Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il galateo del campagnuolo

187533
Costantino Rodella 8 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Ma per tornare ai ragazzi, là dove abbiam trovato la famiglia ordinata e amorevole, anche i figli sono fiori di grazia; si vedono puliti, ravviati, gentili, che è un amore. Prima che partano per la scuola la madre ci abbada, se hanno le vesti decenti, se le scarpe sono pulite e nere, se i capelli pettinati, se le mani e il viso lavato, se hanno l'occorrente per la scuola; a volta a volta li accompagna essa stessa; si raccomanda a questa e a quella persona di tenerli d'occhio; e al ritorno loro dà una ripassatina, guai se trova qualche strappo negli abiti; se arrivan tardi, vuol saper per filo e per segno, che cosa han fatto, dove si son trattenuti, va ad appurar i fatti dal maestro, riconosce ogni cosa, e sa premiare e castigare a tempo. Le feste poi se li conduce con sè alla chiesa, attillati e lucenti, come uscissero da una scattola, se li fa inginocchiare lì presso col loro libricino aperto e non li abbandona un istante. Oh sì che lascierebbe i suoi figli là mescolati con tutta quella ragazzaglia, che va a mettersi presso il presbiterio a far d'ogni sorta di monellerie, come se fossero di nessuno; nè manco per sogno! Come fa pena all'animo veder nelle chiese de' paeselli tutta quella frotta di ragazzi, l'uno più discolo dell'altro, attruppati innanzi all'altar maggiore, nel luogo più in vista! Si sdraiano sugli scalini, si urtano, si pizzicano, si battono, si nascondono la pezzuola, il berretto, parlano, ridono, sghignazzano, che è una distrazione continua; sembrano fanciulli abbandonati. Come volete che questi ragazzi crescano col rispetto del prossimo e col timor di Dio, se nel luogo più venerabile, più santo, commettono tante irriverenze? E quel che fa più dolore è che lì in chiesa vi saranno i padri e le madri, i quali non se ne dan per inteso; e come niente fosse, non volgono neppur un rimprovero ai loro figli. Ma Dio non paga il sabato, e voi non avrete ad andarvene a pentir a Roma. Quel figlio, che lasciate ora alle impertinenze, verrà su ozioso, maligno, disubbidiente; non avrà più rispetto di sorta nè delle cose, nè degli uomini, si riderà di voi, delle leggi, di tutto, vi spoglierà della roba e dell'onore, e dopo avervi ridotto nella miseria, amareggiata la vita in tutti i modi, in quell'età che dovrebbe essere il sostegno e l'orgoglio de' vostri anni cadenti, sarà là a marcire in un carcere. E allora, non avrete che a coprirvi il viso e a picchiarvi il petto, recitando il mea culpa. Queste cose le diceva piano e forte il signor Enrico, e narrava fatti e proferiva nomi, sicchè il suo dire riusciva persuasivo a più doppi.

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Ma se ci mettessimo da davvero, come abbiam accennato più su, a far noi la polizia in casa nostra, a non tollerare per nulla l'ozioso, l'accattone, a provveder del lavoro sì, e poi guai a chi non adopera le sue braccia per quel che possono; nessuna tregua, nessuna pietà per il vizio; e ciò nelle città, ne' paesi, ne' borghi, dappertutto; oh sì che la voglia di lavorare verrebbe, e che gli nomini sarebbero più onesti e virtuosi. Via su, qui nel nostro villaggio li contiam sulle dita i viziosi, la coscienza di tutti vi declina nome, cognome, paternità del ladruncolo; ebbene non transigiamo: via di qua, poltroni! E se questo grido eccheggiasse in tutti gli anditi, v'assicuro io che i luoghi di pena, se non verrebbero del tutto chiusi, sarebbero di molto ridotti.

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Costoro vi andranno dicendo che per poter aver qualcosa bisogna rubare, e che la proprietà non è altro che un furto; e io vi dico che la proprietà è figlia del lavoro; e perchè possiate convincervi di questo, voglio recarvi un esempio, che abbiam qui nel paese vivo e parlante. Chi non conosce Gian Matteo? Trent'anni fa ne aveva tanto, quanto n'ho io sulla palma della mano; ed ora è uno de' proprietarii meglio agiati dei contorno. E dimandate pure intorno, se v'ha uno che possa dire: Gian Matteo m'ha rubato un centesimino, che è così piccolo; tutti anzi ad una voce ripeteranno ch'egli è una perla d'uomo, il più onesto coltivatore della provincia. La sua storia la conosciam tutti, ed egli stesso non ne fa mistero. L'ha allevato quel buon diavolaccio di papà Bastiano, che colla sua moglie, buon'anima, l'andò a prendere in casa grande, laggiù a Torino. Era così amorevole fin da bambinello che Bastiano, come l'ebbe allevato, non si seppe risolvere di restituirlo di nuovo dove l'aveva preso, e lo tenne qual figlio; e qual padre fu sempre amato e rispettato da Gian Matteo, ed ora se ne vive da signore con lui. A sette anni s'allogò in casa di Stefano come guardiano delle bestie. Sul principio non toccava neppur un soldo di salario, pur beato di guadagnarsi l'alimento senz'aggravio di papà Bastiano. Ma non tardò ad acquistarsi l'affetto di Stefano e di tutta la famiglia, perchè la fatica a lui non rincresceva; già fin da quell'età era attivo, diligente, industrioso, di ottimo comando. Onde non andò guari che incominciò a beccarsi un salario di dieci lire all'anno, poi di venti, di trenta, quindi di 100, e anche di 150, senza contare millanta regalucci; come camicie, scarpe, calzoni, giubbe, berretti, cravatte; in guisa che in roba di vestiario, non ebbe mai a spendere un soldo di suo; e come ne teneva di conto! Parco ne' suoi desideri, non sprecava nulla del suo salario; ma come lo riceveva dal padrone subito lo portava a papà Bastiano; perchè non fosse costretto a troppo dure fatiche per vivere. A vent'anni andò a tirare il numero, e la fortuna lo salvò da far il soldato. Papà Bastiano gongolante di gioia allora gli consegnò un libretto della cassa di risparmio, in cui erano depositati tutti i denari di salario, che Gian Matteo gli aveva a volta a volta consegnati, col cumulo degli interessi fino a un centesimo. — Credevi tu che io volessi trafficare sulle tue fatiche? gli diceva papà Bastiano. Egli è un bravo ragazzo, che non sciupa, diceva tra me e me, quando mi consegnavi il sudor della tua fronte; ebbene voglio che abbia il premio della sua virtù; e andava tosto a depositarli alla cassa, consolandomi, che un dì avrei potuto restituirteli moltiplicati; ed eccole lì che ora sono tre mila lirette tutte tue, guadagnate santamente colle tue braccia, e puoi disporne a tuo talento. Gian Matteo guardava trasognato il libro, e il viso giubilante di papà Bastiano, e non poteva credere alla verità; stordito tra il contento di trovarsi ricco, e l'ammirazione di tanto provvido pensiero; finalmente abbracciando il padre: voglio che ce la godiamo insieme, disse; e due lagrime gli si gonfiarono negli occhi. Prese il libretto, andò a ritirare le tre mila lire, e con esse si comperò quattro o cinque giornate di terra, con una casuccia in mezzo, che era, se ve ne ricordate, di Pasquale, detto lo Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo ad un considerevole patrimonio. Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata alla meglio la casuccia, che veramente minacciava da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia, le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a bella profondità tutto quello sterpeto. Da un'ave maria all'altra si vedeva sempre là con la zappa levata in alto. Ma dopo qualche anno che vegetazione là dentro! Fu gran ventura per Gian Matteo l'esser cresciuto in casa di Stefano. Costui, quantunque non avesse mai voluto saper di novità ne' suoi poderi, tuttavia era uomo ingegnoso, pratico, e quel che faceva lo faceva con giudizio, e pulitamente; e le sue terre erano le meglio coltivate e le più fertili. Egli stava saldo a questi principii: buone concimature, buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio, il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno, che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle: le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati? ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli, e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po' di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna comperarne un altro. Onde Gian Matteo lì imparò di molto, e quel Sant'Ingegno glie ne suggerì di belle; e, com'era industrioso e attivo, riuscì un discreto falegname, e quasi tutti i mobili di casa se li fece da sè; e gli strumenti di campagna, come li faceva benino! Tutti i vicini venivano da lui; ed egli ne li riforniva di rastrelli, di forcelle, di erpici, di carrette, di ceste, cestelli, gabbie; chè molte ne faceva, impiegando in tali lavori le lunghe sere del verno, tutti i giorni, in cui è impossibile lavorar ne' campi. E che buoni guadagni ne traeva: tutto l'alimenta suo, e certe spesucce, che qui e qua si devono fare, tutto veniva di lì! Per la qual cosa il prodotto del suo podere era un tanto di messo da banda; onde ogni anno comperava qualche lembo di terra, confinante col suo; il che egli diceva riquadrar la cascina; e seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse; par un giardino! Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo dovette per la maggior parte all'istruzione. Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett' anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere la destra dalla sinistra. Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice, non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva, e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come. Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio sui maccheroni per Gian Matteo; non lasciò pure una sera d'intervenirvi! Era diligentissimo, e siccome aveva una testa chiara e ordinata, e oltre a ciò una volontà e una fede da far muovere le montagne, fece miracoli; e imparò in brevissimo tempo a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il saper leggere è nulla; se non si hanno buoni libri, onde adornare la mente e il cuore di utili cognizioni e di buoni sentimenti; perchè il solo saper leggere non è coltura; sono le cognizioni che derivano dal leggere, che fanno pro, che rischiarano il cammino della vita. Senza libri, da saper leggere o no, torna lo stesso; e poi uno che sappia leggere e che non si eserciti, in breve ora disimpara; è come una zappa, che, se non si adopera, arrugginisce. Gian Matteo come seppe tanto quanto leggere, nessuna cosa gradiva più che i libri. Il maestro gli regalò il Buon Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione; ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco, che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D. Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale, di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava; e ad ogni lettura si sentiva come crescere due dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava la vita. Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di festa, i giorni piovosi, le lunghe sere invernali nella stalla paion fatte per ciò; e mentre che guardava i buoi e le vacche al pascolo, invece di attrupparsi cogli altri vaccari a giuocare o a rubare i frutti, a far bricconate d'ogni guisa, egli si sedeva su un rialto da cui potesse scorgere le sue bestie erranti alla pastura, e lì solo in quel silenzio solenne de' campi, sotto il grande padiglione del cielo, leggeva, e leggeva, e si sentiva felice! I camerati che lo vedevano sempre con un libro in mano, e che invitato, non li seguiva nelle birbonate, ne lo sbertavano, chiamandolo il professore, l'avvocato: ma egli non ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la peggio delle infelicità è l'ignoranza. Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate da tutti i coltivatori.

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Aratura....L. 100 Frumento prodotto: Concime..... » 50 Ettol. 33 a L. 20 L. 660 Mano d'opera... » 50 Scorte in terra .» 70 Semente.... » 90 L. 730 Quota spese generali » 400 L. 695 L'altro specchietto che abbiam riportato più su per il vivaio de' gelsi, mostra pure come si possa tener una contabilità a prodotti lontani.

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Egli intanto è assai più educato, e si diporta ora con molto più rispetto che non codesti bravazzoni, che abbiam intorno, cui non manca nè padre, nè madre... Gian Matteo, che potè intendere di che si trattava, e le parole di lei, fu tocco dentro, gli si riempirono in un subito gli occhi di lagrime, e fuggì frettoloso a casa. Alle ingiurie c'era avvezzo, e non ci badava manco più; ma ad una sì calda difesa, no; onde quelle parole, quella voce soave e accalorata, non furono dimenticate più; nelle ore di sconforto, quando s'è sforzati al pianto, si trovava quelle parole nel fondo dell'animo che gli sonavano come incoraggiamento, gli pareva di non essere più solo sulla terra. Egli non ci aveva mai parlato alla Caterina; come neppure lungo tempo appresso; più di buon dì, buona sera, come s'usa tra contadini nel passarsi vicino, altro non s' eran mai detto. Altra volta cadde malato papà Bastiano; Gian Matteo non poteva assisterlo; ma solo faceva qualche scappata in fretta a portargli qualche cosa; e chi trovava quasi sempre Iì a rendergli servizio? Caterina; essa stava di casa lì presso, e sapendo come nessuno potesse prendersi cura del malato, la bontà del cuore la spingeva di tempo in tempo a venir lì, ad accendergli un po' di fuoco, ad allestirgli un po' di minestra; ed era carità fiorita quella, solo conosciuta da chi cresce alla scuola de' patimenti! Gian Matteo non sapeva manco ringraziarla; gli pareva un'azione tanto di cielo, che non si teneva degno di volgerle una parola; e innalzava gli occhi a Dio, come a dire: a voi, che vedete tutto, e che sapete degnamente ricompensare le opere sante, raccomando costei! Quando Gian Matteo andò a tirar il numero, scontrò la buona fanciulla, che usciva da una cappella, dedicata alla Vergine, e aveva gli occhi rossi rosai; ma egli non vi pose mente, e tra l'allegro ed il melanconico: — Addio, Caterina, le disse, vo a far il soldato. — Dio non voglia, rispose dolente la ragazza, ho pregato tanto la Madonna...! e poi confusa d'essersi scoperta, entrò per un sentiero, che metteva ne' campi. Come Gian Matteo si trovò padrone d'una casa, e di un po' di poderetto ben suo, ed ebbe, come diceva, il nido fatto, sposò la Caterina, che non vi so dir io, come rimanesse felice; perchè, se prima poteva nutrir delle speranze, poi che lo vide divenir proprietario, le svanirono tutte; essa senza dote, di lusinghe non se ne faceva punto; tanto più che sapeva, che molte madri a lui mettevano in vista le loro figliuole, facendogli sentire il suono delle mille lire, che portavano in dote. Ma Gian Matteo, quando ne chiese la mano, le disse: chi pigliò le difese di questo miserabile bastardo? Chi soccorse papà Bastiano? Chi pregò perchè fosse salvo dalla leva questo derelitto sulla terra? O voi, o nessun'altra sarà mia moglie. Pianse di consolazione Caterina a queste parole, e Dio benedì quelle nozze. Essa è la felicità di quella casa; accudisce a tutto, nulla le passa inosservato. E con che garbo! Chiunque capiti lì, anche all'improvviso, essa non si confonde per nulla; ma trattiene, complimenta, e non lascia partir nessuno senza avergli fatto accettare qualche cosa, con tanta bella grazia, che molte signorine, con tutta la loro educazione di collegio, non saprebbero fare altrettanto. Gian Matteo appena sposatala, le disse: a te la casa, a me la campagna. E non volle mai, che si mettesse ai duri e faticosi lavori de' campi. E che può far una donna, diceva, colla zappa o colla vanga? Guadagnerà pochi soldi al dì; ma quanto più non potrà guadagnare accudendo alla casa, in lavori più convenienti alla sua natura, e alle sue forze? E infatti le donne nell'allestir le vivande, nel governare la biancheria, nel rappezzar le robe, nel badar al pollame, al maiale, alle bestie, nell'allevar i figliuoli, risparmiano di bei quattrini alla fine dell'anno, e guadagnano una giornata ben più fruttuosa, che in adoperar la zappa o la falce a' raggi del sole. Nè sarà fuor di proposito metter in chiaro i principali lavori di Caterina nel governo della casa e i suoi consigli; perchè possano essere presi a imitare da tutte le donne di campagna.

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Già abbiam detto, che era dessa che portava a libro la contabilità della campagna; ma aveva ancora un registro speciale tutto suo per la contabilità domestica. Le era capitato in mano un libro per le scuole femminili, un buon libricciuolo, che conteneva molte provvide massime e ottimi consigli di masserizia, da cui imparò non poco, e da cui trasse le principali sue norme.

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Tutti abbiam de' nemici, e le autorità più che ogni altro, perchè è naturale, che coloro che non vogliono filar dritto, tutti i cattivi soggetti insomma, non possano veder di buon occhio la legge e chi debbe farla eseguire; il malvagio è certamente nemico del galantuomo, il vizio è l'eterno avversario della virtù.

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