Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbiam

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Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179181
Costantino Rodella 6 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
  • paraletteratura-galateo
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Un rovescio di fortuna, una disgrazia quale che sia, nostro padre perdesse l’impiego, il fiume portasse via quel po’ di podere che abbiam su nel Monferrato, che dovremmo fare? E chi ti dice che gli antenati di questa stessa nostra Margherita non fossero ricchi al pari e più anco di noi? e ora la vedi? È condannata a servirci e a patire le tue insolenze! Oh le umane vicende! non mediti tu mai sopra que’casi che spesso ci conta il babbo?... Ah non ridi più ora! Dunque rispetta sempre tutti, e non guardare se sia padrone o servo. Sei ben contento che si parli di te sempre in bene, e non solo da’ signori, ma anche da’poveri? E come vuoi che la fantesca possa dire che sei un bravo fanciullo tu, quando la carichi di villanie, come fai? Non posso soffrire que’ ragazzi che, credendosi di far atto di padronanza o di mostrarsi che so io, comandano superbamente e sgridano le persone di servizio, e specie in presenza della gente. Hai inteso anche tu quello che diceva ieri il dottore. Volete conoscere il carattere d’una persona? dimandò. Guardate com’ella tratti i servi e come i servi la amino. E poi osservava che se è bene trattare con dolcezza colle persone di servizio, non bisogna però usar troppa domestichezza, nè discendere a scherzare e a motteggiare troppo famigliarmente con loro come a volte fai tu; perché se ne abusano e si perde l’autorità di comandarle quando è necessario. – Le sorelle anch’esse lodavano le parole di Enrichetto e l’aiutavano a tener segno il prepotentello di Sandrino.

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Tutt’altro: era la più cara fisonomia, e la più piacevole persona che si vedesse mai; segnatamente emendato che si fu di que’ certi difetuzzi, che abbiam accennato sul principio. Ogni cosa a suo tempo, diceva: quindi serio in iscuola, devoto in chiesa, piacevole e festoso in ricreazione. Infatti nessuno era più allegro e brioso di lui nel conversare. Aveva mille partiti da proporre, mille ripieghi da intromettere, non mai impacciato in nulla; faceto e burlevole ne’giuochi, facile ed acuto ne’mottegggi, ma motteggi senza fiele, che non offendono nessuno, e solo provocano il riso della brigata, senza che altri ne risenta rancore. Chè stando agli avvisi del padre, procurava che la facezia non trascorresse, nè si volgesse troppo per punta contro nessuno. Il signor Carlo consigliava anzi di motteggiare il manco possibile, perché a volte da un motto da nulla nascono disordini e gravi inimicizie: in generale diceva cattive quelle facezie o burle, che mettono allo scoperto i difetti della persona, come il contraffare i gobbi, i zoppi, gli scilinguati. E da questa Enrichetto si guardava, come dalla morte; e sfuggiva pure quelle burle che possono recar danno, quali sono ad esempio dare lo sgambetto ad uno che cammini, tor la sedia di dietro a chi s’alza da sedere: perché potrebbe stramazzare e farsi del male assai. Aveva inteso rimproverarsi aspramente dal padre il fatto d’ un giovane sconsiderato, che per burlarsi di sua sorella, che era troppo paurosa, una notte le comparve nulla camera la buio, vestito di bianco, gettando non so che fiamme in aria; dal che la sorella scossa, fu presa da tanta paura, che mandò un grido e svenne; e ritornata per le molte cure della madre ne’sensi, fece una malattia lunghissima. Burle siffatte sono delitti! Una volta Sandrino venne a casa vantandosi di certe burle fatte sulla fiera, così detta, di Gianduia, negli ultimi giorni di carnevale, in via di Po. E fra le altre diceva, che accozzatisi molti amici in lunghe file di cinquanta o sessanta, l’uno dietro l’altro tenendosi le mani sulle spalle, con un naso finto in viso, s’eran posti a saltare in mezzo alla folla, e la dividevano urtando questo nel petto, spingendo quello ne’fianchi, calpestando tutti, nel mentre che, dando fiato ciascuno a corni, a trombe, a zufoloni d’ogni maniera, stracciavano le orecchie; e finalmente pigliata di mira una signora, che mostrava di non poter tollerare quelle strida, se le eran messi attorno con tutti que’fischi nelle orecchie, in modo che la ridussero alla disperazione e la fecero uscire dalla fiera. E codeste son le belle spiritosità, gli disse Enrichetto, che sapete trovare voi altri? Infatti ci vuol molto studio e singolare acutezza per immaginare burle così sublimi! Ma a parte la sublimità del trovato: pensa un po’ se tu fossi stato in compagnia della mamma e delle sorelle, proprio là in mezzo alla folla; e questi tuoi garbatissimi compagni, levato il trotto, avessero fatto la cortesia di regalare uno spintone nel petto alla mamma, un urto nei fianchi alle sorelle, e poi per maggiore galanteria vi avessero accompagnati con quella gentilissima serenata nelle orecchie, in modo da costringervi tutti ad allontanarvi dalla fiera; che avresti detto e pensato tu? - Ma essi, rispose cocciuto Sandrino, non vadano nella folla, se non vogliono sentirsi urtare. - E chi ha dato il diritto a voi altri di occupare da soli la via, di escludere ogni galantuomo? ? lecito divertirsi, ma che i nostri divertimenti non nuocciano altrui; che le nostre celie non cagionino noia o danno ad alcuno. Insomma voleva che le burle facessero ridere e non irritassero gli animi. Soleva dire che la burla non è altro che un inganno amichevole di cose che non offendono. Di tale specie erano quelle che egli usava fare; come una, che un dì fece in villa ad un suo zio, vecchietto allegro di natura molto faceto. Era venuto un contadino per parlare allo zio; Enrichetto, che si trovava in vena di celiare, gli disse, che l’andava ad annunziare, ma ne lo avvertiva che badasse a parlare bene ad alta voce, perché al padrone era venuto un sì forte mal di capo, per cui era rimasto sordo. In pari modo andò dallo zio dicendo, esservi un contadino che desiderava venire da lui, ma che era tanto sordo, che ci voleva un cannone per farlo sentire. Introdotto che fu il contadino si pose a gridare a squarciagola, e nel medesimo tuono rispondeva il padrone; in modo che si cominciava una conversazione singolare; quando lo zio disse: - Parlate pure piano, che io non con sordo io; - Neppur io, rispose il contadino. E si venne a riconoscere essere stata una burletta del nipote; per la quale lo zio non rifiniva mai di ridere. Che se poi biasimava quelli che celiando offendono l’amor proprio dei compagni, non lodava neanco coloro che cono così permalosi, che per un nonnulla levano il broncio e si tengono oltraggiati, sicchè è una pietà lo starvi insieme.

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Già abbiam veduto il mattino, appena sorto dì letto, volgersi a Dio ed offerirgli le sue azioni, lo stesso faceva alla sera prima di andare a dormire. La domenica poi e gli altri giorni festivi egli col fratello e colle sorelle, accompagnato dalla madre, andava in chiesa. Appena entrato camminava quasi in punta di piedi per timore di rompere quel senso di religiosità, così solenne nel silenzio; indi si metteva in un banco, e tirato fuori di tasca il suo libricciuolo, accompagnava su quello la messa e gli altar uffizi che vi si facevano; non alzava mai gli occhi, se non per vedere a che punto si trovava il Sacerdote. Non 'era mai sbadato, non si volgeva indietro a vedere chi usciva e chi entrava; non gli cadeva neppure in pensiero di ciarlare o di ridere col fratello o colle sorelle, nè di spargere il ridicolo sulle cerimonie religiose. La maestà e lo splendore degli uffizi della chiesa eran tali, che gli eccitavano grandemente la fantasia ed il cuore: Sotto quelle volte, che nel chiaro scuro sembrano prendere proporzioni gigantesche, tanta gente di diversa età e condizione raccolta ìn una sola preghiera, in una sola adorazione; gli altari ardenti di mille fiammelle; quei canti gravi e solenni formati da tante voci; le armonie dell'organo, che misteriosamente si spandono per quegli spazii, impregnati d'incenso, che a nuvole s'alza per l'aria, come profumo di preghiera che sale al trono di Dio, gli rapivano l'anima e la sollevavano in un mondo ricco d'ogni maniera di bellezza, dove giubilavano cori d'angeli, in mezzo ai quali discerneva l'Agnesuccia, il cui nome pronunciava mane e sera, e la diletta nonna che non ebbe mai a dimenticare. Si sentiva una serenità di mente, una pacatezza d'animo, che mai la maggiore; ed usciva con una segreta contentezza in cuore come se avesse guadagnato un tesoro, cui nessuno potesse togliere. Soleva ripetere che le più nobili risoluzioni, i più arditi propositi, gli caddero sempre nell' animo dopo alcuni di questi solenni uffizi religiosi. La religione è pure una potente molla educativa! Enrichetto fin da ragazzo amava sprofondarsi colla sua poca mente negli abissi de'misteri della religione; ed anche dopo, pieno di anni e ricco di sapere, quando si fermava innanzi ai grandi problemi della vita e della morte, del bene e del male, dell'anima e di Dio, di contra al dubbio impotente e alle negazioni audaci del secolo tutto occupato in materiali interessi, finiva sempre per ricorrere, come a porto salvatore, alle serene ispirazioni religiose della sua gioventù. E comecchè seguisse ansiosamente le ricerche della scienza negli ultìmi suoi responsi, dovette però sempre riconoscere nell' uomo un principio intelligente direttivo della materia dalla materia diverso, e un Dio infinitamente buono e potente. Ed era lieto di potersi acquietare in queste verità, acquistate della scienza, la quale veniva a ribadire nella sua anima il credo recitato da bambino. Togliete di mezzo l'idea religiosa, esclamava poi, sostituitevi pure quella del dovere, e la società non sari lontana dal perdersi: nulla potrà più sollevarla a' sublimi slanci dell'ispirazione, all'entusiasmo del sacrifizio. Per contra qual potenza sui cuori l'idea viva d'un Dio presente sempre, che vi vede in tutte le azioni, che legge nel più intimo de'vostri pensieri, d'un'anima che non compie il suo cammino in questa terra! E il fanciullo trepida all'idea del male, e s'arresta anco quando potrebbe impunemente consumarlo; perchè sa che, se occhio umano non lo scorge, se nessuna forza del mondo lo può punire, v'è un occhio invisibile che lo sorveglia, una potenza soprumana che lo aspetta. Estirpate dai cuori questo sentimento, e poi ditemi quale sarà il ritegno della plebe, quando si trova sicura dalla forza pubblica. Onde conchiudeva essere somma civiltà inculcare i sentimenti religiosi nell'educazione popolare.

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Nè i suoi studi erano circoscritti solo alla medicina, uso questo della maggioranza degli studenti, i quali applicatisi ad una disciplina, si ritengono esonerati dal conoscere alcunchè del resto dello scibile; onde non raro accade, che un buon avvocato, o medico, o ingegnere, appena esce della cerchia della sua professione, pare non sappia più formare alcun costrutto che valga; o se parla dice i più madornali sfarfalloni del mondo; ma Enrichetto, avvezzo come abbiam visto a far sparagno del tempo, ( e ne' corsi universitari del tempo ce n' è a fusone) s'ingegnava di entrare anco ne' segreti delle scienze affini alla medicina; e la fisica, e la storia naturale, e la chimica, e fino la meccanica, occuparono delle belle ore al paziente investigatore del sapere. Egli cercando di scendere ne' penetrali delle dottrine, trovava un nesso maraviglioso tra le diverse scienze, e si doleva della poca durata della vita dell'uomo, e della limitazione dell'ingegno umano, che nel breve giro d'un' età non può giungere alla superba sintesi dello scibile. Negli anni universitari fece anche acquisto delle lingue tedesca e inglese, avendo già imparata la francese durante i tre anni liceali; le quali lingue straniere gli vennero poi di molto in acconcio nella pratica della sua professione. Ma quello che non trascurò mai, furono gli studi letterari, i quali diceva, convenire a tutte le discipline e a tutti gli uomini in qualsiasi stato sociale; la parola ornata ed elegante si fa strada dappertutto. In questa guisa adoperando s'addottorò in medicina e chirurgia con plauso di tutti gli amici e con trasporti di gioia de' genitori.

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Nello stesso tempo il dottore della famiglia, del quale più volte abbiam fatta menzione, essendo vecchio, ed avendo preso ad amare il giovane, che vedeva così animosamente entrare nella sua carriera, ben lungi dall'ingelosirne come fanno gli spiriti leggieri e di poco valore, che paventano la concorrenza, volle pigliarselo con sè, raccomandandolo nelle case, facendone rilevare lo studio, la buona volontà, e la precocità dello spirito. Ad Enrichetto parve toccare il cielo col dito, quando si vide a maestro nella pratica un uomo, che sopra ogni altro stimava. E qui mi corre obbligo di far notare che se Enrichetto già per abito rispettava ogni persona, e segnatamente i più provetti, ora nell'esercizio della sua professione se ne fece una legge. Si guardava bene dal metter come che sia in dubbio la scienza de' suoi colleghi o dallo screditare i vecchi. Giacchè pur troppo in tutte le professioni ed arti, per maligna natura, per egoismo mal inteso, l'uno tenta di schiacciare l'altro, e specialmente i vecchi s'industriano di soffocare gli ingegni crescenti, recando in mezzo, che i giovani mancano di esperienza, non conoscono le complessioni, sono novatori senza guida, pieni di vane teorie, e che la pratica val più che la grammatica. Di ripicco i giovani si ricattano sui vecchi dicendoli pieni di ubbie e di pregiudizi, senza studi; adducono gl' immensi progressi fatti dalle scienze, a cui quelli rimangono affatto stranieri; e quindi vanno innanzi a tastone, buona se viene; e cose siffatte. Pettegolezzi e viltà che, svelando una gelosia di mestiere, indicano pochezza di mente e tristizia di cuore; vermi che vivono di scoli; chè il vero ingegno, la vera dottrina non ricorre a queste miserie per farsi strada. In questo mezzo il Municipio di Torino bandì un concorso per un medico de' poveri, al quale presentatosi pure Enrichetto, ne vinse la prova. Questi medici sono distinti per parrocchie e vi compiono il servizio de' poverelli. Egli, che esercitava la sua professione per la scienza e per il bene che credeva di portare a' suoi simili, non fece mai distinzione fra ricco e povero, se dorate fossero le sale in cui entrava, o affumate e deserte; anzi, assecondando un certo impulso dell'animo suo, quanto più vedeva la miseria stringere il letto del malato, egli raddoppiava di cure, come se volesse rendere meno amara la vita a questi diseredati della società. Nel contatto dei diversi gradi sociali, fine osservatore qual era, s'ebbe a convincere sempre più di una certa scambievolezza tacita di affetti nel genere umano, di una specie di compenso, anche lontano, per cui uno tale dà, tal riceve; quale si comporta con altrui, tale viene dagli altri trattato; onde, sei orgoglioso e superbo? sarai ripagato di sprezzo; sei amorevole e gentile? amore e gentilezza troverai per tutto. Per il che scrisse sul suo giornale: « è giusta quella sentenza che dice: Se vuoi essere amato, ama ». E a comprovarla vi scrisse sotto il seguente racconto:

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E a quelli che gli domandavano: o che, non abbiam a divertirci, noi? Sì, rispondeva, ma in que' modi moderati e da uomo onesto, che non sciupa in un dì il guadagno di una settimana. Guarda, continuava egli, se v'è ombra di ragionevolezza, ti cavi la pelle dalle ossa, mangi pessimamente sei giorni, per scialarla un giorno solo, la domenica! Bella soddisfazione! Non dico di non far un po' d'allegria la festa; ma quando sei pieno come l'uovo, perché vuoi ancora mangiare, che non senti manco più il gusto del cibo? Dopo che hai bevuto e bene, perchè continui a far la processione da una bettola all'altra? per ubbriacarti e divenir peggio delle bestie? E allora risse e giuochi, e perdite rovinose; perchè v'è sempre il truffatore che ti tende la trappola per spillarti il danaro. Conseguenza di ciò tu e la tua famiglia siete costretti a vivere di lagrime, mal calzati e mal vestiti, con deperimento della salute, senza parlare del mal morale, la tua abbiezione, la prostrazione dello spirito e il cattivo esempio a' tuoi figliuoli. Se per contra smetti le orgie domenicali, quello, che sciupavi in esse, lo puoi ripartire in tutti i giorni della settimana, e così migliorerai di molto la tua mensa quotidiana, e tosto se n' avvantaggieranno le forze del tuo corpo, sarai più atto al lavoro, meno soggetto a malattie, ed anche la tua intelligenza si farà più acuta e più vigorosa, e meglio ti potrà giovare nell'arte che pratichi, e crescerti il salario. Veniamo ora al lunedì, in cui si continua la baldoria e lo sciupìo della domenica. Ragioniamola un po' insieme. Ora la tua settimana si riduce a cinque dì di lavoro soltanto; se tu v'aggiungesti anche l'opera del lunedì, tu accresceresti il tuo guadagno settimanale di un giorno di lavoro, vale a dire d'un sesto, e leveresti dall'altra parte un dì di consumo senza produzione. Per la qual cosa se fin qui il guadagno di cinque giorni di lavoro bastava 'a' tuoi bisogni, (e meglio ti deve bastare, perchè ora vivi moderato anche la domenica) il vantaggio del lunedì ti sarà un soprappiù, un danaro che potrai mettere in disparte, un capitale insomma. Spieghiamoci in cifre. Qual è il tuo salario giornaliero? Due lire? Bene; porta queste due lire alla cassa di risparmio ogni settimana, e co'suoi interessi alla fine dell' anno riesciranno più di cento. Segui quest'abitudine, e in pochi anni diverrai possessore di un buon capitaletto, che potrai investire in fondi, in merci, insomma in che ti tornerà più giovevole. Ed ecco che da povero operaio, meschino e vizioso; sei divenuto capitalista, proprietario onesto e intraprendente. Io ti potrei nominare di molti capi-fabbrica, ricchi negozianti, che vent'anni fa non erano che semplici operai, come te; e che lasciando stare le bettole e il giuoco, risparmiando sui guadagni, ora li vedi nella città onorati e rispettati da tutti. Ecco quindi il segreto per far scomparire la miseria dalle case, per togliere di mezzo il proletariato: lavoro e temperanza. Questi ed altri ammonimenti Enrichetto li faceva sempre che si presentasse il destro, ed era tanta la virtù persuasiva del suo dire, che molti s'appigliavano a' suoi consigli, e divenivano sobrii, operosi ed anche più costumati. Perchè il lavoro avviva la coscienza de' proprii doveri; e così viene a dare dignità all' operaio, onde sente più rispetto verso i capi, più riguardi agli uomini autorevoli, più devozione alle leggi, più amorevolezza verso la famiglia, e dirò anche più religione, la quale da volere o no, è l' ambiente, in cui ogni uomo respira, è il condimento di tutta la vita, è il freno e il conforto della plebe; il petulante, che cerca di accasciare in sè la presenza di Dio, non ha più rispetto di nessuno, nè de'suoi capi, nè di sua moglie, né de' suoi figli, vive come fuori della società.

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Galateo ad uso dei giovietti

183880
Matteo Gatta 1 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
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Concludiamo adunque col ripetere quanto abbiam detto: non si può fissare una regola generale in questo argomento, e non importa; il figliale rispetto non cangia natura nè vien meno perchè si usi il primo piuttosto che il secondo o il terzo dei modi sopra indicati. È quistione di consuetudine e di orecchio, non di galateo nè di cuore. Ai genitori tengono dietro i congiunti, i maestri e tutti coloro a cui dobbiamo riconoscenza ; la quale vuol manifestarsi non solo coi sentimenti, ma eziandio, colle gentili maniere che insegna la buona creanza. Guardati bene adunque, o giovinetto, da un contegno ruvido o freddo con chi ti spezza o ti ha spezzato il pane della mente: bada di non attestargli il tuo rispetto col toccare appena il cappello, alla soldatesca, senza neppur il riguardo di cedergli la mano diritta. E gli stessi avvertimenti rivolgo a voi, fanciulle. Guai se per una amorevole ammonizione l' Emilia facesse le spallucce, inchiodasse il mento alla fontanella della gola e tenesse il broncio alla maestra che l'ha dolcemente ripigliata pel suo meglio ! - Ad alcuni sarà parsa un'enormità che io ponessi la balia e il vecchio servitore tra le persone meritevoli di rispetto. E che? il padroncino deve trattare le persone di servizio come fossero superiori ? questo è invertire le parti, è un assurdo. Andiamo adagio: le mie parole vanno interpretate con discrezione e con giusto criterio. Non si vuol dire che il fanciullo, l'adolescente, debba far di cappello o inchinarsi agli individui sopra nominati, sibbene mostrare, anche cogli atti esteriori, la sua gratitudine alla donna che fece per lui quante la madre non volle o non potè fare, all'uomo che gli diede tante prove di affettuosa sollecitudine. Che brutto spettacolo sarebbe mai quello di un petulante ragazzo, di una bisbetica giovinetta, che abbandonandosi a incomposti moti di collera, facessero oltraggio ai bianchi capelli di codeste persone, le mortificassero con acerbi rimproveri, con basse contumelie! In generale usate rispetto ai vecchi quando anche non vi stringa nessun obbligo verso di loro ; fatelo per riguardo all'età, all'esperienza, ai prudenti consigli che ponno darvi; e badate bene di non metterne in canzone certe idee, forse un po' antiquate e non più in consonanza coi costumi del giorno. Esponete francamente le vostre opinioni, ma non mostrate disprezzo per quelle da loro enunciate. Il giovinetto che adempie scrupolosamente a questo dovere di civiltà insieme e di morale fa augurar bene della sua educazione e del suo avvenire. Vogliamo noi affermare con ciò che tutti i vecchi sieno meritevoli di stima e di rispetto? No; pur troppo ve n'ha alcuno che disonora sè stesso con falsi principii e con biasimevole condotta ; ma noi tocchiamo della regola, non delle eccezioni. Se vi trasportate col pensiero ai tempi della vita patriarcale, voi vedete che il capo della famiglia, della tribù, era il più vecchio. Lo stesso dicasi di tanti popoli selvaggi, antichi e moderni. E, a meglio raffermare le vostre idee su questo proposito, vi narrerò un esempio tolto dalla storia greca che fa proprio al nostro caso. La repubblica di Sparta, di cui era stato legislatore Licurgo, insieme con molte strane, rozze e semi-barbare leggi, ne aveva una lodevolissima, sancita e radicata da virtuosa consuetudine, ed era quella che imponeva rispetto e venerazione ai vecchi. La repubblica d'Atene, che per coltura teneva il primato su tutte le altre città della Grecia ed andava superba e gloriosa del nome d'un gran legislatore, Solone, aveva istituzioni civili e politiche assai migliori, ma nessuna legge che prescrivesse come un sacro dovere al cittadino il rispetto ai vecchi. Ora avvenne che, mentre in questa ultima città si dava un solenne spettacolo, un vecchio giunse troppo tardi, e siccome tutti gli scanni erano occupati dalla folla, per quanto cercasse di qua e di là, non gli riuscì di trovare un cantuccio ove sedersi. I giovani ateniesi non si curarono punto del disagio del povero vecchio, anzi fu detto da alcuno che godevano del suo imbarazzo e si divertivano a rimandarselo l'un l'altro. Ma gli ambasciatori di Sparta, i quali, formalmente invitati allo spettacolo, avevano un posto più elevato e distinto, accortisi dell'irriverente contegno della gioventù ateniese, fecero cenno al vecchio di avvicinarsi, si restrinsero un poco e il vollero seduto in mezzo a loro.

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Come devo comportarmi. Le buone usanze

184828
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
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Tutto quel che abbiam detto ci porta a una sola conclusione: che le doti naturali sono una gran bella cosa, ma che non bastano da sole a render l'uomo perfetto; e non sono poi tali da non potersi, quando mancano, esser sostituite da qualità acquisite; chè anzi assai spesso si rimedia con l'arte a quello che l'avara natura ci ha negato. Ora, l'uomo che vive nella società degli altri uomini può e deve valersi di tutte quelle risorse che giovino a mettere in valore i suoi pregi o a rimediare alle sue manchevolezze; e i mezzi per raggiunger lo scopo sono appunto le buone maniere, la correttezza, l'educazione; le quali non si potranno mai ottenere, se non si conosceranno le norme del buon vivere, le regole sociali, i doveri e i diritti dell'uomo nella famiglia e nella società. Queste norme, queste regole, questi doveri e questi diritti saranno esposti nel libro che incomincia; e saranno esposti così alla buona, in tono, quasi, d'amichevole conversazione. Poichè non ci piace salire in cattedra e prendere un atteggiamento dottorale; nè, d'altra parte, intendiamo di rivolgerci a un ceto particolare di persone, ma a tutti coloro, in generale, che intendono vivere civilmente, lontani da ogni eccesso, così dalla troppa rigidezza di costumi come dalla soverchia libertà. Chè tanto è riprovevole colui che si crede lecito infrangere le leggi più comuni e più sante del consorzio civile, quanto colui che, attenendosi ad esse con ferreo rigore, finisce col precludersi ogni mezzo di perfezionamento morale e materiale.

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Il galateo del campagnuolo

187533
Costantino Rodella 8 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
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Ma per tornare ai ragazzi, là dove abbiam trovato la famiglia ordinata e amorevole, anche i figli sono fiori di grazia; si vedono puliti, ravviati, gentili, che è un amore. Prima che partano per la scuola la madre ci abbada, se hanno le vesti decenti, se le scarpe sono pulite e nere, se i capelli pettinati, se le mani e il viso lavato, se hanno l'occorrente per la scuola; a volta a volta li accompagna essa stessa; si raccomanda a questa e a quella persona di tenerli d'occhio; e al ritorno loro dà una ripassatina, guai se trova qualche strappo negli abiti; se arrivan tardi, vuol saper per filo e per segno, che cosa han fatto, dove si son trattenuti, va ad appurar i fatti dal maestro, riconosce ogni cosa, e sa premiare e castigare a tempo. Le feste poi se li conduce con sè alla chiesa, attillati e lucenti, come uscissero da una scattola, se li fa inginocchiare lì presso col loro libricino aperto e non li abbandona un istante. Oh sì che lascierebbe i suoi figli là mescolati con tutta quella ragazzaglia, che va a mettersi presso il presbiterio a far d'ogni sorta di monellerie, come se fossero di nessuno; nè manco per sogno! Come fa pena all'animo veder nelle chiese de' paeselli tutta quella frotta di ragazzi, l'uno più discolo dell'altro, attruppati innanzi all'altar maggiore, nel luogo più in vista! Si sdraiano sugli scalini, si urtano, si pizzicano, si battono, si nascondono la pezzuola, il berretto, parlano, ridono, sghignazzano, che è una distrazione continua; sembrano fanciulli abbandonati. Come volete che questi ragazzi crescano col rispetto del prossimo e col timor di Dio, se nel luogo più venerabile, più santo, commettono tante irriverenze? E quel che fa più dolore è che lì in chiesa vi saranno i padri e le madri, i quali non se ne dan per inteso; e come niente fosse, non volgono neppur un rimprovero ai loro figli. Ma Dio non paga il sabato, e voi non avrete ad andarvene a pentir a Roma. Quel figlio, che lasciate ora alle impertinenze, verrà su ozioso, maligno, disubbidiente; non avrà più rispetto di sorta nè delle cose, nè degli uomini, si riderà di voi, delle leggi, di tutto, vi spoglierà della roba e dell'onore, e dopo avervi ridotto nella miseria, amareggiata la vita in tutti i modi, in quell'età che dovrebbe essere il sostegno e l'orgoglio de' vostri anni cadenti, sarà là a marcire in un carcere. E allora, non avrete che a coprirvi il viso e a picchiarvi il petto, recitando il mea culpa. Queste cose le diceva piano e forte il signor Enrico, e narrava fatti e proferiva nomi, sicchè il suo dire riusciva persuasivo a più doppi.

Pagina 18

Ma se ci mettessimo da davvero, come abbiam accennato più su, a far noi la polizia in casa nostra, a non tollerare per nulla l'ozioso, l'accattone, a provveder del lavoro sì, e poi guai a chi non adopera le sue braccia per quel che possono; nessuna tregua, nessuna pietà per il vizio; e ciò nelle città, ne' paesi, ne' borghi, dappertutto; oh sì che la voglia di lavorare verrebbe, e che gli nomini sarebbero più onesti e virtuosi. Via su, qui nel nostro villaggio li contiam sulle dita i viziosi, la coscienza di tutti vi declina nome, cognome, paternità del ladruncolo; ebbene non transigiamo: via di qua, poltroni! E se questo grido eccheggiasse in tutti gli anditi, v'assicuro io che i luoghi di pena, se non verrebbero del tutto chiusi, sarebbero di molto ridotti.

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Costoro vi andranno dicendo che per poter aver qualcosa bisogna rubare, e che la proprietà non è altro che un furto; e io vi dico che la proprietà è figlia del lavoro; e perchè possiate convincervi di questo, voglio recarvi un esempio, che abbiam qui nel paese vivo e parlante. Chi non conosce Gian Matteo? Trent'anni fa ne aveva tanto, quanto n'ho io sulla palma della mano; ed ora è uno de' proprietarii meglio agiati dei contorno. E dimandate pure intorno, se v'ha uno che possa dire: Gian Matteo m'ha rubato un centesimino, che è così piccolo; tutti anzi ad una voce ripeteranno ch'egli è una perla d'uomo, il più onesto coltivatore della provincia. La sua storia la conosciam tutti, ed egli stesso non ne fa mistero. L'ha allevato quel buon diavolaccio di papà Bastiano, che colla sua moglie, buon'anima, l'andò a prendere in casa grande, laggiù a Torino. Era così amorevole fin da bambinello che Bastiano, come l'ebbe allevato, non si seppe risolvere di restituirlo di nuovo dove l'aveva preso, e lo tenne qual figlio; e qual padre fu sempre amato e rispettato da Gian Matteo, ed ora se ne vive da signore con lui. A sette anni s'allogò in casa di Stefano come guardiano delle bestie. Sul principio non toccava neppur un soldo di salario, pur beato di guadagnarsi l'alimento senz'aggravio di papà Bastiano. Ma non tardò ad acquistarsi l'affetto di Stefano e di tutta la famiglia, perchè la fatica a lui non rincresceva; già fin da quell'età era attivo, diligente, industrioso, di ottimo comando. Onde non andò guari che incominciò a beccarsi un salario di dieci lire all'anno, poi di venti, di trenta, quindi di 100, e anche di 150, senza contare millanta regalucci; come camicie, scarpe, calzoni, giubbe, berretti, cravatte; in guisa che in roba di vestiario, non ebbe mai a spendere un soldo di suo; e come ne teneva di conto! Parco ne' suoi desideri, non sprecava nulla del suo salario; ma come lo riceveva dal padrone subito lo portava a papà Bastiano; perchè non fosse costretto a troppo dure fatiche per vivere. A vent'anni andò a tirare il numero, e la fortuna lo salvò da far il soldato. Papà Bastiano gongolante di gioia allora gli consegnò un libretto della cassa di risparmio, in cui erano depositati tutti i denari di salario, che Gian Matteo gli aveva a volta a volta consegnati, col cumulo degli interessi fino a un centesimo. — Credevi tu che io volessi trafficare sulle tue fatiche? gli diceva papà Bastiano. Egli è un bravo ragazzo, che non sciupa, diceva tra me e me, quando mi consegnavi il sudor della tua fronte; ebbene voglio che abbia il premio della sua virtù; e andava tosto a depositarli alla cassa, consolandomi, che un dì avrei potuto restituirteli moltiplicati; ed eccole lì che ora sono tre mila lirette tutte tue, guadagnate santamente colle tue braccia, e puoi disporne a tuo talento. Gian Matteo guardava trasognato il libro, e il viso giubilante di papà Bastiano, e non poteva credere alla verità; stordito tra il contento di trovarsi ricco, e l'ammirazione di tanto provvido pensiero; finalmente abbracciando il padre: voglio che ce la godiamo insieme, disse; e due lagrime gli si gonfiarono negli occhi. Prese il libretto, andò a ritirare le tre mila lire, e con esse si comperò quattro o cinque giornate di terra, con una casuccia in mezzo, che era, se ve ne ricordate, di Pasquale, detto lo Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo ad un considerevole patrimonio. Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata alla meglio la casuccia, che veramente minacciava da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia, le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a bella profondità tutto quello sterpeto. Da un'ave maria all'altra si vedeva sempre là con la zappa levata in alto. Ma dopo qualche anno che vegetazione là dentro! Fu gran ventura per Gian Matteo l'esser cresciuto in casa di Stefano. Costui, quantunque non avesse mai voluto saper di novità ne' suoi poderi, tuttavia era uomo ingegnoso, pratico, e quel che faceva lo faceva con giudizio, e pulitamente; e le sue terre erano le meglio coltivate e le più fertili. Egli stava saldo a questi principii: buone concimature, buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio, il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno, che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle: le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati? ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli, e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po' di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna comperarne un altro. Onde Gian Matteo lì imparò di molto, e quel Sant'Ingegno glie ne suggerì di belle; e, com'era industrioso e attivo, riuscì un discreto falegname, e quasi tutti i mobili di casa se li fece da sè; e gli strumenti di campagna, come li faceva benino! Tutti i vicini venivano da lui; ed egli ne li riforniva di rastrelli, di forcelle, di erpici, di carrette, di ceste, cestelli, gabbie; chè molte ne faceva, impiegando in tali lavori le lunghe sere del verno, tutti i giorni, in cui è impossibile lavorar ne' campi. E che buoni guadagni ne traeva: tutto l'alimenta suo, e certe spesucce, che qui e qua si devono fare, tutto veniva di lì! Per la qual cosa il prodotto del suo podere era un tanto di messo da banda; onde ogni anno comperava qualche lembo di terra, confinante col suo; il che egli diceva riquadrar la cascina; e seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse; par un giardino! Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo dovette per la maggior parte all'istruzione. Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett' anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere la destra dalla sinistra. Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice, non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva, e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come. Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio sui maccheroni per Gian Matteo; non lasciò pure una sera d'intervenirvi! Era diligentissimo, e siccome aveva una testa chiara e ordinata, e oltre a ciò una volontà e una fede da far muovere le montagne, fece miracoli; e imparò in brevissimo tempo a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il saper leggere è nulla; se non si hanno buoni libri, onde adornare la mente e il cuore di utili cognizioni e di buoni sentimenti; perchè il solo saper leggere non è coltura; sono le cognizioni che derivano dal leggere, che fanno pro, che rischiarano il cammino della vita. Senza libri, da saper leggere o no, torna lo stesso; e poi uno che sappia leggere e che non si eserciti, in breve ora disimpara; è come una zappa, che, se non si adopera, arrugginisce. Gian Matteo come seppe tanto quanto leggere, nessuna cosa gradiva più che i libri. Il maestro gli regalò il Buon Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione; ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco, che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D. Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale, di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava; e ad ogni lettura si sentiva come crescere due dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava la vita. Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di festa, i giorni piovosi, le lunghe sere invernali nella stalla paion fatte per ciò; e mentre che guardava i buoi e le vacche al pascolo, invece di attrupparsi cogli altri vaccari a giuocare o a rubare i frutti, a far bricconate d'ogni guisa, egli si sedeva su un rialto da cui potesse scorgere le sue bestie erranti alla pastura, e lì solo in quel silenzio solenne de' campi, sotto il grande padiglione del cielo, leggeva, e leggeva, e si sentiva felice! I camerati che lo vedevano sempre con un libro in mano, e che invitato, non li seguiva nelle birbonate, ne lo sbertavano, chiamandolo il professore, l'avvocato: ma egli non ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la peggio delle infelicità è l'ignoranza. Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate da tutti i coltivatori.

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Aratura....L. 100 Frumento prodotto: Concime..... » 50 Ettol. 33 a L. 20 L. 660 Mano d'opera... » 50 Scorte in terra .» 70 Semente.... » 90 L. 730 Quota spese generali » 400 L. 695 L'altro specchietto che abbiam riportato più su per il vivaio de' gelsi, mostra pure come si possa tener una contabilità a prodotti lontani.

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Egli intanto è assai più educato, e si diporta ora con molto più rispetto che non codesti bravazzoni, che abbiam intorno, cui non manca nè padre, nè madre... Gian Matteo, che potè intendere di che si trattava, e le parole di lei, fu tocco dentro, gli si riempirono in un subito gli occhi di lagrime, e fuggì frettoloso a casa. Alle ingiurie c'era avvezzo, e non ci badava manco più; ma ad una sì calda difesa, no; onde quelle parole, quella voce soave e accalorata, non furono dimenticate più; nelle ore di sconforto, quando s'è sforzati al pianto, si trovava quelle parole nel fondo dell'animo che gli sonavano come incoraggiamento, gli pareva di non essere più solo sulla terra. Egli non ci aveva mai parlato alla Caterina; come neppure lungo tempo appresso; più di buon dì, buona sera, come s'usa tra contadini nel passarsi vicino, altro non s' eran mai detto. Altra volta cadde malato papà Bastiano; Gian Matteo non poteva assisterlo; ma solo faceva qualche scappata in fretta a portargli qualche cosa; e chi trovava quasi sempre Iì a rendergli servizio? Caterina; essa stava di casa lì presso, e sapendo come nessuno potesse prendersi cura del malato, la bontà del cuore la spingeva di tempo in tempo a venir lì, ad accendergli un po' di fuoco, ad allestirgli un po' di minestra; ed era carità fiorita quella, solo conosciuta da chi cresce alla scuola de' patimenti! Gian Matteo non sapeva manco ringraziarla; gli pareva un'azione tanto di cielo, che non si teneva degno di volgerle una parola; e innalzava gli occhi a Dio, come a dire: a voi, che vedete tutto, e che sapete degnamente ricompensare le opere sante, raccomando costei! Quando Gian Matteo andò a tirar il numero, scontrò la buona fanciulla, che usciva da una cappella, dedicata alla Vergine, e aveva gli occhi rossi rosai; ma egli non vi pose mente, e tra l'allegro ed il melanconico: — Addio, Caterina, le disse, vo a far il soldato. — Dio non voglia, rispose dolente la ragazza, ho pregato tanto la Madonna...! e poi confusa d'essersi scoperta, entrò per un sentiero, che metteva ne' campi. Come Gian Matteo si trovò padrone d'una casa, e di un po' di poderetto ben suo, ed ebbe, come diceva, il nido fatto, sposò la Caterina, che non vi so dir io, come rimanesse felice; perchè, se prima poteva nutrir delle speranze, poi che lo vide divenir proprietario, le svanirono tutte; essa senza dote, di lusinghe non se ne faceva punto; tanto più che sapeva, che molte madri a lui mettevano in vista le loro figliuole, facendogli sentire il suono delle mille lire, che portavano in dote. Ma Gian Matteo, quando ne chiese la mano, le disse: chi pigliò le difese di questo miserabile bastardo? Chi soccorse papà Bastiano? Chi pregò perchè fosse salvo dalla leva questo derelitto sulla terra? O voi, o nessun'altra sarà mia moglie. Pianse di consolazione Caterina a queste parole, e Dio benedì quelle nozze. Essa è la felicità di quella casa; accudisce a tutto, nulla le passa inosservato. E con che garbo! Chiunque capiti lì, anche all'improvviso, essa non si confonde per nulla; ma trattiene, complimenta, e non lascia partir nessuno senza avergli fatto accettare qualche cosa, con tanta bella grazia, che molte signorine, con tutta la loro educazione di collegio, non saprebbero fare altrettanto. Gian Matteo appena sposatala, le disse: a te la casa, a me la campagna. E non volle mai, che si mettesse ai duri e faticosi lavori de' campi. E che può far una donna, diceva, colla zappa o colla vanga? Guadagnerà pochi soldi al dì; ma quanto più non potrà guadagnare accudendo alla casa, in lavori più convenienti alla sua natura, e alle sue forze? E infatti le donne nell'allestir le vivande, nel governare la biancheria, nel rappezzar le robe, nel badar al pollame, al maiale, alle bestie, nell'allevar i figliuoli, risparmiano di bei quattrini alla fine dell'anno, e guadagnano una giornata ben più fruttuosa, che in adoperar la zappa o la falce a' raggi del sole. Nè sarà fuor di proposito metter in chiaro i principali lavori di Caterina nel governo della casa e i suoi consigli; perchè possano essere presi a imitare da tutte le donne di campagna.

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Già abbiam detto, che era dessa che portava a libro la contabilità della campagna; ma aveva ancora un registro speciale tutto suo per la contabilità domestica. Le era capitato in mano un libro per le scuole femminili, un buon libricciuolo, che conteneva molte provvide massime e ottimi consigli di masserizia, da cui imparò non poco, e da cui trasse le principali sue norme.

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Tutti abbiam de' nemici, e le autorità più che ogni altro, perchè è naturale, che coloro che non vogliono filar dritto, tutti i cattivi soggetti insomma, non possano veder di buon occhio la legge e chi debbe farla eseguire; il malvagio è certamente nemico del galantuomo, il vizio è l'eterno avversario della virtù.

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Dei doveri di civiltà ad uso delle fanciulle

188271
Pietro Touhar 1 occorrenze
  • 1880
  • Felice Paggi Libraio-Editore
  • Firenze
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Nelle passeggiate è da osservare in gran parte tutto ciò che abbiam detto nel precedente capitolo relativamente al Contegno fuori di casa; ma aggiungeremo alcune altre avvertenze. Se vi trovate in compagnia d'un vecchio o di donne in età avanzata, tocca a voi ad uniformare al loro passo il vostro, affinchè non siano per vostra cagione costrette ad affrettarlo oltre il consueto. Quando un uomo è in compagnia di più donne, deve dar braccio alla più attempata; chè sarebbe cosa ridicola o strana ch'egli usar volesse questa cortesia verso una giovinetta che fosse insieme con sua madre o con altre donne attempate; e se pur volesse farlo, starebbe a lei a trovar qualche garbato espediente per non accettare l'offerta. La scelta del luogo per passeggiare non può dipendere da voi; e dovete mostrare condiscendenza o gradimento di quella che dai maggiori sarà stata fatta. Chè se non vi piacesse, il lagnarsene in segreto con altre, il mostrare scontentezza o noia sarebbe prova d'animo indiscreto o scortese. Sia che si tratti di riposarsi qua o là, o di proseguire il cammino, voi dovete egualmente essere sempre pronte a bene accogliere il volere di chi, per qualsivoglia ragione, ha autorità su di voi. Non istà bene precedere col passo la persona a cui fate compagnia; dovete fermarvi ad esaminare con lei le cose che hanno meritato la sua attenzione, e seguirla subito appena riprende il passo, affinchè non sia costretta ad aspettarvi. In un pubblico passeggio il discorso non può cadere che sopra cose di minima importanza, cosi volendo la cautela; imperocchè mille orecchie vi ascoltano, ed una parola colta alla sfuggita può essere soggetta a sinistra interpetrazione. E anche viepiù necessario un contegno decente e tranquillo, senz'alcun trasporto di troppo vivace gaiezza, che farebbe volgere su di voi gli sguardi della gente e cagionerebbe molestia a chi è in vostra compagnia. In campagna avrete maggior libertà; le intime affezioni si svolgono e si manifestano più prontamente, ed a meno severe leggi di civiltà è soggetta la comitiva; ma non tutto lecito; ma anche in campagna convien seguire i dettami della convenienza, imperocchè, a modo d'esempio, non potrebbe gradire la comitiva che voi, per soddisfacimento di qualche gusto particolare, o per amore di qualche scienza, vi segregaste sempre dagli altri. Del resto, tutte queste leggiere differenze rispetto alle leggi di civiltà possono essere facilmente intese e conosciute nelle sociali consuetudini. Chi ha animo gentile, chi bene osserva, acquista uno squisito sentire e un accorto operare che non è nè deve essere ricercatezza, affettazione, artificio, ma custodia della propria dignità, e semplice desiderio d'acquistar grazia appo le persone che più meritano la nostra stima. Dobbiamo: Così per viaggio, come in ogni altra occorrenza, garbatamente rispondere alle dimande che ci vengono fatte; usar cautela nel conversare con persone sconosciute; usar cortesia verso tutti, massime verso le persone attempate e verso le donne che ci sembrano degne di maggior rispetto; andare di pari passo con le persone di nostra compagnia; e non far nulla che sia d'impedimento al loro desiderio. Non dobbiamo: Stare in sussiego verso chi viaggia insieme con noi, nè abbandonarci a soverchia familiarità con persone sconosciute; pretendere tutti i nostri comodi a scapito dei vicini; entrare inconsideratamente in discorso con tutti; trascorrere a soverchia esultanza nei passeggi pubblici; separarci affatto dalla comitiva del soggiorno campestre, ossia nelle villeggiature o nelle scampagnate.

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La gente per bene

191820
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 2007
  • Interlinea
  • Novara
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Ma noi, gente civile, abbiam trovato il pelo nell'ovo. Noi sappiamo che i genitori sono superiori ai loro figli, ed i superiori non portano il lutto per gli inferiori. Superiori? Inferiori? Davanti ad un morto? Ed una madre potrà pensar questo? E non si coprirà tutta di nero! e non si circonderà di un lutto rigoroso, lei che ha nel cuore il più grande dei lutti umani, il più grande degli umani dolori?

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Marina ovvero il galateo della fanciulla

193904
Costantino Rodella 6 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
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Noi abbiam seguito Marina nelle principali vicende della vita, e sempre abbiam trovato la gentilezza del tratto non mai disgiunta dalla bontà del cuore; il che deve servir d'ammonimento a tutte le fanciulle di educare l'anima a virtù; perchè allora l'urbanità verrà da sè senza sforzo e senza affettazione, la quale indica sempre un desiderio di parere e non di essere, la parola non il cuore, la veste insomma non il corpo. Quella recitazione di complimenti vani, di lodi smaccate, che fan salir il rosso fin alla radice de'capelli, quel turibolo insomma dato lì sul muso, a cui non si sa come rispondere, sono affettazioni di urbanità. Nè si confonda l'urbanità coll'etichetta; parola e cosa a noi venutaci dalla puntigliosa pretensione spagnuola, e consiste nell'osservare le più minute e ridicole cerimonie; il che è fatto apposta per agghiacciare qualunque amichevole ritrovo. Perchè una quando vuol star sull'onorevole, e nel contegno par che dica; state in guardia, io son chi sono! e mette tanto di grugno se non vien salutata prima, se non se le dà il posto più cospicuo, o non se le parla con tutti i riguardi, addio allegrezza di compagnia, addio piacevole conversare, la festa si raffredda, ammutisce, degenera in isbadiglio. Quindi i malcontenti. Oh la brutta razza de' malcontenti! è un piagnisteo continuo lo star con loro. I tempi pèggiorano, le stagioni corrono a rovescio, i raccolti scarsi, tutto è miseria! Il fiore della speranza non può per nulla attecchire in questi cuori delle sette piaghe! Si è a mensa? Questo piatto è insipido, quella vivanda è stracotta e via su questo andare. Si fa una scampagnata? Dio, che scelta! La via è lunga, ripida, noiosa! — Come le garba, signorina, questo villaggio? —È un orrore, io non ci vorrei essere nè dipinta, nè scritta! E qui a trovar difetti senza punto darsi per intesa che si fa ingiuria e villania ai terrazzani a dir male del loro paese. In ciò fanno atto di squisita urbanità quelle che anzi s'ingegnano di scoprirne i pregi e lodarli bellamente, punto facendo caso, anzi velando il più possibile i difetti. — Come sta oggi, signora? — Ahimè, male, non ho dormito! — e giù contro il vento, il freddo, il caldo, il mal di nervi, l'insonnia, l'emicrania, e tutti i malanni. In guisa che con questa sorta di gente non si può far di meglio che recitare i sette salmi penitenziali. Si badi anche alle cose più leggiere; chè nelle inezie talora si rivela il carattere più che nelle gravi azioni. Quelle ragazze che muovendosi nelle camere piantano i piedi, come i coscritti negli esercizi militari, quelle, che invece di posare un oggetto sui mobili o consegnarlo in mano a qualcheduno, glielo lanciano di lontano; quelle che, camminando in luogo affollato, invece di ingegnarsi di scansar la gente, urtano qui, pestano là; quelle che ne' colloquii famigliari alzano la voce, come a predicare; hanno poco vantaggio dalle contadine allevate ne'campi. E poichè sono ad avvertirvi sugli atti sconvenienti, vi consiglierei per ultimo di guardarvi dalle pretensioni. Que' riguardi che si usano avere per galanteria, quando vengono pretesi come obbligo, allora par che cambino natura; anzi nasce la voglia di non più usarli, perchè non c'è cosa che più urti i nervi, che la pretesa. La Corriera deve partire, l'ora è sonata, il vetturino schiocca la frusta, tutti i viaggiatori son su, manca la signora B...., si guarda intorno, è là allo svolto della via ferma a ragionare con qualcheduno; dopo un buon pezzo si avvia lentamente viene alla vettura, è lì per salire, ma non rifinisce di salutare, di raccomandare. Sale, scomoda tutti: scusi, passi, scusi lei, anzi lei, finchè si caccia lunga e larga nel posto migliore: ohè, si è spenta la galanteria nel mondo? sono una signora infin dei conti! pare che dica nella sua aria di pretensione, nello stesso tempo che mette il paniere sulle gambe del vicino di fianco, lo scialle in grembo a quel che lo sta dirimpetto; avrà inoltre una ragazzetta con sè, misericordia, com'è malavezza! Non un momento tranquilla, si muove di qua, si torce di là, mette i piedi addosso ai vicini sciupandone gli abiti, tutto quel che vede lo vuole, e guai se non glie lo date, piange, strilla; a che viaggio d'inferno si condannano que' poveri viaggiatori! E qui fo punto per non aver l'aria di predicatore, augurando a tutte le madri figliuole simili a Marina, la quale per non lasciarla lì su due piedi dirò che diede la mano di sposa al dottor Enrico, quello stesso, i cui pregi narrai nel Galateo del fanciullo. Onde vi lascio immaginare qual coppia felice sia stata codesta, e se tutte le benedizioni del Cielo non vi piovvero sopra. FINE.

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Quella consuetudine, che abbiam detto della signora Bianca, di leggere e chiosare ogni dì qualche capo del galateo, aveva fatto l’abitudine in Marina non solo di comportarsi sempre urbanamente in ogni luogo e con ogni persona: ma ancora le aveva svolto nell’animo un certo buon gusto da giudicar rettamente degli atti altrui; e ogni dì nel suo giornale della vita, che per consiglio della madre aveva cominciato a scombiccherare dal primo momento che potè mettere in carta i suoi sentimenti, andava notando pensieri e fatterelli che ci possono dare una fisonomia assai bella d'una scuola femminile.

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Pagina 4

Ma forse, perchè era tutta innamorata della matematica, insegnava troppo, non perdonandola nè anco alla geometria, la quale, a vero dire, non so fino a che punto torni di vantaggio alle giovinette, se non forse a darle quella stabilità e quella pazienza, che abbiam detto mancar loro nelle cose dell'intelletto. Sia come si sia, Marina vi trovò molta difficoltà; non è che stesse molto indietro dalle compagne; ma stentava a seguirle. Qui però è da avvertire la bella sua indole. In generale le ragazze se ne fanno un vanto, quando non riescono in qualche genere di studi, che sia più da uomo che da donna, come è della matematica, e quasi mettono in ridicolo chi vi inclina e fa profitto. Marina invece era dispiacente di ciò, e confessava come un difetto del suo ingegno il non poter avanzarsi nell'aritmetica come le altre; e quando ne parlava, poveretta, si vedeva che invidiava la fortuna delle compagne, che vi avevan più disposizione, e le pareva la sua un'istruzione incompleta! Pigliava però diletto delle altre scienze positive, come della fisica e della storia naturale. Un bravo e dotto medico s'era fatto un obbligo di spiegare alle alunne delle classi superiori que'tratti di scienza,che più hanno relazione colla pratica della vita, lasciando fuori la scienza pura e teorica, nè seguendo un ordine scientifico da trattato. Egli pigliava occasione dai casi dell'atmosfera, dai fatti, per così dire, quotidiani. Scoppiava un temporale? parlava del fulmine, delle nuvole, della grandine. Compariva una cometa, un'aurora boreale? Cercava di spiegarne la natura; analizzava l'aria, l'acqua, le sostanze alimentari, le vesti, l'architettura del corpo, l e norme più semplici d'igiene; e queste cose le esponeva buonamente, come un padre alla famigliuola congregata; ma quantunque sembrasse che volesse spogliare la scienza del suo grave paludamento, tuttavia teneva molto al rigore, e alla precisione scientifica; perchè diceva, nulla nuocere tanto alla chiarezza, quanto d'esporre la scienza solo per approssimazione, con improprietà di linguaggio, e con scambio di cause e di effetti. Aveva nel suo parlare tanta vita, tanta comunicativa, che infondeva, negli altri l'entusiasmo per i fatti della natura, che aveva egli nel cuore, e le allieve si formavano un chiaro concetto de' fenomeni naturali, e si avvezzavano ad esaminare e a scoprir le cause e le ragioni di quello che loro s'offriva allo sguardo, ed imparavano ad apprezzare anche le cose più piccole, perchè nel vasto sistema del mondo hanno pur esse il loro mandato da eseguire. Marina trovava così utili questi studi, e così opportuni non solo per conservare la salute, ma ancora nella pratica materiale e morale della vita, che avrebbe voluto, che in tutte le scuole vi pigliassero un posto conveniente. Essa v'imparò molte cose, che in un'occorrenza le potevan giovare di molto: per una scottatura, un taglio; certi cibi e certe bevande più confacenti in tali e tali stagioni e circostanze; tali specifici per lavare alcune stoffe, smacchiare un abito, conservarlo, e via su questo fare; e si spogliò di molti pregiudizi ed errori.

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Abbiam detto più su che quando la signora Bianca s'accorse del poco frutto che ritraeva la figliuola dalla musica, pesava già di volgersi ad altro; ora dobbiamo avvertire che in quel torno avvenne un gran cambiamento. Il maestro di Marina per certe sue faccende dovette lasciar Torino, e venne chiamato a sostituirlo il signor Eugenio, uomo intelligente ed ingegnoso, che sapeva tirar partito anche delle difficoltà che incontravano gli allievi, e perciò s'era fatto un bel nome nell'arte musicale. Vedete prodigio! come se una cappa di piombo si fosse levata di dosso alla fanciulla, in breve tempo si trovò così disposta alla musica che il pianoforte le riuscì poco men che un bisogno; sicchè essa stessa ne faceva le maraviglie. Ma la ragione è presto trovata. Il primo maestro, come la maggior parte di quei che insegnano, aveva ridotto l'arte della musica a un puro esercizio materiale, a mestiere, in cui l'anima non ci aveva nulla che fare; era una sorta di meccanismo per mettere in moto i martellini del pianoforte, un giuocatolo insomma per cui, tocca una leva, scatta un suono; quindi ogni suo studio era volto a dar agilità alla mano, spigliatezza alle dita per picchiare rapidamente sulla tastiera; una prestidigitazione e nulla più; nessuna ragione dell'arte, nessuna corrispondenza col cuore, nessun sentimento del bello, nessuna cognizione di quel che si fa. In questa guisa è impossibile che un'allieva riesca a conoscere che sia stile e giunga ad apprezzare gli autori e ad intendere la connessione delle idee musicali. Marina, che aveva ingegno riflessivo e che viveva coll'anima, mal s'adattava a quella sterilità di suoni che lasciavano il vuoto nel cuore; al pianoforte ci si annoiava e non sentiva propensione alcuna per quella sorta di musica. Ma appena ch'ebbe a fare col signor Eugenio, oh fu un altro par di maniche; questi era un vero maestro, che intendeva la musica nello spirito suo più elevato di creazione e di ispirazione di quanto v'ha di più profondo nel cuore e di più bello nella fantasia. E tosto nelle prime lezioni le fece conoscere la relazione del meccanismo coll'arte musicale, e senza stancarla a picchiar i tasti, le apprese a tutta prima a leggere la musica, pei a solfeggiarla, indi a renderla col suono del piano; e così via via la condusse alla vera scienza de' suoni. Marina con vivo trasporto di gioia entrava ne' gentili segreti dell'arte e vi rinveniva sempre una ricca fonte di delicate ispirazioni, che facevan paga la sua anima, avida delle cose belle. Nè si contentò del suono, ma in pari tempo volle anche esercitarsi nel canto. Aveva una voce soave e ben intonata, ma non molto piena però, fioca e deboluccia piuttosto; per il che la madre la secondò di buona voglia in questo desiderio; perchè oltre al divertimento pensava che le si sarebbe rafforzato di molto il petto e ingagliardite le corde vocali; giacchè sapeva che il canto è pur esso una buona ginnastica, e che giova agli organi della respirazione più che altri non creda. E infatti Marina in poco andare ne sperimentò i benefici effetti: voce più forte e più chiara, respiro più libero e meno affaticato, anche dopo un violento esercizio di membra. Alla musica prima aveva destinato un'ora del dì, poi due, e in quelle continuò sempre senz'alcuna interruzione. Si è per questa perseveranza che nel giro di non troppi anni pervenne, sia nel canto, sia nel suono, ad eseguire con somma maestria pezzi, che non sarebbero paruti facili anche a maestri tanto fatti; e, quel che è più, acquistò una giusta conocenza delle scuole e degli stili de' migliori compositori. Il che non è picciol pregio, da non doversi trascurare nell'educazione giovanile. Aveva anche sommo riguardo di non metter troppo a prova la pazienza del vicinato; onde le ore di musica eran quelle che meno potessero molestare le occupazioni de' casigliani; non erano nè troppo per tempo il mattino, nè troppo tardi la notte, per non rompere il sonno di chi ha a dormire. E quando sapeva qualcheduno malato gravemente lì presso, non faceva più una nota; era delicatissima in tutti i suoi sentimenti; onde i vicini la lodavano, e quando si veniva con lei su questo discorso, le dicevano: oh lei non fa come la tale e la tale, che strimpella sempre senza riguardo; venuta a casa dal teatro, anche dopo la mezzanotte, se le gira il capriccio si mette a stonare sul piano, che è una maledizione per chi deve stare vicino; e quando s'è malati, s'ha un bel pregare, ma nessuna carità! Vi sono alcune giovanette, che senza punto di orecchie han voce disgraziatissima, e tuttavia vogliono ad ogni modo cantare; se sono in coro stuonano orribilmente e guastano l'armonia degli altri, se da sole svisano tanto i motivi de'maestri, da lacerar le orecchie di ogni buon figlio d'Adamo, e producono un senso di male, specie in chi ne ricorda le vere ariette. Tali fanciulle, per l'ombra di Rossini, si turino la bocca, che guadagneranno molto più nell'amore e nella stima del genere umano!

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Onde prima dei quattordici non sappiam le cose, sappiam solo le parole; e invero se si è interrogati, si risponde colle parole sacramentali, che abbiam studiato macchinalmente nel libro, o che ci ha appreso il maestro; se si cambian le parole, si fa una confusione da non poterne più cavar costrutto. Quando invece la potenza riflessiva è messa in atto, quello che si ascolta si sottopone ad un esame intimo, all'approvazione del nostro giudizio, e la coscienza ci dice: è così; oppure: così non può stare. Ecco come l'appreso diventa scienza, e resta in noi come fatto nostro, nostra proprietà, e ne disponiamo come e quando ci viene il destro, senza essere legati alla nuda parola. Eppure la fanciulla cessa per appunto gli studi, quando essi si farebbero profittevoli e sicuri. Il che ci spiega come la donna in materia di studi sia piuttosto leggiera, superficiale ed anche pedante; e se sa le cose, non le conosce nella loro ampiezza, nelle loro relazioni e cause remote: ma ne ritiene solo quanto le è stato detto; perchè la sua scienza è tutta di memoria. Quante volte non ci accadde di vedere nelle famiglie la sorella fino ai dodici anni vincere il fratello negli studi, e passati alcuni anni trovarsi un cambiamento incredibile? la ragazza restare stazionaria, se non perde, e il fratello sviluppare un criterio, una logica, una bontà di giudizio che non sapete spiegare; se non riflettete che gli studi più forti egli li fa dai quattordici ai venti, ai ventiquattro, e la sorella li cessò ai quattordici, se non ai dodici. Ecco la ragione della grande differenza intellettuale ne' due sessi, differenza che dovrebbe essere minima o scomparire affatto, se gli studi meglio si organassero per le fanciulle. Esaminiamo un po' meglio per minuto quel che avviene nella vita educativa della giovanetta, e si riconoscerà che si cammina proprio a ritroso della natura. L'istruzione intellettuale le s'impartisce dai cinque ai dieci o dodici anni, quindi le si fa abbandonare la scuola e non se ne parla più, se non forse di qualche lezione per settimana di lingua francese. Tutta la sua vita viene quinc'innanzi divisa fra il pianoforte e que'lavori che si dicono femminili. Ora lasciatemi dimandare: quali occupazioni richiedono maggior forza intellettuale, gli studi o i lavori di mano? Ma questi lavori sono meccanici e la memoria e l'imitazione è tutto, e perciò si potevano tanto bene cominciare prima senza tanto detrimento. La signora Bianca, che poco si lasciava pigliar la mano dall'andazzo comune, diceva che per dare una buona istruzione alle giovani è necessario prolungare il tempo degli studi; e perchè l'una cosa non sia a disvantaggio dell'altra, approvava che contemporaneamente agli studi le si facessero apprendere i lavori femminili e le arti di ornamento. Fino ai diciott'anni non voleva che la ragazza facesse la signorina; lasciarle la testa ai grilli prima, è un metterla nei rischi del mondo, vana, senza studio e senza esperienza. Trovava che fino ai diciotto c'è abbastanza di tempo per istruirla in ogni ramo conveniente ai tempi progrediti, alla civiltà del secolo, e ritornava sempre alla sua idea, che dalla donna istruita infiniti beni ridondano alla società. E come pensava, praticò con Marina; il che spiega come questa abbia potuto erudirsi in tutte quelle materie che abbiam detto.

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Galateo morale

196315
Giacinto Gallenga 10 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
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Il teatro, abbiam detto, avrebbe ad essere una scuola di costumi, un luogo dove il popolo, oltre al ricrearsi della giornaliera fatica potesse eziandio ricevere quell'educazione dell'intelletto e del cuore che può ricavarsi dall'ingegnosa imitazione di fatti lodevoli, eroici, gentili, dalla esposizione dilettosa ed istruttiva di quei morali principii che deggiono regolare la nostra condotta in società e in famiglia. Sotto questo aspetto, sotto tali condizioni, il teatro avrebbe realmente sul popolo una salutare influenza. «Riunite, scrive il Thierry, degli uomini in un luogo dove essi si rispettino; essi si miglioreranno, avvicinandosi, a vivenda. Riuniteli per mostrar loro l'uomo stesso, il ritratto dell'umana vita; essi si costituiranno i proprii testimoni, i giudici della loro stessa esistenza. A lato della missione che ha il teatro di sollevare gli spiriti e di commuovere i cuori, esso ne ha una ben più sublime, quella di mettere ogni giorno al pubblico, che la risolse solennemente, la eterna questione del giusto e dell'ingiusto». Ma ottiensi ciò sempre colle commedie, coi drammi che si producono nei nostri teatri? E prescindendo dalle azioni senza sugo che hanno soltanto il privilegio di annoiare, non succede molte volte di dover uscire dal teatro con la mestizia e la stanchezza in cuore, con il disdegno nell'anima? Non avvien forse di uscirne con una disposizione allo sconforto, presso ch'io direi, con una specie di odio verso gli uomini, verso le leggi? Si brama da taluni veder rappresentate anche a costo del pudore tutte le fasi di una disonesta passione; piace ad altri veder sulla scena descritte le astuzie, le crudeltà dei ladri e degli assassini, le gesta feroci dei briganti, le frodi degli impostori, tutte le vergogne sociali insomma di cui si addolora l'uomo onesto, e su cui è pietà non solo ma prudenza il più delle volte il gettare un velo. Il pubblico di alcuni teatri è altamente soddisfatto dell'imitazione accurata delle grida, dei gemiti, delle vittime; quando vedono in una parola scorrere il sangue dalle ferite, e le contorsioni, le agonie dei trafitti; vogliono insomnia sulla scena i pugnali, i veleni, le morti, i funerali, vogliono gli osceni scherzi, i sucidi amori che farebbero loro nausea e ribrezzo quando fossero trasportati dalle finzioni del palco scenico alla realtà della vita comune. Pur troppo in questa bisogna noi non ci mostriamo gran che dissimili dagli antichi Romani. Né sarebbe gran che più facile adesso che allora l'opporsi a queste prave tendenze della plebe. Voleva l'imperatore Antonino, stomacato di quelle indecenti rappresentazioni, ridurle a maggior decoro e riserbatezza, ma il popolo fremette, il popolo ruggì; e pel minor male, narrano gli storici, si tornò al fango e alle lubricità delle mime e dei Sannioni. E questa specie di trattenimenti saranno quelli che avranno virtù d'ingentilire i costumi, migliorare il sentimento morale degli spettatori? Oh povero popolo! se tu non avessi, pel tuo sollievo, per la tua istruzione altre scuole che queste, sarebbe meglio che tu vegetassi in una eterna ignoranza! «La buona commedia, scrive il Manno, deve venire in qualche modo in soccorso delle leggi, le quali s'incaricano di vendicar le offese fatte alla società dagli scellerati, nel mentre che la satira e la commedia si incaricano di rendere odiosi e ridicoli i viziosi di minor conto. In luogo di ciò si vorrebbe quasi che quei drammi di patetico sentimento partecipassero della natura delle leggi criminali, poiché non di rado in grazia di quelle rappresentazioni noi veggiamo in sulle scene e gli assassini e i mariuoli e tutta quella marmaglia di scherani che non abbisognano della rappresentazione scenica per essere esecrati, e per cui sarebbe troppo lieve cosa la pubblica esecrazione. E non solo quei delitti che fanno fremere ogni cuore ben formato conseguono in tal maniera gli onori della commedia, ma quelli ancora che fanno arrossire ogni onesto spettatore». E vi sono impresari, vi sono capi-comici che per vile guadagno (e hanno il coraggio di dirlo) danno in pascolo a un'avida plebe questi sozzi spettacoli! e vi sono giornalisti che li lodano! e la morale e la civiltà pagano il fio di tutto e di tutti.

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Ma sono, come abbiam detto, costoro, degli Indiani selvaqgi. A molte di queste emergenze provvedono bensì oggigiorno i camerieri d'albergo, le guide, i ciceroni: ma l'aversi, come si lagnava il Giusti, alle costole uno di quei soliti custodi a dirti: qui russava Sallustio, qui si lavava le mani Marco Tullio, là si pettinava la signora Livia è una noia indicibile. V'ha un mondo di cose in cui un cittadino cortese può render servigio a un forestiere meglio di un mercenario e di un interprete officiale: e per le quali procaccierà a sè e al paese bella riputazione di colto e di gentile. Così, a mo' d'esempio, vedendolo in contesa con facchini o cocchieri indiscreti che vorrebbero abusare della sua inesperienza, non dovete titubare un istante a prenderne le difese contro i truffatori e gli scrocconi.

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risposero, gli altri lo percuotevano, e l'abbiamo percosso noi pure; gli altri dicevano di volerlo uccidere e noi abbiam risposto: uccidiamolo pure! abbiamo fatto, in sostanza, quello che hanno fatto gli altri!». E molti di quegli sciagurati erano stati fino allora operai laboriosi ed onesti. A quel punto li condusse il fare come faceano gli altri!

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«Uno degli convenienti della moderna civiltà, così Smiles, si è che mentre andiamo perfezionando i nostri meccanismi, noi dimentichiamo alle volte che il migliore di tutti i materiali greggi è l'uomo; e noi non abbiam fatto per anco l'estremo della nostra possa per migliorarlo e perfezionarlo». E Massimo Azeglio ci lasciò scritto ne' suoi Ricordi che «il vero progresso dell'umanità non istà nelle macchine a vapore, ma nella crescente potenza del senso morale».

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I magistrati, gli agenti di qualunque ordine incaricati di far osservare le leggi e di punire i trasgressori hanno diritto, come abbiam detto, a tutto il rispetto dei loro concittadini. Ma questo rispetto essi se lo procaccieranno non già ostentando una rigidità tirannica nei loro giudizi, né colla prepotenza e col disprezzo verso i deboli e gl'impotenti; ma sì con quella gravità modesta che va associata agli austeri costumi, all'illibatezza di condotta come cittadini, come privati e come giudici, colla cortesia, portata al massimo grado nelle parole e negli atti anche estranei alle loro funzioni ufficiali. Non altrimenti che colla virtù, coll'ingegno e con la gentilezza potrà il magistrato mantenere il suo credito, la sua influenza sulla universalità dei cittadini e avere dalla loro stima e dal loro affetto un alto morale compenso ai dolori onde è circondata la sua spinosa carriera. Ella è somma sventura per la moralità, per la civiltà di un paese allorché può sorgere il dubbio, la convinzione nel popolo che la chiave d'oro possa aprire le porte della giustizia; e che per via di subdoli raggiri e di alte pressioni si possa far breccia nelle coscienze dei giudici, la condotta dei quali dovrebb'essere mai sempre, come quella della moglie di Cesare, esente perfin dal sospetto. Ond'e che la giustizia viene altamente compromessa dal magistrato che abbassa a fautrice d'ire partigiane e di vendette di potenti. Gli elementi della giustizia non si devono cercare in quelli delle basse passioni; come non devono né i giudici, né gli avvocati, né i testimoni ricevere le ispirazioni e tanto meno gli ordini di quei bassi fondi sociali, la esistenza dei quali e la forza poggiano essenzialmente sul mistero, sulla simulazione e sulla corruzione A questi pericoli alludeva il poeta milanese nella sua bella canzone ai caroccee e fiaccaree. Facciam voti che la favola non al traduca giammai, per parte dei nostri tribunali, in istoria. La giustizia de sto mond La someja a quij ragner Ordii in longh, tessu in redond, Che se troeuva in di tiner. Dininguarda ai mosch, moschitt Che ghe barzega on poo arent, Purghen subet el delitt Malapenna ghe dan dent. A l'incontra i galavron Sbusen, passen soma dagn, E la gionta del scarpon La ghe tocca tutta al ragn. PORTA, Poesie milanesi. Vorrei vederlo, il magistrato, sempre calmo e sereno nell'adempimento delle sue terribili funzioni. Esso deve far mostra sempre della massima fermezza e, senza attentare alla libertà della parola, contenere per altro nei limiti della decenza tanto l'accusa quanto la difesa. L'animosità, l'impazienza di cui taluno potesse dare segno contro i difensori o peggio contro gli imputati, qualunque segno di approvazione agli argomenti del pubblico Ministero non potrebbero a meno di destare una penosa impressione in chi li vede ed ascolta, e far sorgere talvolta dei dubbi ingiuriosi sull'imparzialità dei loro giudizi. Maxima est pars justitiae patientia, diceva già il sommo Cicerone. Rifletta il magistrato che con un giurì, come avviene talvolta, composto in gran parte di uomini poco istruiti ed impressionabili, il suo riassunto artificioso e passionato può determinare per se solo un verdetto di morte; poiché se i giurati sanno fino ad un certo punto premunirsi dall'eloquenza dell'accusatore pubblico e del difensore, non egualmente lo sapranno contro l'eloquenza del magistrato che essi suppongono naturalmente imparziale. Non dimentichi mai, il magistrato giudicante, il bell'avviso che gli dà il Cousin: «La carità deve intervenire anche nella punizione dei delitti; oltre al diritto di punire la società ha eziandio quello di correggere; il colpevole è ancora un uomo, e non già una cosa di cui essa possa sbarazzarsi dall'istante in cui le nuoce, una pietra che ci cade sul capo e che ci è lecito di gettar nell'abisso per toglierle ogni possibilità di recarci alcun danno». (V. COUSIN, Justice et Charité).

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Ma lasciamo stare Greci e Romani, che ne abbiam a dovizia dagli scrittori dell'età nostra. «La vera civiltà - scriveva quell'anima soave di Silvio Pellico - è quella virtù che rende l'uomo amabile non soltanto nelle maniere ma nei pensieri eziandio, nella volontà, nelle affezioni». Il Tommaseo dice che pulito viene a significare decente: pulito si dice l'uom garbato, pulito negli affari il mercante onesto, e pulito, egli conchiude, in molti dialetti d'Italia, significa bene. Della cortesia, dice il Mamiani, che

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I contadini di Tommaso Grossi lo amavano di sincero affetto, perché mite, affabile e giusto insieme ed intelligente; e lui morto sclamavano addolorati: Ah noi non troveremo mai più un padrone, come quello che abbiam perduto! E per questi sarebbe d'uopo sacrificarsi ad abitar più sovente la campagna e starsene in mezzo a loro, prender parte ai loro discorsi, combattere senza sussiego, senza sogghignarne, precisamente come si farebbe con un ammalato, le ignoranze, i pregiudizi da cui sono oscurate le loro intelligenze; spiegar loro i progressi che può arrecare la scienza all'agricoltura, senza urtare di fronte i metodi vecchi; e non aver vergogna intanto di prender lezione da loro in tutto ciò che solo può insegnare la pratica delle faccende campagnuole. Meglio confessar subito la propria ignoranza che lasciarsi cogliere in fallo dal contadino; il quale possiede forse più di ogni altro quel senso comune che serve a far loro distinguere se quegli che sta loro parlando è uomo sapiente ed esperto, ovvero semplicemente un parolaio od un impostore. I proprietari d'altronde ci troverebbero eziandio il loro tornaconto nello accudire personalmente ai lavori di campagna; il miglior fattore è il padrone istesso; senza parlare del buon generale che ne deriverebbe all'agricoltura da queste associazioni di lavori e d'ingegni, di pratica e di scienza, di studio e di routine. «L'agricoltura, per citarvi ancora una volta il Say, prospera solo quando i campi vengono coltivati dai loro medesimi proprietari; parliamo di proprietari educati ed istrutti; poiché entrano allora in campo dei mezzi di successo che non sono a portata del contadino, soggetto a tutti i pregiudizi e vittima bene spesso del ciarlatanismo».

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Non parliamo, come già dicemmo, delle visite per affari che abbiam già trattato indirettamente, parlando degli avvocati, dei medici, dei negozianti, ecc. entrando le medesime nel complesso degli affari istessi, e facendo parte dell'esercizio delle stesse professioni; e ci limitiamo a ragionare delle visite di convenienza e di affezione.

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Rimane inteso che qui si parla unicamente di giuochi onesti, in quel modo che non abbiam parlato fuorché di conversazioni civili. Quindi non ci occuperemo delle case da giuoco propriamente dette, dove chi entra lascia ordinariamente l'onore alla porta, quasi sicuro di non più trovarlo allorché ne ritorna. E che vuolsi tuttavia? È difficile anche a colui che non si fa, fuorché per semplice sollazzo e per brev'ora, giuocatore, di contenersi nei ristretti limiti delle convenienze. Chi per poco si lascia trasportare da questa pericolosa passione, corre il brutto rischio di diventare, almeno finché dura il giuoco, avido, brutale e superstizioso. È così facile che le dispute, che le differenze, che i dispetti che insorgono pressoché inevitabilmente giuocando, trascendano in sarcasmi ed in ingiurie! Di cento duelli, novanta hanno origine dal giuoco. Sì, il giuoco ha questa triste prerogativa di mutare in peggio la natura degli uomini, di paralizzarne le gentili tendenze; nel giuoco, e di' pure anche nel giuoco onesto, si turbano di leggieri le affezioni, le armonie del cuore, della famiglia. Si sciupano dal più al meno le sostanze e la salute, talvola la morale e l'onore degli individui. Durante il giuoco lo spirito si trova sovreccitato in modo anormale; ed è appunto il bisogno immaginario di queste emozioni che rende a molti simpatico questo pericoloso trattenimento.

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Vuolsi, abbiam detto, rinnovar l'aria nei luoghi di numerose riunioni. Ma bisogna poi anche, chi ha immensi saloni,non pretenda riscaldarli con iscarso focherello. Il freddo è nemico dell'espansione.

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