispose miss Elsa. - Volete ... vuol esser mia, Elsa? - egli balbettò. - E tuo padre? - Ah! ... Da questa ferita mi è uscito molto sangue, tutto il sangue vigliacco ... Se mio padre si opponesse ... - Io non entrerei mai in una famiglia dove mi saprei appena tollerata ... - Uno solo è il vero ostacolo! - esclamò Paolo. - Capisco ora - rispose miss Elsa - la Chiesa a cui appartengo. Ma ... - Ma ... - ripetè Paolo ansiosamente. - Su questo punto, noi inglesi - continuò miss Elsa. - non abbiamo pregiudizi; ogni individuo si aggrega alla comunità religiosa che più lo persuade e lo attira. Mia madre è metodista; mia zia, evangelica episcopale; mio padre, presbiterano; io sono puseysta, cioè quasi vicina al cattolicismo. Dovrei fare un piccolo passo per entrare nella vostra chiesa; neppur l'amore puro potrebbe indurmi a farlo, se ripugnasse alla mia coscienza. Ma ... ecco la spiegazione di questo ma ... Da un anno a questa parte, la mia coscienza è scossa. Io sento forse l'influsso dell'ambiente. Mi sembra che il contadino siciliano, rozzo e superstizioso, sia più vicino alla verità che non noi con la nostra credenza riflessiva. La magnificenza delle vostre feste, quasi teatrale, non mi ispira la repulsione d'una volta; mi commuove, mi pare che operi più intensamente dentro di me ... La Verità ha tanti diversi aspetti! Noi possiamo osservarla da un solo lato, comprenderla mai ... Almeno io credo così ... - Oh, Elsa mia! - Eppure, vedi, io ho un ritegno, un misero ritegno umano; quello di poter essere creduta una calcolatrice ... Forse lo penseresti anche tu, forse arriveresti a rimproverarmelo un giorno! E allora sarebbe finita; non potrei più amarti perchè non potrei stimarti, perchè non potrei più illudermi di essere stimata da te. - È impossibile, Elsa! E vedendo entrare il signor Kyllea che tornava da un convegno col Sindaco, per accomodare la faccenda dell'acqua, Paolo si alzò in piedi, gli andò incontro, e gli disse: - Debbo essere sincero con lei. Mi parrebbe di commettere la peggiore delle azioni, se le nascondessi quel che dicevo a sua figlia in questo momento. Sia franco e sincero altrettanto; già è suo costume ... Il signor Kyllea gli stese una mano, guardandolo in viso con l'aria di chi incoraggia a parlare: - Domandavo a miss Elsa, se vuole essere mia moglie. Il signor Kyllea, ridendo allegramente, rispose: - Io non mi mescolo negli affari degli altri, specialmente in certi affari. E li lasciò soli.

Abbiamo telegrafato per rinforzi ... Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi. I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto ... - Ah! Se non ci fossero le donne! ... Ho tre Remington! Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare: - Se ne vanno! ... Hanno guastato tutto! ... Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente ... Le campane suonano a stormo! Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco! ... I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire. - Per carità! Voscenza , no! Voscenza , no! Il signor Kyllea stava per svincolarsi, quando comparve miss Elsa, atterrita. - Babbo! ... Che cosa è stato? ... Babbo! Ed ecco la signora Kyllea mezza vestita, bianca come un cencio lavato, che gesticolava senza profferir parola. Il signor Kyllea si contenne: - Niente! Niente! - disse. - Dei malintenzionati. Ma non potè far a meno di trasalire anche lui, sentendo picchiare alla porta, e gridare: - Aprite! Aprite! - Sono i carabinieri! - esclamò don Liddu che aveva riconosciuto la voce. Erano essi infatti, accompagnati dal brigadiere e sostenevano una figura insanguinata, con gli abiti stracciati, che si reggeva a stento. Miss Elsa die un grido; aveva riconosciuto Paolo Jenco!

Le gite al Muraglione formavano un diversivo, davano pretesto a discussioni, a malignità anche; perchè quando noi vediamo fatto da altri quel che, con nostro profitto, avremmo potuto fare e non abbiamo voluto o saputo fare, l'attività altrui ci insinua nell'animo un rancore chiuso; ci sentiamo quasi frodati di quel che ci sarebbe stato facile possedere e che scorgiamo intanto in mano di uno che ci apparisce ora un intruso e fino a ieri compiangevamo o disprezzavamo come illuso o pazzo da legare. Chi di quei galantuomini si sarebbe mai immaginato che Tirantello , Cucchiaio , Pennino e Santa Barbara , avessero potuto divenire un gran podere modello, trasformati dall'attività di un sol uomo; e coprirsi di vigneti, di giardini di agrumi, con polle di acqua fatte scaturire quasi miracolosamente dalle viscere della terra; con un vasto casamento, con stalle, comode abitazioni pei contadini; con una vita rigogliosa, fiorentissima, regolata come un orologio dall'intelligenza direttrice che aveva saputo operare tale trasformazione, da rendere impossibile a qualunque immaginazione il ricostruirsi la visione di quell'aggregato di grillaie dove poco addietro le capre, i buoi trovavano a stento un po' di erba da brucare? E c'era voluto meno di tre anni, perchè i viaggiatori che passavano con la vettura postale per lo stradone, mentre davanti la rimessa avveniva il ricambio dei cavalli, si accostassero al cancello meravigliati di scorgere una scena così ridente colà, dove prima non si vedeva altro che miseria e desolazione!

Ormai suo padre diceva spesso: - Noi siamo già siciliani; questi terreni che la mia cultura ha reso fecondi, ci hanno fatto diventare altrettanti alberi umani, e vi abbiamo posto fonde radici, come le viti e come le piante di aranci e di limoni. E, scherzando, soleva aggiungere rivolto alla figlia: - Tu sei l'olivo specioso, tua madre la vite ... e mia sorella ... l'opunzia indica spinosa! Ella infatti, cresceva bella e sana sotto quel cielo così limpido, tra quella vegetazione così rigogliosa. Metteva visibile impegno nel rendere vere le parole del padre, apprendendo a parlare il dialetto e sforzandosi di pronunciarlo col minor accento straniero possibile. La sua intimità con Paolo infatti si era aumentata, facendo con lui pratici esercizi dialettali, cosa che anche la divertiva quando ella non arrivava a sormontare la difficoltà di certi suoni di consonanti che la sua gola non si prestava a rendere facilmente. E come sorrideva, orgogliosa, allorchè il maestro improvvisato poteva dirle: - Brava! ... Lei vuol dunque diventare siciliana a dirittura? - Non mi aduli! Così era passato un anno; così la solitudine del cottage le si era popolata di dolci fantasmi, senza che ella sentisse il bisogno di accertarsi se essi non erano un'illusione cagionata dalla sua giovine fantasia, o riflessi di una realtà intraveduta da occhio vigile e accorto, e che equivalevano a una certezza. Non lo avea nascosto a Paolo. Perchè avrebbe dovuto nasconderglielo? Nè se ne pentiva ora che all'improvviso le si era rivelata la verità intorno alla sua triste situazione. Lei e i suoi si trovavano colà più stranieri di quando vi erano arrivati; suo padre, il benefattore, veniva già stimato un invasore, un intruso, uno sfruttatore della miseria di coloro a cui egli aveva pagato, più che realmente non valessero, i terreni acquistati; di coloro a cui aveva dato, per parecchi anni, modo di guadagnar da vivere onestamente, dignitosamente, con mercedi che erano servite di esempio, di paragone e che gli altri proprietari avean dovuto adottare; di coloro a cui aveva mostrato, con la pratica, in che maniera potevano rendere più fecondo il meraviglioso suolo da loro posseduto e lasciato quasi in abbandono. Ed erano appunto questi - i proprietari, i galantuomini - che aizzavano gli odii, che spargevano attorno la diffidenza; invidiosi, maligni e anche ciechi, perchè non s'accorgevano di fare il loro male agendo in quel modo. Ne aveva parlato, il giorno dopo, con suo padre, strappandogli quasi per forza una confessione di quel triste stato di cose. Il signor Kyllea non era indignato, nè scoraggiato: aveva voluto nascondere, alle sue donne la verità per non affliggerle e per non atterrirle; giacchè la signora Kyllea e la cognata avevano la mente piena di pregiudizi intorno ai siciliani, ed erano quasi stupite di non aver visto finora invadere Villa Elsa da briganti con tromboni e cappelli a cono ornati di penne di gallo, come li immaginavano vestiti, ricordando certi disegni di giornali, di Magazzini , di riviste. - Accade così per tutto, quando qualcuno sposta interessi, crea nuove risorse. Lotta lunga, ostinata, violenta; ma si finisce sempre con vincere! - aveva soggiunto il signor Kyllea. - Come non vincere, se si hanno alleati di questa forza? A miss Elsa parve che suo padre dicesse queste cose con sottile accento di affettuosa malizia, e arrossì. - Oh! - rispose - Certi alleati talvolta possono nuocere più che giovare! Ma suo padre non le badò; scrollò il capo sorridendo, poi, tornato serio, disse: - Gli alleati, per lo meno, debbono essere prudenti, e non far sapere ad altri ... E questo divieto aggiunse un senso di sgomento alla profonda impressione prodotta dalle rivelazioni di lui. Ella stava per dirgli: - Senti, babbo! ... La confessione di quel che era avvenuto tra lei e Paolo quella mattina, le tremava da un pezzo su le labbra, impaziente, quasi sospinta dal rimorso di essere stata taciuta parecchi giorni. Ma, appunto in quel momento, dopo le tristi cose accennate dal padre, le parve che la dichiarazione di Paolo, e il loro fidanzamento di un istante fossero stati un sogno, nient'altro che un sogno. E si trattenne, stringendo le labbra, quasi ringhiottendo le parole che le fremevano nella gola. Disse soltanto, e con energia: - Vinceremo, babbo!

Tra pochi anni, tra pochi secoli ... tra qualche millennio, la donna e l'uomo non avranno rapporti tra loro molto diversi da quelli che noi ora abbiamo con le nostre mandrie, coi nostri armenti. Lo donna sarà la Magna Parens , la covatrice artificiale, e l'uomo ... Ma, forse, allora l'uomo attuale non esisterà più, trasformato in essere assai più spirituale e più perfetto. - Ma, dottore! ... dottore! - Non parlo così io, per mio conto, cara baronessa - rispose tranquillamente il dottor Maggioli. - Ho ripetuto le precise parole di Manlio Brezzi, d'un mirabile scenziato che, nel momento in cui mi diceva ciò, era, probabilmente, anche la Scienza !

. - Quando abbiamo l'aria di non guardare, noi donne - ella rispose - vediamo meglio. E perchè ha lasciato quella stanza? Eravamo soli, in un angolo, in quel momento; ed io mi sentii tutt'a un tratto il coraggio di dirle: - Ah, signorina! ... Per lei! - Per me? - Sia sincera; non gliene voglio! Si è divertita a burlarsi di me con quei picchi alla parete, con le stranissime cose che si è piaciuto di darmi a intendere? - Io? ... E mi guardava con certi occhi spaventati, quasi temesse di aver da fare con un pazzo. -. Non è stata lei? ... Ma dunque ... Rideva, rideva ... e protestava: - Si figuri! Io dormo all'estremità opposta. Qualcuno in quella casa si è divertito con lei. - No; i picchi e la voce venivano dall'altra parte ... Rideva, rideva ... e protestava: - È impossibile! - Chi dunque mi diceva ... ? Chi dunque mi rispondeva? Riferii i dialoghi parola per parola. - Che vuole che ne sappia? - ella disse. E, presa da femminile curiosità, dopo un attimo di esitanza, soggiugeva: - E chi era quest'altra di cui le diceva che era innamorato? - Lei, signorina! ... E diceva la verità! - Io? Io sono fidanzata - ella rispose, cessando di ridere. Lelio Neri fece una breve pausa; poi si rivolse al vecchio filosofo che era stato ad ascoltarlo attentamente: - Che cosa debbo credere? A un'inesplicabile allucinazione? Alla leggenda? Noti che allora io la ignoravo. - Che vuoi che ti risponda? - concluse il filosofo, scrollando la grossa testa canuta. - Amleto ha detto: Vi sono, Orazio, tante e tante cose nel cielo e nella terra che la vostra filosofia ignora! - E non si può ancora dire niente di più savio intorno a questo argomento! FINE. 53

Le novelle, i romanzi, che ci rappresentano fatti di ogni giorno, che ci ricantano le solite storie, alle quali spesse volte abbiamo assistito da testimonii e un po' forse da interessati; che, per lo meno, somigliano tanto a queste, da darci l'illusione che il merito del novelliere e del romanziere consista unicamente nella bella maniera con cui ha saputo raccontarceli; le solite novelle, i soliti romanzi mi fanno l'effetto di un pettegolezzo trasportato dai salotti nelle pagine di un libro. Invece, le storie meravigliose che hanno la potenza di farci penetrare lentamente, inavvertitamente, nelle regioni dell'impossibile, dell'assurdo, e farci sognare a occhi aperti e darci l'illusione che l'impossibile, l'assurdo siano, o siano stati, per eccezione, per misteriose circostanze, una realtà, non mi deliziano soltanto perchè mi trascinano con dolce violenza in un modo diverso dal nostro, ma anche perchè m'ispirano una grande ammirazione per l'ingegno dell'autore. Dopo, appena la sorpresa è passata, io rifletto che le cose lette sono una ... una ... - Una sciocchezza, una stupidaggine - l'aiutò a dire il dottor Maggioli. - No, una mistificazione - riprese la baronessa - un capriccio di fantasia artistica (quel che mi sembra sciocco o stupido non riesco a leggerlo); che importa, però? Per una o due ore, per mezza giornata, io ho avuto il beneficio di dimenticare le noie, le miserie, le brutture che mi circondano e mi irritano e mi affliggono, e sono gratissima all'autore da cui è stato prodotto quel miracolo. Mesi fa, ho letto un romanzo inglese dove si narra la storia di un uomo riuscito a rendersi invisibile ... - The invisible Man - la interruppe il dottore. - L'ho letto anch'io che non soglio leggere romanzi, ed è stata una gran delusione. Mi aspettavo di trovarvi ben altro. L'uomo invisibile non è un'assurdità, è una realtà, ed io credevo che quell'autore avesse voluto raccontarci la storia vera ... - Ecco, ora vuol mistificarci lei! - esclamò l'avvocato Veraldi. - Scommetto che ha già pronta qualcuna delle sue storielle ... - Dica pure storielle, non me ne offendo - rispose il dottor Maggioli. - Convengo che possano sembrare tali perchè non sono ordinarie. Ma sappia che ogni volta che io racconto in questo salotto qualcuna di quelle che lei chiama storielle, io racconto fatti da me veduti, dei quali posso affermare, fin con giuramento, la veridicità. Mai, come nel caso dell' Invisibile Man , è apparso evidente che la fantasia più sbrigliata sia incapace di raggiungere la prodigiosa potenza della Natura. Vi sono attorno a noi, dentro di noi tali forze di cui pochi sospettano l'esistenza, e che si lasciano indietro, a grandissima distanza, tutto quel che possono inventare di più strano, di più incredibile un novelliere, un romanziere, un poeta in vena di scapricciarsi con le finzioni più pazze. Chi sa che cosa s'immaginava di aver prodotto lo scrittore dell' Uomo invisibile ! Una cosa sbalorditoia, originalissima ... Ebbene, io posso assicurarvi, baronessa, ch'egli è rimasto assai assai al disotto della realtà. L'uomo invisibile io ... come dire? ... l'ho visto. Sembra una contraddizione, e non è. - Infatti, giacchè era invisibile ... - disse la baronessa. - Ma dunque? - Giudichi lei se ho ragione di parlare così. E perchè questi signori capiscano di che cosa si tratta, accennerò che il romanziere inglese ha inventato le avventure di un giovane scienziato il quale, per mezzo di reagenti chimici, è riuscito a rendere invisibile il suo corpo, e a dare il pauroso spettacolo di un cappello, di una giacchetta, d'un paio di pantaloni, di un paio di scarpe che camminino da sè, come cosa viva, senza che si scorga il corpo umano da cui sono portati. L'uomo invisibile del quale voglio parlarvi era diverso, meno incoerente senza dubbio, dell'eroe del romanziere inglese. Poteva rendersi invisibile quando gli faceva comodo, e interamente, corpo e vestiti. Poteva ... - Non ci metta paura facendoci credere che ciò sia possibile! - esclamò la signorina Bonucci. - Mi vengono i brividi soltanto a pensare che un uomo sia in caso di introdursi non visto in camera mia quando io più credo di essere sola ... - Si rassicuri.- continuò il dottor Maggioli, sorridendo. - Non è facile arrivare al punto di produrre in sè questo prodigio. Occorre un organismo speciale e tale persistenza nello sforzo per raggiungere lo scopo, da scoraggiare i più risoluti. E poi - sarebbe lungo spiegarlo - certi singolari stati fisici, come questo di cui parliamo, richiedono, a quel che pare, singolari e corrispondenti condizioni morali da impedire che se ne abusi, servendosene per soddisfare volgari e delittuosi capricci. - Ah! Se fosse vero - lo interruppe l'avvocato. - io vorrei almeno divertirmi! - Zitto! - disse la baronessa.. - Sarebbe un po' difficile che lei, con tutto quell'adipe, divenga invisibile! - Non era magro - riprese il dottor Maggioli, ridendo anche lui. - l'uomo che una mattina venne da me per consultarmi. Si lagnava di un male strano: aveva la sensazione di essere così leggero, che camminando gli sembrava di venir trasportato via dal movimento dell'aria più che dai piedi, quantunque il corpo obbedisse alla sua volontà. - Sono un po' estenuato - disse, esitando. Lo invitai a spiegarmi quali potevano essere state le cagioni del male. - So - rispose - che lei è una persona spregiudicata, e perciò ho preferito di consultarla invece del mio medico ordinario. Ho voluto fare un esperimento, sono riuscito, ma ne risento le cattive conseguenze. Non ritenterò più; intanto cerco di riparare i danni prodotti nel mio organismo dall'imprudenza commessa. Per quanto io fossi già ridotto a non meravigliarmi di niente, mentre egli mi esponeva il suo caso, stavo incerto se avessi da fare in quel momento con un individuo malato di corpo o di spirito. L'uomo più spregiudicato del mondo non può udire senza incredulità la recisa affermazione di un fatto che contraddice a tutte le leggi della natura da noi credute inviolabili. E colui mi rivelava tranquillamente di essere arrivato a rendere invisibile il suo corpo e i suoi vestiti, e di essersi potuto spingere, così, a grandi distanze dal luogo in cui si trovava. Egli attribuiva a queste esperienze l'estenuazione che gli produceva l'effetto di sentirsi trasportato via, più che di camminare coi propri piedi. - Come ha fatto? - gli domandai, quasi egli m'avesse detto cosa da non recarmi nessuna meraviglia. - Non vorrei abusare della sua cortesia - rispose - intrattenendolo per parecchie ore con la spiegazione di teoriche un po' astruse. E poi, il preciso come non saprei spiegarglielo neppure io stesso. Tenterò. Era un adepto teosofo, un discepolo di quella scuola religiosa filosofica e scientifica che esiste nell'India e che la signora Blavatsky e i suoi collaboratori cominciano a diffondere in Europa. Ascoltai, senza batter ciglio, senza mostrare stupore o incredulità; anzi arrivai fino a mostrarmi persuaso della possibilità del fatto. Soggiunsi però: - Una cosa è la possibilità di un fatto, altra la realizzazione di esso. Io, per esempio, non dirò mai che i palloni, teoricamente, non siano dirigibili; ma, per ora, la scienza non è riuscita a ridurre in pratica la teorica, quantunque molti si siano illusi di aver sciolto l'arduo problema. - Crede dunque che io sia un illuso? Che il fatto della mia invisibilità sia soltanto un'allucinazione prodotta dallo sforzo nervoso, e dalla perturbazione che n'è seguita nell'organismo? - Potrebbe darsi - risposi. - In questo caso, le darò una prova. Ritornerò da lei fra qualche giorno. - Perchè non darmela ora stesso? - Perchè occorre una preparazione. La prova sarà tale, che lei non potrà più dubitare. Intanto pensi al rimedio ora che sa di che cosa si tratta. - Una buona serie di doccie fredde! - dissi da me. E credevo di non più rivederlo, sapendo per esperienza che i malati del genere a cui stimavo che colui appartenesse non sogliono ritornare dai medici, se sospettano di non essere stati presi sul serio. Ecco ora quel che mi accadde due giorni dopo, e quando non pensavo affatto al mio strano visitatore. Ero rientrato in casa portando cinque o sei bellissime rose thea. Allora amavo di avere qualche fiore sul mio tavolino di studio, in un vasetto giapponese regalatomi da un amico, oggettino bello e raro che mi era carissimo. Le avevo poste io stesso in quel vasetto, mutando l'acqua dei fiori mezzo appassiti che vi si trovavano da due giorni. Riferisco questi particolari per far meglio comprendere il mio stupore quando, terminato di leggere alcune lettere arrivate nella mia assenza, non vidi più le rose dove con molta cura le avevo disposte poco prima. Accusandomi di sbadataggine, le cercai con gli occhi per la stanza, su altri mobili; le rose erano sparite! Passato il rapido sbalordimento, io non potei più dubitare di averle poste nel vasetto e cercavo di spiegarmi quel fatto, sospettandolo una burla di un mio nipotino entrato zitto zitto nello studio mentre ero distratto dalla lettura. Guardai l'uscio, e vistolo chiuso e non socchiuso, rivolsi di nuovo gli occhi al tavolino ... Era sparito anche il vasetto! Un brivido di freddo mi corse per le ossa. Davanti a certi fenomeni non c'è tempra d'uomo che resista. E il pensiero volò subito all'incognito che mi aveva promesso una prova della sua invisibilità. Egli doveva essere nello studio, in qualche angolo, e chi sa come rideva della mia paura e del mio imbarazzo! Giacchè, lo confesso, io avevo paura non sapevo come comportarmi. A un tratto, ecco un foglio di carta da lettere che esce dalla papeterie , si stende sul tavolino proprio nel posto dove io solevo scrivere, ed ecco una penna impugnata da mano invisibile che si muove e traccia dei caratteri celeremente. Mi slancio per afferrare il braccio e fermare la mano, ma la penna cade sul tavolino, e io non sorprendo niente di solido come avevo immaginato. Leggo quel che la penna ha scritto: - Crede ora? Verrò domani - e mi sento preso da vertigine, vedendo riapparire il vasetto con le rose, ma in un altro punto del tavolino. Eppure - tanta è la nostra avversione a prestar fede a quel che crediamo impossibile! - io sarei rimasto nel dubbio di essere stato vittima di un'allucinazione cagionata da quella che il Braid ha chiamato attenzione aspettante , se il giorno appresso il mio cliente non si fosse presentato, sorridendo dalla soddisfazione e ripetendomi le parole scritte: - Crede ora? - Credo a quel che ho visto - risposi. - Ma questo non prova che voi possiate rendervi invisibile. Prova soltanto che avete un potere misterioso con cui agite a distanza, mettendo in opra forze da me ignote e delle quali si parla in parecchi libri che si occupano di simili fenomeni. - Ha ragione - egli disse. E rimase pensieroso. - Senta - riprese dopo lunga pausa. - Io ero risoluto a non abbandonarmi più a queste pericolose prove di cui già risento i tristi effetti. Ma esse hanno le affascinanti attrattive dell'hascich e della morfina e sono malefiche altrettanto. Gustate una volta, non è possibile rinunziarvi, neppure avendo la certezza di trovarvi, presto o tardi, la pazzia, o la morte. Ha ragione: le prove datele non sono convincenti. Per ringraziarla, a modo mio, della cortesia con cui mi ha accolto e dell'interesse dimostratomi, le darò ora la prova assoluta. Apriamo le finestre. E accorse egli stesso ad aprirne una; io apersi l'altra. - Si segga là - riprese indicandomi una seggiola - e non dica una parola, non faccia il minimo movimento. Stia soltanto a guardare. Incrociò le braccia, si piantò ritto su la persona nel centro della stanza, con gli occhi chiusi e la testa rovesciata un po' indietro, immobile per alcuni minuti. Io trattenevo il fiato, ansiosissimo. Vidi uscirgli disotto le braccia un lieve vapore bianco, che discese lentamente lungo le gambe e le avvolse quasi serpeggiando fino alla punta dei piedi; lo vidi risalire con ondate più dense, aggirarsi attorno al petto, elevarsi fin sopra i capelli e nascondere ai miei sguardi tutta la persona di lui. Poi questa colonna di fumo, che spandeva attorno un odore acre, sgradevole, cominciò a piegarsi da una parte quasi mossa dall'aria che penetrava da una delle finestre e a disperdersi uscendo, come spinta dal vento, con larghi avvolgimenti, dall'altra ... Ed io sbarravo gli occhi, stupito di vedere che il fumo biancastro andasse via attenuandosi. Sembrava che il pavimento fumigasse; poi le ultime ondate si staccarono dal suolo tremolanti, si alzarono fino all'altezza delle finestre e svanirono.. Il mio cliente era sparito! Rimase ancora là? Uscì, invisibile, dall'uscio o col fumo? Non saprei dirlo ... Era sparito; e non l'ho più riveduto!

- Abbiamo fatto tardi! - egli borbottò, scansando la carezza per guardare l'orologio cavato di tasca. - Ah! ... Tu ti sei accorto delle ore trascorse; io, no. - Ezio la guardò, colpito dal rimpianto che le era tremato nella voce pronunziando quelle parole. Non mentiva dunque? ... O mentiva così bene? E la scrutava, mentr'ella s'infilava i guanti, a occhi bassi, e poi li abbottonava, stranamente assorta, senza fretta. Ma come la vide accostare all'uscio, porre la mano al paletto, e solo allora tendergli l'altra mano e le labbra, pronunciando un sommesso: A rivederci! Ezio improvvisamente scoppiò: - Così tu ami? Così? Così? - Oh, Dio! ... - ella balbettò coprendosi il viso con le mani. - Ti sei dunque fatto giuoco di me! E perchè mai? Perchè? Che indegna commedia sei qui venuta a rappresentare? Ella affondava il viso tra le mani, per non udire, immobile, fulminata ... E, come dicesi che avvenga alle persone prossime a morire di morte violenta, vedeva passarsi davanti agli occhi, in un lampo, tutto quel che aveva sofferto per lui: e le segrete angosce, e le lotte, e i tormenti dei rimorsi, prima di decidersi al tremendo sacrifizio della sua vita immacolata, della sua reputazione forse e della sua pace; e le raggianti fantasie di amore e di felicità con le quali si era confortata all'immolazione di tutta sè stessa ai piedi di lui! Oh! Ella l'amava tanto, che non avea saputo trovare parole per esprimerglielo, istupidita dalla gioia di darsi incondizionatamente, anima e corpo; resa quasi inerte e ghiaccia dall'estremo accesso della sua stessa passione ... Ed egli non lo aveva capito! E poteva rinfacciarle: - Così tu ami? Così? - E buttarle in viso la infame accusa: - Che indegna commedia sei qui venuta a rappresentare? ... Ella non udiva più quel che Ezio continuava a dire contro di lei con voce soffocata, scotendole violentemente un braccio. All'enormità dell'affronto, il suo orgoglio si era ribellato, le aveva fatto levar su alteramente la testa, avea acceso un gran lampo di fierezza, in quelle pupille poco prima annegate in ineffabile languore ... E aperto rapidamente l'uscio, ella lo richiuse con gesto sdegnoso. * * * Ezio Cami, fu per lunghi mesi, sotto l'ossessione di quella scena di delusione che aveva offeso il suo amor proprio e il suo amore, e che lo faceva terribilmente soffrire notte e giorno, quantunque egli tentasse ogni mezzo di distrarsi, anche perchè colei non potesse rallegrarsi degli effetti dell'opera sua, e non lo riputasse sua vittima. Era andato, prima, a isolarsi in villa occupandosi insolitamente di cose di campagna: poi, presto annoiato, era partito per un viaggio in Germania. Qualche lettera di un amico gli inciprigniva con inconsapevole crudeltà la piaga ancora sanguinante, dandogli larghe notizie dei pettegolezzi cittadini ... Si parlava molto della misteriosa malattia della bellissima signora Arici; il marito n'era inconsolabile ... E si parlava moltissimo anche della sparizione di lui, che i maligni attribuivano a una passione infelice per ... E citava il nome della canzonettista straniera alla quale Ezio aveva fatto apparentemente un po' di corte. Benissimo! Questo sviava la mùta dei curiosi dalla sua vera traccia ... Era stato gentiluomo; si era saputo contenere, anche nei primi momenti; e n'era lieto, specialmente ora che cominciava a sentirsi penetrare dal dubbio ch'egli si fosse stupidamente ingannato giudicando male la signora Arici. Le notizie di quella misteriosa malattia lo agitavano, lo spingevano a ripensare tutti i particolari della scena di quel giorno; e di mano in mano che gli sembrava di vedersi schiarire davanti agli occhi l'intimo significato degli atti e delle parole di lei, un sordo rimorso lo assaliva, una profonda angoscia lo tormentava. Era stato cieco? Era stato pazzo? Come aveva potuto non conoscere la sincerità, la grandezza di quel cuore di donna? Come s'era lasciato sfuggire il possesso di quell'inestimabile tesoro? Frivolo, scettico, non aveva mai amato, non era mai stato amato. E l'unica volta che gli era accaduto di sentirsi elevare dalla misera volgarità della sua vita, l'unica volta che una nobilissima creatura gli era venuta incontro portandogli in regalo il fragrante fiore della sua passione, la sua infinita tenerezza, l'intiera essenza della sua anima, egli l'aveva ricacciata indietro, calpestando quel fiore, spargendo villanamente per terra quella purissima essenza! ... Ah, il fatale sogno! E che grande enimma la vita umana! Un'intima voce ci avverte: - Ecco, la felicità sta per passare per la tua via! - E noi stiamo ad attenderla, guardando qua e là, vicino, lontano, a destra a sinistra; illudendoci di doverla sùbito riconoscere a certi segni, secondo certi nostri preconcetti, senza riflettere un momento che essi possano essere fallaci ... E la felicità, infatti, passa via, si allontana, sparisce; e soltanto allora noi ci accorgiamo di esserci stoltamente ingannati! ... È inutile attenderla ancora, ella non ripassa mai dallo stesso punto! Filosofava così per distogliersi dall'idea di scappare da quell'albergo straniero, accorrere da lei, gettarsele ai piedi e chiederle perdono! ... Inoltre, chi poteva proprio assicurarlo che egli giudicasse dirittamente ora e non allora? Come discernere, con certezza, se la misteriosa malattia che lo faceva così sentimentalmente fantasticare provenisse da profondo dolore per grave delusione, o da dispetto di orgoglio e di vanità femminile? O da altra cagione, accidentale, che non aveva niente che vedere con l'una o con l'altra? E così quando lesse, pochi giorni dopo, in un giornale italiano la notizia del suicidio della signora Arici attribuito a momentanea esaltazione morbosa, egli rimase perplesso, con un groppo di singhiozzi che gli stringeva la gola, e con una viva repugnanza di assumere parte della responsabilità di quell'atto disperato. Chiamò il cameriere, ordinò che gli portasse il conto dell'albergo, e cominciò a preparare le valigie. Avrebbe ripreso la sua corsa pel mondo, finchè i danari gli fossero bastati, finchè non si fosse annoiato di errare, ignoto tra gente ignota ... E poi? ... E poi avrebbe continuato a vivere come prima, sarebbe invecchiato, inutile agli altri e a sè stesso.. e sarebbe morto, portando con sè nell'altro mondo, come testimonianza della sua dimora in questo, assieme con un bel sogno, la soddisfazione di aver amato davvero, una sola volta ... e la lusinga o il sospetto di essere stato amato davvero, una sola volta!

Il Marchese di Roccaverdina

662606
Capuana, Luigi 14 occorrenze

«Abbiamo la mano di Dio addosso!», conchiudevano malinconicamente. Egli non osava di rispondere, come le altre volte: «La vera mano di Dio che vi pesa addosso è la vostra pigrizia!». Guardava un po' scoraggiato anche lui quelle campagne dove non si scorgeva un fil d'erba, quel cielo che, da mesi e mesi, non mostrava agli occhi ansiosi l'ombra di una nuvoletta all'orizzonte. Soltanto l'Etna fumava, quasi volesse ingannare la gente facendo scambiare per nuvole le dense ondate di fumo del suo cratere, che il vento disperdeva lontano. Verso sera, la spianata del Castello si popolava di contadini, di gente di ogni condizione che venivano a interrogare il cielo per trarne qualche buon augurio. Le serate erano dolci, quantunque già si fosse alla fine di novembre. Non spirava un alito. Il canonico Cipolla, che aveva letto i giornali in Casino, prognosticava vicina la pioggia. «A Firenze piove da un mese, giorno e notte! In Lombardia, fiumi rigonfi straripano, allagano le campagne. Il cattivo tempo è in viaggio; arriverà anche qui!» E i contadini che stavano a udirlo a bocca aperta, volgevano gli occhi verso il levante per scorgere qualche indizio che annunziasse il prossimo arrivo del cattivo tempo in viaggio , e sarebbe stato tempo benedetto! L'anno avanti non si era raccolto neppur tanto da compensare della semenza gettata nei solchi. Le ulive si erano rinsecchite su le piante. Per ciò tutti si sforzavano di raddoppiare la sementa, risparmiando il grano da molire, stringendosi le cigne dei calzoni attorno allo stomaco, sperando di rifarsi col nuovo raccolto. E il marchese parlava poco e senz'alzare la voce, ora passeggiando su e giù per la spianata, dal bastione allo zoccolo della croce, ora seduto su uno scalino di esso, sentendosi lentamente compenetrare dalla costernazione che si leggeva su tutti i volti e dalle parole di tristezza che uscivano dalla bocca di quei poveretti. Essi se ne andavano a uno a uno, a due, voltandosi indietro per dare un'ultima occhiata a quel cielo limpidissimo, a quelle campagne riarse, a quei monti lontani che non si erano coperti di neve e dietro i quali non si affacciava da mesi uno straccio di nuvoletta. Anche quei del Casino che venivano lassù non a godere il fresco ma a spiare, come la povera gente, il cielo di bronzo, l'orizzonte senza vapori e l'Etna che fumava, anche quei del Casino non discutevano più del sindaco, degli assessori, di tutte le loro misere gare municipali per cui ordinariamente si accapigliavano trovandosi insieme. «Sarà una mal'annata peggiore della precedente!» «I piccoli furti non si contano più!» «Che volete? La fame è cattiva consigliera!» «Dobbiamo pensare ai fatti nostri, marchese!» «Ognuno ha i suoi guai!», egli rispondeva. E siccome, una sera, assieme con altre persone, era venuto lassù anche il cavalier Pergola, suo cugino, col quale stava in rottura, il marchese fu costretto a rivolgere la parola pure a lui che si era avvicinato salutandolo il primo. Il cavaliere, ad arte o no, lo aveva toccato nel debole, domandandogli se era vero che quell'anno avrebbe adoperato la trebbiatrice a Margitello. «Forse, per prova, togliendola in prestito dal Comizio agrario provinciale.» «Voi potete farlo; ma i piccoli proprietari?» «Si tratterebbe di trasportare i covoni. La spesa verrebbe largamente compensata dalla celerità e dalla perfezione del lavoro. Margitello è un punto centrale ... Noi abbiamo quel che ci meritiamo», aveva soggiunto il marchese. «Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, né correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino ... Vogliamo la pappa bell'e preparata!» «Parole d'oro!» «I nostri vini se li prende la Francia, con quattro soldi, e ce li rimanda trasformati in Bordeaux. I nostri olii sono buoni appena per saponi o per macchine, e abbiamo intanto le migliori ulive del mondo. Io ho prodotto vini, così, per saggio, da mettersi in tasca tutti i Bordeaux, tutti gli Xeres, tutti i Reni dell'universo; olii da dar dei punti a quei di Lucca e di Nizza ... Ma bisognerebbe produrre in grande, esportare ... E non parlo dei formaggi, del burro ... !» Erano rimasti soli lassù, senz'accorgersi che la sera si era inoltrata; il plenilunio ingannava. All'ultimo, il cavalier Pergola gli aveva detto: «Pur troppo è così! Siamo ancora mezzi barbari! ... Ecco: per parlare di noi, giacché l'occasione è capitata, noi ci guardiamo da un bel pezzo in cagnesco. Perché? Per un pregiudizio. Non ho sposato in chiesa! È il mio gran delitto. Vostro zio non vuol vedere in viso, nemmeno da lontano, sua figlia! Voi avete fatto lo stesso con me». «Il torto è vostro, cugino! Siete scomunicato, non lo sapete? E fate vivere in peccato mortale anche quella poveretta!» «Perché un prete sudicio non ci ha buttato addosso due gocce di acqua salata?» «Benedetta, cugino! Dio vuole così!» «Quale Dio? Chi lo ha visto cotesto Dio?» «Io vi rispondo come don Silvio La Ciura, quando don Aquilante voleva provargli che le persone della Santissima Trinità sono quattro: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e il Dio che vien formato dalla riunione di tutti e tre.» «E che rispose quel bestione?» «Tre! Tre! Tre! E s'inginocchiò e baciò per terra ... Lasciamo andare questo discorso.» «Ebbene, scomunicato qual sono, io sto bene quanto gli altri. Che mi fa la pretesa scomunica? Niente. Se fosse vera, dovrei vedermi cascare i panni d'addosso; le mie campagne non dovrebbero fruttare; i miei affari andare a rotoli. Invece! Guardate là. Che cosa concludono quei gonzi che si affollano dietro a don Silvio, recitando il rosario del Sagramento, con la croce e i lanternoni, in processione per le vie? Sciupano scarpe e fiato. Da mesi, ogni sera, essi vanno attorno, mettendo malinconia alla gente, invocando la pioggia. Se esistesse davvero un Dio che fa la pioggia e il bel tempo, avrebbe dovuto muoversi a compassione. Non piove e non pioverà fino a che le leggi della Natura ... » «La Natura? Che cos'è?» «Il mondo, il cielo, l'universo, la materia; non c'è altro! E piove quando deve piovere, quando può piovere. E se noi crepiamo di fame, la Natura non si turba per ciò. Siamo insetti impercettibili di fronte al Creato.» «Ma cotesta Natura chi l'ha fatta?» «Nessuno. Si è fatta da sé, e da per sé ... » «Chi ve l'ha insegnate tutte queste fandonie?» «Chi? I libri che voialtri non leggete. Fandonie? Verità sacrosante; e i preti che hanno paura di perdere la cuccagna, se esse si diffondono nel popolo ... » «Voi l'avete sempre coi preti!» «Sono nemici d'ogni bene dell'umanità.» Tacquero, per guardare la folla fermatasi e inginocchiatasi laggiù davanti a la chiesa di Sant'Isidoro recitando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio che portava la croce nera, tra una dozzina di lanternoni. Si udivano distinte le parole cantate: «E cento mìlia volte sia lodato e ringraziato ... !». In quel momento la campana del convento di Sant'Antonio dava il segno dell'un'ora di notte. Il marchese si avviò. Al lume di luna, si vedeva la folla dei preganti che sfilava inoltrandosi per la via di rimpetto, dietro la croce nera e le fiammelle gialle dei lanternoni che pareva traballassero.

«Andate a riposarvi; noi abbiamo dormito a bastanza», le disse Titta rientrando nella camera verso l'alba. «Ah, comare Pina! Chi lo avrebbe mai sospettato!», esclamò mastro Vito, ancora un po' imbarazzato dal sonno. «No! Lasciatemi stare qui! ... », ella rispondeva senza neppure voltarsi. «E a voi, chi è venuto a dirvelo fino a Modica?», domandò Titta. «Un signore di Spaccaforno ... Gliel'aveva scritto un amico di qui. Die' la notizia a mio marito ... E sono accorsa, con la morte nel cuore ... Due giorni di viaggio, con un garzone. Mi pareva di non arrivar mai!» «Andate a riposarvi ... C'è un letto nell'altra stanza ... » «Lasciatemi stare qui, mastro Vito.» «Comare», egli disse, esitante, «ora è inutile fingere ... Voi già lo sapevate ... di Rocco! ... » «Ve lo giuro, mastro Vito! Niente! ... Neppure un sospetto! ... Avevo anzi voluto andarmene da Ràbbato, per levarmegli di mezzo. Il marchese non voleva più vedermi, mi trattava male ... Che colpa ne avevo io? Era stato lui ... Io avrei voluto morire qui, da serva, per gratitudine ... E sua zia pretendeva che avessi fatto ammazzare io Rocco Criscione ... per tornare col marchese e farmi sposare! ... Il Signore non gliene chieda conto là dove si trova! La colpa è dei suoi parenti, della baronessa soprattutto ... Ora non sarebbe in questo stato! ... Che strazio, mastro Vito!» «Potete vantarvelo! ... Vi ha voluto bene!» «È vero! È vero!», ella rispose, scotendo tristamente la testa, asciugando la bava dell'infelice che aveva ammazzato per gelosia di lei e che ora non la riconosceva più e smaniava: «Ah! Ah! Oh! Oh!», tenuto stretto e immobile dalla camicia di forza. Vergine Santa, che pietà! Il cavalier don Tindaro, la mattina, apprendendo dal genero l'arrivo della Solmo, gli aveva detto: «Hai fatto male a farla entrare». «Per dispetto della marchesa! ... E poi, dove trovare in questo momento una persona più fidata? Lo ha vegliato, sola, tutta la nottata.» «La marchesa può mandare a scacciarla. È lei la padrona.» «Ha perduto ogni suo diritto, abbandonando casa e marito. Io ammiro immensamente questa povera donna che ha fatto due giorni di strada, a cavallo, quasi senza fermarsi, soltanto per vederlo. Ieri sera, quando si è presentata e si è buttata ginocchioni, supplicante, io ... che non sono di cuore tenero ... io e il dottore ... eravamo commossi come due ragazzi. Non abbiamo saputo dirle: "Tornatevene donde siete venuta". Sarebbe stata una gran crudeltà.» «Ma ora ... » «Ora, la lasceremo qui, fino a che non vengano a scacciarla via, se ne avranno il coraggio. È stata l'amante? E voi avete tali scrupoli?» «Non li chiamare scrupoli ... Il marchese di Roccaverdina non deve morire con quella donna al capezzale ... Sarebbe uno scandalo!» «Deve morire come un cane, alle mani di gente prezzolata, di Titta e di mastro Vito! ... Questo, ah! non vi sembra uno scandalo! E poi dite che io sono uno scomunicato! ... Ma c'è da rinnegare cento Cristi vedendo simili cose! ... » Tre giorni dopo, l'ebetismo aveva fatto passi da gigante. Il marchese, liberato dalla camicia di forza, restava seduto su la seggiola a bracciuoli, cupo, silenzioso, con le mani sui ginocchi. Agrippina Solmo lo vestiva, gli lavava la faccia, lo pettinava, gli dava da mangiare, con cura materna. Certe volte, al suono della voce che lo chiamava: «Marchese! Marchese!», che lo sgridava con dolcezza quando si ostinava a rifiutare il cibo, egli rivolgeva lentamente la testa verso di lei, la guardava sottocchi, con aria sospettosa, quasi quella voce ridestasse dentro di lui riminiscenze di lontane sensazioni, che però dileguavano rapidissime e lo facevano ricadere nella cupa immobilità per ore ed ore. E nella giornata gli si sedeva vicino; e mentre l'animalità di quel corpo sembrava di sentire qualche godimento pel tepore dell'occhiata di sole che lo investiva presso al balcone, ella gli parlava piano, per sfogo, quantunque sapesse di non essere capita: «Perché ha fatto così, voscenza ? Perché non mi disse mai una parola? ... Ah, se mi avesse detto: "Agrippina, bada!". Mezza parola sarebbe bastata! Non era voscenza il padrone? Che bisogno c'era di ammazzare? ... È stato il destino! Chi credeva di far male? Ah, Signore! Ah Signore! ... ». Ella si rallegrava di vederlo tranquillo, di non più udirlo gridare né smaniare. Le sembrava che questo fosse miglioramento. E rimaneva dolorosamente maravigliata che il dottore ogni volta venisse, guardasse, scotesse la testa e andasse via alzando le spalle, senza risponderle nemmeno quando gli domandava: «Va meglio, è vero? Ora è docile come un agnellino». Si sentiva però stringere il cuore vedendogli voltare e rivoltare lentamente le mani e osservarle a lungo e tastare le punte delle dita a una a una quasi volesse contarle, incurante della bava che riprendeva a colargli. Gliela asciugava col fazzoletto e ne seguiva ogni movimento della testa e degli occhi per scoprirvi qualche lampo di coscienza allorché gli ripeteva: «Sono io! Agrippina Solmo! Non mi riconosce, voscenza ? Sono venuta a posta; non mi muoverò più di qui! ... ». Poi, udendogli mugolare qualche parola, gli s'inginocchiava davanti, prendendolo per le mani che brancicavano i calzoni, e tentava di farsi fissare da quegli occhi che parevano inerti. «Sono io; Agrippina Solmo! ... Faccia uno sforzo, voscenza ! Si ricordi, si ricordi! ... Mi guardi in viso!» Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all'ultimo, rizzatasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando: «Che castigo, Signore! Che castigo!». E intendeva di dire pure per sé, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione. Titta, di tratto in tratto, veniva a tenerle compagnia. «Voi non l'avete visto nei primi giorni. Non si chetava un momento! Sono stato tre giorni e tre notti senza chiudere occhio! ... Faceva terrore.» «E la marchesa? Con che cuore ha potuto abbandonarlo?» «Ringraziate Iddio! ... Se ci fosse stata lei, non sareste qui ... » La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l'aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava. «Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito ... Per questo il marchese lo ha ammazzato.» «Aveva messo l'esca accanto al fuoco ... Che avreste fatto voi?» «Capriccio di gran signore! ... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» «Il marito è sempre marito! In quello stato poi!» «Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio ... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.» «Per mano di notaio?» «Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.» Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca. «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi ... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com'era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perché il suo destino aveva voluto così.

Dopo tutto quel che abbiamo fatto?» «Che me n'importa? Sbrigatevela tra voi. Io ho i miei affari. Ho troppe cose a cui badare.» «Il marchese ha ragione, cugino.» «Mah! ... Ci siamo compromessi. Si è compromesso anche lui ... In ogni caso, basterà dare il nome, circondarsi di assessori di fiducia.» «Ho appena fiducia in me stesso», rispose il marchese. «Questa non se l'aspettava nessuno! Riflettete bene, cugino!» «Quando ho detto no, è no! ... Volete venire a Margitello? Oggi imbottiamo il vino bianco ... Poco, ma tutto d'uva sceltissima.» «Attenderò di assaggiarlo a suo tempo!» E il marchese era partito lasciando là il cavaliere che bestemmiava internamente, per rispetto della cugina. «Ci abbandona così, nelle peste! Dovreste persuaderlo voi», egli disse, rivolgendosi alla marchesa e giungendo le mani in atto di preghiera. «Le donne fanno miracoli, se vogliono.» «Lo avete sentito: "Quando ho detto di no, è no!". E poi ... Lo conoscete meglio di me.» «Pur troppo, è un Roccaverdina ... Preso un dirizzone, non c'è verso di stornarnelo. Bisogna lasciarlo stancare. Ora è tutto oli e vini; non gli si può ragionare d'altro. Probabilmente, tra un anno o due, butterà per aria macchine, botti, coppi! Con quella donna - ve ne parlo perché è cosa già passata da un pezzo - ha fatto pure così. Sembrava che, dopo dieci anni, dovesse commettere la corbelleria di sposarla ... e un bel giorno la dà in moglie a Rocco Criscione. Gliel'ha data lui, gliel'ha imposta quasi ... Rocco non poteva dirgli di no; si sarebbe fatto squartare pel suo padrone ... Era sua moglie e non era sua moglie, dicevano le male lingue ... E quando Rocco fu ammazzato, tutti credevano: ora la Solmo ritorna al padrone. Che! ... Ve l'ho nominata per questo; non potete essere gelosa. Se mai, ora, delle macchine e della Società Agricola ... In quanto a donne, egli è uscito di razza. Tutti i Roccaverdina sono stati famosi donnaioli: il marchese grande , il padre del cugino, anche vecchio ... È vero che, dopo, aveva la scusa della paralisi della moglie ... Povera zia! Bocconi amari ne ha inghiottiti parecchi ... Ed era bellissima ... L'avete conosciuta? No, non potete averla conosciuta. E per le elezioni comunali? Un altro dirizzone; ma si è stancato subito ... Fate il miracolo, cugina! Dobbiamo abbandonare il Comune in mano a certa gentaccia? Che penseranno? Che il marchese di Roccaverdina ha avuto paura! Non è vero; ma così penseranno e lo diranno! ... Mi mordo le mani! ... Bella figura facciamo col Sottoprefetto! Egli lo ha proposto, sicuro che il marchese avrebbe accettato la nomina. Abbiamo lavorato tanto! Fate il miracolo! ... » Ah, ella avrebbe voluto fare ben altro miracolo! Ma si sentiva impotente. E lo diceva quello stesso giorno alla sua mamma che insisteva presso di lei: «Che hai dunque? Che ti accade?». «Forse ho sbagliato, mamma!» «Perché?» «Mi sento sola sola, mamma!» «Che intendi dire?» «Ci siamo illusi, egli ed io. Il suo cuore è chiuso per me. Ha preso me come avrebbe preso qualunque altra ... Può darsi che il torto sia mio ... Non avrei dovuto entrare in questa casa ... C'è ancora il fantasma dell' altra. Lo sento, lo veggo ... » «Ma che cosa senti? Che cosa vedi?» «Niente! Non so ... Eppure sono certa di non ingannarmi.» «Vergine benedetta! Che gusto tormentarsi così!» «Ah, mamma! Non avrei voluto parlartene per non angustiarti. Ma il cuore mi si schianterebbe se non potessi sfogarmi. Lasciami sfogare ... Mi ero rassegnata, da anni. Tu non hai saputo mai nulla fino a pochi mesi fa. Avevi dolori assai più grandi del mio; perché avrei dovuto confidartelo? E quando, tutt'a un tratto, quel che sembrava stoltezza sperare mi si presentò dinanzi come possibile, te ne rammenti? io esitai, a lungo esitai, temendo quel che, pur troppo, è avvenuto! Sì, mamma. Tra me e lui sta sempre quell' altra - ricordo vivo ... ! Non m'inganno. Sono forse una persona, sono un cuore qui? ... Sono un mobile.» «Che aberrazione, figlia mia! C'è un malinteso tra voi; dovreste spiegarvi. Marito e moglie debbono fare così, altrimenti le cose s'ingrandiscono. Ognuno immagina che sotto ci sia qualche cosa di grave ... E non c'è nulla!» «E se c'è peggio di quel che uno sospetta?» «Non può essere. Dopo sei soli mesi! Il marchese ha cento cose per la testa. Gli affari assorbono, danno tanti pensieri. Tu rimani a fantasticare, a roderti il fegato ... Che vuoi che ne sappia lui? Come pretendi che indovini?» «Gliel'ho detto: "Antonio, non mi sento amata da voi!". Gliel'ho detto singhiozzando ... » «Ebbene?» «Si è messo a ridere, mi ha risposto scherzando, ma rideva male, scherzava a stento.» «Ti è sembrato. Ha ragione. Gli uomini non possono intendere certe cose di noi donne, che non hanno importanza per loro. E intanto tu ti logori la salute; tu non ti accorgi che deperisci di giorno in giorno. Sei pallida ... Non sei mai stata così. Che credevi, sposando? Di non dover avere nessuna croce? È un carattere strano; sopportalo come è. Ho sopportato peggio io! Ho fatto la volontà del Signore, mi sono rassegnata sempre; lo hai visto! Di che sei gelosa?» «Del suo silenzio, mamma!» «Il marchese non è espansivo; è fatto così. Vorresti rifarlo?» «Che so? Certe volte rimane assorto, col viso scuro scuro; e allora, quando si riscote, mi guarda con occhi smarriti, quasi avesse paura che io indovinassi. E se gli domando: "Che pensate?", risponde, sfuggendomi: "Niente! Niente!".» «E sarà niente davvero. Vuoi che gliene parli io? Che gliene faccia parlare dalla baronessa?» «No. Può darsi che io abbia torto.» «Hai torto certamente.» «Sì, sì, mamma, ho torto; lo comprendo. Non affliggerti per me!» Andando via, il marchese le aveva detto: «Tornerò presto questa sera». Ma era già un'ora di notte, e la marchesa, affacciata al terrazzino a pian terreno allato al portoncino d'entrata, cominciava a impensierirsi del ritardo. Si atterrì vedendo arrivare soltanto Titta a cavallo d'una mula. «Il marchese?» «Non è niente, eccellenza.» Titta, saltato giù da cavallo, legata la mula a uno degli anelli di ferro confitti a posta nel muro ai due lati del portoncino, si affrettava ad entrare. Ella gli corse incontro nell'anticamera. «Stia tranquilla, voscenza . È accaduto ... » «Il marchese sta male?» «No, eccellenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Si è impiccato uno a Margitello: compare Santi Dimauro.» «Oh, Dio! ... Perché? Come?» «È venuto a impiccarsi nel suo fondo venduto al marchese due anni fa. L'aveva detto tante volte: "Verrò a morirvi un giorno o l'altro!". E finalmente il disgraziato ha mantenuto la parola. Si era pentito di aver venduto quel fondo ... Di tanto in tanto lo trovavano là, nella carraia, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. "Che fate qui, compare Santi?" "Guardo la mia terra, che non è più mia!" "Avete preso un sacco di quattrini!" "Sì, ma io vorrei la mia terra!"» «Perché l'ha venduta?» «Oh! Egli soleva raccontare una storia lunga. Pel processo di Rocco Criscione ... L'aveva col marchese, che non c'entrava ... Il giudice istruttore ... sa, voscenza ; quando si fa un processo si raccolgono tutte le voci ... E siccome il giudice istruttore ... Una storia lunga! ... Ma era venuto lui stesso a dire al marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? Se lo prenda". Era proprio nel cuore di Margitello, e di tratto in tratto il vecchio alterava il limite ... I contadini quando possono rubare un palmo di terreno, non hanno scrupoli. Compare Rocco, buon'anima, non era omo da lasciarlo fare, nell'interesse del padrone. "E il marchese non ne troverà un altro eguale, eccellenza!" Il vecchio si era dunque presentato dal marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? E se lo prenda!". Poi il vecchio si era pentito. Veniva a piangere là, quasi ci avesse un morto ... Che colpa n'aveva il padrone? E ora, per fargli dispetto, si è impiccato a un albero ... Chi se n'era accorto? Spenzolava davanti la casetta ... Le mule della carrozza - gli animali hanno il fiuto meglio di noi cristiani - non volevano andare né avanti né indietro. Io guardo attorno per veder di che cosa s'impaurissero le povere bestie ... Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo! ... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori ... Lo tocco; era freddo! ... Allora siamo tornati a Margitello ... Il marchese, sturbato, non poteva parlare ... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio ... E mi ha mandato per avvertire voscenza . Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Il morto è là, che spenzola ancora ... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto ... Mi ha mandato a posta ... E se voscenza permette ... » La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». A metà del rosario, mamma Grazia era già addormentata su la poltrona dove la marchesa l'aveva fatta sedere; ed ella si buttò sul letto vestita, certa di non chiudere occhio, con nel cuore un'inesplicabile angoscia, un invincibile presentimento di tristissimi casi che sarebbero sopravvenuti, presto o tardi, per cattiva influenza di quel morto.

«Gesù Cristo però», riprese la baronessa crollando la testa, «si ricorda dei poveri che non hanno come sfamarsi, e dimentica che ricchi e poveri abbiamo già bisogno della pioggia pei seminati, per le vigne, per gli ulivi!» «Pioverà, a suo tempo, se i nostri peccati non vi mettono ostacolo.» «Voi fate penitenza per tutti, voi», soggiunse la baronessa. «Io sono più peccatore degli altri!» «Diteglielo, diteglielo a Gesù Cristo. Ci vuole la pioggia, Signore! Ci vuole la pioggia!» «Glielo dirò», rispose con semplicità il buon prete. «Intanto vengo a raccomandarle di nuovo quella povera donna, la moglie di Neli Casaccio. Ora che suo marito è in carcere, perisce di stenti la poveretta, con quattro figli che non possono darle nessun aiuto. Ella giura, al cospetto di Dio e dei santi, che suo marito è innocente.» «Se è così, non potranno condannarlo.» «Quando era in libertà, provvedeva lui alla famigliuola col suo mestiere di cacciatore.» «Manderò un sacco di grano, anzi di farina; sarà meglio.» «Dio glielo renda, tra cent'anni, in paradiso.» «Vorrei piuttosto», riprese la baronessa, «che Dio me lo rendesse un po' anche in questo mondo, almeno aggiustando il cervello a mio nipote il marchese, liberandolo dalle male arti di quella donnaccia ... Tenta di riafferrarlo la sfacciata! Non ho chiuso occhio questa notte, dopo di aver saputo ... » «Sia fatta la volontà di Dio!», esclamò don Silvio, giungendo rassegnatamente le mani. «La volontà di Dio qui non c'entra per niente», replicò quasi stizzita la baronessa. «Dio non può permettere certe enormità; non può volere che la figlia di una raccoglitrice di ulive diventi marchesa di Roccaverdina. Pares cum paribus , ha detto il Signore.» «Siamo tutti uguali davanti a lui!» «Oh, no, no!», ella protestava. «Perché dunque Gesù Cristo ha voluto nascere da una madre di stirpe reale? San Giuseppe, falegname, fu padre putativo soltanto.» La baronessa si fermò un istante, aspettando che don Silvio le desse ragione. E siccome il prete rimaneva zitto, con gli occhi bassi, ella continuò: «Ai miei tempi si rimediava a tutto col braccio delle autorità; ma oggi! ... Io però ho mandato a chiamare quella donna; dovrebbe già essere qui, se lo stolido di don Carmelo ... ». In quel punto, il vecchio servitore che faceva da maestro di casa, da cameriere e da cuoco in casa della baronessa, affacciava la testa da uno degli usci, annunciando che quella donna attendeva nell'anticamera: «Posso farla entrare?». «Subito», rispose la baronessa. Agrippina Solmo salutò, con un cenno del capo, prima lei, poi don Silvio e, chiusa nella mantellina, eretta, quasi altera, gettando sguardi diffidenti e scrutatori ora su l'una, ora su l'altro, si avvicinò lentamente verso il canapè. «Che comanda, voscenza ?» Il tono della voce era umile, l'atteggiamento no. «Non comando niente; sedete.» E rivolgendosi a don Silvio, la baronessa soggiunse: «Ho piacere che voi siate testimone. Sedete», replicò, vedendo che la Solmo restava ancora in piedi. Poi, dopo alcuni istanti di paura, con aria severa e accento duro, disse: «Figlia mia, parliamoci chiaro. Se avete fatto ammazzare vostro marito ... ». «Io? ... Io?» La baronessa, senza lasciarsi intimidire dall'energica protesta, né dall'occhiata divampante di indignazione che l'aveva accompagnata, continuò: «C'è chi lo sospetta e lo farà sapere anche alla giustizia!». «E perché, perché lo avrei fatto ammazzare? Io? Oh, Vergine santissima!» «Chi sa che vi è passato per la testa! Tentazioni del demonio, certamente. Vi eravate messa in grazia di Dio prendendo marito ... Non vi accuso per quel che è accaduto prima; vi compatisco anzi ... La miseria, i cattivi consigli, la giovinezza ... Forse neppure comprendevate il male che vi si faceva commettere. Infatti, vi siete comportata quasi da donna onesta ... Mio nipote, dall'altra parte, ha fatto il suo dovere. Si è tolto ogni scrupolo di coscienza. Siete ricca, si può dire, con la dote ch'egli vi ha dato ... Perché dunque non lo lasciate in pace? Che vi passa per la testa? Fingete di non capire quel che vi dico, eh?» «Ma ... signora baronessa!» «Sbagliate, figlia mia, se v'immaginate che possa riuscirvi ora quel che non vi è riuscito l'altra volta!» «Che cosa, signora baronessa?» «Segnatevelo qui, su la fronte. C'è chi tiene bene aperti gli occhi e vi sorveglia! Se avete fatto ammazzare vostro marito per ... » Agrippina Solmo scattò dalla seggiola, lasciò cascare su le spalle la mantellina, e levando in alto le braccia, imprecava: «Fulmini del cielo, Signore! Fuoco in questa e nell'altra vita a chi mi vuol male!». E coprendosi il volto con le mani, scoppiava in pianto dirotto. «Calmatevi!», intervenne don Silvio. «La baronessa parla pel vostro bene ... » «Voi che siete un santo servo di Dio!», singhiozzava la vedova, asciugandosi le lagrime e facendo sforzi per frenarle. «Parlo a un confessore, come se fossi in punto di morte. L'hanno ammazzato ... mio marito ... a tradimento! Oh! ... Farlo ammazzare io! ... Chi lo dice? ... Venga in faccia a me! ... Giuri su l'ostia consacrata! ... Se c'è Dio in cielo ... » «C'è, c'è, figliuola mia!», esclamò don Silvio, stendendo le mani, quasi volesse chiuderle la bocca e impedirle di bestemmiare. «Per quale scopo dunque andate così spesso da mio nipote?», strillò la baronessa. «Non vi cerca lui; non vi manda a chiamare lui!» «Pel processo, pei testimoni.» «Il processo? L'ha istruito il giudice. I testimoni? Deve forse scovarli mio nipote? Pretesti! Pretesti! Ormai dovreste averla capita. Se vi lusingate di ricominciare da capo, se vi siete messa in testa ... di salire alto dalla vostra condizione ... Ecco perché la gente sospetta: l'ha fatto ammazzare essa il marito!» Agrippina Solmo si era rimessa a sedere. Non piangeva più; sembrava irrigidita contro la terribile accusa gettatale in viso dalla vecchia signora. E, quasi continuasse ad alta voce il rapido ragionamento interiore che le agitava le labbra e la faceva errare con sguardi smarriti lontano lontano, parlava senza rivolgersi a nessuno, ora lentamente, ora a sbalzi: «Dio solo può saperlo! ... Avevo sedici anni. Non pensavo al male; ma, insistenze, preghiere, promesse, minacce ... In che modo resistergli? ... E sono stata la sua serva, la sua schiava, dieci anni, volendogli bene come a un benefattore. In prova, il giorno che all'improvviso egli mi disse: "Devi prendere marito, il marito che ti do io ... ". Ah, signora baronessa! ... Abbiamo un cuore anche noi poverette! ... Avrei voluto continuare ad essere soltanto sua serva, sua schiava ... Che ombra potevo dargli? Eppure non fiatai. Ha comandato, ed ho obbedito. Che ero io rimpetto a lui? Un verme della terra ... Ed ora, infami! dicono che ho fatto ammazzare mio marito perché vorrei ... Ma a chi devo ricorrere in questa circostanza? Non ho più nessuno al mondo!». «Abbiate fiducia in Dio, figliuola mia!» «Se il Signore voleva proteggermi, non mi toglieva il marito!», ella rispose bruscamente a don Silvio, alzando le spalle. «È peccato mortale quel che dite!» «Si perde anche la fede in certi momenti!» Raccolse la mantellina, se l'aggiustò su la testa, chiuse sdegnosamente attorno al volto le falde davanti e, ritta, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, attese così che la baronessa la licenziasse. La baronessa in quell'istante parlava sottovoce all'orecchio di don Silvio. «Ma è poi vero?», rispose il prete. «Le donnacce come lei sono capaci di tutto!» «Comanda altro, voscenza ?» Agrippina Solmo non dissimulava l'impazienza di andarsene. «Badate a quel che fate! Uomo avvisato è mezzo salvato», rispose seccamente la baronessa. E la seguì fino all'uscio con gli sguardi aguzzi, tetri di rancore, che sembrava la sospingessero fuori per le spalle. «Questa è la grossa spina che ho nel cuore!», ella esclamò. «Dopo d'aver fatto tanto per indurre mio nipote a darle marito! ... Almeno non c'era più pericolo di vedergli commettere una pazzia! ... Ma già noi Roccaverdina siamo, chi più chi meno, col cervello bacato! Mio fratello il marchese, padre di mio nipote, sciupava tempo e danaro con le corse dei suoi levrieri. Voi non lo avete conosciuto. Si era fatto fare un vestito da burattino, all'inglese, diceva lui, e andava attorno pei paesi vicini a ogni festa di santi patroni, facendo la concorrenza ai ginnetti ... Mio fratello il cavaliere si è rovinato per le antichità! Scava ossa di morti, vasi, brocche, lucerne, monetacce corrose, ed ha la casa piena di cocci. Suo figlio se ne è andato a Firenze a studiare pittura, in apparenza; a buttar via quattrini, in realtà; quasi suo padre non bastasse da solo a mandar per aria il patrimonio! ... Mio nipote, il marchese attuale ... Oh! C'è il castigo di Dio su la nostra casa!» S'interruppe vedendo entrare dall'uscio rimasto socchiuso quattro canini neri, bassi, mezzi spelati, con gli occhi cisposi, quasi vecchi quanto lei, che volevano saltarle tutti insieme su le ginocchia. «La mia pazzia, lo so», ella disse allontanando dolcemente i canini, «sono questi qui. Ma io non rovino nessuno; e per gli affari, me ne vanto, il cervello l'ho a posto. Così lo avesse avuto a posto il barone mio marito! ... Bravo, don Carmine!» Strascicando la gamba, reggendo con le due mani uno scodellone di pane e latte, il vecchio s'inoltrava cautamente per non versare la zuppa, imbarazzato dalla ressa delle quattro bestioline che, alla vista del loro pasto, erano corse ad abbaiargli e a saltellargli attorno alle gambe. Inutile precauzione! Sospingendosi, urtando lo scodellone con le zampe e coi musi, i cani facevano schizzare parte della zuppa sul pavimento; e la baronessa, intenerita, si chinava soltanto ad accarezzarli, chiamandoli per nome, per impedire che si mordessero, esclamando ripetutamente: «Povere bestie! Avevano fame, povere bestie!». Don Carmine, piegato in due, con le mani dietro la schiena, tentennava la testa osservando i bei mattoni di Valenza insudiciati. «Non occorre ripulire; ripuliscono essi», gli disse la baronessa mentre egli si chinava per riprendere lo scodellone vuotato. E leccato bene il pavimento, i cani andavano quatti quatti ad accucciarsi, raggomitolandosi a due a due, sui seggioloni destinati a loro in un angolo, con cuscini a posta. «Anche questa è carità, caro don Silvio!», disse la baronessa accomiatandolo.

Solamente, invece dell'istinto, abbiamo la ragione; ed è la stessa cosa. Con la scusa della ragione, facciamo però tante cose irragionevoli. Abbiamo inventato l'anima immortale, il paradiso, l'inferno ... I cani, gli uccelli hanno l'anima anch'essi. Dove vanno le anime loro dopo la morte? C'è il paradiso dei cani? C'è l'inferno degli uccelli? Sciocchezze! Fantasticherie! Tutte invenzioni dei preti. E quando si avvedono che una loro balordaggine non si regge più, ne inventano subito un'altra. I sacerdoti pagani: Giove, Giunone, cento mila divinità. I preti cattolici hanno preso Dio agli ebrei e hanno inventato Gesù Cristo.» «State zitto! Inventato?» «Gesù Cristo era un uomo come voi e come me, bravo, caritatevole, che odiava i sacerdoti, che non voleva templi ... Che ne hanno fatto i preti? Un Dio, col papa, coi cardinali, con chiese piene di fantocci, di madonne e di santi ... » «State zitto! State zitto!» Il cavalier Pergola scoppiò a ridere. «Che? Temete che ci si sprofondi il pavimento sotto i piedi? Ecco; non si sprofonda niente! ... Ah! Ah! Ah! Voglio portarvi certi libri. Dovete leggerli; tanto, non avete nulla da fare.» «Sono proibiti.» «Figuratevi! I preti vorrebbero impedire il trionfo della verità ... » E mentre il cavalier Pergola, parlando, agitava i quattro peli della barbetta che gli orlava il mento, il marchese si meravigliava di stare ad ascoltarlo con grande interesse. Se fosse così, come diceva il cugino? Si sentiva rimescolato, quasi una mano crudele tentasse di strappargli dalle viscere qualcosa di vivo e di tenace. «Secondo voi», disse, «ognuno potrebbe commettere qualunque delitto e scialarsela, giacché non c'è inferno né paradiso.» «C'è la legge, fin dove può; c'è la coscienza umana che ci dice: Non fare agli altri quel che non vuoi fatto a te stesso!» «È uno dei dieci comandamenti di Dio.» «Di Mosè, che era un gran sapiente, un politicone come non ne nascono più. Fingeva di salire sul Sinai a discorrere col Padre Eterno, quando era cattivo tempo e tonava; e poi veniva giù: "Il Padre Eterno mi ha detto questo; il Padre Eterno ordina quest'altro!". E faceva bene; col popolo ignorante si deve agire così ... Dopo che avrete letto quei libri di cui vi ho parlato ... » «Non li leggerò; è inutile prestarmeli. Non voglio guastarmi la testa.» Eppure li lesse, con una specie di terrore, e li rilesse anche. Ragionavano assai meglio del cugino, che riferiva le cose buccia buccia, e, sentendosi a corto di argomenti, scaraventava fuori due, tre bestemmie in fila per sfogarsi contro i preti, contro il papa, fin contro il governo che non li impiccava tutti. «Eh?», gli domandava il cavaliere. «Vi siete convinto?» Tutte le cose lette gli turbinavano nella mente e nella coscienza, senza che egli avesse coraggio di mostrargli che lo avevano scosso. Gli sembrava di essere penetrato in una regione nuova, dove si respirava meglio, con più larghi polmoni, ma dove egli si sentiva ancora, come le persone arrivate di recente, un po' sbalordito e solo. Bisognava abituarsi; e si accorgeva con piacere che non era difficile. Di giorno in giorno, rimuginando le cose udite e lette, vedeva che una difficoltà, una repugnanza, un ostacolo erano già superati. Incontrando don Silvio, al saluto: « Servo suo, marchese! » , ora rispondeva con tono di celata ironia, quasi volesse dirgli: «Non me la date più a intendere, prete mio!». E si sbalordiva di sorprendersi a pensare così. Certe sere, durante la cena, dal balcone aperto, gli arrivava all'orecchio il confuso rumore delle voci che andavano cantando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio, in penitenza per la siccità; e alzava le spalle, compassionando quei poveretti che sciupavano scarpe e fiato, ripeteva le stesse parole del cugino, con la speranza che il cielo si movesse a pietà di loro! E non si turbava più, se udiva nella notte il rauco ritornello cantilenato dalla zia Mariangela: «Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh! Cento mila ... ». Quei diavoli mandati attorno dalla povera pazza, cento mila qua, cento mila là, per tutte le case dei ricchi, gli facevano soltanto rivedere con l'immaginazione la figura della infelice, che portava i capelli tagliati alla mascolina, coperta di cenci, pavonazza in viso pel sangue che le saliva alla testa. Così andava girando per le vie, sboccata ma innocua, quando il marito non la incatenava al muro come una bestia feroce, per costringerla a restare in casa. Ma poi, appena egli credeva di essere già certo, ridiveniva a poco a poco perplesso. A letto, prima di addormentarsi, in campagna sorvegliando i lavori e dando ordini, nell'andare e venire da Ràbbato a Margitello, o a Casalicchio, o a Poggiogrande, rannicchiato in fondo alla carrozza, tutte quelle storie del cugino, tutte le cose lette e rilette gli crollavano nella mente come un giuoco di carte. E riprendeva a pensare al progettato viaggio in Roma, per farsi assolvere dal papa. Nel dubbio, non era meglio mettersi in salvo? Intanto l'irrequietezza lo riafferrava. Il cugino Pergola aveva ragione quando gli diceva: «Voi fate una vita impossibile!». E la zia baronessa aveva pure ragione: «Perché non vuoi? Perché?». Inoltre, in fondo in fondo al cuore, l'odio ora gli rimescolava più spesso i ricordi di Agrippina Solmo. «Potrete ricominciare con un'altra!», gli aveva suggerito il cugino Pergola. «Oh, no! Oh, no!» E rimpiangeva la calma felicità di quegli anni in cui non dava retta a nessuno e faceva il piacer suo; e la sua casa era pulita come uno specchio, ed egli possedeva non un'amante delle solite, ma una vera schiava, buona, sottomessa ... che aveva anche il gran pregio di non fare figliuoli! Ah, se non avesse ascoltato i rimproveri e i suggerimenti della zia baronessa! Niente sarebbe accaduto di quel che era accaduto! Ed egli non si sarebbe trovato un delitto su la coscienza - gli sembrava quasi incredibile! - e Agrippina Solmo starebbe ancora là ... «E dire che c'è gente che m'invidia!», sospirava, scotendo la testa.

«Che abbiamo?», gli domandò il marchese, ostentando disinvoltura. «Qua, su questa poltrona; è più comoda.» Lo aveva fatto entrare nella stanza accanto, e gli si era fermato davanti, in piedi, con le braccia dietro la schiena, guardandolo fisso, per indovinare il motivo di quella visita prima che quegli parlasse. «Mi manda Gesù Cristo!», disse don Silvio. «Quale Gesù Cristo? Perché? ... Andate a raccontare queste storie alle femminucce!» Il marchese quasi balbettava, pallido, da la improvvisa concitazione. «Mi perdoni ... voscenza ! ... Me ne vado ... » E don Silvio non poté proseguire, sopraffatto dalla tosse. Vedendolo avviare verso l'uscio, il marchese lo fermò pel braccio: «Perché siete venuto? ... Che volevate da me? ... Perché siete venuto?». «Pei poveretti, marchese! Non ho saputo esprimermi.» «Ci sono soltanto io a Ràbbato? Ho dato assai. Troppo! Troppo! ... Sono già dissanguato.» «Si calmi! ... Non ha obbligo ... » «Eh? ... Siete stato voi che avete detto al prevosto Montoro ... ?» Gli si era piantato davanti, ringhiando le parole, fissandolo negli occhi. «Che cosa?», domandò timidamente don Silvio. «Che cosa? Gli dava noia in casa quel Crocifisso al marchese! » «E ha potuto supporlo? Oh, voscenza ! Io, anzi, ho lodato il bell'atto che toglieva quella sacra immagine da un posto non degno.» «Non degno?» «Certamente; il suo degno posto era l'altare.» «Perché dunque or ora dicevate: mi manda Gesù Cristo? ... Mi avete scambiato per una donnicciuola, mi avete scambiato?» «Ha ragione! Sono parole piene di superbia quelle! ... Me ne accorgo; ha ragione! ... Credevo che quando uno va a chiedere pei poveri fosse quasi mandato da Gesù Cristo ... Se la prenda con me. I poveretti che hanno fame non debbono scontare il mio peccato. Gliene chiedo perdono ... anche in ginocchio ... » Il marchese lo trattenne. Si vergognava di esser trascorso; ma non voleva lasciarsi intimidire da quel pretucolo. Gli pareva che colui intendesse di abusare della circostanza di essere stato messo a parte, in confessione, di un terribile segreto ... Doveva farglielo capire, perché non ricominciasse più e la finisse una volta per sempre! Non osò. «Che vi immaginate?», riprese con un tono meno alterato. «Mi è rimasto appena tanto grano da bastare per me.» «Oh, penserà il Signore a ricoprirle di nuovo i canicci!» «Infatti! ... Infatti!» «Non disperi della misericordia di Dio, marchese!» «E intanto la gente muore come le mosche. Dovrei avere la zecca in casa, o stampare carte false ... Ma non vedete che non vi reggete in piedi?» Don Silvio assalito da un nuovo e più forte accesso di tosse, aveva dovuto rimettersi a sedere, mezzo tramortito. «Ecco! ... Soltanto per mostrarvi la buona intenzione», aggiunse il marchese. «Lo sapevo che non sarei venuto invano!», rispose don Silvio ringraziandolo. Aveva le lagrime agli occhi. Il marchese rimase, tutta la giornata, con un senso di sorda irritazione nell'animo, quasi il sentimento di pietà che all'ultimo lo aveva commosso fosse stato una specie di soverchieria, una prepotenza usatagli, con fine arte, da quel prete. Si sfogò con mamma Grazia: «Ci mancava lui per venire a smungermi!». «È un santo, figlio mio!» «I santi ... stiano appiccicati al muro, o in Paradiso», rispose duramente il marchese. E due giorni dopo, don Silvio era davvero in via di andarsene in Paradiso, dove il marchese lo voleva. Davanti la porta della sua abitazione, gruppi di gente costernata, con gli occhi al balconcino della cameretta del malato. Il dottore aveva dovuto ordinare di tener chiusa la porta perché la cameretta non fosse invasa. Di tratto in tratto, qualcuno dei pochi ammessi in casa veniva fuori asciugandosi le lagrime, ed era subito circondato. Lo interrogavano con gli sguardi, con una lieve mossa del capo, quasi il suono delle parole potesse disturbare l'agonizzante. «Si è confessato!» «Udite? Gli portano il viatico e l'estrema unzione!» La campanella di Sant'Isidoro dava il segnale con pochi squilli affrettati; e, subito dopo, la campana grande un tocco, due, tre, che ondulavano lenti tristamente. Tutti in orecchie, a contarli: «Quattro! Cinque!». Dappertutto; in Casino, nelle farmacie, nelle botteghe, in ogni casa, davanti le porte. «Sei! Sette!» Come se quei rintocchi cupi e lenti stessero per annunziare una pubblica sciagura. Si sapeva: otto tocchi per le donne; nove per gli uomini; dieci pei sacerdoti! E il decimo rintocco, più cupo, più lento, ondulò a lungo per l'aria. Altra gente accorreva: popolane, contadini, tutti i poverelli da lui beneficiati, magri, squallidi, che dimenticavano in quel momento la mal'annata e la fame, con occhi gonfi di lagrime, con visi sbalorditi. Ah, il Signore avrebbe dovuto prendersi, invece, qualcuno di loro! Ed ecco il viatico! Si udiva il campanello che precedeva il prete con la pisside e l'olio santo. Il canonico Cipolla, sotto il baldacchino, circondato dai fedeli che portavano le lanterne di scorta e seguito da un centinaio di persone recitanti il rosario, passava a stento tra la folla inginocchiata che ingombrava il vicolo da un capo all'altro. La porta fu spalancata; il campanello cessò di suonare. Anche il marchese aveva contato: «Uno! ... Due! ... Cinque! ... Dieci! ... », i rintocchi della campana grande di Sant'Isidoro. Da parecchi giorni, tre, quattro volte il giorno, egli mandava Titta, il cocchiere, a prendere notizie. Lo atterriva l'idea che la febbre facesse delirare don Silvio, e che nel delirio gli sfuggisse una parola, un accenno! ... Poteva darsi! Smaniava attendendo il ritorno del messo. «Sei entrato proprio in camera? Lo hai visto?» «Già sembra un cadavere. Non c'è più speranza!» Il marchese socchiudeva gli occhi, un po' deluso, crudele. Aveva la pelle dura quel prete! E il giorno appresso: «Come va? Perché hai tardato tanto?». «Non volevano farmi entrare. Mi ha riconosciuto. Mi ha detto: "Ringraziate il marchese!", parlava con un fil di voce. "Ditegli che preghi per me!"» «Ah! ... Poveretto!» Ma, nel suo interno, egli dava un significato ironico alle parole riferitegli da Titta; e così giustificava il rancore che gli faceva desiderare più pronta la sparizione di colui che possedeva il suo segreto, e che era per lui, non solamente un rimprovero continuo, ma un pericolo; o, se non un pericolo, una ossessione che gli dava fastidio. E quando udì in Casino (vi era andato a posta per sentire quel che si diceva), quando udì raccontare dal notaio Mazza che don Silvio aveva detto a sua sorella: «Abbi pazienza, fino a venerdì a ventun'ora!», i tre giorni e mezzo che ancora mancavano gli parvero una eternità. Sarebbe stato vero? Il venerdì non poté restare ad attendere che la campana grande di Sant'Isidoro suonasse a morto a ventun'ora, com'è di rito. Il cameriere del Casino era stato mandato a informarsi, anche per la curiosità di sapere se la predizione - e tutti lo credevano - si sarebbe avverata. Vedendo che don Pietro Salvo cava a ogni cinque minuti l'orologio di tasca, il dottor Meccio esclamò: «Stiamo qui a tirargli il fiato di corpo. È sconveniente!». «Andatevene. Chi vi trattiene?» Erano sul punto di bisticciarsi; ma dalla cantonata spuntava don Marmotta come il cameriere era soprannominato. Veniva col suo comodo, dando la notizia a quanti lo fermavano, riprendendo a camminare a passi lenti, con la testa ciondoloni che secondava il movimento dei passi, senza curarsi che fosse impazientemente aspettato. Il marchese gli andò incontro: «Ebbene?». «È ispirato proprio allo scocco di ventun'ora.» Si era immaginato di dover respirare più liberamente a quella notizia. Invece, rimase là, dubbioso. Non credeva ai suoi orecchi, quasi don Silvio avesse potuto fargli il cattivo scherzo di fingere di morire. A casa, trovò mamma Grazia che recitava il rosario in suffragio dell'anima del sant'uomo. «È morto! Che disgrazia! A trentanove anni! Gli uomini come lui non dovrebbero morire mai!» «Muoiono tanti padri di famiglia!», la rimbrottò. «La morte non porta rispetto a nessuno.» Quel lutto di tutto il paese lo irritava. Lo irritava anche il pensiero della morte, che ora gli ronzava alla mente con insolita vivacità e strana insistenza. Gli sembrava che qualcuno gli sussurrasse dentro il cervello: «Oggi a me, domani a te!». E quel qualcuno, a poco a poco, prendeva le sembianze di don Silvio. Avrebbe voluto esser sordo per non udire le campane di tutte le chiese che suonavano a mortorio, tacevano un po', riprendevano a suonare! Sarebbe scappato per Margitello, se non avesse riflettuto che le avrebbe udite ugualmente e più incupite dalla distanza. Eppure non si sentiva ancora rassicurato! Volle vedere il trasporto dalla terrazza davanti al Casino. In Piazza dell'Orologio gran calca. Il mortorio che andava attorno da un'ora, secondo la costumanza, per le vie principali del paese, doveva passare di là per deporre il cadavere nella chiesa di Sant'Isidoro dove gli avrebbero cantato la messa funebre. E già affluiva in piazza la gente che si riversava dalle traverse precedendo il convoglio. La processione s'inoltrava lentamente: confraternite con gli stendardi avvolti all'asta, frati Cappuccini, frati di Sant'Antonio, frati Minori conventuali, preti in cotta e stola nera, canonici con mozzetta di lutto, tutti coi torcetti accesi in mano, salmodianti; e dietro, sul cataletto, il cadavere, scoperto, con le mani in croce, in cotta e stola, e col berretto a tre spicchi in testa, che spiccava su la coltre nera di broccato orlata con frangia di argento; corto, sparuto, col viso giallo, con gli occhi socchiusi e il naso affilato, sembrava che tentennasse il capo a ogni passo dei portatori. Giunti vicino al Casino, essi deponevano a terra il cataletto, e la gente faceva ressa attorno al cadavere per baciargli le mani. Quattro carabinieri erano pronti, dai lati, a impedire che strappassero in brandelli gli abiti del morto per tenerli come reliquie. E così il marchese poté osservar bene quella bocca chiusa per sempre, che non avrebbe potuto mai più, mai più, ridire a nessuno il segreto da lui rivelato in confessione! Allora si sentì forte, vittorioso, quasi la fine di quell'uomo fosse stata opera sua. E soltanto per decenza non sorrise, quando il cugino Pergola gli disse all'orecchio: «Dev'essere rimasto male don Silvio, non trovando di là il Paradiso!».

Noi poveretti abbiamo sempre torto!» «Tempo chiuso, cavaliere! Ogni goccia è un pezzo di oro che casca dal cielo!» «Proprio così, don Stefano!» «Sant'Isidoro finalmente ci ha fatto la grazia!» «Voi, don Giuseppe, s'intende, tirate l'acqua al vostro mulino; non siete sagrestano per nulla!» Si aggruppavano imperterriti, senza curarsi che gli ombrelli li riparassero male; e, per uno che andava via, due, tre ne sopraggiungevano, quasi non potessero contentarsi di sentir scrosciare i canali e veder gonfiare i rigagnoli per le vie; volevano godersi la vista delle campagne che bevevano, bevevano, bevevano e non arrivavano a saziarsi! Ah, quella pioggia avrebbe dovuto durare una settimana, senza smettere un solo momento! Ci volevano pei terreni almeno tre palmi di tempera ! Da una finestra di Margitello l'ingegnere additava al marchese la gente che stava a guardare su la spianata del Castello. Non ostante il velo steso dalla pioggia, si distinguevano le macchiette nere che apparivano, cangiavano posto, si diradavano, tornavano a radunarsi. Era giunto fin laggiù lo scampanio di tutte le chiese alle prime gocce di pioggia. E colà, contadini e lavoranti si erano abbandonati a una frenesia di grida, di salti di gioia nel cortile, mentre i ragazzi si divertivano a pestare coi piedi nelle pozze e a sbruffarsi in faccia, l'uno a l'altro, l'acqua raccolta nelle palme. Ora, affacciati alle porte delle stanze a pianterreno, si davano spintoni per buttarsi fuori a vicenda a prendere un'insaccata di quella che veniva più fitta quasi la rovesciassero con gli orci. «Eh, ragazzi! ... Finitela!», gridò il marchese sporgendosi dal davanzale. Eppure tutta quell'allegria avrebbe dovuto fargli piacere! La pioggia tanto desiderata e tanto invocata, gli aveva messo addosso, al contrario, un senso di tristezza; gli scherzi dei ragazzi lo irritavano. Aveva ripetuto anche ultimamente a Zòsima: «Non piove! Vedete? Non piove», e la risposta di lei: «Non c'è fretta!», gli aveva fatto una cattiva impressione, che però si era subito dileguata appena ella aveva soggiunto: «Margitello non vi lascia pensare ad altro!». E ora che la pioggia era venuta, e che pioggia! ora che il solo lieve ostacolo frapposto tra loro due era già rimosso, egli non solamente non ne sentiva gioia, ma stava là, davanti a quella finestra, con gli occhi fissi su gli eucalitti grondanti acqua dai rami curvi e dalle lunghe vecchie foglie lavate dallo strato di polvere che le aveva fatte ingiallire e inaridire; stava là, con gli occhi fissi, quasi il sogno che avrebbe dovuto presto avverarsi si allontanasse rapidamente, ed egli non potesse far nulla per arrestarlo o richiamarlo. E quel senso di tristezza che gl'invadeva il cuore era tanto più penoso e vivo, quanto meno egli scorgesse occasioni e circostanze da doverlo indurre a pensare così. La casa, rinnovata, era pronta; il voto di Zòsima esaudito. Che altro gli occorreva di fare, all'infuori di andare a prendere lei per mano, condurla davanti al sindaco e poi davanti al parroco, in riprova del proverbio citato spesso dalla zia baronessa: Matrimoni e vescovati dal cielo son destinati? In quel momento però gli sembrava che la riprova, sì, sarebbe avvenuta, ma nel modo opposto a quel che egli credeva e si aspettavano tutti. E, appunto, quasi gli avesse letto nel pensiero, l'ingegnere gli diceva: «La signorina Mugnos dev'essere lietissima oggi. Per dire la verità, essa si merita la fortuna di diventare marchesa di Roccaverdina; ma credo che se qualcuno, mesi addietro, glielo avesse predetto, la signorina si sarebbe fatto il segno della santa croce, come suol dirsi, quasi per scacciare una tentazione.» «Forse ... anch'io!», disse il marchese. «Il mondo va così, per salti. Non c'è mai niente di sicuro per nessuno. Agrippina Solmo ... per esempio ... chi sa che cosa si era immaginato di dover raggiungere! ... Ed è finita, prima in un modo, poi moglie di un pecoraio di Modica, che forse le farà desiderare fin il pane ... » «No; anzi la tratta come una signora.» «Gliel'ha fatto scrivere lei? Brava ragazza!», continuò l'ingegnere. «Non è facile trovarne, nella sua condizione, una uguale. Qualunque altra, padrona, com'era qui lei, di ogni cosa, avrebbe pensato ai casi suoi, si sarebbe fatto il gruzzoletto. Essa, niente! Ammirevole anche per la modestia. Avea voluto rimanere quella che era, fin nell'apparenza. Non smise mai la mantellina, e avrebbe potuto portare, meglio di tant'altre, lo scialle che ora portano tutte le popolane, anche se più miserabili. E poi, bocca serrata! ... Anche dopo, quando non poteva più lusingarsi con nessuna speranza, mai, mai una parola di dispetto o di sdegno. Dinanzi a lei, il marchese di Roccaverdina era Dio! E se qualcuno, per commiserarla o per stuzzicarla e provocarla, le diceva: "Il marchese avrebbe dovuto comportarsi meglio con voi! ... E qua! ... E là!", sa come sono certe persone! essa non lo lasciava finir di parlare: "Il marchese ha fatto bene! Ha fatto più di quel che doveva! Dio solo glielo può rendere!". Me l'ha raccontato mia moglie, che l'ha sentito proprio con i suoi orecchi, senza esser vista ... Insomma, lei, marchese, è fortunato con le donne ... L'una meglio dell'altra! ... Se lo faccia dire dal notaio Mazza che cosa significhi incappar male!» Il marchese avrebbe voluto interromperlo subito, appena pronunciato il nome di Agrippina Solmo; ma, nella gran tristezza che gl'infondeva la pioggia, quello spiraglio sul passato aperto dalle parole dell'ingegnere, quell'evocazione inaspettata lo avevano un po' commosso, spingendolo a ricordare tante e tant'altre cose con lieve senso di rimpianto. Perché, infine, la colpa era stata tutta sua. Per vanità di casta, per premunirsi contro se stesso, egli aveva dato marito alla Solmo, con quel tirannico patto, senza punto riflettere alle sue possibili conseguenze. L'ingegnere, vedendo che il marchese taceva, e supponendo che gli accenni al passato gli fossero dispiaciuti, tratto di tasca un sigaro e accesolo, si era messo a fumare e a passeggiare per la stanza, stirandosi le fedine. Il marchese intanto, tenendo ancora fissi gli occhi su gli eucalitti grondanti d'acqua, rincorreva col pensiero una figura bianca, con le trecce nere sotto la mantellina di panno blu cupo; e rincorrendola per luoghi da lui visti anni addietro, tra casupole arrampicate a la roccia quasi ad accovacciarvisi al riparo del vento, sentiva un sordo impeto di gelosia diversa assai di quella sentita una volta ... Poteva forse dubitare ora? Poteva forse indignarsi? ... Non era egli stato contento che colei fosse andata ad abitare in quella lontana città mezza rannicchiata nell'insenatura di una roccia, in una di quelle casupole arrampicate su pei fianchi di essa quasi per accovacciarvisi al riparo del vento? E si voltò bruscamente verso l'ingegnere, che passeggiava su e giù col sigaro in bocca stirandosi le fedine, in atto di dirgli: «Ma perché mi avete rimestato nel petto queste ceneri ancora calde?». Come se la tristezza che lo aveva invaso gliel'avesse soffiata addosso colui, come se gli avesse messo lui sotto gli occhi la visione di Zòsima malinconicamente rassegnata e che diceva con voce dolente: «Non c'è fretta. Margitello non vi lascia pensare ad altro!». Ed era vero!

Abbiamo dovuto legarlo su una seggiola a bracciuoli ... mani e piedi! Chi poteva mai supporre ... !» Lo zio don Tindaro non osava d'inoltrarsi, inorridito dalla vista dell'infelice marchese che si dibatteva urlando scomposte parole, con la bava alla bocca, i capelli in disordine, agitando qua e là la testa, stralunando gli occhi, quasi irriconoscibile! Solide corde lo tenevano fermo su la seggiola, e Titta e mastro Vito Noccia, il calzolaio, reggevano dai lati la seggiola che scricchiolava, asciugando di tratto in tratto la bava che dalla bocca colava sul mento e sul petto del demente. «Ma come? ... Ma come?» «All'improvviso!», spiegava il cavalier Pergola. «Da più giorni si lagnava di una trafittura al cervello, di un chiodo, diceva, conficcato nella fronte ... Il male ha lavorato, lavorato sottomano ... Ormai è certo ... », riprese a un gesto interrogativo del suocero. «Lo ha ammazzato lui, per gelosia! ... » «Inesplicabile!», esclamò il notaio Mazza. «Anzi, ora tutto diventa chiaro», riprese il cavalier Pergola. E stettero un pezzo muti, a guardare il marchese che non cessava un minuto di agitare la testa, di stravolgere gli occhi, urlando con una specie di ritmo: «Ah! Ah! ... Oh! Oh!», mandando bava dalla bocca, intramezzando agli urli parole che rivelavano le rapide allucinazioni della mente sconvolta: «Eccolo! Eccolo! ... Mandatelo via! ... Ah! Ah! Oh! Oh! ... Zitto! Siete confessore! ... Voi non potete parlare! Siete morto! ... Non potete parlare ... Nessuno deve parlare! Ah! Ah! Oh! Oh!». «Sempre così!», disse Titta stralunato. «Sempre così!», confermò mastro Vito. «E una settimana fa, passando davanti a la mia bottega qui vicino si era fermato su la soglia. "Bravo! Di buon'ora al lavoro, mastro Vito." "Se non si lavora non si mangia, eccellenza!" Ah Signore! Che miseria siamo!» E mentre, non ostante la terribile rivelazione che faceva compiangere il povero Neli Casaccio condannato a torto e morto in carcere, la gente da due giorni s'impietosiva in vario modo della pazzia del marchese, soltanto Zòsima rimaneva inesorabile, inflessibile, sorda a ogni ragione. «No, mamma, non posso perdonare! ... È stata un'infamia, una grande infamia! ... Non capisci, dunque? L'ha amata fino a diventare assassino per essa! ... Te lo dicevo! Io non sono mai stata niente, oh niente! per lui.» «Ma che si dirà di te?» «Che m'importa di quel che si dirà? Voglio andar via! Non voglio restare un altro solo giorno in questa sua casa ... Mi fa orrore!» «Anche questa è pazzia! Sei la moglie. Ora egli è un infelice, un malato ... » «Ha tanti parenti, ci pensino loro! Qui c'è la maledizione! Mi sento morire! Mi vuoi morta dunque?» «Oh, Zòsima! ... Gesù Cristo ci comanda di perdonare ai nostri nemici.» «Sta' zitta tu! ... Non puoi intendere tu!», aveva risposto sdegnosamente alla sorella. «Se non mi volete in casa vostra ... » «Figlia mia, che dici mai?» «Fino a diventare assassino ... per quella!» Non sapeva darsene pace. Il suo cuore traboccava di odio, quanto aveva traboccato di amore fino a pochi giorni addietro. Il sangue le si era cangiato in fiele. Ah! ora ella doveva, con più ragione, invidiare colei che poteva insuperbirsi apprendendo di essere stata amata tanto! Si sentiva umiliata, ferita mortalmente nella più delicata parte di se stessa, in quel legittimo orgoglio di donna che si era formata un culto della sua prima ed unica passione, e aveva sofferto in silenzio, nascostamente, senza illusioni e senza speranze, tanti anni! Perché non aveva dato ascolto all'ammonimento delle sue esitanze? Perché si era lasciata indurre dalla baronessa e dalla madre? Non sarebbe stata, com'era stata, marchesa di Roccaverdina di nome soltanto! Nulla, nulla poteva più compensarla, consolarla! E doveva fingere, per l'occhio della gente? Sentirsi compassionare? Oh, chi sa quante in quel momento ridevano di lei! Tutte coloro che avrebbero voluto essere al posto di lei; parecchie, lo sapeva! No, no! Ormai era finita! Se il marchese fosse guarito, non guarirebbe egualmente l'atroce piaga che le si era aperta nel cuore! Giorni fa, poteva confortarsi, lasciarsi lusingare dalle buone parole, dalle apparenze; ora, impossibile! Doveva stimarsi un'estranea in quella casa che neppure la sua presenza di moglie legittima aveva potuto ribenedire ... Mamma Grazia, povera vecchia, s'era ingannata! E, ferma nella risoluzione di andar via, rispondeva: «Questa sera, tardi, quando nessuno potrà accorgersene, con le sole vesti che ho indosso! ... È inutile, mamma, non potrai persuadermi!». «Se tu lo vedessi, ne avresti pietà!» «Dio è giusto! È la mano di Dio che lo punisce!» «Castigherà anche te che non avrai fatto il tuo dovere ... Non ti riconosco, Zòsima! Tu, così buona!» «Mi ha resa cattiva lui; mi ha pervertita lui! Mi ha fatto diventare una creatura senza cuore! Peggio per lui!» La signora Mugnos, addoloratissima di quest'altra pazzia (tornava a qualificare per tale l'ostinazione della figlia), aveva voluto parlarne allo zio don Tindaro e al cavalier Pergola. Il vecchio rispose crudamente: «Lo ringrazia così del bene che le ha fatto?». Il cavalier Pergola alzò le spalle, borbottò una bestemmia e domandò: «La casa, in mano di chi l'abbandona la casa?». «N'esce come vi è entrata!», replicò fieramente la signora, che in quel punto sentì ribollirsi in petto tutto l'orgoglio delle nobili famiglie Mugnos e De Marco - ella era una De Marco da ragazza - delle quali portava il nome. Ciò non ostante, tornò ad insistere presso la figlia: «Rifletti bene! Hai tante responsabilità!». «Ho riflettuto abbastanza!», rispose Zòsima. «Consigliati col tuo confessore!» «In questo momento non posso ascoltar altro che il mio cuore. Non voglio essere un'ipocrita; sarebbe un'indegnità ... Oh, mamma!» E vestita di scuro, quasi da vedova, sotto lo scialle nero che le copriva la fronte, a sera avanzata ella scendeva assieme con la mamma sorretta al braccio della sorella, la vecchia scala dell'atrio, e usciva nel vicolo buio sotto il palazzo Roccaverdina. Aveva voluto evitare di attraversare il corridoio e di passare davanti a l'uscio dello studio dove il marchese urlava giorno e notte da quattro giorni - assistito da Titta e da mastro Vito che si davano lo scambio - agitandosi su la sedia a bracciuoli, senza che mai il nome di Zòsima gli fosse venuto alle labbra. Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola entravano, a intervalli, dal demente che non li riconosceva, e ne uscivano atterriti. Ora, invece del dottor Meccio, accorso il primo giorno più per maligna soddisfazione che per zelo, lo visitava il dottor La Greca, medico di famiglia, soprannominato il Dottorino perché piccolo e smilzo di persona. Alle corde egli aveva fatto sostituire larghe fasce, fino a che non fossero arrivati la camicia di forza e l'apparecchio per le docce mandati a comprare a Catania. Con lui si poteva ragionare. Invece quel clericalaccio di San Spiridione aveva fatto andare su le furie il cavalier Pergola, ripetendogli più volte: «Caro cavaliere, qui si vede la mano di Dio!». «E la zia Mariangela dunque, che riammattiva a ogni gravidanza? E bestemmiava e imprecava, mentre quando ritornava in senno era la più buona e onesta donna? E gli altri pazzi? La mano di Dio! Esquilibri di nervi, sconvolgimento di cervello prodotto dal pensiero fisso, fisso sempre su la stessa idea.» Il dottor La Greca andava di accordo con lui. E se quel fanatico di don Aquilante aveva davvero iniziato il marchese nelle pratiche spiritiche, ce n'era d'avanzo per spiegarsi perfettamente quel che avevano sotto gli occhi. Gli ospedali di Parigi, di Londra, di Nuova York - egli affermava - rigurgitavano di spiritisti ammattiti, uomini e donne. Per ciò il cavaliere aveva fatto capire all'avvocato di non farsi più vedere in casa Roccaverdina. «Insomma, dottore, non si può far nulla? Dobbiamo stare a guardare?» Lo zio don Tindaro avrebbe voluto ordinazioni di rimedi, tentativi almeno. Gli urli del marchese lo straziavano; e si desolava alla risposta del dottore: «È assai se riusciamo a farlo mangiare!». Dovevano imboccarlo, indurlo a inghiottire con minacce, ingozzarlo talvolta come una bestia. Opponeva resistenza, serrava i denti, agitava furiosamente la testa - «Oh! Oh! Ah! Ah!» - e il ritmo di questi urli si udiva fin dalla spianata del Castello, ora che il dottore aveva fatto trasportare il marchese in una stanza più larga e più ariosa, dove si era potuto rizzare comodamente l'apparecchio per la doccia, arrivato il giorno avanti. Steso sul letto, con la camicia di forza, il demente sembrava avesse intervalli di calma, allorché con gli occhi sbarrati, fissi in qualcuna delle sue continue allucinazioni, borbottava accozzaglie di suoni che avrebbero voluto essere parole; ma era calma illusoria. La forza dell'allucinazione lo domava, travagliandolo internamente, ed egli usciva da quello stato scoppiando in urli più violenti, più forti, in esclamazioni di terrore: «Eccolo! Eccolo! ... Mandatelo via! Ah! Ah! Oh! Oh! il Crocifisso! ... Rimettetelo al suo posto, giù, nel mezzanino! Oh! Oh! Ah! Ah!». E i nomi di Rocco Criscione, di Neli Casaccio, di compare Santi Dimauro, facevano capire il tristo cumulo di impressioni che gli aveva sconvolto il cervello, dove la pazzia già si mutava in ebetismo, senza speranza di guarigione. Lo zio don Tindaro, per la sua età, non resisteva alla tortura del miserando spettacolo; e il cavalier Pergola, rimasto in casa Roccaverdina, dopo quindici giorni non ne poteva più, anche perché doveva badare ai proprii affari, e per quelli del cugino non sapeva come regolarsi. La imperdonabile risoluzione della marchesa lo faceva uscire in escandescenze: «E si dicono cristiane! E si confessano e ingoiano particole! E ... ! E ... ! E ... !». La sfilata degli improperi non finiva più se qualcuno, venuto ad informarsi dello stato del marchese, tentava di scusare la povera signora che avea dovuto mettersi a letto appena giunta a casa, con febbre che durava ancora e faceva temere per la sua vita. «Qui, qui era il suo posto! ... E quel che ho detto a voi glielo direi in faccia! ... Voglio che lo sappia!» Poteva durare più a lungo, così? «Non durerà molto», gli aveva risposto una sera il dottore. «L'ebetismo si aggrava con terribile rapidità.» Ed egli e il dottore che stava per accomiatarsi, erano rimasti stupiti e quasi non credevano ai loro occhi, vedendo apparire su l'uscio del salotto Agrippina Solmo, che Maria non era riuscita a far restare in anticamera. «Dov'è? ... Lasciatemelo vedere!» Maria teneva ancora afferrata per la falda della mantellina quella sconosciuta, parsale pazza quando le aveva aperto la porta d'entrata. «Dov'è? ... Me lo lascino vedere ... Per carità, cavaliere!» E gli si era buttata ai piedi, ginocchioni.

Abbiamo pure la testimonianza del garzone di Santi Dimaura, che udì queste parole e intervenne nel discorso, dicendo: "La vostra mula sa la strada meglio di voi, e non ha paura dei fanghi di Margitello". "Con la mia mula andrei anche all'inferno!", rispose Rocco. "E dicono che la strada sia peggio." "In paradiso dobbiamo andare, con la grazia di Dio!" Risposto così, Neli Casaccio si allontanò, chiamandosi dietro il cane. Egli stesso ha deposto che il garzone di Santi Dimaura ha detto la verità. Il garzone non ha saputo riferire se l'intonazione di quelle parole sia stata semplice, naturale o con qualche accento d'ironia: ma l'ironia ha dovuto esservi. Rocco, scherzando, parlava della strada dell'inferno, e Neli parlava ... del paradiso, per non dire apertamente: "Ti manderò all'inferno io, questa notte!".» «Nessuno però ha visto Neli Casaccio.» «Capisco; voi, marchese, vorreste la certezza assoluta. In questo caso non ci sarebbe stato bisogno del giudice istruttore, né di tanti testimoni per raccogliere un indizio qua, un altro là, e aggrupparli, confrontarli, svilupparli. Neli Casaccio è furbo. Cacciatore di mestiere; figuriamoci! Ma è spaccone, ha lingua lunga. "Gli faccio fare una fiammata!" Quando alla minaccia segue il fatto, che cosa si può chiedere di più?» Parlando, don Aquilante aggrottava le sopracciglia, storceva le labbra, sgranava gli occhi, agitava le braccia, tenendo combaciati l'indice e il pollice delle due mani e allargando le altre dita con gesto dimostrativo, da uomo che vuole aggiungere evidenza alle sue ragioni. E incupita la voce nel pronunziare queste ultime parole, si era arrestato, fissando in viso il marchese che lo guardava con occhi smarriti, pallidissimo, umettandosi con la lingua le labbra inaridite. «È venuta da me, l'altra mattina, la povera vedova di Rocco», riprese don Aquilante, vedendo che il marchese stava zitto. «Sembrava la Madonna Addolorata: "Non avrò pace fino a che gli assassini di mio marito non saranno in galera!".» «Perché dice: assassini?», domandò il marchese. «Perché lei crede che siano stati più di uno.» «Il colpo di fucile è stato più di uno?» «Che ne sappiamo? Uno quello che ha ucciso. E nessuno ha udito, nella notte, neppure quel colpo.» Don Aquilante socchiuse gli occhi, scosse la testa e fece una lunga pausa. Di tratto in tratto, quasi spruzzati per forza, pochi goccioloni sbattevano sui vetri simili a chicchi di grandine; ma i tuoni rimbombavano con lunghi echeggiamenti, tra le grida di gioia della povera gente smaniante per la pioggia nelle scoscese viuzze attorno alla vasta casa dei Roccaverdina, isolata da ogni lato e quasi arrampicata a quell'angolo della collina di Ràbbato che aveva in cima le torri dell'antico castello rovesciate dal terremoto del 1693@. 1693. Dalla parte del viale che conduceva lassù, la casa dei Roccaverdina aveva l'entrata a pianterreno, mentre dal lato opposto la facciata di pietra intagliata si elevava con tre alteri piani su le povere casette di gesso dalle quali era circondata. Gli altri lati, a mezzogiorno e a tramontana, seguivano la ripida elevazione del terreno, e davano a chi guardava l'impressione che l'edificio si fosse sprofondato per un avvallamento della collina. Il terrazzino della sala da pranzo rispondeva a ponente, e il vento impetuoso lo investiva di faccia. Durante la lunga pausa, il marchese aveva osservato con crescente inquietudine l'atteggiamento dell'avvocato che, tenendo socchiusi gli occhi e scotendo la testa, sembrava ragionasse da sé, sotto voce, poiché di tratto in tratto agitava le labbra quantunque non ne facesse uscire nessun suono. «Per conto mio», disse don Aquilante, destandosi improvvisamente dalla concentrazione che lo aveva fatto ammutire, «io sto tentando un'inchiesta più concludente dell'istruttoria del processo; ma forse è ancora troppo presto.» «Non parliamo di queste sciocchezze ... scusate, avvocato, se dico così», lo interruppe il marchese. «E avete torto!» Don Aquilante, col viso rischiarato da un orgoglioso sorriso di compatimento, appoggiava i gomiti su la tavola, incrociava le dita delle mani e ne faceva sostegno al mento, intanto che con voce cupa e lenta riprendeva: «L'ho veduto ieri, per la prima volta. Non ha ancora coscienza di essere morto. Accade così per tutti gli uomini materiali. Erra per le vie del paese, si accosta alle persone, interroga, s'indispettisce di non ricevere risposta da nessuno ... ». «Sì ... va bene; ma io non amo ragionare di queste cose», tornò a interromperlo il marchese, che però non riusciva a nascondere il suo turbamento. «Lasciamo in pace i morti.» «Invece i morti soffrono di vedersi dimenticati. Io lo attirerò verso di me, lo interrogherò per sapere proprio da lui ... » «E quando sarete arrivato a sapere? ... Che valore avrà la vostra testimonianza?» «Non voglio testimoniare, ma sapere, unicamente sapere. Ecco: io avevo già appreso, per altre vie, che l'assassino è stato uno solo, appiattato dietro la siepe di fichi d'India. "Il nome!", ho chiesto. Non me lo hanno potuto rivelare, per leggi inviolabili del mondo di là di cui noi ignoriamo la ragione.» «Ah!», fece il marchese. «Ma se quel che voi volete darmi a intendere fosse vero, non rimarrebbe più nessun delitto impunito e il governo potrebbe abolire la polizia.» «È un altra quistione!», rispose don Aquilante. «Lasciamo andare; non mi convincerete mai, mai, mai! E poi, la Chiesa proibisce queste operazioni diaboliche. È provato che si tratta di inganni del diavolo. Vi siete lasciato invischiare, così dotto come siete. Ma già voi altri dotti incappate negli errori più di noi ignoranti ... » «Non direte così tra qualche mese!» «Oh, vi prego di lasciarlo in pace ... cioè, di lasciarmi in pace!», si corresse il marchese. «Penso all'arresto di Neli Casaccio. Se il giudice istruttore si è deciso a ordinarlo ... » «La giustizia umana fa quel che può. O prove evidenti, o indizi che conducano a una prova morale; non ha altri mezzi.» «E così, spesso, condanna qualche innocente!» «Non lo fa a posta; errare humanum est! Ma nel caso nostro è difficile che sbagli. Rocco era un brav'uomo; non aveva nemici. Chiassone, sì; donnaiolo, anche! Da che aveva preso moglie però ... Gli piaceva di scherzare ciò non ostante. La stessa moglie di Casaccio ha detto al giudice istruttore: "Tempo fa, è vero, mi si era messo attorno, non mi dava requie. Mandava imbasciate, quando non aveva occasione di parlarmi lui stesso. Ed io: ' Siete pazzo, santo cristiano! Non faccio un torto a mio marito. Povera, ma onesta! '. Poi si era chetato. E mio marito lo sapeva, e non lo minacciava più ... Erano tornati amici".» «Ha detto: si era chetato?» «Sarà stato vero? La donna ha interesse di scusare sé e il marito.» «Si era chetato!», mormorò il marchese. E strizzò gli occhi, levandosi da sedere. Respirava fortemente, quasi sentisse mancar l'aria nella stanza. Aperti prima gli scuri dell'imposta, spalancò poi la vetrata e si affacciò al terrazzino. Don Aquilante lo raggiunse. Dietro le nuvole diradate e sospinte dal vento, sembrava che la luna corresse rapidamente pel cielo. Al velato chiarore lunare i campanili, le cupole delle chiese di Ràbbato si scorgevano nettamente tra la bruna massa delle case affollate nell'insenatura della collina. Tutt'a un tratto, il vasto silenzio fu rotto da una roca voce che gridava quasi imprecando: «Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! oh! - Cento mila diavoli alla casa dei Pignataro! Oh! oh! - Cento mila diavoli alla casa dei Crisanti! Oh! oh!» «È la zia Mariangela, la pazza!», disse il marchese. «Ogni notte così.» E il grido riprendeva, roco, con una specie di cantilena feroce. «Suo marito la tiene incatenata come una bestia», rispose don Aquilante. «Dovrebbe immischiarsene l'autorità; farla rinchiudere in un manicomio.» La pazza tacque. Il vento aveva già spazzato le nuvole. Il temporale si era già allontanato, con gli stessi lampi che incendiavano un largo spazio di cielo, verso Aidone, dietro le colline di Barzino. «Sempre così! Sarà un gran guaio anche quest'anno!», disse don Aquilante. «Buona notte, marchese.» Il marchese stava per rispondere, quando un altro grido, acuto, straziante, gli arrestò le parole in gola: «Figlio! ... Figlio mio!». «È la moglie di Neli Casaccio!», esclamò l'avvocato, voltandosi verso il punto da cui il grido veniva. «I carabinieri sono andati ad arrestarlo. Guardate, là, nella Piazzetta delle Orfanelle ... » Al chiarore della luna, essi poterono scorgere il gruppo dei carabinieri che conducevano via l'arrestato. E l'affettuoso grido della moglie di Neli Casaccio vibrò di nuovo, dolorosamente, nell'oscurità, tra il sibilare del vento che riprendeva violentissimo. «Figlio! ... Figlio mio!»

"Abbiamo quel che c'è sufficiente. Ormai, ci siamo abituate! ... " Quel suo famoso "ormai!" Mi fa pena intanto l'altra ragazza. Si farà monaca, dice.» «Ora che stanno per abolire i monasteri?» «Dio non lo permetterà!» «Penseremo anche a lei. Ci penserà Zòsima. La marchesa di Roccaverdina riceverà una dote, e potrà disporre di qualunque somma, a suo piacere.» «La conosci poco. Le parrebbe di abusare del suo stato. Ha tutte le delicatezze quella figliuola. Giorni fa, mi diceva: "Deve trovarsi male con mamma Grazia. È persona fidata, affezionata, proprio una mamma. Una casa come quella però ha bisogno di una donna che sappia ... ".» «Infatti ha ragione. Da qualche tempo in qua, mamma Grazia va giù, va giù; è mezza istupidita. Ma posso mandarla via? Chiuderà gli occhi in casa Roccaverdina, poveretta!» «Mi diceva anche ... Debbo riferirtelo, perché tu la disinganni; il tuo modo di comportarti non è tale, in verità, da tranquillarla. Mi diceva anche: "Se lo fa unicamente per contentare sua zia (giacché io so quanto interesse ha preso lei perché questo matrimonio avvenga), se il suo cuore non sente per me quel che il mio sente per lui", e le tremava la voce, "lasciamo andare! Non vorrei che egli si sacrificasse. Ormai!". Sempre quell'"ormai!" La ho sgridata; ho risposto per te.» «Avete fatto bene, zia.» «Sarebbe assai meglio che cercassi di convincerla altrimenti tu stesso. Non pretendo che, alla tua età, tu ti metta a fare lo spasimante. Ma c'è modo e modo, nepote mio. "È un po' orso!", le ho detto. Lo addomesticherai tu, lo renderai un altro in poco tempo.» Il marchese non sapeva che rispondere. Sentiva di trovarsi dalla parte del torto. Il suo cuore non era preso, e quando egli pensava a Zòsima gli si agitava poco o niente. Provava un piacevole sentimento, una dolce soddisfazione; non altro. I suoi sensi non vibravano, come gli accadeva se una folata di ricordi, investendolo improvvisamente, gli avvampava il sangue e lo lasciava turbato e sconvolto, con un indefinito senso, che egli non distingueva bene se di rancore o di rimpianto. Appena la vide entrare però, assieme con la sorella e con la mamma, le andò incontro e le strinse fortemente la mano che ella gli porgeva commossa. «La campagna dev'essere un paradiso», disse la signora Mugnos. «Germoglia a vista d'occhio; sembra che scoppi!», rispose il marchese. «Era tempo!», esclamò la baronessa. Cristina non diceva niente. Si era seduta vicino ai seggioloni dove i due superstiti canini della baronessa stavano accovacciati coi musi appoggiati sul piano imbottito e con gli occhi socchiusi, e ne accarezzava con una mano le teste che mostravano di gradire assai la carezza, tremando leggermente ed abbassandosi sotto la mano. Intanto il marchese, tratta un po' in disparte Zòsima, le diceva quasi sottovoce: «Voglio giustificarmi». «Di che cosa?» «Di quel che voi sospettate.», «Non sospetto niente; temo. È naturale.» «Non dovete temere di nulla.» Guardandola e sentendola parlare, egli riconosceva più chiaramente il suo torto; e le parole di una volta: «Questa è la donna che ci vuole per me!», gli ronzavano nel cervello come un rimprovero. «Un po' di pazienza», rispose. «Qualche altro mese ancora. Voglio liberarmi dall'ingombro di parecchi affari. In certi giorni, ho una specie di stordimento, tante sono le cose a cui mi tocca di badare. Dovrebbe farvi piacere questa febbre di attività, dopo il mio balordo isolamento.» «Non me ne sono mai lagnata.» «Lo credo; siete immensamente buona. Voglio farvi ridere. Ho pensato di dare il vostro nome alla botte grande dello Stabilimento; porterà fortuna all'impresa.» «Grazie!», disse Zòsima sorridendo. «È una sciocca idea, forse ... » «Niente è sciocco se fatto seriamente.» Lieto della risposta, egli tacque un istante; poi riprese: «È vero che vostra sorella pensi di farsi monaca? ... ». «Non lo so; può darsi.» «Dissuadetela.» «Assumerei una grande responsabilità.» «Non vi ho mai palesato una mia idea. Non voglio separarvi dalla mamma e dalla sorella. La mia casa è abbastanza vasta da poter accogliere anche loro.» «Ve ne sono gratissima da parte mia. La mamma però ha una particolar maniera di vedere le cose.» «La sua delicatezza non potrà offendersi dell'invito ad abitare in casa di sua figlia.» «La nostra condizione c'impone molti riguardi di dignità. Quante volte non ho io pensato: "Che diranno di me?". È vero che non bisogna occuparsi della malignità della gente. Basta la propria coscienza.» «Io non mi sono mai occupato dell'opinione degli altri. Non mi chiamo Antonio Schirardi marchese di Roccaverdina per nulla!» «A voi sarà lecito; ma una famiglia come la nostra ... » «I Mugnos non sono da meno dei Roccaverdina.» «Erano!» «Il sangue non muta; il nome è qualche cosa.» «C'è un orgoglio che non può essere scompagnato dai mezzi di farlo valere. Io la penso come la mamma. E per ciò ho detto alla baronessa quel che deve avervi riferito, se ho ben compreso il significato delle vostre prime parole. Siate sincero, per vostro bene e mio! Tutto è rimediabile ora.» «Quando il marchese di Roccaverdina ha impegnato la sua parola ... » «Potete esservi ingannato. Qui non si tratta della vanità di mantenere o no la propria parola. Io vorrei detto da voi ... » Ella parlava con gentile timidità, quantunque non timide fossero le parole. La voce era alquanto affiochita dalla commozione, e anche dalla circostanza di dover ragionare alla presenza della baronessa, della mamma e della sorella. Il marchese, ammirando l'assennatezza delle parole di Zòsima, cominciava a scoprire che sotto quel contegno nobile e riservato covava un fuoco intenso, a cui soltanto la fortezza della volontà di lei non permetteva di divampare. Ebbe uno slancio; e prendendole le mani con rapido gesto, senza ch'ella avesse tempo d'impedire quell'atto, disse: «Non ho altro da dirvi, Zòsima, che sono dispiacentissimo di avervi dato occasione di dovermi parlare così!». Una leggera pressione delle belle mani di lei fu la risposta. Zòsima abbassò gli occhi, col volto colorito da una sfumatura di roseo.

Non ci danno da mangiare essi, non ci tolgono un guaio di addosso; e ne abbiamo tanti! Dunque? Dunque stringiamoci nelle spalle, e lasciamo che le cose vadano come debbono andare. E poi, caro cugino, noi non siamo scienziati. Gli scienziati fanno tante belle scoperte; se le tengano per loro. Noi non possiamo rispondere: "È vero! Non è vero!". Che ne sappiamo? Dobbiamo stare in fede loro. Non sono infallibili. Dunque? ... Me ne vado; è tardi.» «I preti non vogliono altro; contano su la nostra ignoranza.» «Voi ce l'avete coi preti. Per me, sono uomini come noi. Perché hanno la chierica? Perché dicono messa? Fanno il loro mestiere. Io sto a sentirli, e poi ... agisco come mi persuado. Anche don Aquilante ce l'ha coi preti. E intanto egli le sballa più grosse di loro. Non voglio dar retta a nessuno da oggi in avanti. Fate come me. Ve ne troverete bene. Che male ci sarebbe stato se aveste celebrato a suo tempo il matrimonio religioso? Avete riparato ora, e vi approvo.» «Per contentare mia moglie ... » «Dovevate contentarla prima, se le volevate bene. Avete avuto paura. Significa che, in fondo, non siete proprio convinto neppure voi ... » «Vi avrei voluto nei miei panni, con queste maledette tonsille! Ma le farò strappare. Un'operazione da nulla, senza dolore e senza sangue; le afferrano con uno strumento che taglia e caustica nello stesso tempo, e in un minuto è fatta!» «Bravo! ... Ma intanto avete avuto paura!» Il marchese rideva, soddisfatto di aver potuto mortificare il cugino, e d'essersi presa la rivincita del turbamento prodottogli quella mattina con la confessione, con lo spettacolo delle reliquie e il resto. In quanto a sé, tornando a casa, era contento di ripetersi mentalmente: «Non voglio essere un santo io!».

«Non abbiamo lavorato pei suoi begli occhi!» «Non ci siamo messi allo sbaraglio unicamente per farle piacere!» «Così è il mondo!», pensava il marchese. «Tutto apparenza. Mi credono onesto, irreprensibile perché ignorano. Così è il mondo! Forse parecchi di questi qui hanno fatto peggio di me, e, ignorando, anche io li stimo e li rispetto. Forse, non hanno avuto coraggio, ardire, astuzia, onesti loro malgrado; forse, loro è mancata l'occasione, onesti per caso!» Sentiva rinascere proprio in quei momenti la solita superstiziosa paura, la solita apprensione di pericoli appiattati nell'ombra. Gli pareva che il contatto con tanta gente lo costringesse a vivere in un'atmosfera insidiosa, dove non poteva respirare liberamente. Non vedeva l'ora di sottrarsi ai loro sguardi, di tornare a Margitello. Colà i lavori erano stati sospesi; voleva sorvegliarli lui, non si fidando molto dell'ingegnere. Stavano per arrivare i pigiatoi, i frantoi, le botti, i bottaccini, i coppi; e i locali erano ancora ingombri di materiali, e certe opere di muratura appena iniziate! Inoltre, aveva fretta di assestare la sua casa, la sua vita; di riprendere un po' la vecchia abitudine d'isolamento; di riposarsi dopo tante agitazioni che, infine, non erano servite a difenderlo, come aveva creduto, dagli intimi turbamenti dai quali era reso scioccamente irrequieto. La baronessa di Lagomorto non aveva visto di buon occhio l'intromissione del marchese negli affari municipali. «Che t'immagini? Si servono di te pei loro fini. Ti hanno mai ricercato prima?» «Ho sempre rifiutato.» «Avresti fatto meglio a lasciarli cantare anche ora. Zòsima, ieri mi diceva: "Ha tanto da fare a casa sua!". Quasi, poveretta, temesse ... Insomma, quando ti risolverai? Io non voglio morire prima di assistere alle tue nozze.» «Tra qualche mese, zia.» «Li so, per prova, i tuoi mesi. Hai la felicità sotto mano, e non ti scomodi a stendere il braccio! Perché? Non ti capisco; Zòsima ha ragione di sospettare ... » «Mi dispiace.» «Lo dici in certa maniera! Comincio ad impensierirmi anch'io.» «Non credevo che la fabbrica laggiù, a Margitello, dovesse tenermi tanto occupato. Ora poi queste elezioni ... » «Domani chi sa che cos'altro!» «Niente, zia! Mi sento stanco; ho bisogno di pace, di tranquillità. Ecco! Voi lo sapete, se una cosa mi afferra ... » «Appunto.» «Uno di questi giorni, domenica prossima anzi, con voi, con la signora Mugnos, con Zòsima, parleremo dei preparativi; e in due o tre settimane ... Ho riflettuto; l'idea di Zòsima mi persuade; tutto alla buona, senza sfarzo, senza chiasso. Non potranno dire che faccia così per avarizia o perché mi manchino i quattrini. Un matrimonio è festa di famiglia.» «Zòsima ne sarà molto contenta.» Ed era partito per Margitello assieme con l'ingegnere e il cavalier Pergola, il quale gli stava alle costole più che mai. Bisognava battere il ferro mentre era caldo; non perdere i beneficii della grande vittoria ottenuta. «Gli amici sono rimasti scombussolati; ma lavorano con le mani e coi piedi presso il sottoprefetto, presso il deputato, perché la scelta del sindaco caschi sopra uno di loro.» «Non posso farmi sindaco da me!», rispondeva il marchese un po' seccato. «Se li lasciamo mestare, se non ci facciamo vivi! ... Una visita al sottoprefetto ... » «E chi lo conosce cotesto signore?» «Non importa; è un funzionario del governo, e si terrà onorato di ricevere l'ossequio del marchese di Roccaverdina.» «Lasciamo, per ora, questo discorso. Guardate. Le campagne sembrano un giardino!» Un'immensa stesa di verde, di mille toni di verde, dal tenero al cupo che sembrava quasi nero; un trionfo, una follia di vegetazione fin nei terreni più ingrati, che non avevano mai prodotto un fil d'erba! I ciglioni dello stradone sembravano due interminabili siepi folte di meravigliosi fiori gialli, rossi, bianchi, azzurri, che si rizzavano su giganteschi steli tra foglie di smeraldo, come se un'esperta mano di giardiniere avesse pensato a mescolare i colori e le loro sfumature per produrre effetti di sorprendente decorazione. Ed erano erbe selvatiche senza nome, che s'intrecciavano, si pigiavano, non lasciando il minimo spazio tra loro, sorridenti, smaglianti al sole che le vivificava dall'alto. E i seminati! Un tappeto di velluto verde che non finiva più, cosparso di macchie rosse dai papaveri, punteggiato di ricami cilestrini e violetti dalle iridi. E qua i papaveri dilagavano in larghe chiazze sanguigne; là, i fiori del lino coprivano liste e quadrati col loro tenero azzurro argentato; e, dappertutto, miriadi di farfalle che s'inseguivano con ali tremolanti, piccole, grandi, di ogni forma e colore, quali non se n'erano mai viste, quante non se n'erano mai dischiuse dalle crisalidi e dai bozzoli a memoria di uomo! Le mule della carrozza trottavano allegramente, e gli stormi dei piccioni di Margitello, incontrati alla svolta della carraia, tornavano addietro, verso il casamento con rapido fruscio d'ale, quasi ad annunziare colà la visita del padrone.

«Ma dunque non abbiamo certezza di nulla! C'è da perdere la testa!» «Assoluta certezza, marchese.» «Insomma, secondo voi, esiste Dio? Sì o no?» «Esiste; non quello però di cui ci parlano i preti.» «E il paradiso? l'inferno? il purgatorio?» «Certamente, ma non nel modo che spacciano la Chiesa e i suoi teologi, con le loro fantasie pagane, con le loro leggende da donnicciuole! Fuoco materiale, supplizio eterno, visione beatifica ... Vi paiono cose serie?» «C'è da perdere la testa!», replicò il marchese. «Al contrario. Niente è più consolante della nuova dottrina. Noi siamo arbitri della propria sorte. Il bene e il male che facciamo influiscono su le nostre esistenze future. Passiamo di prova in prova, purificandoci, elevandoci ... se siamo stati capaci di emendarci, di spiritualizzarci ... » «Intendo ... me lo avete già detto tant'altre volte ... Ma la certezza? La certezza, domando io?» «Picchiate e vi sarà aperto, ha detto Gesù. La verità vuol esser ricercata insistentemente, con animo puro e disinteressato. Voi e tutti coloro che sono nella vostra condizione non ve ne date pensiero. Siete immersi nella materia. Fate il bene con l'unico intento di guadagnarvi un posticino in paradiso; non fate il male, quando non lo fate, per paura dell'inferno e del purgatorio ... La certezza? Primieramente sta nella logica. Voi credete all'assurdo. Che certezza avete? Perché vi hanno affermato: È così? E noi proviamo che non è così. Proviamo, badate bene! ... Quel povero cavaliere ... » «C'è da perdere la testa!» Il marchese non sapeva dir altro. A chi doveva dar retta? Avrebbe voluto, con una gran scrollata di spalle, tornare almeno allo stato di una volta, quando pensava soltanto ai suoi affari e viveva a modo suo, da bruto, sia pure, ma in pace e affidandosi al caso che lo aveva servito bene fin allora. Ah! Il cugino Pergola gli aveva fatto un gran tradimento con quella conversione. Ma don Aquilante poi che cosa conchiudeva con le sue nuove dottrine? Parole! Parole! Parole! ... Eppure i libri prestatigli dal cugino gli erano sembrati così convincenti! Perché non doveva fidarsi della propria ragione? E passò la intera nottata a rileggerli nei punti che più lo interessavano. Ahimè! L'effetto era assai diverso da quello ottenuto altra volta. Ora gli sembrava che quei libri affermassero troppo sbrigativamente, che gli sgusciassero di mano quando egli avrebbe voluto meglio stringerli in pugno. Interrompeva la lettura, rifletteva, ragionava a voce alta, quasi avesse là davanti una persona con cui discutesse, passeggiando su e giù per la camera, tentando invano di combattere i terrori che gli insorgevano attorno da ogni parte, e non soltanto a spaventarlo ma a irriderlo. Un'inesorabile lucidità di coscienza lo faceva irrompere contro se stesso: «Eh? Ti sarebbe piaciuto che Dio non esistesse! Ti sarebbe piaciuto che l'anima non fosse immortale! Hai tolto la vita a una creatura umana, hai fatto morire in carcere un innocente, e volevi goderti in pace la vita quasi non avessi operato niente di male! Ma lo hai visto: c'è stato sempre qualcuno che ha tenuto sveglio in fondo al tuo cuore il rimorso, non ostante tutto quel che tu hai fatto per turarti gli orecchi e non sentirne la voce. E questo qualcuno non si arresterà, non si stancherà, finché tu non abbia pagato il tuo debito, finché tu non abbia espiato anche quaggiù! ... ». Parlava e aveva paura della sua voce, che gli sembrava la voce di un altro; parlava e abbassava la testa, quasi quel qualcuno gli giganteggiasse di fronte, senza forma, senza nome, simile a un terribile misterioso fantasma, facendogli sentire la stessa prepotente forza da cui, la notte che il vento urlava per le vie, era stato trascinato in casa di don Silvio per confessarsi e sgravarsi la coscienza dell'orrido incubo che l'opprimeva. Ed ora, che doveva egli fare? Accusarsi, come gli aveva imposto don Silvio? Gli sembrava inutile ormai. Neli Casaccio era morto in carcere. Nessuno, all'infuori di lui, pensava più a Rocco Criscione! Che doveva egli fare? Andare a buttarsi ai piè del papa per ottenere l'assoluzione, per farsi imporre una penitenza? Oh! Non poteva più vivere così ... E tornava ad irrompere contro se stesso: «L'orgoglio ti acceca! ... Non vuoi macchiare il nome dei Roccaverdina! ... Dei Maluomini! Ah! Ah! E vorresti continuare ad ingannare il mondo, come hai ingannato la giustizia umana! ... Hai scacciato di casa tua il Cristo, che t'importunava col rimprovero della sua presenza! ... Ed ecco dove ora ti trovi! Egli, sì, egli ti è stato addosso, non ti ha dato tregua ... E ti perseguiterà, fino all'estremo, e smaschererà la tua ipocrisia, inesorabilmente! ... Che potrai tu contro di lui?». Con un manrovescio fece volar via dal tavolino quei libri che più non riuscivano a convincerlo, e già gli sembravano balorda mistificazione; e stette a lungo, con la testa tra le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov'egli aveva dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto trovar sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la divina grazia del perdono! Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità, e ch'egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent'anni. Eppure niente era mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li scorreva con gli occhi, li numerava ... No, niente era mutato. Egli soltanto era diventato un altro. Perché? Perché? Suo cugino, sentendosi in pericolo di morte, aveva rinnegato le sue convinzioni? Che doveva importargli di lui? E non poteva essere stata una debolezza piuttosto fisica che intellettuale? Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l'evidenza persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po' e poi consolato e confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo, affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient'altro ... E le cose che scaturivano per propria virtù dal seno della materia cosmica, dall'atomo all'uomo, via via con lunga serie di lente evoluzioni ... E gli organismi che si perfezionavano per continuo e interminabile movimento, dalla coesione minerale alla germinazione vegetativa, dalla sensazione all'istinto e alla ragione umana ... E tutto senza soprannaturale, senza miracoli, senza Dio! ... La materia che si disgregava assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze ... Ah! Si era lasciato convincere facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? Era inutile illudersi; doveva espiare! Gli sembrava impossibile che quella parola fosse potuta uscire dalla sua bocca. Ma si sentiva vinto; non ne poteva più! La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto ... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo ... Non era riuscito! ... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippa Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsimo, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese , e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza !». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino , tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai! ... ». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla? ... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile! ... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola ... E, tutt'a un tratto! ... O aveva sognato? ... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione!

Abbiamo detto! "È giusto richiedere prima il permesso al padrone". I grandi meritano rispetto. Noi non vogliamo offendere nessuno ... Se voscenza acconsente ... » «Spiegatevi.» Si vedeva che non era facile spiegarsi perché padre e figlio si guardarono negli occhi, invitandosi l'un l'altro a parlare. «Siamo di Modica, eccellenza», riprese, esitante, il vecchio. «Ma, pel pascolo delle pecore, veniamo spesso da queste parti ... Così si sono conosciuti, per caso. Egli mi ha detto: "Padre, che ne pensate? Io la sposerei, però ... ".» «Chi?», domandò il marchese che cominciava a comprendere. «La vedova ... di voscenza , cioè, la Solmo ... » «E venite da me? Che può importarmi a me di cotesta signora? ... Vi compatisco, perché non siete del paese.» « Voscenza deve perdonarci», s'intromise il giovane. «Ci hanno consigliato ... », balbettò l'altro. «Vi hanno consigliato male. Non ho niente che spartire con costei ... Sono suo parente, forse? Perché è stata ... al mio servizio? Ha preso marito ... È vedova, libera ... Che c'entro io?» Il marchese alzava la voce, corrugando le sopracciglia, facendo gesti di negazione con le mani. «Che c'entro io?», agitato da improvviso sentimento di rancore, quasi di gelosia, contro colui che infine (egli lo riconosceva nello stesso tempo) veniva a rendergli un bel servizio portando via, lontano, quella donna che forse tratteneva la signorina Mugnos dal prendere una risoluzione affermativa. «Chi vi ha consigliato? ... Essa?» «Eccellenza, no. Un nostro amico che rispetta tanto voscenza ... » «Ditegli che lo ringrazio, e che poteva far a meno di suggerirvi una sciocchezza ... E sposatevi, sposatevi pure! È libera, vi ripeto. Io non c'entro, né voglio entrarci ... Subito vi sposereste?» «Bisogna cavar fuori le carte e fare i bandi in chiesa.» «E la condurreste a Modica?» «Se voscenza permette.» «Io non c'entro; non volete intenderlo?», urlò il marchese. Era rimasto turbato. Per poco non gli sembrava che Agrippina Solmo gli facesse ora un altro tradimento; giacché doveva essere di accordo con lui, se pure quel tentativo non nascondeva un'insidia, un mezzo di rammentare a lui, marchese, che ella era viva e che si teneva ancora come legata! ... Sposasse! Purché gli si levasse di torno! ... Non voleva darle neppure la soddisfazione di rinfacciarle la sua infamia! Aveva dunque fretta di riprendere marito? E una sconcia parola gli uscì di bocca, quasi la Solmo fosse là, a riceverla, in pieno viso! Per sfogo, ne parlò con mamma Grazia. «Meglio così, figlio mio!» «Se venisse, bada! ... non voglio vederla!» «La ha incontrata parecchie volte a messa. Ultimamente mi ha domandato: "È vero che il marchese prende moglie?".» «Chi gliel'ha detto?» «Non so. Risposi: "Se fosse vero, lo saprei prima degli altri". Ah, se le anime sante del Purgatorio facessero questo miracolo!» «E ... insistette?» «Disse: "Dio lo renda felice!". Nient'altro. E ogni volta ha soggiunto: "Baciategli le mani, se credete!". Ma io te l'ho sempre taciuto, per non farti dispiacere, figlio mio!» Eppure no, non doveva lasciare andar via quella donna senza prima rinfacciarle il suo nero tradimento! Doveva, invece, strappargliene la confessione, perché ella non potesse vantarsi, in cor suo, di essere riuscita a farsi gioco del marchese di Roccaverdina. Voleva che piangesse, che avesse rimorso dell'atto infame da lei commesso, e non ignorasse per quale motivo egli si era rifiutato di più vederla e le aveva chiuso in faccia la porta di casa! Poi rifletteva: «Ho torto. Vada via! Lontano! Vada!». Aveva paura di tradirsi, di farla sospettare per lo meno. E s'indignava contro se stesso della vigliaccheria che gli rimestava nel cuore i ricordi del passato, che gli faceva risentire il contatto delle verginali carni di lei, come la prima volta, a Margitello, quando egli le aveva giurato: «Non avrò altra donna!». Era un fiore, allora! ... E dopo ... anche! E, nei giorni scorsi, mentre il piccone dei manovali abbatteva le pareti della sua camera, non si era sentito stringere il cuore ... ? «Ho torto! Vada via! Lontano! ... Vada! ... E se ella avesse l'audacia ... » Ma quella sera, al vedersela improvvisamente davanti, avvolta nella mantellina nera e vestita a lutto, nell'andito del portoncino dov'ella lo aveva atteso quasi un'ora, sapendo che doveva arrivare da Margitello, al sentirsi salutare don voce commossa: « Voscenza benedica! » , il marchese non ebbe animo di passare sdegnosamente innanzi, né di fare un gesto o di dirle un'amara parola che la scacciasse. L'umile atteggiamento, il suono di quella voce che, non udita da un pezzo, gli ronzava da qualche giorno nell'orecchio col ricordo di parole e di frasi evocate suo malgrado (egli stesso non avrebbe saputo dire se per rimpianto, o per indignazione, o per rigurgito di odio), lo sopraffecero, anche perché lo coglievano alla sprovveduta. «Che fai qui? ... Perché non sei entrata?», le disse in risposta al saluto. «Volevo almeno vederlo ... Per l'ultima volta!» «Entra! Entra!» La voce del marchese si era già alterata, e il gesto era diventato brusco, imperioso. Mamma Grazia, accorsa ad aprire l'uscio al tintinnio dei sonagli delle mule e al rumore delle ruote della carrozza, indietreggiò spalancando gli occhi vedendoseli apparire insieme, e non poté trattenersi dall'esclamare sotto voce: «Oh, Vergine santa!». Agrippina Solmo la salutò con un cenno della testa, inoltrandosi dietro al marchese tra le impalcature e gli arnesi da muratori che ingombravano le stanze, fino alla sala da pranzo, rimasta intatta, dove il marchese si fermò, sbatacchiando nervosamente l'uscio per chiuderlo. «Volevo almeno vederlo ... per l'ultima volta», ella replicò tra i singhiozzi irrompenti. «Sto per morire, forse?», disse il marchese con cupa ironia. «Per te, lo so, sono morto da un pezzo!» «Perché, voscenza ?» «Perché? ... Non avevi giurato?», egli proruppe. «Ti ho costretto con la forza quel giorno? Ti feci una proposta. Potevi rifiutarla, rispondermi di no!» «Ogni sua parola era comando per me. Ho obbedito ... Ho giurato, sinceramente.» «E poi? ... E poi? ... Nega, nega, se hai coraggio!» «Per Gesù Cristo che deve giudicarmi!» «Lascia stare Gesù Cristo! Nega, nega, se puoi! ... Ti sei data ... a tuo marito, come una sgualdrina! Non era, non doveva essere marito di apparenza soltanto? ... Lo avevate giurato, tutti e due!» «Ah ... Voscenza! » «Tu, tu stessa me l'hai fatto capire!» «Com'è possibile?» «Ti faceva pena! Ti sembrava avvilito davanti alle persone! Me lo hai detto più volte.» «È vero! È vero! Ma pensi, voscenza ! ... Da prima, niente; come due estranei, come fratello e sorella. Spesso lo vedevo appena mezza giornata, le domeniche ... Dopo quattro o cinque mesi ... oh! sembrava scherzasse: "Bellavita, eh? Ho sotto gli occhi la tavola apparecchiata e debbo restare digiuno!". Io lo lasciavo dire. E poi, di tratto in tratto, mordendosi le mani: "Ci voleva il santissimo ... del marchese di Roccaverdina per farmi fare questo sacrificio!". E una volta: "Vi pare che io non indovini che cosa dice la gente? Quel cornutaccio di Rocco!". Gli risposi: "Dovevate pensarci prima! ... ". "Avete ragione! ... ". Pensi, voscenza. Sentirlo parlare così! ... Non ero di bronzo!» «E allora? ... Allora? ... Non me ne dicevi niente però!» «A che scopo? Perché voscenza andasse in collera? ... » «E ... poi?» «E poi ... Ma pensi, voscenza ! ... Un giorno gli risposi: "Femine ne avete quante volete ... Chi v'impedisce? ... Non vi bastano?". Si mise a piangere; come un bambino piangeva, imprecando: "Sangue ... qua! Sangue ... là! Dobbiamo finirla questa storia! Non reggo più! ... Che cuore avete dunque?". Che cuore? Non glielo davo a vedere, ma piangevo, di nascosto, pel peccato mortale in cui vivevo ... » «E per lui pure! ... Dillo! Confessalo!» «Niente! Niente, voscenza ! ... No», ella soggiunse dopo breve pausa, «non voglio mentire! ... Ma il Signore ci ha castigati ... per la mala intenzione soltanto! E, quella notte, non lo fece arrivare a casa! ... Oh! ... Saremmo venuti da voscenza, a pregarlo, a scongiurarlo ... Tanto, a voscenza che le è più importato di me? ... Il mio destino ha voluto così! Sia fatta la volontà di Dio! ... Ed ora, si perderà di me anche il nome. Vado via, in un paese dove nessuno mi conosce; per disperazione vado via ... Se un giorno però ... Serva, serva e nient'altro! Ah! Vorrei dare il mio sangue per voscenza !» Il marchese l'aveva ascoltata con crescente ansietà, stringendo tra i denti il labbro per non irrompere; e quando, fermatasi un istante, ella aveva subito soggiunto: «No, non voglio mentire!», il sangue gli aveva dato un tuffo, quasi egli dovesse vedere compirsi di nuovo l'infame tradimento e proprio sotto i suoi occhi. Stette immobile, senza fiato. Immediatamente però il petto gli si gonfiava con un gran respiro di tetra soddisfazione. Aveva colpito a tempo! Aveva impedito che il tradimento fosse compiuto! ... Ma la intenzione, la mala intenzione, c'era dunque stata! E, chi sa? - non osava di confessarglielo - essa rimpiangeva ancora il morto! Un feroce pensiero gli attraversò la mente: impedirle di sostituire il morto con un vivo! Tenersela sempre schiava, e colmarla di disprezzo, non guardandola neppure in viso! Quei singhiozzi, quelle lagrime, quelle proteste erano certamente menzognere! E già stava per dirle: «Non sposare! ... Resta!». Si trattenne a stento. Agrippina Solmo gli si era accostata umilmente, asciugandosi le lagrime; e, presagli una mano, gliela baciava con labbra gelide e convulse: « Voscenza benedica ! E il Signore le dia tutte le felicità ... se è vero che sposa!». Un lieve senso di tenerezza lo invase al contatto, ed egli ritrasse lestamente la mano. E prima che maggiore commozione lo vincesse, al gesto di commiato, fece seguire, con voce turbata, queste sole parole: «Se, per caso ... avessi bisogno ... Ricordati! ... ».

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 4 occorrenze

. - E abbiamo anche sbagliato appartamento - disse il marchese. - Ah, sì? Come mai? - Eh, il cameriere ha creduto che l'appartamento della signora duchessa fosse quello a sinistra al primo piano, e ci aperse invece il salotto del signor Rook. - Il signor Rook è qui? - fece Sarah stupita, dissimulando assai male una commozione intensa. - Sì, lo conoscete forse ? - chiese Lovere osservandola. - Sì, di nome, ma sono tanti anni che non ci vediamo più - rispose Sarah un po'rimessa esternamente, ma molto agitata ancora. E non chiese più nulla dello straniero, a malgrado che Lovere continuasse a narrare particolari e fatti che lo concernevano. - Viene ogni anno a Biarritz e occupa sempre tutto l'appartamento a sinistra al primo piano dell'Hôtel Regina. È ricco a miliardi: ma già voi lo saprete meglio di me. Non giuoca mai al Casino, ma spende e spande qui intorno. Conduce una vita assai originale; a volte non si vede per quattro o cinque giorni, fa delle corse a Parigi, a Barcellona, a Marsiglia, a Madrid, poi per delle settimane intere viene con noi a table d'hôte e diverte tutti colla sua facilità di parola sorprendente. Quando è di buon umore è un compagno gradevolissimo. Sarah non interrompeva mai; pareva anzi che non ascoltasse neppure quei particolari, assorta in un pensiero profondo. Ma quando Lovere concluse: - Lo dicono messicano. Ella quasi istintivamente, certo involontariamente, corresse: - No, è di Wyoming, nel Colorado. - Ah! forse vostro compatriotta? - insinuò Lovere intuendo un mistero. - Sì - disse breve. E a un tratto, come se la duchessa d'Eboli fosse scomparsa in lei per lasciar posto solo all'americana eccentrica, si alzò e facendo un profondo inchino alla baronessa e al marchese: - Buona sera e mille grazie - disse prendendo per mano la piccola Solange. - Arrivederci! - fece questa al marchese, gettandogli un bacio. - Addio!- disse Lovere. E stette a vederle salire, entrambe originali ma carissime creature, pensando al subitaneo cambiamento della duchessa. - Non vi è sembrata un po' brusca quella partenza? - interrogò la baronessa mortificata. - Ah, bah! non dovete badarci - disse Lovere. - È una partenza all'americana, bisogna abituarcisi. - Meglio così se è l'uso - disse la buona tedesca alzandosi e rivolgendosi ancora al marchese. - Volete aiutarmi a cercar mio marito? - chiese prendendogli il braccio. - Sempre ai vostri ordini, baronessa. Ma sapete con chi fosse vostro marito? - M'è sembrato di vederlo insieme a von Yglau. - In tal caso bisogna cercarlo al biliardo. Se volete favorire.... Nel vestibolo incontrarono il duca d'Eboli che saliva. - Avete visto la duchessa, marchese? - Sì, ci ha lasciato un momento fa.... Il duca ringraziò, salì rapido i pochi gradini, e bussò alla camera di sua moglie. Questa non s'era ancora coricata, aveva soltanto messo a letto la bimba, e ancor più bella e più fresca in un semplice accappatoio bianco, stava appoggiata al balcone verso il mare. - Entrate.... - disse udendo bussare. - Sarah; - fece il duca andando verso di lei - ho una notizia da darti. Una notizia che ti recherà una grande sorpresa. Essa trasalì, temendo che egli pure sapesse:... che cos'altro avrebbe potuto dirle con quel tono dove era celata tanta sanguinosa ironia? - Dimmi.... - sussurrò. - Che cos'hai? - fece lui dapprima osservando la sua aria trista e preoccupata. - Nulla, sono un po' malinconica. - Ebbene, rallegrati, invece, poiché abbiamo l'onore d'essere i vicini dell'eccellentissimo signor Rook.... Essa sentì un brivido dalla testa ai piedi, pensando alla probabilità d'un incontro; però si fece forte davanti a suo marito, e fingendo un'indifferenza che non sentiva: - Che m'importa? - disse quasi allegra. - Ciò mi è affatto indifferente! - Davvero? - esclamò il duca, convinto di quella indifferenza tanto bene simulata. - Davvero. Non sei tu con me? - Meglio così, se sei indifferente, - disse lui baciandola - t'accerto ch'ero un po' impensierito.... - E per questo diventavi ironico e cattivo - rispose Sarah. - Perdonami! Sai, temevo qualche incidente.... Tu sei calma, ciò mi basta. Addio, sta' pur tranquilla che non mi fa certo paura il tuo Yankee coi suoi miliardi.... Sarah, rimasta sola pianse....

. - No, signor Rook, verremo un altro giorno; oggi abbiamo fatto tardi, vedete? - pregò Sarah, levando dalla cintura un piccolo orologio d'oro finamente lavorato - sono ormai le quattro, e il duca sarà presto di ritorno. - Oh, il duca! - non potè a meno di sussurrare lui, pensando alle intraprese galanti di quel marito. Sarah lo guardò inquieta, quasi turbata da quella frase e dal tono misterioso con cui era stata pronunziata. - Ebbene? - domandò. - Nulla, credo che non tornerà tanto presto. Ma essa non fu completamente rassicurata. Era il cuore inconscio, fidente e amante che l'avvertiva di un pericolo. - Sapete dove è andato? - chiese. - Ma.... alla sorgente, credo. Per la prima volta un'ombra di dubbio turbò il fondo sereno dell'innamorata fiduciosa. - Venite adunque, duchessa? - insistè il signor Rook. - Andiamo, mamma!- supplicò Solange. - Se tu vedessi come è bello il canotto del signor Rook! È bianco e azzurro! Ed ha nome.... Come ha nome signor Rook?... - Willy - disse lui guardando la duchessa con intenzione. Era il suo nome abbreviato com'ella soleva pronunziarlo, così gentile e caro nella semplicità di quelle due sillabe, facile a sussurrarsi anche nell'ebbrezza d'un amplesso, quando tutto intorno sparisce il mondo e non esiste più che una bocca sulla nostra bocca e un cuore contro il nostro cuore. - Willy! - ripetè Solange. E l'accento un po' strascicato, un po' cadenzato come una nota di canto, parve a lui tutto l'accento dell'altra, come lo aveva sentito un giorno.... Un brivido passò nell'alta robusta persona di William, mentre un lieve rossore coloriva le gote di Sarah. E allora, in un momento d'abbandono, dimentico della parte impostasi, dell'odio giurato, egli sussurrò nel dialetto del paese ch'ella non sentiva più da tanti anni: - Ti rammenti, Sarah?... Ah, il pericolo temuto! Essa ebbe la forza di guardarlo ancora severa, e di pronunciare un «no» freddo e asciutto che le abbruciò le labbra; poi presa da una grande paura invincibile, scossa da un nervoso convulso che le faceva battere i denti, preso per mano la bimba, e s'avviò per partire sussurrando: - Buona sera, signor Rook. Ma nel signor Rook l'umiliazione ricevuta aveva destato l’istinto selvaggio. Tutto l'odio accumulato, vinto un momento dalla dolcezza dei ricordi, si rivelò, e come sfida suprema disse: - Ebbene, sappiate che Willy non ha dimenticato!... Poi s'inchinò profondamente, e mentre la mamma e figliuola salivano il viale verso l'albergo, egli scese alla riva, ne staccò il piccolo canotto, vi mise le vele e andò a gridare in mezzo all'Oceano lo strazio del suo cuore doppiamente ferito. - Mamma, perchè non siamo andate anche noi? chiedeva Solange, voltandosi a guardare la lieve imbarcazione che volava rapida al largo. E poichè la madre non rispondeva e camminava nervosamente, essa si accontentò di gridare un'ultima volta al signor Rook: - Addio! addio! vieni a trovarmi stasera.

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. - Finalmente, eccovi, duchessa, vi abbiamo cercata tanto! - esclamò Belitzine, radiante d'essere il cavaliere di quella splendida bellezza. - Infatti mi sentivo poco bene e sono andata a riposarmi nelle sale del buffet.... buffet....- Oh, quanto me ne dispiace! Come state ora, duchessa? - Poco bene ancora:... e per questo desidererei di ritirarmi.... Sapreste dirmi dove sia il duca?... Belitzine o d'Ostrog si guardarono un po' impacciati. - Lo sapete voi, d'Ostrog? - Era andato a giocare con Lovere, credo.... Sarah sentì una fiamma d'indignazione salirle al viso. - Se poteste essere tanto buono di cercarlo.... - Ai vostri ordini, duchessa - disse d'Ostrog ancor più imbarazzato. Uscì e rientrò poco dopo dicendo: - Il signor duca è impegnatissimo in una partita a maccao: prega la signora di volerlo attendere un istante, oppure di concedermi l'onore di accompagnarla.... - Venite, d'Ostrog - rispose essa.

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ormai è liquidato; - fece la bella con un cinismo sfacciato - figurati che stamani ha pianto perchè non poteva darmi le diecimila lire pel mantello che abbiamo visto in Via Richelieu. - Lo so, lo so.... - E domani, il signor Beudy porterà la nota degli ultimi abiti. T'assicuro che sarei stata molto impensierita se non fosse capitato quest'americano. - Oh, la signora non ha che da scegliere.... - disse la ragazza adulando. - Ah! che cosa vuoi! - fece essa con una smorfia di disgusto, sfregando un fiammifero sul marmo del caminetto - sono una massa di spiantati, tutti questi adoratori d'oggi, che finiscono i loro denari al giuoco.... Non ce n'è uno serio! - Ma se la signora permettesse.... - soggiunse Maria un po' imbarazzata. - Di' dunque. - Ecco, vorrei permettermi un consiglio. La signora è molto buona, ma dovrebbe anche non fidarsi interamente degli uomini, e mettere qualche cosa da parte per quando si trovasse in un momento un po' imbarazzante.... Non so, mi pare!... - Ma se son tutte miserie! - protestò Yvonne accendendosi. - Credono tutti che io riceva delle somme favolose: dillo tu, che lo sai, in quali imbarazzi sono sempre! Se non fosse capitato l'americano, sarei stata costretta di vendere qualche cosa per pagare Beudy!... - Non si può risparmiar nulla! nulla! nulla!... E ne era perfettamente convinta quella divoratrice di patrimonî, nelle cui piccole mani passavano fiumi d'oro subito convertiti in abiti meravigliosi, in gioielli ricchissimi, in splendidi equipaggi e mobili principeschi, che godevano solo un istante il suo capriccioso favore, ed erano subito sostituiti da altre cento fantasie strane e costose. Tutto intorno il piccolo gabinetto a forma di conchiglia rosea incrostata d'oro, pareva il nido di una Nereide bionda, sorridente fra le trine preziose e il raso soffice delle poltroncine basse e bianche, come in mezzo a una candida spuma leggerissima, e attestava lo sfarzo di quella sovrana della bellezza e del piacere. - Quando verrà l'americano? - interrogò la cameriera colla familiarità d'una confidente necessaria. - Domani a mezzogiorno. - Ma domani a mezzogiorno verrà pure il marchese di Valmyère. - Oh! quello lo rimanderai. - Sarà la terza volta che viene senza essere ricevuto. - Che importa? forse si stancherà e non verrà più. La confidente non osò più di ripetere. - Che vestito desidera la signora per domani? chiese poi. Yvonne rifletté un poco. - Un accappatoio bianco - disse. E siccome la cameriera si mostrava stupita di tale scelta, troppo semplice secondo lei.... - Ciò è più signorile - osservò Yvonne. - A che ora devo svegliare la signora? - Oh, non prima ch'egli arrivi! Lo farai aspettare un po' nel salotto giallo. - Benissimo. - Puoi andare a dormire ora - disse congedandola ed entrando ella stessa nella sua camera principesca. Poi sulla soglia si rivolse ancora per soggiungerle: - E soprattutto non dimenticare di portarmi la nota di Beudy, mentre sono con lui. - Non dubiti, signora.... - assicurò la cameriera, già abituata a quella piccola commedia d' introduzione. - riposi bene, signora - soggiunse poi; e uscì....... Anche il signor Rook dormì bene quella notte, lieto della scoperta fatta, sicuro che quella donna gli avrebbe servito a meraviglia come strumento d'una vendetta da cui doveva nascere finalmente l'amore. Quando di Chalmy venne a svegliarlo, s'aspettava di trovarlo eccitato ed ansioso come un vero innamorato prossimo di vedere appagati i suoi desiderî, e fu sommamente stupito di saperlo ancora addormentato, come dopo una giornata di lavoro lungo ed ingrato. Egli non immaginava certo che l'adorata di William era assai lungi da Parigi, ben diversa dalla brillante etèra e che solo nella speranza di poterla presto ottenere, egli s'era addormentato finalmente tranquillo dopo tanti giorni e tante notti d'inquietudine terribile. Prima di lasciarsi fecero colazione insieme, e il signor Rook finì di meravigliare il visconte col suo appetito invidiabile. - Davvero non è questa una colazione da innamorato.... non potè trattenersi dall'osservare. - Ma voi dimenticate ch'io sono americano, caro visconte, e che l'essere innamorato o invogliato, come più vi piace, d'una bella creatura, non impedisce certo di render giustizia a questo pasticcio di lepre con tartufi, che è eccellente, e a questo vino del Reno veramente delizioso. Il visconte sorrise. - Ogni cosa a suo tempo, - soggiunse William, sbucciandosi una banana - anzi, non vi par questa una bellissima prefazione ad un duo d'amore? - Splendida assai, e vedete che per conto mio vi ho imitato fedelmente - E avete fatto bene! Vogliamo andare dal mio banchiere? - disse poi alzandosi. - Non ho abbastanza danaro in tasca, e per le imprese a cui ci accingiamo, il danaro è la sola chiave che deve aprirci le porte dell'Eden. - Siete molto spiritoso stamane, - osservò di Chalmy - si capisce che la felicità vi rende lieto. - Se tu sapessi quanto son felice! - non potè a meno di pensare William. E uscirono insieme. Il banchiere del signor Rook stava un po' lontano di là, ma nessuno dei due pensò a prendere una carrozza. Non era tardi, d'altronde, e la giornata splendida, come raramente ne spuntano in Parigi, rendeva deliziosa quella passeggiata mattutina attraverso i quartieri più popolosi e più industriosi. L'ampia e lunghissima Via Cassine, l'arteria del quartiere, pareva in quell'ora avanzata, un enorme alveare brulicante d'api affaccendate: ai lati, i negozi numerosi e svariatissimi, aperti con pompa fastosa di colori ridenti e vivi, erano un'offerta muta ma eloquentissima che spronava i desiderî e incitava al lavoro. Dalle vie laterali secondarie era un affluire continuo di gente, un'enorme massa frettolosa e affaccendata, dove si confondevano insieme i tipi più svariati, le condizioni più disparate: commercianti, industriali e negozianti occupatissimi, pei quali il tempo è oro, come nel vecchio proverbio inglese; piccoli impiegati pallidi e sfiniti stretti nel povero abito nero ormai stinto e ragnato, che affrettavano il passo per tornar pronti all'ufficio ingrato e penoso; gruppi di operai sereni e ridenti nello oneste bluse turchino, stanchi di lavoro ma inebriati di sole e di gioia di vivere; frotte di fanciulle e di bimbe che trotterellavano, alcune lacere, altre modeste, altre ancora arieggianti la piccola coquette: sartine, modiste, crestaie, maestrine, commesse, tutta la gran Parigi che lavora, che pensa, che si agita e vive, tutta la schiera dei laboriosi e degli onesti compresi della serietà della vita, che lottano strenuamente per l'esistenza, sempre immobili sulla breccia, spesso vinti, spesso spenti purtroppo, ma sempre pronti all'appello e sereni anche dinanzi al supremo sacrificio. E attraverso tutta quella folla d'onesti e di lavoratori che sudavano tutta la vita per un pane ed un tetto, passavano i due uomini occupati da un'idea che era ironia suprema a tutto quel lavoro, a tutto quel dolore fatto di stenti dignitosamente nascosti a tutta quella onestà sconosciuta; essi andavano a deporre ai piedi d'un idolo di fango un tributo d'oro e di gemme sufficiente a sollevare una gran parte delle miserie di Parigi.... a pagare con somme favolose e con doni regali una sezione di lussuria sapiente.... Era il trionfo della carne sull'intelligenza e sulla virtù! Era l'ironia suprema, lanciata dal vizio a tutto ciò che di onesto e di puro esiste ancora nel gran mare di fango dilagante.... Era l'infinitamente triste!...

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