Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbia

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Cipí

206559
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ma Cipí era poco persuaso e brontolò: — Io ci credo poco che lui abbia un grosso becco uncinato soltanto per parlare... mi sbaglierò, ma qui sotto c'è un mistero... e se c'è lo voglio scoprire!...

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Lo stralisco

208515
Piumini, Roberto 6 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. — È fra i piú belli che io abbia veduto: meriterebbe un desiderio forte come la mia ammirazione. Ma; come ho detto, grande è la mia stanchezza: ti ringrazio di aver abbellito il mio sonno con la delizia del tuo sorriso. Shuade abbassò la fronte. — Ti imploro, signore, non mi scacciare, — disse. — Perderò ogni grazia del Sultano, se saprà che mi hai allontanato dal tuo letto. Mi farà certo riportare dai suoi cavalieri fra i pastori che allevano le greggi nelle montagne di Kamur, e mi darà in sposa al piú rozzo di loro... Una donna può essere più silenziosa di un'ombra, signore: lasciami stare qui con te, almeno questa notte. Non sentirai il mio respiro, e prima dell'alba, che non è lontana, io scomparirò: cosí non avrò sulla fronte il fango del tuo rifiuto... Gentile tacque ancora. Fece un lungo respiro. — Resta, dunque, Shuade, — disse, preso da una tristezza improvvisa, una puntura di lacrime agli occhi. — È per me un onore dormirti accanto. — Vuoi che scopra il mio corpo, signore? — lei sussurrò. — Non mortificare il mio cuore, Shuade, mostrandogli una bellezza che non sa desiderare. La donna non disse altro, e si accoccolò ai piedi del grande letto, senza fare più un movimento. Gentile spostò la torcia verso la porta, e si coricò. Davvero non percepiva il respiro di lei, sebbene ne sentisse il delicato profumo di agrumi. — Dio protegga il tuo sonno, Shuade, — disse a voce molto bassa. — Allah copra di fiori il tuo, signore, — lei rispose, invisibile. Anche ad occhi aperti, nel buio infinito della notte, Gentile vedeva il volto di Amilah, e piangeva.

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Possiedo quasi cento libri, e molti sono colorati, e non c'è una sola figura che io non abbia guardato attentamente piú di dieci volte. Ho visto cose incantevoli del mondo: il mare, le montagne, i grandi prati verdi e i laghi splendenti. Conosco la forma degli alberi della nostra terra, e anche di quelli di terre lontane. Ho guardato le figure di uomini vestiti in modo strano, gente di posti lontanissimi, e poi animali di ogni tipo. Tutte queste immagini mi sembrano belle e desiderabili, Sakumat, e stanno insieme nella mia mente. Non riesco a scegliere... Ci fu un breve silenzio. — Forse non è necessario scegliere, piccolo amico, - disse il pittore, — occorre solamente mettere ordine nelle immagini, e nei desideri. — Cosa vuoi dire, Sakumat? Il pittore tacque ancora, accarezzandosi la faccia con una mano. Da quando era salito nella terra di Nactumal aveva lasciato che la barba gli crescesse sul volto, e il pelo ispido e cosparso di bianco gli copriva le guance. — Questa stanza ha pareti grandi, Madurer, — disse, — se tu vuoi, io posso dipingere il mare, le montagne e i laghi... Posso dipingere molte delle immagini che conosci. Ma bisogna che mi racconti le cose che hai veduto, e le immagini che ti sono care. Devi accompagnarmi a fare un viaggio nel tuo pensiero. Poi decideremo, e io ti aiuterò. Da quel giorno Madurer prese a raccontare. Aveva proposto al pittore di guardare insieme a lui le figure dei libri, ma Sakumat le preferiva raccontate dalle parole. Madurer parlò dunque delle montagne e delle valli, delle colline coperte di frutteti, dei boschi fitti e dei campi lavorati, dei villaggi dai tetti bianchi e dai tetti rossi, con i viali animati, ornati ai fianchi da piante altissime mosse dal vento. Senza accorgersene mescolava alle immagini dei libri quelle mai vedute, ma solo pensate, dei paesaggi di storie raccontate dalle serve o dal padre: luoghi selvaggi e miracolosi, sterminati e strani. — Mi piace molto la figura del mare, — disse un giorno, — quando la penso, grandissima, azzurra e verde, è come se la gioia mi entrasse nel pensiero, e lo riempisse interamente. Sakumat ascoltava, faceva domande, chiedeva particolari. — Ora so abbastanza quello che dipingerò, Madurer, — disse dopo qualche tempo, — ma credo che dovremo prendere una decisione. — Una decisione? Quale? — Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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Tu non sei che un pittore: fammi dunque il ritratto di una donna che abbia i piedi di Usila, le gambe di Neha, il deretano di Haima, il ventre di...» «Basta! Ho capito! — gridava Gentile sudando. — Io non lo so fare! Non lo posso fare! » «E chi sei per non saperlo fare? Certo lo farai: io sono il tuo Sultano, quella la tela, quelli i pennelli, ed ecco laggiú le tredici ragazze, nude come Allah le ha create. Avanti, prima che scappino per il prato...» «Ma come si chiama la tredicesima, signore?» «Guarda, scappano! Corri con quel pennello, presto, maledetto incapace! » E Gentile correva in un gran prato, mentre le tredici donne scappavano: di una vedeva il ventre, di una la faccia senza occhi, di una il deretano, di una i capelli. Tutte, però, lo guardavano correndo, e ridevano. Ma lui non aveva un pennello fra le dita. Aveva un coltello, e correndo gridava: «Come potrò dipingere con un pennello cosí pesante e tagliente? Ah, rovinerò la tela, e forse mi ferirò le mani! » All'improvviso il Sultano, correndo con il coltello, si fermò, e gridò: «Io sono il Sultano, tu devi correre: tu sei il pittore! » E lanciò a Gentile il coltello, colpendolo al ventre. Dolorante, cadde rotolando su un corpo di donna nudo, ma in cui non si distinguevano né piedi né mani, né schiena né ventre, né volto né capelli: era un corpo di solo sguardo. «Come ti chiami? — gridava Gentile, piangendo per il dolore al ventre ferito. — Sei tu la tredicesima, vero?» Poi rotolò da un pendio, e trovò molte donne sedute nell'erba, quiete, vestite, col volto coperto, e tutte si mettevano nella bocca velata delle briciole rosse. «Sí, abbiamo mangiato il nostro signore, — dicevano, parlando insieme come un coro di vestali. — Ora puoi tornare a Venezia, se lo desideri. Laggiú è già tempo della festa di Maggio». «E voi? Non verrete con me?» «Noi dobbiamo, in verità, masticare e masticare, — rispondevano in coro. — Finché mastichiamo, lui non rinasce». E una gli porse un orecchio esangue. «Mangia, se vuoi, il tuo viaggio è lungo». Gentile prese l'orecchio, e senti che era freddo come il ghiaccio. «Posso portarlo alla festa di Maggio?» disse, piangendo, poi si svegliò, infreddolito, tremante. Una spinta intestinale doleva forte nel ventre. Si alzò, inciampò nella veste che aveva gettato a terra prima di addormentarsi. Cadde sul tappeto, senza farsi male. Tornò in piedi e corse nella piccola camera a bugliolo. Appena seduto cominciò a scaricarsi con violenza: già il dolore al ventre passava. Guardava la piccola candela nella boccia di vetro rosato che illuminava le pareti arabescate della stanzetta. Senti venire, dalle capanne sparse sulla riva dello stretto, sotto il palazzo, un limpido canto di gallo.

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Meglio dunque, straniero, che tu abbia fatto quello che hai fatto a causa della pittura che dell'amore: morire per qualcosa che si è rubato è certo meno penoso che morire per volontà di chi si ama. Quanto a quelli che dici di aver corrotto, benché il mio pensiero si ribelli all'esistenza di tali serpi nella casa del mio signore, sono costretta a crederti: senza l'aiuto di qualcuno non avresti mai potuto arrivare qui vivo, né a quel cancello... Decidi dunque, adesso, se rivelare il nome dei tuoi complici subito, o sotto la tortura. Per te, ladro di immagini segrete, ci sarà forse una morte pietosa: ma molta vergogna e dolore avranno i serpenti che strisciano nella casa del mio amato. Il pittore si sentiva perduto. Folate di nausea, nascendo dal centro del petto, gli invadevano il corpo. Non solo sarebbe morto, ma avrebbe portato altre persone ad una morte orribile: sia che accusasse apertamente, o che rifiutasse di farlo. Pensò, in un colpo di inventivo terrore, di accusare l'uomo vestito di nero, sicuro che avrebbe sostenuto la menzogna, sacrificandosi al gioco del suo signore. Ma tenne la carta in serbo. — Stupenda Amilah, la mia colpa è certo grande ai tuoi occhi, — disse. — Considera tuttavia che io sono cristiano, e non solo la mia religione consente le figure umane, ma le nostre chiese sono addirittura piene di immagini di persone sante, e dello stesso Dio in cui crediamo... Amilah sollevò appena una mano dal grembo. — Taci di questo, straniero. Un ladro è forse meno colpevole, se è nato in un paese dove il furto è consentito? Ma la tua colpa e vergogna sono rese ancora piú grandi dall'empio desiderio che io, in questo momento, provo nei confronti dell'immagine che hai dipinto: perché certo è diversa la bellezza che lo specchio mi rimanda, da quella che è passata attraverso gli occhi e le mani di un pittore... Ah, se il mio amato sapesse questa tentazione! Abbassò per un istante la testa, accorata. Poi alzò lo sguardo: — Cosí non ti salverai, straniero. Domattina la tua testa sarà portata al Sultano, insieme al racconto della tua colpa. Gentile tacque, preparandosi ad accusare l'uomo vestito di nero, di cui sentiva nel collo, come una scorticata verruca, la punta dell'arma. Il Palazzo, attorno al suo silenzio, taceva. La bella lo guardava: ma non come si guarda un uomo. I suoi occhi avevano la fissità opaca, dolente, di chi osserva il simulacro di qualche potere maligno: una statua minacciosa, un idolo sfavorevole, ostile. Un'idea improvvisa si presentò alle labbra di Gentile. — Bellissima Amilah, — disse con impeto,— tu sai che io sto facendo il ritratto al tuo signore... E un lavoro molto importante, e non è ancora finito. Se muoio adesso, chi lo finirà? Certo, quando il Sultano saprà la mia colpa, non risparmierà la mia vita: ma prima vorrà che io finisca il mio lavoro. Oppure mi ucciderà, e farà chiamare qualche altro pittore a compiere l'opera, o farne una nuova: ma se mi fai morire adesso, non sarà come aver stabilito che è piú importante la tua vendetta della sua volontà? Chiedi dunque a lui se devo morire subito, bella Amilah, o fra qualche giorno... Amilah spostò, come cedendo a una tentazione, lo sguardo sul retro della tela dipinta. Poi lo abbassò al pavimento, pensosa. Gentile sentí, appena percettibile, farsi meno pungente la lama sul collo. Proprio in quell'istante una delle grosse candele aromatiche di un candelabro si spense sfrigolando, sopra la sua testa. Gli tornò alla mente, senza quasi ragione, l'ombroso interno di una chiesa veneziana, vicina alla casa dove abitava da piccolo. Nelle calde giornate estive, lui e il fratello Giovanni vi andavano a spiare le scie di luce polverosa che filtravano dalle vetrate, e respirare il fresco odore di cera... All'improvviso, facendolo sobbalzare, Amilah lanciò un corto richiamo: un breve strillo di gola. Presto si mossero tende, e due robusti eunuchi entrarono, spalancando gli occhi alla vista di Gentile. Il pittore vide le spade appese alle cinghie incrociate sul loro petto, e cominciò senza volere a recitare una preghiera. Con tono di comando, disse Amilah: — Chiedete al luminoso signore che venga. Uno dei due si allontanò. L'altro rimase fermo a tre passi da Gentile, con la mano all'impugnatura della spada. Il pittore sentí sparire la puntura al collo. Un fruscío lievissimo, fra le palme, segnò la chiusura della porta segreta. Poi tutto fu attesa silenziosa. Nessun rumore nell'harem: solo, da fuori, versi sparsi degli ultimi uccelli notturni, voli frettolosi giú verso lo stretto. Ad Oriente, sotto il blu della notte, il cielo si rosava.

Pagina 131

. — Abbia le grazie che merita, — disse freddo Filippo: assai lontano, in pazienza e in umiltà, dal dover essere dei frati. Poi, in un silenzio di malumore, ripresero la via.

Pagina 155

Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

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