Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La gente per bene

191631
Marchesa Colombi 13 occorrenze
  • 2007
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Una specie di Galateo moderno, che, preso a studiare anche da una persona che abbia vissuto sempre in campagna, le servisse di guida, e le insegnasse a condursi ed a figurar bene in tutte le circostanze della vita. Una cosa che mi ha sempre inspirato uno spavento indicibile, e mi ha preservata dal peccato capitale - non compreso fra i sette condannati dalla Santa Chiesa - di far gemere i torchi, è la critica. L'idea di quei giudici ignoti, che sezionano un lavoro, lo tagliano, lo spolpano, lo analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell'autore, senza commoversi menomamente allo strazio del suo cuore paterno, mi mette nello stato di sgomento d'un povero scolaretto, il quale deve esporre la sua pagina, il giorno degli esami, ad una Commissione esaminatrice, che non si compone dei suoi maestri, che gli è affatto ignota, che lui considera come un tribunale venerabile e pauroso. Ora, iI genere di libro che mi disponevo a scrivere doveva avere per critici naturali le signore. E però, dato anche che il tribunale supremo delle appendici di giornali avesse voluto scendere ad occuparsi di simile inezia, avrebbe sempre dovuto consultare su molti punti un giurì di signore, prima di pronunciare il suo terribile verdetto. Ed io aveva tanta fede nell'indulgenza delle signore, che ne presi coraggio, ed accettai l'incarico. Ai tempi remoti della mia giovinezza, non esisteva ancora il bel Galateo di Melchiorre Gioia pubblicato sul finire del secolo passato. - E fra tutti gli altri libri dello stesso genere, pubblicati prima e dopo di quello, l'unico usato generalmente, era quello di Monsignor Della Casa, un vero gioiello di spirito, reso anche più ameno dallo stile candidamente ricercato e solenne, del cinquecento. Ma l'illustre prelato scriveva il suo libro dedicandolo ad un giovinetto, conciossiacosachè questi cominciasse appena il viaggio della vita, che lui, il Monsignore, stava per compiere. E però sentiva il dovere di ammonirlo di non fare in compagnia cose laide o fetide, o schife o stomachevoli; di non spruzzare nel viso i circostanti, nel tossire e nello starnutare; di non urlare o ragghiar come un asino sbadigliando; e, soffiando il naso, di non aprire il moccichino e guatarvi dentro come se perle e rubini dovessero esser discesi dal celabro, ecc., ecc. Tutti questi ammaestramenti negativi, sono pregevolissimi senza dubbio. Tanto pregevoli che riuscirono, con lungo andare, a sradicare completamente tra la gente per bene quelle straordinarie abitudini. Ma, perciò appunto, è affatto inutile ch'io mi occupi di particolari tanto rudimentali, conciossiacosachè i miei lettori - se Dio vuole - non ne hanno bisogno, ed i Bosiemanni e le Pelli Rosse, a cui potrebbero ancora giovare, dubito molto che mi vogliano far l'onore di leggermi. Il Galateo di Monsignor Della Casa è completo, ragionato, tanto da elevarsi quasi all'altezza d'un trattato di morale. Io sono certa, e rassegnata a priori, di non poter fare un lavoro, non dirò migliore, - sarebbe una pretesa ridicola, - ma neppure che s'avvicini al merito di quello. E tuttavia lo faccio. - Perchè? Perchè vi sono certe cose speciali ai nostri tempi, ai nostri costumi, che io posso dire, perchè in questi costumi ed in questi tempi ci vivo, e che in nessun galateo antico si trovano, oppure vi si trovano differenti da quelle che pratichiamo tra noi. Cadono le città, cadono i regni, e cadono le costumanze adottate fra la gente civile. - Ai tempi di Monsignor Della Casa erano considerate inciviltà parecchie cose che ora sono ammesse. Invece non si troverà nulla nei galatei antichi sullo scambio delle carte di visita, sulle partecipazioni di matrimoni, nascite, morti, guarigioni; sulle strette di mano; sul contegno da tenere in viaggio, e tante altre cose che appartengono alle nostre usanze moderne. È per questo soltanto - non per fare meglio di nessuno, ma per fare tutt'altro che imprendo a scrivere il mio galateo moderno. Ed in esso intendo parlare a persone ammodo che, se possono ignorare, tutte od in parte, le convenienze sociali, non hanno bisogno ch'io insegni loro l'a b c della creanza. Non farò del mio libro un trattato di morale; sarebbe superfluo il pretendere d'instillare in tutti gli animi i veri sentimenti a cui debbono ispirarsi le leggi della cortesia; sentimenti che, del resto, si riassumono tutti nella massima: Non fate ad altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. Pur troppo i sentimenti umani hanno un limite, e sono pochi i filantropi che possono largire una parte del loro affetto a ciascuno dei loro simili. Non serve negarlo. Tutti possiamo avere rapporti con persone che ci sono uggiose, antipatiche, indifferenti. Tutti gli argomenti morali ch'io potrei scrivere non muterebbero questi sentimenti impulsivi. Mi limiterò dunque ad indicare quello scambio di cortesie che si praticano fra persone educate, e che l'uso generale ha fatto passare in costume: se saranno soltanto cortesie di forma, pazienza! Sarà sempre meglio che seguire l'impulso, e fare uno sgarbo ad una persona che non piace. Dai dieci comandamenti del Decalogo derivarono tutti i trattati di morale che si scrissero poi, con tutti i loro raffinamenti e perfezionamenti. E dalle prime regole di civiltà insegnate da Monsignor Della Casa, emerse la cortesia cavalleresca dei nostri babbi, quella un po' più disinvolta che usiamo noi; ed emergerà pure la civiltà più gentile, lo spero, e raffinata, che beatificherà l'esistenza dei nostri nepoti fino alla più remota discendenza. È là, in quella parte di libriccino boccaccevole, che ho imparato per la prima volta a condurmi coi miei simili, e però, tutto quanto so delle convenienze sociali, il mio galateo, ed i galatei di tutti i tempi che verranno, non sono altro che l'eredita di Monsignor Della Casa.

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Può darsi che la sposa abbia una dote modestissima, che il babbo, un avaro, le abbia ristretta oltremodo la somma destinata al corredo. Quegli indifferenti invitati, che sono là per divertirsi, si divertiranno facendo commenti: «Per quella dote avrebbe l'obbligo d'essere un po' più bella.... la Legge di compensazione.» « Duemila lire di corredo! Ma se farà una malattia le verranno meno le lenzuola. » Oppure è lo sposo che non ha un patrimonio corrispondente alla dote, e patisce un'umiliazione, che la delicatezza della sposa deve sapergli risparmiare, sopprimendo la formalità della lettura del contratto. Anche quando tutto è perfettamente equilibrato, c'è sempre, se non altro, il gergo notarile che fa ridere. Ultimamente ho assistito ad un contratto; lo sposo aveva varcato il mezzo secolo, e la sposa gli stava indietro di poco. E quel buon uomo di notaio non la finiva di ripetere che erano maggiorenni. Oh mio Dio! Chi ne dubitava? Udii un cugino della sposa che diceva ad un altro cuginetto di diciott'anni : «Come! Rita è già maggiorenne? Ed io che ti avevo preso pel suo tutore!» In quello stesso contratto, descrivendo le proprietà dello sposo, il notaio leggeva d'una casa « ed annesso giardino con cinta di muro, chiuso da doppio cancello.» «Sfido! dicevano gl'invitati, con una sposina appena maggiorenne le precauzioni non sono mai troppe. Ai due cancelli bisogna mettere due catenacci.»

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Ma bisogna che siano scritti appositamente per quella circostanza; o, quanto meno, che il fanciullo, leggendoli in qualche buona raccolta, li abbia compresi perfettamente, e vi abbia trovato l'espressione dei propri sentimenti per la persona alla quale vuol dirli. Ma è assai difficile trovare in un libro i versi che si adattino precisamente a' sentimenti, a' rapporti sociali, alle qualità, alle circostanze d'una persona. Una allusione fuor di proposito basta a metter in ridicolo chi li dice, ed anche la persona a cui sono rivolti. Io conobbi, anni sono, una bambina, che non aveva più mamma, povera gioia! Il suo babbo occupava una alta situazione, ed era sempre assorto in gravi lavori. L'educazione della piccina era affidata ad una vecchia signora nubile, buona senza dubbio, come lo sono tutti quelli che prendono cura de' bambini, ma d'aspetto tutt'altro che avvenente, di modi rigida, rigorosa, punto espansiva, austera nel suo vestire che era sempre nero o color tabacco. Una mattina, giocando con un calendario che stava sul camino, la piccola Gemma vide che quel giorno era San Gaudenzio. L'onomastico della sua governante, che si chiamava Gaudenzina. Cosa fare? Non lo aveva saputo prima, ed ormai il babbo era andato allo studio, e non c'era speranza che rientrasse fin all'ora del pranzo. Tuttavia la bimba era compresa del suo dovere, e si sarebbe fatto uno scrupolo di non fare un complimento alla governante. Nel suo imbarazzo pensò di andare in cucina a consultare la cuoca. - Se tu volessi andar a prender de' fiori, Margherita.... insinuò la Gemma colla voce supplichevole. - Sie! De' fiori ai ventidue di gennaio; dove li prendo? - Allora, aiutami a pensare cosa debbo fare per la signorina; (la signorina era l'appellativo con cui si soleva nominare la severa governante, che non era mai discesa alla famigliarità di lasciarsi chiamare col suo nome). Fu un'ardua questione. La cuoca cominciò col proporre alla bimba di fare un sonetto. La Gemma non sapeva cosa fosse un sonetto. - Un sonetto, come quello lungo lungo, che ha recitato lo scorso Natale al babbo, spiegò la cuoca. - Quella era una poesia. - Ebbene, una poesia è un sonetto. Ne faccia uno e lo reciti questa sera alla signorina. - Ma io non so farlo. - Se scrive sempre!... - Sì, ma non so come si fa a far le poesie. So soltanto copiare. - Ne copi una da un libro. Ne ha tanti! Era un'idea. La bimba la trovò subblime, e la proposta fu approvata alla piccola unanimità da quell'ingenua assemblea. La Gemma si mise a sfogliare con gran sussiego il suo libro di lettura, ed a leggerne tutte le poesie. Non ne capiva gran cosa. Ce n'erano di quelle che parlavano della patria: comprese vagamente che non facevano al caso suo. Poi c'erano delle favole: La cicala e la formica; La rana ed il bue; IL cane e la fonte. - Ti pare che una di queste possa andare? domandò alla cuoca. La cuoca trovò che quelle storie di bestie erano fatte per raccontarsi dalle governanti a' bambini, e non dai bambini alle governanti. - E proprio per la signorina non dicono niente, soggiunse. La Gemma continuò a cercare. Finalmente trovò una poesia che le parve messa là per lei. Non la capiva tanto bene, poverina: aveva appena sette anni, e non capiva molto chiaramente neppure la prosa; figurarsi poi i versi! Ma quelli erano dedicati ad una signora, e le pareva ben chiaro che le facessero de' complimenti. La Gemma cominciò a copiarla colla sua più bella scrittura. Vi sciupò un quinterno di carta, con cui la cuoca fece un rogo per nascondere la cosa anche al padrone. Giacchè la grande impresa era riuscita senza il suo concorso, bisognava serbare l'improvvisata anche a lui. La sera giunsero parecchi conoscenti che andavano a fare la partita alle carte col babbo della Gemma e la governante, e quando quella signora fu seduta fra loro, cogli occhiali d'argento e con un bel vestito color tabacco, nuovo per la solennità della circostanza, la Gemma si fece innanzi tutta trionfante colla poesia scritta in mano, mentre la cuoca dalla porta faceva capolino, per godere anche lei di quel trionfo dovuto in gran parte alla sua pensata. Una salva di elogi accolse la bimba. - Come! La Gemmolina era riescita da se sola a combinare quella gentilezza? Era una meraviglia. E dove l'aveva copiata? Nel libro di lettura? Ma che idea luminosa! - Via, leggila tu stessa la tua poesia, disse la signorina. Sarà più accetta a me, e la sentiranno tutti. Incoraggiata così, la Gemma aperse la carta, fece un bell'inchino, e cominciò a leggere:

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Non intendo dire che il matrimonio non abbia le sue grandi gioie, che il loro affetto di sposi non dia alle loro compagne soddisfazioni forse, e senza forse, maggiori di quelle vaporose e inconsapevoli che ebbero da fanciulle. Ma loro sanno che una signora maritata, qualunque sia la sua età, assume il governo della casa, riceve il grave deposito di un nome di cui è responsabile, risponde dell'onore di quel nome, e del decoro della famiglia. I misteri che ha scoperti hanno sfrondate molte delle sue illusioni e le hanno insegnate delle verità dolci e tremende. D'allora la spensieratezza non le è piu possibile. È entrata nel periodo serio della sua esistenza, ed avesse pure quindici anni soltanto, ha acquistate tutte le responsabilità, tutti i doveri d'una persona che è giunta

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Credo che non abbia ancora vent'anni. - Davvero ? mi osservò un vecchio signore. Avrei creduto che ne avesse almeno settantuno. Lo sproposito era cosi grande, che lo presi per uno scherzo e lo pregai che mi spiegasse il perchè di quell'unità su tante decine. - Perchè non ha ceduto la destra del camino a mia moglie che ne ha settanta. Vi sono poi certe superiorità d'età, di grado, di meriti, cosi incontestabili, davanti alle quali anche una signora deve inchinarsi. Una mia amica, di un tatto squisito, incapace di commettere neppure l'ombra d'una sconvenienza, mi confessava d'essersi alzata in piedi nel suo palco, quando le fu presentato Paolo Ferrari, alla prima rappresentazione del Cantoniere. - Cosa vuoi? mi diceva; quella sera era la figura principale del teatro. Ci dominava tutti. Ci alziamo pure quando entra il Re. Lui rimase imbarazzato sai; ma io no. Ed aveva ragione. Era un'irregolarità, ma una bella irregolarità; felix culpa; e provava che lei possedeva meglio di tutte il sentimento dell'arte; che il suo animo era più gentile. Dopo aver presentata l'ultima venuta alle altre persone che sono in sala, una padrona di casa deve rivolgerle la parola direttamente, per far cessare la confusione che la presentazione ha potuto ispirarle e, soltanto dopo averla fatta parlare un momento, riprenderà il discorso interrotto dalla sua venuta, avendo cura di metternela a parte. Per congedarsi dalle signore, la padrona di casa si alza, e le accompagna fino all'uscio della sala, e là ripete la stretta di mano e l'inchino, senza fermarsi in complimenti che la terrebbero troppo a lungo lontana dagli altri visitatori. Credo di non dover aggiungere che non deve mai dir nulla fuorchè bene delle persone che sono uscite. Questa è la civiltà più elementare. Se agisse altrimenti, autorizzerebbe chi l'ascolta a domandarle: - E perchè riceve, e ci espone a trovarci al contatto di persone, che non meritano la sua stima? Qualche volta accade che appunto quando vi sono altre visite, capiti una di quelle tante sfortunate che si presentano alle signore per qualche raccomandazione; per trovare un impiego, delle lezioni, ecc. La menoma freddezza nel modo di accogliere la persona disgraziata farebbe torto alla padrona di casa. Quanto più la situazione di chi viene a raccomandarsi e imbarazzante, altrettanto una signora per bene deve cercare di rassicurarla, usandole modi affabili e cortesi, presentandola ai suoi visitatori come un'eguale, rivolgendo il discorso a lei come agli altri, e studiandosi di persuaderla, non colle parole ma col tratto, che la sua sventura non è che un titolo maggiore alla simpatia delle anime gentili.

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E, sia che abbia accettato o no, dovra entro otto giorni fare una visita alla signora che l'ha invitata. Regolerà Ia sua abbigliatura da pranzo sulla forma dell'invito. Se è stampato, si metterà in abito di gala. Se è manoscrito, un po' meno. Giungerà all'ora indicata, nè prima nè dopo: e piuttosto prima che dopo. Il quarto legale è una concessione di chi invita, ma l'invitato non deve farsene un diritto. Gli antichi Romani non pagavano i servitori. E quando davano un pranzo li facevano schierare ai due lati della porta, affinchè i commensali, uscendo, porgessero man mano a ciascuno una mancia. Era un onore non indifferente. È vero però che ne era compensato da un uso strambo, il quale dava diritto a ciascun invitato di togliere tre pietanze dalla mensa e mandarle in dono ai propri amici. Supposto che s'avessero dieci commensali, si dovevano preparare trenta pietanze di troppo affinchè si potessero togliere, senza che il pranzo ne patisse. Noi non usiamo portar via nulla dalla casa che ci ospita. Ma non affettiamo neppure, con una mancia ai servitori, di volerci sdebitare del pranzo ricevuto. Sarebbe un'impertinenza. Per dare la mancia alla servitù d' una casa che non è la nostra, bisogna averci passato almeno una notte. Tuttavia, se in una casa si va a pranzo sovente, o a passar la sera con assiduità, il giorno di capo d'anno si darà una mancia alle persone di servizio che si trovano all'entrata, senza mai cercare di quelle che sono assenti, il che parrebbe un mezzo di far conoscere ai padroni che si vuol fare una generosità. Per quanto meschino, strano, assurdo possa essere il servizio d'un pranzo, una signora ammodo si guarderà bene dal censurarlo, o dal metterlo in caricatura. Gli anfitrioni soltanto debbono avere in mente i due versi che ho messi per epigrafe a questo capitolo; gli invitati invece debbono ricordarsi che l'ospitalità non consiste nell'offrir molto, ma nell'offrire quello che si ha.

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Ma ora si va generalizzando, e non c'è persona raffinata che non abbia il suo motto in testa alla carta da lettere. È un uso che mi sembra buono. Per un sentimento di onestà si studia un motto che risponda ad un nostro principio, ad una nostra passione alta e nobile; ad un nostro proposito, e per lo stesso sentimento di onestà, si è portati a non ismentire il motto colle nostre azioni; per cui è quasi un impegno che ci assumiamo di mettere in pratica il motto adottato. Ma, badino, la carta colla cifra e collo stemma o col motto, non si adopera mai per mandar commissioni alla sarta, alla modista, al mercante, al calzolaio. Possono figurarsi, un calzolaio, che riceve una lettera precisamente uguale a quella che manderebbero alla loro più intima amica? Sarebbe come farlo sedere alla loro tavola e questo non si usa. Il democratico dei deputati di sinistra, un arruffapopolo addirittura, stringerà la mano al suo portinaio, ma non trincherà insieme, e non gli farà di cappello come ad un ministro. La corrispondenza d'una signora è più estesa che quella di una signorina; e le presenta un più vasto campo per far apprezzare il suo spirito, le sue osservazioni, la sua originalità d'idee; bisogna avere, come ho la fortuna d'avere io, un'immensa corrispondenza colle signore, per farsi un'idea del gusto, della grazia, dell'eleganza che ci mettono. Nella loro modestia, alcune di quelle lettere sono piccoli capolavori. Ed i pedanti ed i puristi vanno dicendo che in Italia non si sa scrivere! Chi non sa scrivere? Loro, e noi, letterati e letteratucoli mi metto fra questi, che, a forza di studiare parole nei vocabolari, perdiamo il filo delle idee, e diventiamo imbecilli. Ma torniamo a bomba, come dicono i letterati. Le lettere di dovere per una signora si suppliscono, volendo, con una carta da visita. E di queste avrà una larga distribuzione da fare. Avrà cura di esserne sempre ben provveduta. Al capo d'anno, dopo aver scritto ai parenti ed amici lontani e visitate personalmente quelle persone, verso le quali i riguardi di grado sociale e d'età non le permettono di disimpegnarsi con una semplice carta, manderà la carta da visita alle sue conoscenti. Una delle sue, ed una del marito bastano per una vedova, per una signora sola, per una madre con una o più signorine. Per due sorelle o due cognate, vedove o attempate entrambe, manderà due carte proprie e due del marito. Ad una signora maritata manderà una carta sua e due del marito, il quale deve far auguri all'amica della moglie, ed al marito di lei. In una casa in cui vi fossero oltre al marito colla moglie (i figli non contano), un suocero, una suocera, una cognata, ecc., la signora manderà tante carte quante sono le signore in famiglia; il marito tante carte quanto sono gli uomini, più una per la padrona di casa. Dato che una famiglia sia molto numerosa, il moltiplicare esattamente le carte di visita che vi si devono mandare, sarebbe una pedanteria. Allora si mandano soltanto ai coniugi che sono capi di casa. Ricevendo un annuncio di matrimonio, si risponde con una carta dei due coniugi ai genitori della sposa, ed una pure d'entrambi, ai genitori dello sposo. Se si è assistito ad un matrimonio, subito dopo si mandano le carte da visita, una della signora e due del marito ai nuovi sposi. Ricevendo annuncio d'un battesimo o d'una morte, si risponde colle proprie carte alla famiglia. In entrambi i casi, come pure per nozze, molti usano le lettere P. C. Vuol dire ugualmente per condoglianza, e per congratulazione. Conosco un signore che le ha fatte incidere addirittura sulle sue carte. Dice che sono un tesoro quelle due iniziali, perchè sanno interpretare tutti i sentimenti. Secondo lui, in caso di morte, i superstiti che hanno ereditato non mancano mai di leggere per congratulazione; e, sempre secondo lui, gli sposi, che possono averle soltanto tornando dal viaggio, leggono quasi sempre per condoglianza. Quando si ammala una persona di conoscenza si deve subito mandare a domandarne nuove; e la prima volta la persona di servizio dovrà presentarsi con carta di chi la manda alla quale si aggiungeranno le parole: "Per prender nuove" o le iniziali p. p. n. Questo perchè la persona di servizio sia conosciuta, e possa essere informata ogni giorno. All'annuncio che l'ammalato entra in convalescenza, si deve mandargli la carta "Per congratulazione". Se, come si usa da molti, la famiglia dell' ammalato mette nella portineria giornalmente il bollettino del medico, gli amici dovranno passare in persona almeno ogni tre giorni a sottoscriversi, e quando non vanno, mandare una persona di servizio, che dovrà sottoscrivere: «per il signore o la signora tale,» senz'altro. Il convalescente manderà subito a tutti quanti si sono sottoscritti, o hanno mandato a prendere nuove, la sua carta colle iniziali p. r., ed appena potrà uscire, dovrà fare una visita a tutti. Trattandosi di un personaggio illustre, alla cui porta, in caso di malattia, vanno a sottoscriversi conoscenti lontani, ammiratori ignoti, basterà la carta di visita; ma invece delle succinte e poco cordiali iniziali p r dovrà contenere alcune parole di ringraziamento. Se s'e avuta una disgrazia in famiglia, si risponde a tutte le carte da visita ricevute con le carte dei capi di casa, o quelle della vedova su cui si scrive P R (per ringraziamento) salvo a ricevere e ricambiare le visite di condoglianza dopo quindici giorni almeno. Non debbono mai essere le persone dolenti che si incaricano personalmente di mandare le carte. Sarebbe dimostrar che la loro afflizione le impensierisce ben poco, se lascia loro testa da pensare a tanta gente. Assentandosi dal paese dove si abita, o dove s' è passato qualche tempo si mandano ai conoscenti le carte di visita colle iniziali p p c (per prender congedo). Tornando dalla campagna o da un viaggio, si manda la carta di visita senza iniziali. In questo caso aggiungere quella del marito sarebbe ridicolo, perchè la carta è incaricata di dire che la signora è pronta a ricevere e non è ammesso che un uomo possa dare la stessa nuova, senza essere un principe; ed i principi sono dispensati da questa formalità verso i semplici mortali. In tutte le circostanze una signora non rende mai la carta ai giovani soli, a meno di essere francamente vecchia. Ad ogni figlio che ha perduto il padre o la madre, anche una signora giovine manda la sua carta; ma dicono i galatei francesi, vi aggiunge due parole di condoglianza. Oh Dio! Anche in quel momento solenne si diffida di lui! Potrebbe abusare della carta di una signora! Le condoglianze scritte non sono condoglianze, sono una guarentigia che non potrà farsi bello di quell'invio, senza che si giustifichi da sè stesso con quelle parole. Oh mondo pessimista! Oh mondo pedante! Un figlio che ha perduta sua madre! Ma inginocchiatevi dinanzi a lui per consolarlo. E per la sua cara morta il vostro omaggio; e egli è sacro. Non dubitiamo dell'amore dei figli. In che cosa crederemo più, allora? No, non voglio dubitarne; è triste il pessimismo e spoetizza il cuore. Parliamo d'altro. In Francia le carte di visita di una signora non portano mai il suo nome di battesimo. Si usa dire, la signora Emilio di Girardin; la signora Vittorio, e la signora Carlo Hugo. I galatei francesi sono in ammirazione dinanzi a questa trovata; secondo loro l'ultima espressione del decoro, perchè il nome di battesimo di una signora non deve esporsi ad esser conosciuto dai profani: " Non debbono saperlo, lessi in uno di quei galatei formalisti, che il marito, il babbo o il fratello. " Confesso d'aver visto in Italia, scritte in italiano, alcune carte di visita con quella combinazione bislacca di nome maschile e titolo femminile. Ma se Dio vuole non è ammesso dai nostri costumi. È un oltraggio al buon senso, ed è affatto inutile. Che torto può fare ad una signora che si sappia il suo nome? Lucrezia romana la moglie modello, Susanna tanto casta.... coi vecchioni, la vergine Maria, hanno serbata una riputazione immacolata, malgrado tanti popoli e tante generazioni in possesso del loro nome Ma i Francesi non ci credono; e per dimostrare il loro rispetto a Maria, sentono il bisogno di chiamarla Notre Dame.

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Dunque un anno di lutto; e non c' è morto per bene che abbia diritto di lagnarsi della propria moglie. Il lutto pel babbo, la mamma, i nonni e pure d'un anno. Pei fratelli, le sorelle, gli zii, è di sei mesi. Pei cugini, i cognati, tre mesi soltanto. Per una persona da cui si eredita si porta un lutto almeno di tre mesi. La servitù d'una famiglia in lutto grave, deve pure essere in lutto. E questo si fa, beninteso, a spese dei padroni. - Scusi, marchesa, non ha parlato della somma delle sventure: una madre a cui muore un bimbo.... - Ebbene, lo fa seppellire. - Ma il lutto ? - Il lutto? Ma che, le pare? Non si usa. Se lei, signora lettrice, dovesse perdere quel suo cherubino biondo, il giorno dopo si vestirebbe come il giorno prima. I selvaggi, gli Esquimesi, ed anche i chimpansè, quando perdono i loro figli si rotolano per terra, si coprono il capo di polvere. Sono i loro segni di lutto, e, da veri barbari, li dànno pei figli come pei padri. Ma noi, gente civile, abbiam trovato il pelo nell'ovo. Noi sappiamo che i genitori sono superiori ai loro figli, ed i superiori non portano il lutto per gli inferiori. Superiori? Inferiori? Davanti ad un morto? Ed una madre potrà pensar questo? E non si coprirà tutta di nero! e non si circonderà di un lutto rigoroso, lei che ha nel cuore il più grande dei lutti umani, il più grande degli umani dolori?

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Un viaggiatore, che abbia fatto tutte le cose sue in fretta, si sia alzato di buon mattino, abbia fatta una colazione spiccia, per giungere in tempo a pigliare un posto d'angolo nel vagone dove possa appoggiarsi al riparo dalla polvere e dal sole, dovrebbe essere due volte gentiluomo per cedere tutti questi vantaggi ad una signora, la quale per fare il suo comodo, è giunta dopo di lui, e magari non ha uno di quei visi che incoraggiano al sagrificio. No; sarebbe troppo pretendere dalla cortesia d'un debole mortale. Basta che le usi i riguardi dovuti, che non le fumi sul viso, che non pigli atteggiamenti troppo comodi per dormirle dinanzi; del resto, quanto a' posti pagati non c'è diritto di sesso che valga; tutti i sessi sono uguali in faccia a' vagoni della strada ferrata. Ai tempi di Monsignor della Casa, ed anche a quelli del Gioia, quegli scrittori di galatei avevano bisogno di raccomandare a' mariti di non parlare continuamente delle loro mogli, di non tesserne l'elogio ad ogni momento. Povere mogli! Ora la fortuna ha girata la ruota; e venuta la moda insulsa di affettare l'indifferenza, e bisognerebbe raccomandare precisamente il contrario. I Turchi si offendono se altri nomina le loro donne anche per domandar nuove della loro salute, o per incaricarli d'un'imbasciata cortese. Essi si vergognano dell'amor coniugale, sia che abbiano parecchie mogli, sia che ne abbiano una sola, e lo nascondono come una spudoratezza. Lessi nel Constantinople di Theophile Gauthier che la moglie d'un console francese a Costantinopoli, conoscendo questa debolezza, ed essendo donna di molto tatto, nel presentare delle stoffe da signora ad un personaggio illustre del paese, gli disse: - Voi saprete a che uso destinarle. Sapeva che lo avrebbe fatto arrossire e confondere nominandogli sua moglie. Conosco parecchi mariti, non molti per fortuna, che, sotto questo rapporto, potrebbero passare per Turchi. Ho delle conoscenti (tanto gentili che mi perdoneranno di vedersi accennate qui) che vedo da parecchi anni, e non so tuttavia che viso abbiano i loro mariti. Esse mi dicono: - Mi scuserà, marchesa, mio marito è un uomo serio; non fa visite.... - Si figurino, se lo scuso, poverine ! Ma loro, signori uomini seri, credono veramente che vi sia più serietà nel mancare de' riguardi elementari verso le conoscenti della loro sposa, che nel mostrare, accompagnandola almeno una volta da ciascuna, che la curano abbastanza per volere sapere dove va, e con chi tratta? Via; la mano sulla coscienza ; lo credono davvero? Così accadrà loro d'incontrare per la strada delle signore che la loro moglie vede ogni settimana, a cui dà del tu, e non le saluteranno. E quelle signore non diranno certo: - È un uomo serio; è occupato di cose troppo gravi ed alte per curarsi di noi.... Punto, signori miei; me ne duole pel loro amor proprio ; ma le ho udite molte volte dire con un sorriso che non era d'ammirazione: - È il marito della signora tale. Uno screanzato. Non conosce neppure le relazioni di sua moglie; poveretta ! Io mi rallegro coi nostri uomini, che non passino la loro giornata metà ad azzimarsi, e l'altra metà in visite galanti, come i cavalieri serventi dell'altro secolo. Ma da un eccesso all'altro ci corre; ed almeno una volta all'anno, come il minimum della confessione, un marito dovrebbe fare una visita a tutte le relazioni di sua moglie. Nelle famiglie modeste che hanno due, tre persone di servizio al più, alle volte anche una sola, la moglie si trova nel caso di rendere al marito una quantità di piccoli servigi; preparargli tutto l'occorrente quando deve vestirsi, provvedergli i piccoli oggetti di toletta, fargli trovar pronta la colazione, servirgli il caffè, o una bibita d'abitudine, fargli, a pranzo, l'improvvisata dei piatti che preferisce, cucirgli la biancheria, ecc., ecc. Queste cose per la moglie possono essere una delizia che tiene luogo d'ogni altro piacere o possono venirle a noia al punto da trascurarle o farle di mala voglia. Tutto dipende dal compenso che ne riceve. Se il marito non dimentica mai che la moglie è sua uguale, che è debole, che ha bisogno da lui il coraggio che le manca per affrontare le piccole e grandi miserie della vita, accoglierà quei servigi intimi e affettuosi come altrettanti favori, e li compenserà con una buona parola, con un ringraziamento, con qualche elogio. Oh, se lo sapessero tutti gli uomini, che largo compenso possono dare con una parola amorevole e cortese! Ma se tutto quello che fa è ricevuto in silenzio, come un tributo che lei deve per obbligo al suo signore e padrone, se lui non si da la briga di mostrare che avverte le sue cure e le apprezza, anche la moglie più devota si stanca, e pensa: - A cosa serve? Da questo derivano le tante piccole mancanze, i bottoni staccati, i guanti scuciti, il pranzo in ritardo e poco accurato, e talvolta il disamore della casa nella moglie, il malcontento nel marito, la tristezza in famiglia, la pace perduta. Perchè? Per un'inezia. Perchè il capo di casa, che deve dare l'esempio del modo di vivere, ha dimenticato che nè l'affetto nè l'intimità non dispensano dalla cortesia. Perchè ha lasciata andare a poco a poco la buona e dolce abitudine della gentilezza, ha preso a trattare in casa come non tratterebbe fuori, e, senza avvedersene, è arrivato ad essere quasi inurbano, a ricevere un atto gentile senza ringraziare, a lasciar parlare senza rispondere o a rispondere con asprezza se non è di buonumore, o a rimproverare senza tutti quei riguardi di delicatezza che si devono ad una signora, la quale, al pari di lui, è padrona di casa. Un capo di casa deve insegnare alla famiglia il rispetto dovuto alla propria moglie. A lei deve il primo saluto entrando in casa; a lei deve offrire prima i piatti in tavola, e lasciare la destra al passeggio ed in carrozza, ed uscendo insieme, di sera od in campagna, deve offrirle il braccio, ed usarle tutte le attenzioni che userebbe ad un'altra signora. Se vi sono disaperi tra loro, se deve farle qualche osservazione, avrà cura di chiamarla in disparte e di risparmiarle qualunque umiliazione davanti alle persone di casa anche alle più intime, anche ai suoi genitori. Deve tener conto delle sue delicatezze di donna, e neppure le piccole critiche sopra un abito o una pettinatura, non deve farle presente a terzi per non obbligarla ad arrossire. Una volta sarebbe cascato il mondo se una signora avesse fatto un viaggio da sola. Allora il marito doveva sempre accompagnare la moglie in viaggio, e da ciò risultava che si viaggiava pochissimo. Ora la grande facilità dei mezzi di trasporto, la maggior istruzione, che va abolendo una quantità di pregiudizi, hanno reso il viaggiare assai comune, e gli uomini che hanno delle occupazioni possono, senza essere ineducati, lasciare che la moglie vada sola da un paese all'altro, se le circostanze lo esigono. Ma, per carità, non spingano la fiducia fino all' indifferenza. Il marito deve mostrarsi interessato dell'itinerario del viaggio, dell'orario più o meno comodo; deve accompagnare la signora alla stazione, non abbandonarla prima d'averla veduta a posto nel vagone, risparmiarle tutte le noie del bagaglio, del biglietto di ferrovia, ecc., raccomandarla a qualche conoscente pel viaggio se è possibile, ed assicurarsi bene che sia aspettata dove giunga. Se la signora va ai bagni o alle acque, deve scrivere lui stesso al medico o al proprietario dello stabilimento per avvertire dell'arrivo, e raccomandare che si usino a sua moglie tutti i riguardi possibili. Ed al suo ritorno deve trovarsi ad aspettarla alla stazione, se non foss'altro perchè i compagni di viaggio, dei quali ha potuto attirare l'attenzione, vedendola andare sola come la donna di nessuno, non facciano sul suo conto giudizi temerari. Vi sono mariti che non si danno nessuna di queste brighe, e cercano di scusare la loro trascuranza dicendo : - Oh troppa stima di mia moglie per aver bisogno di curarla. So che sa regolarsi bene da sè. Questo eccesso di stima tradotto in buol volgare vuol dire: - Non credo che valga la pena di custodirla: non me ne curo. Le donne, signori miei, hanno la loro parte di amor proprio. Preferiscono un Otello che le strangoli, ad un marito placido che le stimi a quel modo. Una moglie che viene abbandonata a se stessa è come un gioiello che si lascia sopra una tavola d'anticamera, coll'uscio aperto. Non importa che venga rubato, o si giudica talmente privo di valore, da non poter attirare nessun ladro. E qualche volta il bisogno di affermare il proprio valore al marito, che non lo riconosce, induce la moglie a lasciar venire il ladro. Quando una signora va ad un ballo il marito deve accompagnarla; e se non può farlo, deve persuaderla a rinunciarvi anche lei. Soltanto nel caso in cui vi fossero delle figliole grandi, per non privarle di quel divertimento tanto caro alla loro età, se anche il capo di casa e nell' impossibilità di accompagnarle, potrà permettere alla moglie d'andarvi colle signorine, purchè vi sia un fratello maggiore, o un parente a cui affidarle. Se una signora ha una serata per ricevere il marito dovrà trovarsi in casa almeno una mezz'ora, tanto da mostrare che gradisce la presenza degli ospiti in casa sua, e non si considera estraneo alle conoscenze della sua signora. Giungendo in campagna dove la moglie passa l'estate, o tornando da un viaggio, chiunque siano le persone che si trovano al suo arrivo la prima a salutare sarà sempre la moglie, poi i figli. Uno che credesse di mostrarsi cortese salutando prima i forastieri, mostrerebbe che la sua cortesia è superficiale e non ha radice nel sentimento. E si farebbe torto, perchè, credano signori lettori, per quanto queste possano sembrare semplici formalità o leggerezze, la vera cortesia è strettamente legata ai sentimenti di umanità. Non c'e atto cortese che non s' inspiri ad un buon sentimento. Non c'è scortesia che non ferisca qualche cuore. Un amico che ci trascuri, che non ci visiti, che non ci scriva a tempo, che ci manchi di un riguardo, non possiamo considerarlo un uomo superiore che non si curi di quegli atti gentili perchè li crede pure formalità, e si riservi a dimostrare la sua amicizia nelle grandi circostanze. Le grandi circostanze, il caso di buttarsi nell'acqua o nel fuoco per salvarci, o di scendere in campo chiuso a spezzare delle lancie in nostro favore non accadono mai; quasi tutti si traversa la vita senza trovarsi nel caso di mettere un uomo a quella prova eroica. Ma si può apprezzarne ogni giorno la sua gentilezza d'animo, nelle piccole cortesie, e si può soffrire ogni giorno della sua rozzezza nelle scortesie che non sono mai piccole. E non serve la scusa pretenziosa ed assurda alla quale alcuni si aggrappano: - Sono un originale ! Saranno originali, si, ma brutti originali ed è da desiderare che non abbiano copie. Del resto, quegli originali là non saranno quelli di certo che mi avranno fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina 230 del mio libro; ed è per questo appunto che ho intitolato il capitolo: Parole al vento. Quanto agli altri, agli uomini gentili di animo e di modi, se l'hanno letto, e se vi hanno trovato qualche cosuccia di buono, raccomandino il mio lavoro alle loro mamme, alle loro spose, alle loro figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, ne sarò riconoscente

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e prima che l'interpellato abbia pagata la sua imposta a quella curiosità simulata, si voltano ai bambini e dicono colla stessa precipitazione: - Andiamo a giocare. Bisogna invitare il piccolo visitatore a giocare, ma senza fretta, e senza scortesia verso la gente che è in sala. E quando il bimbo ha detto di si, il padroncino di casa deve rivolgersi a chi accompagna il suo giovine amico e domandare se permette che il ragazzo vada con lui a giocare. Una volta poi ottenuto il permesso, bisognerà lasciare la scelta dei giochi agli ospiti; e qualunque sia quello che scelgono, cedere a loro la parte più piacevole. È superfluo il dire che un bambino educato non deve mai ne domandare un giocatolo nè accettare un dono qualsiasi da un altro bambino, e neppure rispondere: «Se la mia mamma e la tua lo permettono accetterò» come fanno taluni, per avere la coscienza d'aver agito bene, senza tuttavia rinunciare affatto alla Speranza del dono. Bisognerà rispondere: - Ti ringrazio; ma sai pure che i bambini non possono nè fare nè ricevere doni. - E se la mia mamma lo permette? potrebbe insistere l'altro. - La tua mamma lo permetterebbe sicuro per non fare una scortesia alla mia mamma ed a me; ma non bisogna metterla in questa necessità. E per nessuna insistenza non deve cedere e prestarsi a quella parte ridicola di giungere in sala ad esporre le sconvenienti domande: - Mamma, sei contenta ch'io offra questo? - Mamma, mi permetti di accettar quello? Se un bambino va colla famiglia a far una visita, osserverà le regole che ho già accennate riguardo al saluto, ed alla conversazione. Se nella casa dove va non vi sono bambini, e gli tocca di assistere a tutta una serie di discorsi che non comprende e non lo interessano, dovrà rimanere composto e non dare il menomo segno di noia. Convengo che questo è difficile. Mi ricordo ancora certe discussioni interminabili a cui dovevo assistere nella mia infanzia, tra la mia povera mamma ed una vecchia baronessa inferma, che non aveva nessun bambino in casa, e teneva in sala tre enormi cani barboni. Si parlava sempre di quitanze, ipoteche, usufrutto, capitale ed interesse. Avevo imparate a memoria quelle parole, e qualche volta mi sorprendevo a canticchiarle mentre giocavo colla bambola, ma mi erano oscure come il Pape satan Aleppe, che mi ha tanto fatto pensare, ed impaurita nei miei primi anni di scuola. Un giorno dopo aver assistito un'ora a quei discorsi inesplicabili, ed essermi fatto dire parecchie volte, di non dimenare una gamba, di non strappar la frangia del mio paltoncino, di non strofinare i nastri del cappello, di non agitarmi sulla sedia, di non fare assolutamente nessuna cosa, ridotta all'immobilità d'una piccola statua mal posata e punto artistica, sentii che la mia pazienza era completamente esaurita; e tentai di porre fine a quel supplizio, ricorrendo all'atto più incivile che possa, fare una ragazzina per bene; dissi coll'accento strisciante della noia: - Mamma, andiamo? Vedo ancora, dopo tanto, tanto tempo, la vampa di rossore che salì al volto della mia cara e bella mammina. Si rizzò senza parlare. Era tanto educata, e sapeva che un rimprovero, fatto a me in presenza alla vecchia signora, avrebbe fatto capire meglio l'idea inurbana, che avevo implicitamente espressa: "Mi annoio mortalmente in sua compagnia." Ma la baronessa non aveva bisogno che le si mettessero i punti sugli i. Si alzò a stento, prese le mani della mia mamma nelle sue, e disse: - Si; va, povera Nina. Anche tu devi annoiarti, cosi giovane e bella, a passare tanto tempo con una vecchia; sono egoista quando ti prego di venire. Perdonami, cara la mia figliola; sono inferma e sola. Ma non ho più molto da vivere; avrò presto finito di annoiarti. Ed il suo povero volto, tanto rugoso, si raggrinzava, e le tremavano le labbra e la voce. Piangeva! La mia mamma non rispose, aveva gli occhi gonfi. La baciò, le strinse la mano, ed uscì tutta rossa e mortificata, come se quella villania l'avesse fatta lei. Non mi disse nulla. Non una parola di rimprovero. Capì che ero già castigata. Oh se lo ero! Pochi giorni dopo si disponeva ad uscire, senza avermi detto nulla. - Non mi vuoi con te, mamma? le domandai. - No, vado dalla baronessa. Chinai il capo avvilita. Era la mia punizione. Venivo espulsa dalla casa di quella venerabile amica di mia madre. La baronessa morì pochi mesi dopo, senza che l'avessi più riveduta. Ma passarono gli anni, mi feci donna, e non ho mai dimenticata quella scena dolorosa. Ed anche ora, quando ci penso, sento al cuore la stretta di un rimorso. Non si affligge impunemente una vecchia buona! D'allora non mi accadde mai più di dimostrare la noia che provavo in compagnia. Tuttavia, debbo confessare che la risentivo ancora e spesso. Ma per evitare alla mia buona mamma un dispiacere, come quello che le avevo dato una volta, cercavo di non farmi scorgere. Quando mi trovavo con parecchi altri ragazzi, si aveva l'abitudine di raccontar fole. Si ripetevano quelle udite altrove, o se ne inventava, se ci pareva di poterci mettere un po' di costrutto. Per lo più era un'illusione dell'amor proprio; ma infine.... Mi venne l'idea di scacciar la noia de' lunghi silenzi miei, e dei lunghi discorsi degli altri che non comprendevo durante le visite, preparandomi in mente le fole che dovevo dire. La prima volta che mi provai, fui stupita quando la mamma si alzò per uscire. Mi pareva d'esser rimasta pochissimo in quella casa, e la fola era tutt'altro che finita. Consiglio questo rimedio contro la noia, ai miei piccoli lettori. Oltre il vantaggio di non offendere nessuno, s'impara a fantasticare ed a far castelli in aria, e questa è una ginnastica che sviluppa immaginazione, ed avvezza alla solitudine ed al silenzio. Mi ricordo d'aver fatto da bambina dei castelli in aria, che, interrotti e ripresi, hanno durato parecchi giorni; e ne serbo ancora memoria come di cari avvenimenti. Li creavo a modo mio. Il mio spirito non poteva esserne contrariato, e vi si manteneva sereno. E la serenità di spirito dà la pace al cuore e rende buoni. Ed il mio volto esprimeva la soddisfazione interna; e quelle persone, se fossi stata ad ascoltarle, coi loro discorsi m'avrebbero dato noia, credevano d'aver parte alla mia soddisfazione, e ne erano contente, ed io più di loro. Sovente da tutte quelle contentezze risultava l'offerta di qualche chicca, la quale certo non poteva che aumentarle.

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È necessaria questa rinuncia assoluta, per bilanciare l'immensa deferenza della famiglia che la ospita, e metterci un limite, affinchè non abbia a diventare un sacrificio di tutte le ore. E qui mi viene a proposito di avvertirle, che nulla è più scortese di quell'abitudine tanto generale, pur troppo, di far esaurire tutte le formole di preghiere inventate da Adamo in poi, prima di aderire a sonare o a cantare, in compagnia. La padrona di casa, che per quella sera le ospita, è messa in grave imbarazzo. Deve unire le sue insistenze alle altre, ed aver l'aria di imporre un sacrificio? O deve astenersene, e dimostrare che non desidera di ascoltarle? Difficile alternativa.

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Alla tavola d'albergo, se non ha due persone della famiglia fra le quali sedere, ed iI caso le colloca da un lato uno sconosciuto, non deve scambiare con lui che le parole strettamente necessarie, finchè non sia stato presentato alla signora che l'accompagna, e questa gli abbia accordata la sua relazione. L' unico punto su cui in campagna ed ai bagni le signorine possono permettersi qualche libertà, è il vestire colori più vivaci, foggie più ardite, un cappellino un po' bizzarro o un po' sull' orecchio, fiori naturali in capo a tutte le ore, ed anche passeggiare a capo scoperto... Tutto questo è concesso; ma quanto al contegno, deve essere tanto più riserbato in quanto che sono meno conosciute, e chi le osserva deve giudicare dall'apparenza.

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Con questo non s'intende che, se Dio le conserva i genitori, abbia a far vita a parte. Goda finchè può la benedizione di dar il braccio alla sua mamma. Ma lo faccia per godere di quella compagnia dolcissima, non per farsene guidare e proteggere come una tortorella insidiata. La mia Emilia ha goduto a lungo la fortuna di avere la mamma. E le ha consacrate tutte le sue ore, i giorni e le notti, non s'è mai staccata da lei, senza una estrema necessità. L'ha amata con entusiasmo, l'ha pianta con passione. E tuttavia ha saputo farsi più presto ancora del tempo, una personalità seria,rispettabile, indipendente, senza ardimenti e senza emancipazione. Che una signora nubile si comporti così, e sfido tutti gli umoristi del mondo a farle passare sul capo neppur ombra del ridicolo. Se vive in famiglia, qualunque sia la sua età, non ha rappresentanza; per cui dovrà astenersi dal fare inviti lasciando questa briga ai capi di casa; e, nei ricevimenti, dovrà assumere una parte secondaria, non avanzarsi al saluto se non quando le persone della famiglia hanno accolto i loro ospiti, non offrire mai rinfreschi di propria iniziativa, ma appoggiare con garbo le offerte che hanno fatte i padroni di casa. Si asterrà assolutamente dal ballare, sotto pena di ridicolo. Si adatterà ad imparare i giuochi più in uso, per potere, all'occorrenza fare, il quarto in una partita, e per non restar sola e spostata in un circolo giovanile, dove avrà sempre la scappatoia di sedere al gioco colle persone serie. Se in famiglia vi sono persone a pranzo, si collocherà in modo da non darsi nessuna importanza, senza affettare tuttavia di prender l'ultimo posto nè atteggiarsi da vittima.

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