Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260514
Venturoli, Marcello 6 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Se fino ad ora noi abbiam posto l’accento sull’inequivocabile vocazione o condizione impressionista di Vuillard, ciò non significa che il maestro sia stato incapace di autonomia; anche Bonnard, che a nostro avviso può essere considerato il fratello maggiore più somigliante a Vuillard (per la fedeltà agli impressionisti), ebbe uno sviluppo non dentro l’avanguardia storica, ma a fianco di essa, non cogliendone via via l’insegnamento, ma avvalendosi delle premesse impressioniste, per raggiungere molto spesso risultati non minori di quelli degli avanguardisti: Vuillard, nel suo piccolo, fece lo stesso; camminando, se così possiamo esprimerci, a fianco dei divisionisti senza mai entrare nelle loro schiere come un effettivo militante: punti di contatto con Seurat si ritrovano ovviamente in diversi dipinti di Vuillard, come «La Gugliata» già citata, «Gli scaricatori», «L’autoritratto ottogonale», «La vita coniugale», «Madre e bambino», ma a noi sembra che questa esemplificazione della architettura cromatica dovuta alla vicinanza di Vuillard coi divisionisti non faccia che mettere maggiormente in luce le sue peculiari doti di decoratore del sensibile. Del resto, nello stesso tempo in cui l’artista percorreva la strada parallela a quella dei divisionisti, precisava e riproponeva la sua origine dalla grande fioritura del 1870: come si può ampiamente avvertire nelle opere «Il traghettatore» (Monet) «Misia nei campi» (un Pissarro visto attraverso gli schemi di Gauguin e di Van Gogh), «La conversazione» (che fa venire in mente perfino il museo di Degas, per le tipologie, il leggiero gusto aneddotico degli interni di «genere»), «Misia con il corsetto rosso a fiori» (per i bianchi manettiani, le esemplificazioni «mattinali» della luce), infine la magnifica tempera pastellata su tela «Madame Hessel e un bambino al castello di Clayes», di una veemenza psicologica e sensuale inusitate, e tali da suggerire il quadro degli interessi di Toulouse Lautrec.

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Vuillard, al di fuori della ragione storica dell’impressionismo così come noi abbiam voluto presentarla, non fu convinto da niente altro: accompagnare il post-impressionismo con dignità e freschezza fino al matrimonio con l’avanguardia.

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Ed ora che abbiam chiarito il nostro pensiero, su Pollock e sulle possibilità dell’astrattismo non figurativo, affermiamo con la medesima schiettezza di rimanere nei confronti di molti paladini dell’ultimo «ismo», artisti e critici, ugualmente scettici e sulla difensiva. Se Pollock è un artista valoroso, che resterà certamente nella storia dell’arte moderna, non sono altrettanto valorosi e nemmeno sulla medesima strada di originalità e di spregiudicatezza molti astrattisti italiani, quasi tutti gratuiti o formalisti per la pelle.

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A proposito dei nove motivi musicali o trofei di note che Sergio Romiti ha esposto alla Quadriennale, ci sia permessa questa osservazione psicologica: dinnanzi ad un unico «pezzo» del pittore bolognese vien fatto di sostare a lungo, quasi a mettere a fuoco la nostra percettibilità con quelle liriche vanescenze; ma, dopo un lungo ascoltare ed ascoltarsi per percepire l’eco di musiche che non si odono, una smania ci spinge a guardare oltre, nelle tele sorelle, se mai si possa scorgere ciò che nella prima non abbiam visto o capito; ma, se dinnanzi ad una sola opera di Romiti ci pareva di essere noi in colpa, troppo «grossi» per tanta finezza da decifrare con pazienza, dinnanzi a tutte e nove ci pare che la colpa sia di Romiti, che egli abbia voluto in quella somma di squisite pochezze dare l’immagine di una reticenza, piuttosto che di una confessione, di una ambiguità, piuttosto che di una certezza. Ma il fatto che questi quadri non ci respingano e non ci leghino, non autorizza nessuno a concludere che essi siano inespressi, casuali e meccanici: in quella sorta di «caleidoscopio» su raso (la parola non è nostra, ma non siamo autorizzati a citarne la fonte) Romiti è vitale e inimitabile; forse c’è una sola persona che possa imitarlo (cosa che pensiamo avvenga talvolta) ed è lui stesso.

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Ché Brancusi, pur sobrio al punto di nutrirsi di polenta e cipolle come cibo principale, era ricco, dopo tutto: le sue sculture giravano su basamenti azionati elettricamente, ed alcune erano accompagnate anche da musiche di intonazione mistica; il Maestro, lo abbiam visto, non era un Lucullo, eppure in tutto il quartiere popolarissimi erano i suoi manicaretti confezionati con sue stesse mani in occasione di feste pubbliche e private.

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Ma se fin’ora abbiam parlato della eccezione della regola, non dobbiamo trascurare quella che fu, appunto, la regola di Delacroix, il quadro «storico» liberamente espresso nelle tele, con la evidenza e la persuasione che l’artista mise nel descrivere gli episodi della realtà. Delle sette versioni del motivo di «Cristo sul lago di Génézareth», le due presentate nella XXVIII Biennale di Venezia, entrambe compiutissime, sono autentici capolavori, insieme con l’altro «quadro di naufraghi», il Don Juan, dipinto dodici anni prima. In quest’ultimo la «storia» così come ce l’aveva rappresentata nei suoi paradigmi la Rinascenza fino a Tiepolo diventa piuttosto una cronaca, a tutto vantaggio dell’arte. Le tre donne e i diciannove uomini che gremiscono la barca, sono così drammaticamente legati «alla vita», che il racconto assume la concitazione di chi guardi, e, via via, descriva. Una sorta di bonaccia, di immobilità, resa plastica dall’orizzonte sul quale si allarga un’ombra tempestosa anziché il chiarore, le onde nere nell’acqua profondissima del primo piano, inquadrano questo palcoscenico di vita, la barca, dove nessuno più grida o si sbraccia. L’agitazione c’è già stata: ora ciascun personaggio ha tutto il tempo di contemplare se stesso, di amministrare il suo sfinimento, raccogliendosi intorno all’amato Juan. Ci entrano davvero tutti nella barca? O non è questa una specie di barca di Caronte, che sta a galla per pura licenza pittorica? Pesano troppo i ventitré, su quel mare grigio e vuoto, dove perfino la luce sprofonda? L’equilibrio è compromesso dal gruppo dei naufraghi in piedi? Ma è proprio il senso di questa irreale realtà, di questa barca che, malgrado il suo peso umano, non affonda, a dare un preciso significato al quadro.

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