Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbiam

Numero di risultati: 6 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Questioni politico religiose

645939
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Sciolta dunque la questione intorno a questo sistema della legge atea, e dimostrato, come abbiam fatto trattando la questione precedente, che la legislazione civile non deve essere ostile alle credenze religiose dei cittadini, è sciolta di conseguente anche l' altra che riguarda il così detto matrimonio civile, e che non è altro che un caso d' applicazione. Veniamo dunque alla conclusione, che sarà necessariamente questa: La questione, se ci possa essere o no un matrimonio civile, è superiore e indipendente da tutte le diverse private opinioni che possono avere i legisti e gli statisti intorno alla natura del matrimonio; e invano essi si perdono in tali dispute, non accorgendosi che la vera soluzione del problema dipende da un princìpio più elevato e più universale, che sfugge alla loro considerazione. Che poi la legge del così detto matrimonio civile sia contraria e ostile alla Religione Cattolica, non sembra necessario dimostrarlo maggiormente dopo quello che abbiamo detto di sopra e quello che ne fu scritto in occasione de' progetti di legge presentati al Parlamento piemontese. Che anzi, se ci fu mai legge che fino dalla sua origine portasse con sé i caratteri storici dello spirito irreligioso e astioso alla Religione Cattolica, essa è indubitatamente quella del matrimonio civile. Basta considerare in qual tempo e da quali mani ella uscì per restarne convinti. Chi non conosce qual era lo spirito dei legislatori francesi del 1791 e susseguenti? Lo spirito d' empietà, sempre subdolo e astuto, procede sino a un certo segno cautamente e gradatamente, ma quando crede d' essere sicuro del fatto suo, svela senza pudore la sua faccia: seguitiamolo ne' suoi passi a quel tempo e in quella nazione in cui egli, rompendo violentemente ogni tradizione co' secoli trascorsi, creò il matrimonio civile. Nella prima Costituzione politica che si diede la Francia nel 1791 fu inserito questo articolo: [...OMISSIS...] - Era appunto il contrario di quello che per 1. secoli aveva insegnato la Religione Cattolica: secondo la sua parola, che è parola di verità, il matrimonio non fu mai e non è un contratto civile. A quella Costituzione tenne dietro ben presto il decreto dello stato civile, che dedusse la prima conseguenza da quel princìpio, conseguenza sì prossima che si annunciò come una spiegazione della Costituzione stessa; e questa conseguenza fu la dissolubilità del matrimonio: [...OMISSIS...] - Ecco di nuovo il contrario di quanto insegna la Religione Cristiana Cattolica, della quale è un dogma che il matrimonio è un vincolo e un contratto indissolubile. L' effetto che immediatamente produssero queste leggi, in aperta contraddizione alla Religione si fu l' indebolimento d' ogni affetto domestico, e si vide in breve tempo triplicato il numero degli infelici bambini abbandonati dagli snaturati loro genitori (2). Tali disposizioni di quel governo civile contrariavano bensì direttamente la Religione, però con quelle forme legali che coprono, in qualche modo, lo spirito d' impietà che vi si racchiude. Ma ben presto questo spirito, tenendosi già sicuro della vittoria, si manifestò apertamente con caratteri più ributtanti dell' immoralità, mediante una serie di decreti e di leggi che sono troppo conosciuti, e provano ad evidenza come l' ateismo, di quelle leggi provenisse non già soltanto da freddi principii di diritto, o da un ateismo del legislatore puramente speculativo, ma da un odio profondo ad ogni religione; e basterà per tutte indicare la legge con la quale i legislatori pretendevano abolire il pregiudizio intorno alle concezioni illegittime, e a tal fine concedevano una ricompensa alle figlie che avrebbero avuto il coraggio di allattare i loro bambini in pubblico (3). Ognuno sa che il matrimonio civile del 1791 facendo continui progressi, nel corso di soli due anni (1793) giunse al tempio della ragione. E uno di que' legislatori del matrimonio civile e dell' abolizione del culto cristiano cattolico in Francia, il Chaumette, con molta semplicità spiegò che era la nova Dea, la ragione, che si voleva unicamente adorare. Riconducendo in trionfo alla Convenzione l' invereconda femmina ch' era stata posta in sull' altare nella chiesa di Nostra Donna, e rendendo conto del novo rito: « Colà », disse il Chaumette, « abbiamo abbandonati idoli inanimati, per seguire la ragione, per seguire quest' imagine animata, capolavoro della natura! ». Tale era la ragione, la dea di quei famosi legislatori. E uno storico del giusto mezzo trova veramente deplorabili queste scene, rappresentate senza raccoglimento e senza bona fede (4). Fu necessario che Massimiliano Robespierre, trascorsi pochi mesi dall' istituzione del culto della ragione, ammonisse questi invidiati legislatori civili, che l' ateismo era aristocratico. Allora si risolsero di distruggere l' opera della loro legislativa sapienza, riabilitando, in virtù della stessa autorità dello Stato, l' Ente Supremo. La legge civile che vuol esser atea, non arriva che ad essere incoerente; così si punisce e confonde da se medesima. E` dunque provato ad evidenza dalla storia, quanto onorati e puri sieno i natali del matrimonio civile, che può senza controversia vantare d' esser legittima prole dell' odio di ogni religione e della morale, di questo odio che nei momenti del suo trionfo rende i civili legislatori, letteralmente, de' mentecatti e de' furiosi. Chi vuol conoscere la natura del seme, esamini l' erba che da lui nasce. Ma le aberrazioni dello spirito umano non hanno lunga durata; il mondo va ogni giorno più aprendo gli occhi, ammaestrato dall' esperienza e dalla riflessione sull' empietà, sulla immoralità profonda, sull' abiezione, sul danno sociale, sulla dissennatezza del matrimonio civile: pur ora l' Olanda, dove era stato introdotto dall' armi francesi, lo scancellò dalle sue leggi, almeno pe' cattolici: la Francia stessa, esperta de' funestissimi effetti di questo nuovo matrimonio di sua invenzione, si va ogni dì più convincendo del suo antico errore: già anche gli scrittori laici di quella nazione apertamente lo impugnano (5), e di questi giorni stessi una numerosa petizione, presentata a quel Senato, ne domanda l' abolizione (6). E il Piemonte? Il buon senso del Senato piemontese ha mandato a vuoto il tentativo dei retrogradi che volevano regalarci questa merce straniera del 1791, e si spera che niun altro tentativo di tal sorta verrà a disonorare e ad affliggere un popolo così sveglio e religioso. Noi ci proponiamo di cercare in che cosa consista la libertà di coscienza. Lo faremo con il separare prima di tutto le interpretazioni false di questo acclamato principio, le interpretazioni mancanti di sincerità. Dimostreremo che mediante queste interpretazioni subdole e sofistiche, la libertà di coscienza è divenuta una coperta e uno strumento d' interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali; il che è quanto un dire, che quello che molti chiamano libertà di coscienza non è tale, ed è anzi il contrario. Rimossa poi questa libertà di coscienza finta e bastarda, facilmente apparirà da sé qual sia il vero significato di questa espressione libertà di coscienza , intesa non meno secondo il diritto, che secondo la logica. E non intendiamo punto parlare di que' legislatori o governi civili, che invocando la libertà di coscienza nelle loro leggi e nei loro atti, non si curano di velare l' insincerità del loro procedere, e di più hanno la vanità di far trasparire ad un tempo e la loro falsità e la loro incredulità, dichiarandosi per la libertà di coscienza. La prima volta che in Francia si promulgò una legge che stabiliva la libertà di coscienza, fu al tempo della Convenzione, e sotto questa legge di libertà fu abolita la religione! E` troppo noto come il procuratore del comune di Parigi, Chaumette, spasimante della libertà di coscienza, prese un bel giorno ad inveire contro la pubblicità del culto cattolico, e sostenne che questo era un odioso privilegio, che si doveva abolire; e infatti quel Comune nel giorno 14 ottobre 1793 decise, sempre appellando alla libertà di coscienza, che i ministri di qualunque religione non potessero più esercitare il loro culto fuori dei templi, instituì ancora nuove cerimonie funebri profane da sostituire alle sacre; e ne' cimiteri, rimossi tutti i simboli religiosi, fece collocare la statua del sonno, con altre disposizioni di simil genere. Di poi alcuni legislatori e governatori di quel tempo andarono in persona a sedurre il miserabile Gobel, vescovo costituzionale, e lo persuasero a rinunziare solennemente all' esercizio del culto; e nella farsa che se ne fece davanti alla Convenzione, il presidente della medesima al discorso del rinunziante rispose con tutta gravità che [...OMISSIS...] . E lo storico del giusto mezzo aggiunge, che rispose accortamente (2). Il qual fatto fu seguito dall' abolizione della religione, e da tutte quelle abbominazioni che rimangono e rimarranno nella storia siccome un indelebile commentario della maniera in cui veniva intesa da quei governatori riformatori la libertà di coscienza. Il principio della libertà di coscienza professato a questo modo non può formare l' oggetto di una seria discussione, e la menzogna della legge e de' legislatori s' affaccia tanto chiara e tanto impudente, che non ha bisogno di essere svelata. In altri non pochi di quelli che vogliono comparire come fautori della libertà di coscienza, c' è un' altra maniera di mancanza di sincerità più imprudente e s' involge in artificiosi sofismi; e questa stessa ha diversi gradi. Prima di descriverla, noi protestiamo di riconoscere che in taluni di tali uomini l' incoerenza di cui danno manifesta prova quando parlano di libertà di coscienza, non è neppure totalmente insincerità; c' è mescolato indubitatamente dell' ignoranza, del pregiudizio, dell' irriflessione. Infine quando noi nominiamo l' insincerità degli uomini, intendiamo non altro che l' insincerità dei sistemi. Crediamo perciò che molti di tali sistemizzatori possano essere utilmente richiamati al vero concetto della libertà di coscienza, e che meritino d' essere invitati a considerare le contraddizioni in cui cadono, forse senz' avvedersene, quando prendono a ridurre all' atto questo principio. Tale è l' intento che noi ci proponiamo nello svolgere la presente questione. Tre di questi fallaci e ingannevoli sistemi intorno alla libertà di coscienza ci si presentano, che noi chiameremo: il sistema legale, il sistema filosofico e il sistema utilitario. Gioverà meglio il far conoscere qual sia il carattere proprio di ciascuno di questi sistemi per mezzo di esempi, non solo perché vedendolo in atto più facilmente se ne raccoglierà l' indole, ma ben anco affinché niuno creda che noi forse gl' inventiamo e non sieno sistemi reali esistenti nella pratica de' governi e nelle teorie de' governanti. Il sistema legale, il più decente nelle forme e il più coperto, sedusse uomini d' altra parte rispettabili. L' esempio che sono per darne ne somministra la prova. Nella seduta del 10 giugno, anno corrente 1.53, nella Camera de' deputati di questo Stato, il ministro di grazia e giustizia, rispondendo all' interpellanza d' un deputato savoino, fece questa dichiarazione: [...OMISSIS...] Niente di più esplicito. Ma rimane a conoscersi l' interpretazione di questo principio ancora indeterminato; e l' interpretazione non si fa aspettare, perché lo stesso ministro ce la dà non meno esplicita in queste parole: [...OMISSIS...] Qui il ministro vuole che nessuno sia costretto, né impedito a fare un atto religioso, ma però ad una condizione, che quest' atto non sia proibito dalle leggi civili. Suppone dunque che la legge civile possa impedire o proibire un atto qualunque che emani dalla fede religiosa de' cittadini: e questa è l' assoluta e piena libertà religiosa di coscienza ch' egli loro promette. Ecco che cosa s' intende nel sistema legale quando si dice d' ammettere pienamente, interamente ed in tutte le sue conseguenze il principio della libertà di coscienza: s' intende quella porzione che non viene loro tolta dalla legge civile. All' opposto, la questione della libertà di coscienza consiste appunto nella ricerca: « Se la legge civile possa proibire o impedire un atto che emani dalla fede religiosa de' cittadini ». Chi suppone che la legge possa far questo, in generale non ammette per fermo la libertà di coscienza, stabilisce bensì l' intolleranza e il dispotismo insieme con la pazza onnipotenza della legge civile. E` anche evidente che una tal legge, se riguarda la vera religione, è assolutamente empia; e se riguarda religioni false, è almeno riguardata come empia da que' cittadini che la professano. Tutta la questione dunque viene stranamente falsata, ed è pur necessario restituirle la sua vera forma, che non può essere altra che questa: Si ricerca « se la religione sia anteriore e superiore alla legge civile, o se la legge civile sia anteriore e superiore alla religione »; ovvero « se le leggi di Dio si debbano conformare alle leggi degli uomini, o viceversa se gli uomini debbano conformare le loro leggi a quelle di Dio »; e di conseguente, quando le due leggi riuscissero contraddittorie, « se le leggi di Dio debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi degli uomini, o se le leggi civili degli uomini debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi di Dio ». Per verità, se la libertà di coscienza consiste in questo solo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto, né impedito a fare un atto qualunque non proibito dalle leggi, che emani dalla sua fede religiosa », egli è evidente, che non ci può essere niuna legge civile, qualunque sia, che offenda il principio della libertà di coscienza, e che perciò la legge civile è sempre, per sua propria essenza, liberalissima. A valutar bene a solo colpo d' occhio questo sistema legale della libertà di coscienza, gioverà ricorrere ad un esempio estremo, poiché il principio, essendo generale, vale ugualmente pei casi estremi, che pei più moderati. Ricorriamo dunque a Nerone. Quando questo Imperatore (e lo stesso si dica degli altri governi, non pochi di simil tempra, che furono al mondo) proibì sotto pena di morte il Cristianesimo, c' era ancora in quegli Stati un' intera e perfetta libertà di coscienza? Secondo il sistema legale surriferito bisogna rispondere di sì: perché anche allora « niun cittadino era impedito a fare atto qualunque non proibito dalle leggi, che emanasse dalla sua fede religiosa ». E` vero che i cristiani non potevano fare gli atti che emanavano dalla loro fede religiosa; ma questi atti non essendo legali, poiché erano proibiti dalla legge civile, andavano esclusi dalla libertà religiosa, secondo i legisti di cui parliamo: godevano però i cittadini cristiani di quel tempo pienamente e interamente e in tutte le sue conseguenze, della libertà di coscienza, perché niuno di essi poteva essere costretto o impedito a fare un atto qualunque di quegli altri non proibiti dalle leggi che emanassero dalla loro fede religiosa! Che se non avevano altra fede religiosa che quella i cui atti erano proibiti dalle leggi civili, quei magistrati di allora potevano dire come i magistrati d' adesso: « Noi non abbiamo facoltà di ricercare o l' incredulità o lo scetticismo di nessuno ». Egli è dunque evidente, se non vogliamo corbellare la gente, quando parliamo di libertà di coscienza, che con questa questione si tratta unicamente di sapere se le leggi civili debbano essere subordinate al principio della libertà di coscienza, o se la libertà di coscienza debba essere subordinata alle leggi civili. Poiché conviene scegliere, i legisti (già s' intende, non tutti, ma quella specie di cui parliamo) scelgono che il principio della libertà di coscienza sia subordinato alla legge civile, non sofferendo che cosa alcuna sia superiore all' autorità di questa terribile legge. Ma è pur cosa maravigliosa, che chiamino principio quel che è subordinato alla legge civile, e che ci facciano tali leggi che hanno i principii non di sopra, ma di sotto. I legisti di questa sorte sono stati sempre uguali in tutti i secoli e sotto tutte le forme di governo. Gli avvocati d' Enrico V e di Federico Barbarossa partivano dallo stesso principio da cui partono oggidì gli avvocati degli Stati costituzionali e delle repubbliche, che dettano le loro leggi atee; soltanto che allora s' attribuiva alla volontà d' un legislatore individuale quello che ora s' attribuisce alla volontà collettiva d' alcuni legislatori. Questa volontà può sempre tutto indipendentemente da principii: da essa sola emana esclusivamente il diritto, l' obbligazione: [...OMISSIS...] Noi intanto crediamo che basti la più piccola dose di buon senso per intendere, che il collocare la libertà di coscienza in questo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto né impedito a fare un atto qualunque che emani dalla sua fede religiosa, con la restrizione che questo atto non sia proibito dalle leggi », non è un dichiararsi a favore della libertà di coscienza, ma è soltanto pronunciare una celia. Escluso il sistema legale, vediamo qual sia il filosofico (già s' intende nel senso abusivo della parola), e cerchiamo se in questo secondo sistema ci abbia più sincerità che nel primo. - In uno Stato ci sono o ci possono essere anche di quelli che non hanno alcuna credenza religiosa, o che non vogliono almeno professarne nessuna. Da questo i filosofi, di cui parliamo, si credettero giustificati a dedurre, che la legge civile, acciocché riesca formata secondo il principio della libertà di coscienza, debba regolarsi in modo che, rimanendo identica per tutti, possa convenire a tutte egualmente le credenze, come pure a tutti i sistemi d' incredulità. Ma come arrivare a questo intento? Essi risposero: con la legge atea, della quale noi ragionammo nella questione precedente. I detti filosofi non si dettero, non si vollero dare la menoma pena di esaminare se sia possibile una legge alla condizione che le imponevano; ma, parlando sempre in astratto, assicurano sulla loro fede i popoli, che una legge, quando è atea, adempie perfettamente alla condizione indicata. Noi abbiamo dimostrato che non diedero in questo gran prova di sagacità, poiché s' avvera appunto il contrario; dimostrammo di più, che una legge di tal sorta è solo favorevole a quella classe di cittadini che non professa credenza alcuna, o che è indifferente a tutte; e allo stesso tempo che offende da molte parti la coscienza di tutte le altre classi de' cittadini che hanno una credenza, e che perciò essa è una legge di privilegio per gli increduli. Noi ripeteremo qui solo una osservazione, e questa si è, che quel definire la questione così in astratto, trasse in inganno anche persone non prive al tutto di fede religiosa, ma inette a cercare il fondo delle questioni. Quando la Francia, facendo ritorno al culto cattolico, abolì quelle leggi che erano state dettate dall' odio della Religione e a nome della libertà di coscienza, si esaminò se doveva essere abolita con esse anche la legge sul divorzio [...OMISSIS...] I giureconsoli che presero parte alle conferenze tenute per la compilazione del Codice di Napoleone, non erano certo più gl' increduli furiosi del 93: pure mantennero il divorzio, ingannati da quell' illusorio princìpio della libertà di coscienza, nel senso che gli avevano assegnato i filosofi della rivoluzione. « Il vero motivo », dissero, « che obbliga le leggi civili ad ammettere il divorzio, è la libertà dei culti. Ci sono dei culti che autorizzano il divorzio; ce ne sono degli altri che lo proibiscono. La legge dunque (ecco le conseguenze che ne cavano) deve permetterlo, affinché quelli la cui credenza l' autorizza, possano farne uso ». Questo argomento, ridotto a forma generale, si può esprimere così: La legge civile per rispettare la libertà di coscienza deve adattarsi a quelli che credono meno. E questa è appunto la massima che conduce all' ateismo totale della legge. Poiché tra tutte le gradazioni di credenza c' è anche quella in cui ogni credenza svanisce, e perciò la legge si dovrà adattare propriamente a quelli che non hanno alcuna credenza, e così dovrà essere essa stessa atea. Se nella gravità di quella discussione intorno al divorzio avesse trovato grazia la logica, questa avrebbe mostrato a que' legisti che la conseguenza che essi deducevano dall' esserci nello Stato dei culti che autorizzavano il divorzio, era assai più estesa della premessa; poiché dall' esserci dei culti che autorizzavano il divorzio si può trarre benissimo la conseguenza, che la legge per la libertà di coscienza permetta a coloro che professano quei culti il divorzio, ma non si può trarre la conseguenza universale, che dunque lo permetta a tutti, anche a coloro che professano dei culti che non autorizzano punto il divorzio e che lo condannano. I legisti ricorreranno qui probabilmente al male inteso e mal applicato princìpio dell' uniformità della legge civile, del quale noi ci proponiamo di trattare a parte in un' altra questione. Qui ci basta di riconvenirli, che non fu dunque il princìpio della libertà di coscienza, com' essi dichiararono solennemente, quello che suggerì loro la legge universale sul divorzio, ma un altro princìpio tutto diverso. E così appunto sogliono fare i legisti: vi dicono di partire, nella formazione delle loro leggi, dal princìpio della libertà di coscienza, e poi, quando voi li riconvenite della falsità del loro asserto, vi scambiano le carte in mano, e vi dicono di essere partiti da un princìpio tutt' altro, come nel caso nostro, dalla pretesa necessità, che le leggi civili sieno uniformi per tutti quelli che professano culti diversi ed opposti. Dicendo ciò cotesti filosofi legali, sembra che non si accorgono della necessità almeno che hanno di accordare un princìpio con l' altro, seppur vogliano persuaderci che essi li seguano entrambi. Uniformità di leggi per tutti i culti diversi e libertà di coscienza sono esse cose conciliabili? Noi abbiamo anzi dimostrato che sono princìpii perfettamente contraddittori. Se le leggi civili, abbiamo detto, potessero astenersi da disporre intorno a tutto ciò che ha qualche relazione anche lontana con le religiose credenze, la cosa sarebbe possibile, e però quelle leggi che non involgono relazione alcuna coi vari culti, possono benissimo essere uguali ed uniformi per tutti i cittadini. Ma poiché ci sono sempre molte altre leggi civili che involgono diverse relazioni con gli oggetti religiosi, perciò il princìpio dell' uniformità delle leggi cade in aperta contraddizione con quello della libertà di coscienza; e in tutto questo genere di leggi non è mai possibile conciliare i due princìpii, ma l' uno o l' altro deve essere abbandonato. E così fecero i legisti della Francia trattando e adottando le leggi sul divorzio. Ma quale dei due princìpii abbandonarono? Furono forse sinceri? ci dissero chiaro e da galantuomini che il princìpio dell' uniformità delle leggi li obbligava a sacrificare quello della libertà di coscienza? Io crederò, per diminuire il loro torto, che prima di mentire a noi, abbiano mentito a se stessi, e che perciò non si sieno accordi della falsità che profferivano. Ma il fatto si è, che l' unico princìpio, di cui fecero pompa nei motivi della legge, fu quello della libertà di coscienza, cioè quello che andavano ad immolare; e dell' altro, cioè della materiale uniformità delle leggi, che era il solo che veramente mantenevano, non fecero una sola parola. Il primo era popolare e riscuoteva facilmente l' applauso; conveniva dunque far passare sotto gli auspizi di questo princìpio una legge che da tante parti lo violava. Tale è la sincerità de' filosofi legali. E che la legge che permette a tutti i cittadini il divorzio osteggi la Religione Cattolica che lo proibisce e offenda la libertà religiosa dei cattolici, è facile di vederlo: Quella legge agli occhi della Religione Cattolica contiene un' eresia, e perciò insulta il dogma cattolico col dichiararlo falso, poiché la legge dice assolutamente e universalmente: « il matrimonio è dissolubile »; il dogma cattolico dice: « non è dissolubile »(5). La legge dunque non era già indifferente alla Religione, ma si fondava sopra un princìpio d' empietà agli occhi della Religione Cattolica. Questo offendeva tutto il corpo dei cittadini cattolici, quando la libertà di coscienza esige che la propria religione rimanga incolume, e da tutti, specialmente dal legislatore, rispettata [...OMISSIS...] ; Due coniugi cattolici divorziati, e passati ad altre nozze col favore della legge, si pentono del fatto che hanno commesso, giusta i princìpii della Religione che professano. Questa religione impone loro, come obbligazione gravissima, di dividersi l' uno dalla supposta moglie, l' altra dal supposto marito. Ma non ci sono cause per ottenere dalla legge un altro divorzio. La legge obbliga la moglie ad abitar col marito, ed obbliga il marito a ricevere presso di sé la moglie «( Cod. del R. d' Italia , 214) ». La legge dunque impedisce a questi cristiani cattolici di adempire alle più gravi obbligazioni che impone loro la fede religiosa che professano, e li obbliga a permanere in uno stato condannato dalla propria coscienza. C' è dunque sincerità in legislatori di questa sorta, quando vi fanno delle leggi che torturano crudelmente la coscienza cattolica, e poi vi danno per motivo di tali leggi la libertà dei culti, la libertà di coscienza? Avranno mentito, a se stessi, lo replichiamo, ma in qualunque modo si spieghi, la menzogna è innegabile; Due cattolici divorziati, poniamo per mutuo consenso, risentendo i giusti rimorsi della propria coscienza, vogliono ricongiungersi. Questo è un loro sacro diritto, è un atto altamente morale. La legge civile vi si oppone (6). Che se si riuniscono, devono farlo in onta della legge, e i loro figli sono considerati illegittimi. I diritti dunque che vengono loro in conseguenza della religione che professano, sono distrutti da quella legge civile del divorzio, ed il loro esercizio aggravato d' incomodi e danni gravissimi. Ora, come noi vedemmo, la libertà di coscienza sincera e non mentitrice, importa che coloro che professano una religiosa credenza possono liberamente esercitare i loro religiosi diritti. Di nuovo adunque hanno pronunziata una manifestissima falsità i legislatori del Codice Napoleonico, dicendo che dal princìpio della libertà dei culti erano stati obbligati a stabilire la legge del divorzio. Tale è la sincerità e la lealtà del sistema filosofico della libertà di coscienza. Gli autori di quel Codice l' avevano ereditato dai così detti filosofi della rivoluzione, e non fa maraviglia che non è la prima volta che i legisti bevano grosso in punto di princìpii (7). Il princìpio della libertà di coscienza non comparisce solo sulla bocca dei legisti e dei filosofi che arrivano al governo; comparisce financo sulla bocca dei politici utilitari. Parrà strano a prima vista, che costoro, che non hanno princìpii fissi di sorta alcuna, professino in certe circostanze il princìpio della libertà di coscienza. Ma il mistero è spiegato, quando si distingua il dire dal fare, e una professione sincera da una professione ingannatrice. Ecco in qual modo si distingue il sistema utilitario dal legale e dal filosofico. Quando gli utilitari sono al potere, essi cercano di guadagnarsi quei partiti ne' quali credono di poter trovare una forza maggiore, senza riguardo all' onestà, alla giustizia, alla moralità, alla religione, che sono cose che non hanno per essi realtà, o se ci danno qualche peso, le considerano sempre come subordinate all' utilità. Ora, egli avviene quello che noi vediamo co' nostri occhi, che il partito più violento si compone di quegli uomini che non hanno religiose credenze, o non ne hanno abbastanza per raffrenare le loro passioni, l' orgoglio sopratutto, e lo spirito di dominazione. Questi arditi brigatori e faccendieri sono temuti oltremodo per la loro attività sempre inquieta e intraprendente. I governi utilitari dunque si mettono dalla loro parte, fanno loro delle concessioni e così la fazione incredula riesce infine facilmente ad essere quella che più di tutti influisce nella formazione delle leggi e negli atti del governo stesso. Non avendo dunque gli utilitari un princìpio proprio, prendono i princìpii da quei partiti a cui s' associano, e il più delle volte ne' tempi nostri s' associano, come dicevamo, al partito irreligioso, che essendo più violento, facilmente è stimato anche il più forte. Nel che va spesso errato il calcolo degli utilitari, calcolo difficilissimo a farsi bene. La libertà di coscienza dunque degli utilitari, o è una promessa che non viene mantenuta, come quella de' due sistemi precedenti, o è una libertà effimera e accidentale, perché è quella, né più né meno, che viene loro imposta dai partiti su cui s' appoggiano. Riassumendo, tre sono dunque le false ed incoerenti interpretazioni del princìpio della libertà di coscienza: 1) Quella de' legali che definiscono la libertà di coscienza, la libertà di fare quegli atti religiosi, che non sono proibiti dalla legge civile; 2) Quella de' così detti filosofi, che definiscono la libertà di coscienza, quella che consiste nell' ateismo della legge; 3) Quella degli utilitari, che non amano definizioni, e che perciò non hanno definizione alcuna, ma consiste in promettere, quando torna conto, libertà di coscienza, e poi governare secondo l' opportunità a seconda di quel partito, qualunque sia, in cui si credono consistere la forza maggiore. Con l' aver noi indicate queste tre principali contraffazioni della libertà di coscienza, noi abbiamo risposto negativamente alla nostra questione. Ma crediamo d' aver fatto con ciò solo buona parte del cammino. Poiché il lettore, rimosse quelle libertà di coscienza illusorie, facilmente può da se stesso arrivare a trovare in qualche modo la libertà vera che andiamo cercando. Pure per approfondire e sviluppare da' suoi diversi lati il vero concetto della libertà di coscienza, dovremmo metterci in altre questioni che con questa della libertà di coscienza si complicano; il che ci proponiamo di fare in appresso. Per ora ci contenteremo di conchiudere indicando i due caratteri principali che deve presentare il vero sistema della libertà di coscienza, i quali sono: 1) Che la legge civile non s' opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini; 2) Che la libertà di coscienza conceduta dalla legge civile sia tale e tanta, quale e quanta può essere acciocché la legge non si contraddica. Questi caratteri essenziali riceveranno lume e sviluppo dalla trattazione delle seguenti questioni. Che i cittadini sieno uguali davanti alla legge è princìpio santissimo. Ma noi abbiamo veduto già, rispondendo alle questioni precedenti, quanti equivoci si possano prendere intorno all' intelligenza dei princìpii. La loro universalità, quel ch' è più, e le parole indeterminate con le quali s' esprimono, danno luogo a varie interpretazioni delle quali una sola è vera e l' altra è falsa. Al nostro tempo non mancano i princìpii, ma le società civili sono tuttavia sofferenti e non trovano riposo, perchè i princìpii si sono divulgati senza darsi cura di determinarne esattamente il valore. Laonde, i partiti appassionati ed irreligiosi, approfittandosi sofisticamente della loro indeterminazione, se ne prevalsero per ingannare ugualmente i popoli ed i governi. Quello che resta a fare, e che è desiderabilissimo che si faccia da tutti, si è riprendere in mano i princìpii che già si sono dichiarati, rimovere da essi l' indeterminazione dei significati, fissarne il vero ed unico senso, rendendoli intelligibili alle moltitudini sin qui corbellate. Quando il popolo stesso intenderà il significato legittimo di quei solenni princìpii, che gli si fanno tuttodì risuonare all' orecchio come altrettante parole magiche, finirà il giuoco de' mariuoli, sieno questi governanti o demagoghi, e la società entrerà nella strada d' un vero e veramente umano progresso. « I cittadini sono uguali in faccia alla legge »: che cosa significa? Questo, al solito, non si dice mai. Tutt' al più si traduce quel principio in altre parole egualmente indeterminate, come a dire: « le leggi debbono essere uniformi per tutti i cittadini ». La indeterminazione tanto dell' una quanto dell' altra formola, per poco che si considerino, è manifesta. La prima, dicendo che i cittadini debbono essere eguali in faccia alla legge, non dichiara in che consista quest' eguaglianza, e pure c' è indubitatamente una disuguaglianza anche in faccia alla legge: perché la legge stessa non giudica eguale colui che è innocente e colui che è ladro; ma mette in carcere questo secondo e lascia in libertà il primo: e così essa pronunzia, che questi due cittadini non sono eguali in faccia a lei. La seconda formola dice che le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini; e qui del pari resta indeterminato di quale uniformità si parli. Infatti, se si prendesse la cosa alla lettera, tutti i cittadini dovrebbero essere soggetti a tutte le leggi; e così ne verrebbe l' assurdo, che le leggi civili non potessero essere fatte mai per una singola classe di cittadini, e che riguardassero soltanto a quello che hanno di comune e di uguale tutti affatto i cittadini. Si dirà, a cagion d' esempio, che le leggi fatte per regolare l' agricoltura, sieno uniformi tanto per gli agricoltori quanto per quelli che né lavorano, né posseggono terreni? O che le leggi che regolano l' esercizio della medicina debbano valere anche per quelli che non sono medici, e perciò non sono uniformi per tutti i cittadini, ma riguardano solamente una classe di essi, e tengono conto della disuguaglianza delle altre classi? Essendo tutto questo assurdo, è evidente per lo contrario, che gli indicati princìpii sono nelle loro espressioni indeterminati, e che involgono dell' incertezza nel modo in cui si possono intendere. Or bene, eccovi lo spirito d' irreligione e di sofisma che abusa di questa indeterminazione, e che si prevale di essa per condurre i legislatori e le leggi a favorire l' empietà, e a vessare ingiustamente i cittadini che professano la religione. Invece di fare quel che c' era da fare, cioè spiegare prima di tutto e determinare bene il senso di quelle formole, i filosofi politici, animati da quello spirito, ne deducono francamente la conseguenza che la legge civile non debba aver nessun riguardo a quelle differenze che nascono tra' cittadini dal professare alcuni una religione e alcuni un' altra, e alcuni nessuna religione, argomentando così: Le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini. Ma non potrebbero essere uniformi, se esse tenessero conto delle diverse comunità religiose, e provvedessero a ciascuna di esse in separato, quando volgono relazioni con oggetti religiosi. Dunque le leggi civili, benché involgano relazioni con oggetti religiosi, debbono essere uniformi per tutti i cittadini, qualunque religione professino o non professino. Su questa argomentazione si fondò da' filosofi politici, noi lo vedemmo nelle questioni precedenti, la teoria del matrimonio civile. Dovendoci essere, a giudizio di costoro, delle leggi anche sul matrimonio uniformi per tutti i cittadini, ne venne di conseguenza che la legge dovesse stabilire un matrimonio estraneo ad ogni credenza religiosa; e in tal modo s' ottenesse in Francia (che ebbe però assai pochi imitatori) di stabilire per tutti, anche per la gran massa dei cittadini che non hanno rinunziato alla fede, cioè per la immensa maggioranza, quello che a tutta ragione si può definire: « Il matrimonio privilegiato de' pochi increduli ». La legge civile infatti non riconosce altro matrimonio. Così questa legge uniforme, favorevole esclusivamente agli increduli, e gravosa, ingiuriosa ed ostile a tutti gli uomini religiosi, pei quali il matrimonio è sacro, costituisce un vero privilegio sotto coperta d' uniformità. Que' filosofi dunque e que' legislatori, che credono di avere stabilito un argomento insuperabile nel sillogismo testé riferito, non s' accorgono e non vogliono accorgersi dell' incoerenza, in cui poi cadono, quando nella formazione dell' altre leggi non seguono più quel principio d' uniformità, inteso in un modo così assurdo. Poiché, riducendo, la questione alla sua generalità, noi domandiamo loro: si devono o non si devono osservare dal legislatore nella formazione delle leggi le differenze che dividono i cittadini in classi distinte? Se rispondono di sì, perché dunque pretendono che le leggi non abbiano riguardo alle differenze religiose, che pur dividono anche esse in differenti classi i cittadini? Se rispondono di no, perché dunque nella formazione di moltissime leggi hanno essi continuamente riguardo alle differenze che distinguono appunto i cittadini in diverse classi? E, per vero dire, sono assai poche quelle leggi che riguardano tutti egualmente i cittadini. Queste si riducono unicamente a quelle che non hanno altro oggetto se non l' uomo o il cittadino, senz' altra considerazione. Ma tutte l' altre leggi regolano e dispongono di condizioni speciali de' cittadini, e però riguardano esclusivamente certi gruppi di essi, gruppi o classi formate da certe loro differenze, a ciascuna delle quali ha minuto riguardo la legge. La legge civile, a ragion d' esempio, considera la differenza dell' età; quindi attribuisce diritti ed obblighi diversi alle diverse età; attribuisce ai minori d' età obblighi e diritti diversi che ai maggiori; punisce meno severamente quelli che non hanno passato un certo numero di anni di quelli che l' hanno passato; classifica dunque i cittadini secondo la differenza dell' età, e non pretende che le stesse leggi valgano per tutti ugualmente. La legge civile considera la differenza di sesso, e molte leggi ci sono che, fatte per l' uno dei due sessi, non possono valere per l' altro. Attribuisce ai maschi doveri e diritti civili e politici, che non attribuisce alle femmine. La legge civile considera la differenza delle professioni e delle arti; e ciascuna classe de' cittadini risultante da queste differenze è regolata da leggi sue proprie. La legge civile considera la differenza del sapere; fa leggi pei professori, per gli scolari, per le accademie degli scienziati. La legge civile considera la differenza dell' avere i cittadini impiego o no dallo Stato, e tra gli impiegati distingue i civili dai militari; ciascun dicastero ha i suoi propri regolamenti e le sue leggi. La legge civile considera la differenza delle fortune, quella della nobiltà di stirpe o personale, e innumerevoli altre differenze, che sarebbe lungo d' annoverare. Se dunque la legge civile è obbligata a considerare per la necessità stessa del suo fine, tutte le altre differenze dei cittadini, perché non sarà obbligata a considerare la differenza della religione? Perché questa sola differenza sarà disprezzata e negletta dalla legge civile, e riguardo a questa sola si metterà avanti il principio che la legge civile deve essere uniforme per tutti i cittadini, e non limitata ad una sola classe di essi? Perché solo in questo caso si teme che, se la legge civile si limita ad una classe, ella costituisce un privilegio? Quasiché la massima parte delle leggi civili non fossero necessariamente fatte per classi distinte, o quasiché fosse un privilegio il dare a tutti il suo, e non fosse anzi privilegio la legge universale, quando riesca utile a pochi e dannosa ed offensiva a molti? Come se dovendosi decretare l' uniforme per un esercito si pretendesse che la misura dell' abito si dovesse desumere dalla statura minima assegnata al soldato, e ciò per non creare un privilegio a favore de' soldati di statura più alta. Certamente ci sarebbe in tal caso l' uniformità materiale della legge, e lo Stato non somministrerebbe più braccia di panno all' un soldato che all' altro; ma la legge non si rimarrebbe d' essere stoltissima, e costituirebbe veramente un ridicolo privilegio a favore dei soldati più piccoli. In un modo somigliante, se quelle leggi che involgono relazioni con le credenze religiose e con i doveri e diritti che procedono dalle medesime, si vogliono fare materialmente uniformi, e per ciò stesso riguardare come non esistenti le differenze religiose, si avranno leggi d' uguale stoltezza, ingiuriose ed offensive a tutti i credenti, e favorevoli ed utili a quei pochi che avessero totalmente rinunziato ad ogni fede religiosa, e che sarebbero i privilegiati. Forse si risponderà che il legislatore non considera la differenza della religione, perché egli non vuol perscrutare i pensieri e le opinioni degli uomini: che le differenze religiose non sono differenze esterne; e che le altre differenze a cui la legge ha riguardo, essendo esterne, sono tali che distinguono gli uomini secondo la vita sociale. Certamente non mancherà e non è mancato chi risponda a questa maniera. Ma si può egli credere che una tale risposta sia di buona fede? Quando sia così, ella ci rivela la più crassa ignoranza di ciò che costituisce una religione. E infatti le religioni non sono soltanto opinioni interne, benché le interne e invisibili credenze ne sieno il fondamento: come anche in ogni altr' ordine di cose le interne opinioni e i sentimenti invisibili dell' animo sono il fondamento delle operazioni umane. Che cosa è dunque la Religione? La Religione è una credenza che produce un' esterna e visibile società; in ispecie la Religione Cattolica, l' unica vera e compiuta, è la grande società fondata da Gesù Cristo, la quale, oltre la fede, ha una organizzazione visibile, de' magistrati visibili, distribuiti in una certa gerarchia, e composta da un sorprendente numero di soci, sparsi sopra tutta la terra, che tutti si riconoscono come appartenenti al medesimo corpo sociale, aventi le stesse obbligazioni, gli stessi diritti, un culto esterno comune, un codice di leggi disciplinari, dei tribunali e dei giudizi. Tale è la Religione Cattolica. Incominciando dal simbolo, che è il segno esterno della fede, e che tutti sono obbligati di professare esternamente in faccia a tutti i governi civili, e anche a tutti i tiranni del mondo, sigillandolo con il proprio sangue, se l' empietà delle leggi civili a ciò li riduca: tanti altri sono i segni esteriori e visibili, tante le differenze profonde che separano questi credenti da tutti gli altri uomini, che presi insieme, tutti questi segni formano la maggiore e più complessa delle differenze esterne che possono mai separare una classe d' uomini da un' altra, una classe di cittadini da un' altra, né v' ha cosa che possa distinguere i cittadini tra loro, in tutta la loro vita e in tutte le loro abitudini, e in tutto il modo di operare, anche riguardante le cose umane, quanto questa credenza religiosa, da tutti quelli che la professano. Perché dunque il legislatore civile, che fa le leggi speciali per tante altre società di commercio e d' industria, società di lettere e di scienze, società di beneficenza e di carità, chiuderà poi gli occhi in faccia a questa sola, la più grande e la più importante di tutte, anche per gli interessi temporali, e dirà: Io non la vedo? Perché o affetterà d' ignorare o pretenderà d' essere obbligato a lasciar da parte una differenza così visibile, che è come città fabbricata sul monte, così luminosa, che è come il sole che illumina il mondo, una differenza che risulta da tanti doveri e diritti, costumi e azioni? Perché sarà così schifiltoso da adattare le sue leggi a questa immensa classe de' cittadini per non offenderla e danneggiarla con le sue leggi ne' più cari interessi di lei, e qui solo tutt' ad un tratto gli nascerà scrupolo di non forse creare a suo favore un privilegio, quand' egli pure adatta senza alcuno scrupolo, l' altre leggi all' altre classi e società, e tien conto, secondo il dovere, delle diverse condizioni in cui i cittadini si trovano, e delle varie loro differenze? Se la legge civile è istituita all' utilità de' cittadini, e non a soddisfare a chimeriche e incoerenti teorie, ella è obbligata certamente a rispettare tutti gli interessi religiosi dei cittadini medesimi; e quindi a considerarli, per non mettersi a cimento co' suoi ordinamenti di pregiudicarli. Non ha dunque il legislatore che due sole vie d' esser coerente a sé medesimo, o di proibire e condannare la Cattolica Religione (e lo stesso dicasi d' un' altra qualunque) o, ammettendole, di conformare ad essa le sue proprie leggi. Nel primo caso, non si parli dunque di libertà di coscienza; nel secondo caso soltanto questa libertà è salvata. La ragione dunque, che importa di necessità la coerenza, non si trova punto dalla parte de' legislatori di cui parliamo, e di cui è infetta l' Europa. Non è in un qualche ragionamento che si possa trovare il fondamento del loro sistema, ma nelle loro disposizioni d' animo e ne' loro istinti. Alcuni di essi non si persuadono che la Religione sia qualcosa di serio. Essendo essi indifferenti, o credenti freddi e trascurati, si persuadono che anche tutti gli altri cittadini non ne facciano gran conto, e sieno disposti facilmente a transigere, quando la legge civile viene a cancellare, se non direttamente, almeno le conseguenze, qualche linea del Codice religioso. Quindi, con tanto più piacere inseriscono nelle loro leggi qualche elemento d' empietà, inquantoché sembra loro con ciò di fare una bravata, e d' ostentare nello stesso tempo la potenza e l' autorità dello Stato, mettendola al di sopra delle cose divine ed umane. Schiavi del rispetto umano (segno di una gran debolezza di carattere morale), si mettono così al sicuro di non apparir troppo religiosi e un tantino increduli. E` questo un gusto delicatissimo alla loro vanità! Fatti uomini leggeri da questa loro tutta individuale disposizione (quando altramente potrebbero essere uomini serii), applauditi dagli increduli o settari di professione, a cui s' accordano tutti quelli che vogliono ficcarsi negli impieghi e procacciarsi onori governativi, con merito e senza merito, si trovano infine aver perduto totalmente di vista lo scopo vero della legge, la giusta e ragionevole soddisfazione di tutti i cittadini, per cui dovrebbe esser fatta. Costoro straziano i popoli e guastano le nazioni. Contro l' aspettazione poi, incontrano fermo ostacolo nelle coscienze, onde o sono rovesciati da' loro gradi, o, essendo scaltri e proteiformi, cedono senza convertirsi. Del resto, a coloro che s' immaginano poter le leggi civili indirettamente modificare la Religione Cattolica e abituare i cittadini cattolici a far senza di qualche suo articolo, come si tentò con il progetto di legge sul matrimonio civile, io direi: Disingannatevi; imparate a conoscere che cosa sia questa Religione: ella è un tutto solo, e questo è più duro del diamante: voi potrete con le vostre ugne graffiarlo quanto volete, ma non potrete farne saltare la più piccola scheggia, né manco un atomo. Infatti la Religione, per la sua propria essenza, o è tutto o è nulla: i cattolici lo sentono, e il volere che essi vi cedano un briciolo della loro religione, è impresa così pazza, come pretendere che ve la cedano tutta. E sta qui appunto un altro pregiudizio di certi civili legislatori: sono contrariissimi (a udire le loro proteste) a voler distruggere la Religione, ma si contentano che essa si adatti in qualche piccola cosa alle leggi civili dello Stato, e ciò per il pubblico bene. All' incontro la Religione Cattolica è di natura sua così inflessibile, sapete voi perché? perché è divina. Sembrando loro impossibile che la cosa sia così da vero, scherniscono come fanatici coloro che non si adattano alle loro voglie discrete. Ma tant' è: o conviene abolire il Cattolicismo con la legge civile, o conviene che questa legge s' inchini a lui riverente, lo rispetti in tutte le sue parti; se no, la legge cozzerà e si spezzerà contro lo scoglio: quelli che lo professano, il Cattolicismo, sanno d' essere in questo superiori alla legge civile, e superiori a tutta la forza da cui è circondata: poiché questa Religione è essenzialmente libera anche sotto il ferro, ed ella sola dà al suo seguace la vera indipendenza e il coraggio dell' uomo libero. Uno dei più grossolani equivoci è certamente quello che prende il volgo delle rivoluzioni, quando gli si fa risuonare agli orecchi la parola libertà . Per lui la libertà è la facoltà illimitata di fare tutto ciò che gli attalenta, di soddisfare agli impulsi delle sue passioni senza ostacolo d' alcuna autorità, di non essere obbligato ad alcun ordine nel suo operare. E` consentaneo che coloro i quali in un dato stato vogliono distruggere l' ordine stabilito, s' approfittino di questa viziosa disposizione d' una gran parte della plebe, e facciano risuonare a' suoi orecchi questa parola vaga di libertà, senza darsi alcuna sollecitudine di determinarla; anzi tenendola sempre a bella posta sull' indeterminato. Se ella venisse determinata ad un senso razionale, sarebbe finito l' incanto, e la magica verga si spezzerebbe nelle mani dei prestigiatori. Per questo è impossibile ragionare co' rivoluzionari di professione, e sperare di indurli a distinguere la libertà dalla licenza, considerando essi come mezzo opportuno al loro intento la confusione stessa de' concetti. Tutto questo non ci può sorprendere. Ma c' è una cosa che deve cagionare giustamente maraviglia, ed è, che non tutti quelli che prendono la licenza per la libertà , rivolgono per questo nell' animo di rovesciare i governi stabiliti: meraviglia ancor maggiore dee produre, che ce ne sieno degli altri che con quella confusione tanto volgare e tanto immorale credano di stabilirli; e sopratutto che anche non pochi di questi stessi che presiedono a' governi, almeno nella pratica, si mostrino di un tale avviso. Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Giacomo l'idealista

663167
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Sapete quanta stima abbiam sempre avuta per voi. - La sua famiglia, signor conte, fu sempre troppo buona verso di me - disse Giacomo con commozione sincera. - Coi Lanzavecchia delle Fornaci siamo da un pezzo buoni vicini e non c'è mai stata ombra di dissidio fra noi. Ha fatto male il povero Mauro a morir cosí presto. Pareva il ritratto della salute, povero omaccione! Per me è un brutto avviso, perché siam lí lí cogli anni, e i cardinali, dicono a Roma, muoiono sempre a due per volta. Ci pensavo anche stanotte a quel pover'uomo, e, se permette, vi farò sentire quattro righe d'una iscrizione, che avrei preparato per la sua croce. - Il signor conte onora un galantuomo . - Non solo questo, ma ho voluto darmi il gusto di riprodurre un carattere. Non vorrei portar nottole ad Atene, e voi farete di quel mio esercizio quel conto che vorrete; quel che importa è che l'epigrafia non resti sempre nelle mani di questi benedetti curati, che guasterebbero il Santissimo. Dopo il Giordani, che fu quel gran maestro che sapete, non si vede piú una iscrizione tollerabile. Ma parleremo con più agio anche di questo un'altra volta; ora desidero sapere da voi che cosa si potrebbe fare di questo gran materiale di quasi trentamila iscrizioni, fra lunghe e corte, che rappresentano per me il lavoro paziente di trent'anni. Credeteche valga la pena di stamparle? la contessa dice di sí, e alle volte le donne hanno piú di noi il senso fino della convenienza; ma se si stampano, le esigenze scientifiche vorrebbero che si compilasse un indice e forse meglio ancora due indici, uno per i nomi, l'altro per le cose, e, se ce ne fosse un terzo in ordine cronologico, tanto meglio: ma voi mi capite, Giacomo, che per far tre indici di trentamila iscrizioni, lallèla , non basterebbero gli anni di Matusalem. Il conte raggrinzò la faccia a un riso lungo e silenzioso, che gli fece raccogliere in un ciuffo le grosse sopracciglia grigie biancheggianti e colorí la sua bella faccia di galantuomo sotto il berretto d'astracan, da cui scappavan due altri ciuffi di capelli brizzolati irti come lesine. Giacomo, messo nella necessità di dover dare una risposta cortese, tenne un pezzo gli occhi fissi sulla superficie e sul volume di quel muro di carta scritta, di cui, a parte le esagerazioni, riconosceva il merito storico, e più ancora il merito morale di chi aveva voluto con quell'opera di pazienza guadagnarsi il suo posto in paradiso. - Sicuro - disse finalmente, fissando gli occhi ora sul conte, ora sulle cartelle. - Sicuro che sarebbe un peccato non cavar da questo tesoro un costrutto. - Non pare anche a voi che un buon index nominum potrebbe portare un bel contributo alla onomatologia italiana? - Senza dubbio - riconobbe di buon grado Giacomo. - Non è lavoro che si possa fare né in un anno né in due; ma non è il tempo che manchi alla pazienza. Ne parlavo anche ieri sera colla mia Cristina, che, coll'intuito pronto delle donne, mi ha detto: Perché non ne parli al Lanzavecchia? egli potrebbe aiutarti. È giovane, e diligente, e gli può far piacere di trovare un'occupazione tranquilla che gli permetta di stare a casa sua. S'intende che ci dovremmo intendere da buoni amici. Quel che vi dà, per esempio, il collegio di Celana, ve lo potrei dare anch'io, per tre, per quattro anni, fin che è necessario: e vi darò anche di piú, quando si incominciasse la stampa del primo foglio, in proporzione della fatica e dei meriti. Cosí avreste il vantaggio morale di restare quest'inverno a casa vostra e di attendere anche alla vostra famiglia. Di tanto in tanto potrei fare una scappatina per consigliarmi con voi, e, quando si tornerà al Ronchetto per il raccolto dei bozzoli, si potrà dar principio alla pubblicazione d'una prima puntata. Che ve ne pare? Prima che Giacomo avesse il tempo di metter fuori una risposta degna di lui e del conte, una voce interna gli disse che questa proposta era un'abile e delicata insidia della contessa, che voleva fargli un beneficio senza umiliar il suo amor proprio: e nella schiettezza della prima impressione provò verso la buona signora un nuovo palpito di gratitudine. La contessa, che conosceva le angustie della sua casa e le segrete aspirazioni del suo cuore, gli offriva con un gentile artifizio un mezzo onorevole per provvedere degnamente alle une e alle altre; e nello stesso tempo veniva a infondere uno spirito di vita in un materiale sepolto, su cui si era logorata inutilmente l'energia podagrosa del povero conte. - La proposta che il signor conte mi fa - riprese a dire con un tremito di contentezza - è di quelle che lusingano l'amor proprio d'un uomo e anche, posso dire, la golosità d'uno studioso. Ma non so se il còmpito sia fatto per le mie spalle. - Non è il caso di citare il quid valeant humeri, caro Giacomo. Duecento lire al mese, per due, per tre, per quattro anni, fin che sarà necessario, fin che vi piacerà, è la mia proposta: e tocca a me ringraziar voi, che mi cavate da questo sepolcro. È sempre stato il mio sogno di lasciar qualche cosa, che mi ricordasse a' miei figli, quando sarò fatto polvere di pomice. E poiché sento che vostro padre vi ha lasciato in qualche imbarazzo, d'accordo con Cristina, non solo vi prego d'accettare questa nostra proposta, ma speriamo che non vorrete rifiutare fin d'ora una piccola anticipazione sul vostro lavoro. Nel dir queste parole il conte tirò fuori da un volume del Forcellini, che aveva sulla scrivania, una grossa busta di carta sigillata e si avanzò verso Giacomo, che, ritirandosi verso il muro, cercava di schermirsi. Don Lorenzo lo spinse bel bello nell'angolo tra la libreria e la stufa, e, sollevando il pesante dizionario, andò adappoggiarlo allo stomaco del giovane Lanzavecchia, mentre seguitava a dire colla sua quasi infantile bonarietà: - Non capite che è tutta una nostra furberia? se voi accettate questo denaro, non ci scappate piú. E senza aspettare una risposta, il conte insaccò la busta gonfia nel taschino, dove Giacomo soleva nascondere la peppinetta. - Se non volete accettare per voi, accettate per i bisogni della vostra mamma. Io voglio che possiate dare a questo lavoro tutto il vostro tempo, e tutto l'animo vostro; né dovete immaginarvi che vi si voglia far l'elemosina. A chi volete che affidi questa enorme fatica, se non siete voi, che da molti anni considero come un figliuolo della casa? Non spererò mai che Giacinto abbia a pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone! piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo alla greca, Filippo o Ippofilo. Mi ha scritto ieri una cartolina da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un "Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo", che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta . Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio: - La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei. - Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo. Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ciarriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll' i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza . Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli. Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia. - Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi. - Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina. - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra. - Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività. La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento. - E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui. - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie . Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo,o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle "Georgiche". Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull' "Annuario degli Agiati di Rovereto", continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato. Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma. - È impossibile, - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo, insomma se me la lasciate . - Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro . Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente. Il conte che aveva la bocca buona, continuò: - Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi "Sacré- Coeur", domani "Ravachol" . Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti. - Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire, cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo. - Non è mio, signor conte, - obbiettò sorridendo Giacomo. - Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là. Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa. Duemila lire! Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il "Roccolo" di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa. Duemila lire! S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza. Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier. Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: unanno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio, poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri. Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra. Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz,quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata: - Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!

L'ANNO 3000

677897
Mantegazza, Paolo 3 occorrenze

E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Si figuri, che per il solo cervello abbiamo almeno una ventina di specialisti, che curano le malattie delle cellule motrici e delle pensanti, che studiano le malattie del pensiero, della volontà e così via; così come abbiam osteopati per le affezioni delle ossa, ematopati per le malattie del sangue, epatopati per quelle del fegato, nefropati per quelle del rene, gastropati per quelle del ventricolo, e così di seguito. Abbiamo poi la più alta gerarchia fra i medici, quella degli Igei, che studiano gli organismi sani, per spiare prima dello sviluppo della malattia la disposizione ad ammalare; e sono essi che visitano i neonati per verificare se sono atti alla vita. Anche fra essi si è formata una sottospecialità, che è quella dei Psicoigei, che come vedremo fra poco, constatano nel neonato le future attitudini al delitto, onde sopprimere i delinquenti, prima ch'essi possano recar danno alla società in cui son nati. Ma ecco qui, che un medico astante passa in rivista i clienti giunti questa mattina, per indicare loro a quale sezione dell'Igeia devono dirigersi per essere visitati Un giovane chiamava i clienti per il numero, che era stato loro consegnato alla porta, e dopo aver domandato loro di che soffrissero, indicava loro se dovessero consultare il gastropato, l'epatopato o l'ematopato. Era una visita molto sommaria e l'indicazione poteva anche essere sbagliata, ma lo specialista l'avrebbe poi corretta, quando avesse visitato il cliente colla luce perfezionata del Röntgen. Quest'operazione distributiva dei malati si faceva col massimo ordine, senza dispute e senza confusione e in meno di mezz'ora tutta la sala rimase vuota, perchè ognuno aveva avuto l'indicazione, che doveva guidarlo all'uno o all'altro dipartimento dell'Igeia. - Ed ora che abbiamo veduto la sala d'aspetto, - disse il Direttore, - andiamo a visitare uno dei tanti compartimenti, nei quali gli specialisti osservano i malati e prescrivono loro il metodo di cura. Se non dispiace loro, andremo nella sezione dei pneumopati, cioè di quelli che soffrono degli organi respiratorii. Entrarono infatti in questa sezione, dove molti malati d'ambo i sessi aspettavano di essere visitati. Un giovane gracile, pallido e sottile stava per l'appunto aspettando la chiama. Il pneumologo lo invitò a svestirsi e quando fu del tutto nudo, lo pregò di mettersi in piedi in una specie di nicchia e allora a un tratto scomparve la luce che rischiarava la camera e tutto rimase nel buio. Subito dopo però il medico diresse un fascio di luce su quell'uomo nudo, che divenne trasparente come se fosse di vetro. Si vedeva il cuore batter frettoloso e irregolare, si vedevano i polmoni dilatarsi e contrarsi ritmicamente, si vedevano tutti i visceri del ventre, come se quell'uomo fosse stato aperto dal coltello anatomico; si poteva scorgere perfino il midollo nel profondo delle ossa. Il pneumologo lo guardò lungamente con un doppio cannocchiale, facendo mettere il malato di fronte, poi di fianco, poi col dorso rivolto a lui e poi: - Consolatevi, che il vostro male è sul principio ed è guaribile in poco tempo. Voi siete minacciato da una tubercolosi, ma sarà vinta con un buon regime respiratorio e alimentare. Vestitevi ed io scriverò ciò che dovete fare. Il medico andò a un tavolino e scrisse queste prescrizioni: Recarsi subito sull'Everest, alla stazione di Darley, posta all'altezza di 2000 metri, prendervi alloggio e rimanervi per un anno intero: poi in seguito per parecchi anni ritornarvi soltanto nei mesi dell'inverno. Dieta lattea e carnea. Per gli altri particolari l'ammalato seguirà i consigli del medico direttore della Stazione di Darley. L'ammalato, che veniva da un villaggio lontano e molto all'infuori della corrente della nuova civiltà, domandò al medico pneumologo: - Non dovrò prendere nessuna medicina? Il medico si mise a ridere e poi: - Chè nel vostro villaggio avete ancora dei farmacisti? Qui ad Andropoli e in tutte le grandi città planetarie le farmacie non esistono più da forse un secolo. Le pillole, le pozioni, i cerotti sono avanzi della medicina antica. Oggi si curano tutte le malattie col cambiamento di clima, col regime alimentare, e coll'applicazione razionale del calore, della luce e dell'elettricità. I farmacisti furono per molti secoli i continuatori dei maghi, che curavano le malattie cogli esorcismi, e coi versetti del Corano o colla preghiera rivolta a Dio, alla Beata Vergine e ai suoi santi. E le ricette erano come lettere indirizzate a persone, di cui si ignora il domicilio. Qualche volta per caso incontravano chi doveva riceverle, ma il più delle volte pillole, polveri e decotti, dopo una corsa più o meno rapida attraverso il tubo gastroenterico, andavano a finire nel cesso, senza aver incontrato il viscere a cui erano indirizzate e che avrebbero dovuto curare e guarire. Ogni medico aveva la sua ricetta e ogni scuola cambiava metodo di cura. È in quell'epoca, che un grande poeta francese, che fu anche per poco tempo Presidente della Repubblica di Francia, fece la più amara, ma la più vera critica della medicina del suo tempo, dicendola: une intention de guèrir; ma anche per parecchi secoli dopo il Lamartine quella definizione fu la fotografia fedele dell'arte di curare i malati. Il pneumologo passò a visitare gli altri malati, e i nostri viaggiatori colla loro guida escirono da quel riparto per recarsi a quello in cui si visitavano i neonati. Paolo e Maria avevano osservato che quel malato di petto, che aveva subito la visita davanti ad essi, ringraziando il medico, gli aveva messo in mano un piccolo cartoncino. Era il pagamento della sua visita. Nell'anno 3000 da gran tempo non circolava più il denaro e la moneta corrente è costituita da tanti cartoncini piccolissimi, e tutti della stessa grandezza, che portano un timbro, quello del ministro delle finanze, e dove in una linea lasciata in bianco, ognuno scrive il proprio nome e la somma che vuole. Il colore del cartoncino indica le somme che si possono scrivere su di esso, essendovi venti serie, contraddistinte ciascuna da un diverso colore: Da una lira a cento - cartoncino bianco. Da 100 a 500 - cartoncino bigio. Da 500 a 1000 - cartoncino azzurro chiaro. Da 1000 a 2000 - cartoncino azzurro oscuro. Da 2000 a 5000 - cartoncino verde glauco. Da 5000 a 10000 - cartoncino verde smeraldo. Da 10 a 20000 - cartoncino giallo pallido. Da 20 a 50000 - cartoncino arancione. Da 50000 a 100000 - cartoncino violetto chiaro. Da 100 a 200000 - cartoncino violetto oscuro. Da 200 a 300000 - cartoncino mezzo bianco e mezzo nero. Da 300 a 500000 - cartoncino roseo. Da 500 a 600000 - cartoncino roseo oscuro. Da 600 a 700000 - cartoncino mezzo giallo e mezzo verde. Da 700 a 800000 - cartoncino mezzo azzurro e mezzo rosso. Da 800 a 900000 - cartoncino mezzo verde e mezzo rosso. Da 900000 a un milione - cartoncino mezzo bruno e mezzo rosso. Da 1 a 2 milioni - cartoncino mezzo bianco e mezzo verde. Da 2 a 3 milioni - cartoncino argenteo. Da 3 a 10 milioni - cartoncino aureo. Il valore di queste monete è dato però non dalla firma di chi lo spende, ma da quella dell'ottimato, che si legge in basso a destra del cartoncino. Gli ottimati sono i cittadini più onesti, più ricchi e più stimati del paese, ai quali il Consiglio Superiore di Governo ha dato dopo lunga discussione e ponderato esame quel titolo onorifico. Così come vi sono cartoline di diverso valore, così ogni ottimato, secondo la fortuna ch'egli possiede, può firmare una diversa categoria di cartoncini. Come è naturale gli ottimati più ricchi possono firmare anche i cartoncini argentei e aurei, e ve n'ha alcuni, di fama così universale, che la loro firma vale in tutto quanto il pianeta. I più modesti di fortuna, conosciuti soltanto nel loro villaggio o nella loro città, non sono autorizzati che a firmare i cartoncini di somme più esigue. Gli ottimati per dare a quei pezzetti di carta il valore desiderato non hanno bisogno di altre firme oltre la propria, e si può dire, che batton moneta in casa propria. Quando si vuol comperare un oggetto si da al venditore un cartoncino, che corrisponde al suo valore, scrivendovi le cifre intermedie fra quelle che vi sono iscritte, e quando col lungo uso questa moneta di carta è troppo sudicia e troppo sdruscita, si porta alla Cassa centrale dello Stato, dove è cambiata. Unico inconveniente di questa moneta è la sua combustibilità, ma in caso d'incendio chi può presentarsi alla Cassa centrale, raccomandato da quattro ottimati, come onesto, giura sul proprio onore di aver perduto una data somma, e questa gli è puntualmente e subito rimborsata. Se quella sventura colpisce un ottimato, basta la sua parola per dar fede alla propria dichiarazione. Ed ecco come si è incoraggiati nell'anno 3000 ad essere onesti, sinceri, ad essere perfetti galantuomini; dacchè l'onestà dà credito e il credito procura la ricchezza. È inutile dire che due volte all'anno in ogni città e in ogni provincia i consiglieri della finanza si riuniscono per fissare le norme della circolazione, la quale è sempre regolata dalla ricchezza del paese e dalla capacità finanziaria dei singoli ottimati, che firmano i cartoncini. Questa moneta comoda a maneggiarsi e garantita dalla perfetta onestà di chi la firma, corre collo stesso valore in tutti i paesi del mondo, ed ha semplificato d'assai il corso del commercio e l'andamento di tutti gli affari. Il cartoncino, con cui il povero tubercoloso aveva pagato il medico pneumologo, era bianco e vi era scritta la cifra di L. 50; onorario comune in quel tempo di una semplice visita medica. I poveri sono visitati gratuitamente o per essi sono pagati dai ricchi. I nostri viaggiatori percorsero rapidamente le corsie, dove erano curati gli infermi, a cui occorre una pronta e urgente medicazione o che devono subire operazioni chirurgiche difficili o impossibili nelle abitazioni private. Le chiamo corsie, per adoperare una vecchia parola e perchè le camere dei malati erano poste le une dopo le altre e in due file separate da un ampio corridoio, ma ciascun malato ha la propria camera, bastantemente ampia e dove opportuni ventilatori rinnovano l'aria, di giorno e di notte, mantenendovi sempre la temperatura dovuta, secondo la stagione e la natura del male. Inutile dire che pareti e pavimento sono di porcellana azzurrina, onde non offendere la vista, e vengono lavate ogni giorno onde impedire qualunque infezione. - Prima di passare alla sezione degli Igei, - disse il Direttore, - daremo un'occhiata al dipartimento, in cui si curano le malattie traumatiche, cioè le ferite, le bruciature, le fratture e tutte le lesioni prodotte da accidenti meccanici o da violenze esteriori. Pur troppo la civiltà, per quanto avanzata, non può difenderci da queste disgrazie e la chirurgia deve curarle, come la medicina fa delle malattie che si sviluppano spontaneamente. Entrati nella sezione dei traumi, un chirurgo stava appunto medicando una grave ferita in un braccio, con grave perdita di sostanza. - Ecco qui, miei signori, un caso molto interessante. Un tempo questa ferita, anche colla cura antisettica più perfetta, avrebbe lasciato una gran deformità con assoluta impotenza dell'arto ferito. Invece oggi sappiamo produrre artificialmente dei protoplasmi, che appena preparati si applicano dove manca una porzione di pelle o di muscolo. Si fa in questo modo un vero innesto di sostanza germinativa, che messa in contatto dei tessuti vivi, prolifica e riproduce il muscolo che manca; e così il braccio è restituito allo stato normale e riprende le sue funzioni. La parte difficile di quest'operazione consiste nel mettere la quantità precisa di protoplasma che si richiede, e che non deve essere nè scarsa nè eccessiva; ma la pratica del chirurgo riesce a raggiungere lo scopo desiderato. Paolo e Maria videro altri casi di fratture, di lussazioni, che erano medicati senza dolore e colla massima facilità. - Ed ora, - disse il Direttore, - andiamo a visitare la sezione degli Igei. Maria, che aveva udito parlare della soppressione dei bambini inabili alla vita, ma che non ne sapeva altro, era alquanto turbata e incerta, se dovesse entrare in quel dipartimento, ma Paolo le disse: - Noi dobbiamo e vogliamo vedere ogni cosa. Andiamo. Entrarono in una vasta sala, dove si sentiva un confuso guaito di cento bambini, che piangevano fra le braccia delle loro mamme o di altre donne. Era una scena molto triste, perchè il pianto di tante creature innocenti era reso ancora più tristo dalla fisonomia angosciosa di quelle donne, che aspettavano dal medico la sentenza di vita o di morte dei loro figliuolini. - Ecco qui, - disse il Direttore, - tutti questi bambini non hanno più di tre giorni di vita e le loro mamme possono accompagnarli, dacchè ora il parto non è più una malattia, che un tempo obbligava le partorienti a stare a letto per più d'un mese. I progressi dell'igiene hanno reso il parto una funzione naturale, che si compie senza dolore e senza lasciare alcuna triste conseguenza. La donna oggi partorisce come qualunque altro animale e poche ore dopo il parto si alza dal letto per accudire alle proprie faccende e qui, come vedete, quasi tutti i bambini sono condotti dalle loro stesse madri, meno alcune poche, molto sensibili e timorose di lasciare qui per sempre il frutto delle loro viscere, e che li affidano a qualche loro stretta parente. In quel momento fu chiamato il bambino del numero 17. - Avanti il 17. Una mammina giovane, robusta e bella si alzò da sedere col proprio bambino in braccio. Si vedeva nel suo volto, che nessuna trepidazione la tormentava e che era troppo sicura di ritornare a casa colla sua creaturina. L'Igeo prese il bambino, che era già quasi svestito e lo mise nudo affatto sopra una specie di trespolo. Immediatamente un fascio di luce lo innondò, rendendolo trasparente, come se fosse di vetro e il medico, dopo averlo mutato di posizione, guardandolo con un cannocchiale, disse ad alta voce: - Numero 17: Bambino sano, robusto, atto alla vita. E poi si ritirò, mentre un altro medico, un Psicoigeo, lasciando il bambino sullo stesso trespolo, diresse una luce più penetrante sul suo cranio, guardandolo lungamente con un altro cannocchiale, che ingrandiva centinaia di volte le cellule cerebrali. L'esame durò una buona mezz'ora, poi il medico disse: - Cervello normale, nessuna tendenza a delinquere. I due verdetti dei due medici furono ripetuti per iscritto da un segretario, poi firmati dall'Igeo e dal Psicoigeo e consegnati alla madre, che lieta e orgogliosa se ne partì, ringraziando i dottori e gettando intorno a sè nel circolo affollato dalle mamme uno sguardo di trionfatrice e di donna felice. Essa aveva dato al mondo un cittadino sano, robusto e incapace al delitto. - Numero 18! E un nuovo bambino fu sottoposto allo stesso duplice esame del numero 17, riportando questi due verdetti: - Bambino sano, ma non robusto. Atto a vivere, ma bisognoso di un'alimentazione tonica e ricostituente. Cervello normale. Carattere timido e pauroso. Educazione virile e spartana. Il numero 19 era un bambino bellissimo e robusto, ed esso riportò questa doppia sentenza: Bambino sano, robusto, atto alla vita. Cervello normale; ma con una ipertrofia del centro genitale. Disposto alla lussuria. Dirigere l'educazione ad indebolire questa tendenza. Maria sperava che le visite avrebbero avuto tutte un analogo risultato, per cui non avrebbe assistito alla distruzione di nessuna creatura, ma ecco che il numero 20, un bambino gracilissimo e che per di più era nato di otto mesi, sottoposto all'esame dell'Igeo fece aggrottare le sopracciglia al medico, il quale con un campanello chiamò a sè altri due medici consulenti, che stavano in una camera vicina, pronti ad esser chiamati, e l'un dopo l'altro rifecero l'esame del povero bambino, crollando anch'essi il capo con aria compunta e dolorosa. I tre medici si accordarono in questo giudizio: Bambino gracilissimo, tubercoloso, inetto alla vita. Quando la madre ebbe udito questa lugubre sentenza, si mise a singhiozzare, chiedendo ai medici: - Non potrebbe una cura opportuna dare al mio bambino una buona salute? - No, - risposero tre voci ad un tempo. E allora l'Igeo, che per il primo aveva visitato il bambino, rivolto alla madre: - E dunque? La madre raddoppiò i singhiozzi, e restituendo il figliuolo ai medici, con voce appena sensibile rispose: - Sì. Quell'E dunque voleva dire: Permettete dunque che il vostro bambino sia soppresso? E infatti, un inserviente prese il bambino, aprì un usciuolo nero, posto nella parete della sala e ve lo mise, chiudendo la porticina. Fece scattare una molla, si udì un gemito accompagnato da un piccolo scoppio. Il bambino innondato da una vampa di aria calda a 2000 gradi era scomparso e di lui non rimaneva che un pizzico di ceneri. La madre, appena aveva pronunziato il suo disperato sì era scomparsa dalla sala, e l'Igeo, triste in volto ma calmo, aveva chiamato: - Numero 21! Maria piangeva e voleva ad ogni costo lasciare quella sala d'orrore, ma Paolo, che pur sapendo come si sopprimessero i bambini inabili alla vita, non aveva mai voluto assistere a quella crudele insieme e pietosa operazione, era affascinato da quella scena terribile, per cui disse: - Maria, ancora uno, uno soltanto e poi ce n'andremo. Maria gli prese una mano e se la pose al cuore, ne più la lasciò, tenendola stretta stretta, come per attingere coraggio. Non sapeva mai dire di no al suo Paolo e rimase. Il bambino numero 21 era più gracile ancora di quello che lo aveva preceduto, e per di più era livido e chiazzato di macchie rosse nel volto. L'Igeo dopo un brevissimo esame, sentenziò: - Bambino con grave vizio di cuore, inabile alla vita. La madre non piangeva, ma più pallida della morte, esclamò: - No, dottor mio, non può essere, il parto fu lungo e difficile; è per questo che il mio bambino è livido. Guarirà, guarirà di certo. Non ho che lui. Non ne posso aver altri; mio marito è morto. Il dottore era costernato, ma: - No, no, cara donna, questo bambino potrà vivere qualche anno, ma sempre soffrendo e la sua morte sarà dolorosa, straziante. Non abbiamo modo di guarire i vizi di cuore congeniti. E poi: - E dunque? La mamma aveva ripreso il suo figliuolo, e se lo stringeva al seno, come se avesse voluto farlo guarire coi suoi baci ardenti, col suo amore caldissimo. Ma non rispondeva. - E dunque? - riprese il medico.- Voi sapete, che la soppressione non può farsi senza il consenso della madre o senza quello del padre, in caso di morte della madre. Pensate che le vostra pietà sarebbe crudele, perchè consacrereste la vostra creatura a patimenti inauditi, feroci e che potrebbero durare molti anni. Il vostro bambino non ha la coscienza di esistere e la sua soppressione non è nè dolorosa nè lunga. Un minuto lo ridurrà in fumo e in un pizzico di cenere, che potrete conservare. Siete ancora giovane, potrete rimaritarvi ed avere altri figliuoli. Pensate bene a ciò che state per dire. Ma la mamma non rispondeva e da un mutismo di pietra era passata ad un pianto dirotto framezzato da crudeli singhiozzi. Maria, che teneva sempre la mano di Paolo sul suo cuore, piangeva anch'essa e insisteva collo sguardo per partire. - E dunque, e dunque? - ripetè per la terza volta l'Igeo con un leggero accento di impazienza. Fu veduta allora la mamma alzare il capo come in atto di sfida e di disperazione in una volta sola, poi: - E dunque, e dunque? - Dunque no!! E come se fuggisse da un inseguitore, uscì dalla sala col suo bambino stretto fra le sue braccia. L'Igeo guardò Paolo e Maria e poi: - Povera donna! Povera donna! Quante volte essa si pentirà di quel no. Essa si crede una buona madre e invece non è che una madre crudele. La soppressione dei bambini consacrati ai patimenti e a una morte immatura è vera pietà. *** Maria e Paolo profondamente commossi non vollero veder altro e lasciarono l'Igeia col bisogno urgente di essere all'aperto, di cercare il cielo azzurro e le piante verdi e ritemprarsi nell'ammirazione della natura, che però più crudele e più pietosa degli Igei, sopprime ogni giorno migliaia e migliaia di creature, solo perchè son nate male!

Noi abbiam copiato ciò che fa la natura, quando plasma gli organismi del mondo vegetale e del mondo animale. "Forse che il braccio o un dito del piede o uno dei tanti nostri visceri si lamenta del lavoro che gli spetta nel grande travaglio della vita? No di certo: ognuno dei nostri organi lavora per sè e per gli altri e vive nello stesso tempo della vita propria e della vita collettiva. Voi altri, individualizzatori fanatici, potete salire in alto finchè volete; potete sentirvi potenti, ricchissimi; ma siete sempre unità. Io invece, vedete, sento fremere in me la vita di tutti i 30000 fratelli, che per ora costituiscono la Repubblica sociale di Turazia, come se la coscienza del mio Io fosse grande come quella di tutti i miei concittadini." Molte altre e belle cose disse quel socialista, e anche a lui non ebbi il coraggio di gettare in faccia una sola delle tante obbiezioni, che mi venivano al labbro. Mi accontentai di stringergli forte la mano, dicendogli: "Vi ammiro e vi invidio, benchè sia di opposto parere sulla forma di governo sociale che vi siete data. Ogni entusiasmo, ogni fede ardente è sempre un fenomeno del pensiero, che sorprende e che per di più fa felice chi ne è capace." *** Da Turazia i nostri pellegrini, viaggiando nell'interno dell'Isola, si recarono a Logopoli, o città della parola; una nuova ricostruzione di un antico Stato parlamentare. Vi trovarono poco di nuovo e di interessante. Logopoli è una copia perfetta dell'antica Inghilterra, quando era uno Stato indipendente retto da un governo parlamentare. Di diverso non c'è che questo; che il Re non è un capo ereditario, ma elettivo. Ogni cinque anni Camera e Senato si riuniscono in una sola assemblea per dare il loro voto nell'elezione del Re. Questo Capo dello Stato è però un Re travicello, che non fa che firmare i decreti e a cui hanno tolto anche il diritto di grazia. Ha un ricco appannaggio e porta intorno la maestà e gli orpelli del suo alto posto. Del resto ministri, deputati e senatori, come negli antichi Stati a regime parlamentare. Gli stessi intrighi, le stesse corruzioni per essere eletti membri dell'una o dell'altra Camera, essendo a Logopoli elettivi anche i senatori. Pagati gli uni e gli altri profumatamente, ma esclusi da ogni impiego. Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

Cerca

Modifica ricerca