Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

188801
Pitigrilli (Dino Segre) 26 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
  • paraletteratura-galateo
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Non giurano che quel messaggio ottimista abbia la forza di modificare i disegni del destino, ma lo considerano un mezzo per mantenere accesa la candela vacillante dell'amicizia. Gli Abitudinari, accettano la cosa come una servitù imposta dal calendario; è una formalità; lo fanno gli altri; facciamolo anche noi; se non lo facciamo, che cosa ne dirà la gente? E qualcuno potrebbe anche aversene a male. Dopo tutto, che fastidio dà augurare cento anni di felicità? Gli zeri non costano nulla, e i superlativi non danno un sopraprezzo. Il fastidio lo avrete voi, destinatario, che dovrete cercare il loro indirizzo che essi non mettono perchè non pretendono una risposta, e avendo essi posto uno scarso impegno nella firma, non saprete se si tratta di un Riccardi o di un Ricciardi, di un Micheli o di un De Michelis, se è un cavalier ufficiale o un semplice cavaliere. I Passivi sono i più intelligenti di tutti; mandano gli auguri come se lanciassero delle ciabatte in faccia : sul biglietto di visita scrivono un «p.a.», abbreviazione che, psicanaliticamente interpretata, vuol dire : «Anche tu appartieni al gregge mediocre che non è ancora riuscito a scuotere il giogo di questa grottesca cineseria; vuoi ricevere anche tu il solito cartoncino? Ebbene prendi! Mi servirà a farti sapere che sono maestro di violino, che posseggo una sbullonata coroncina nobiliare, e che - supremo titolo all'altrui invidia e ammirazione, ho anche il telefono». A qualunque delle quattro categorie appartengano, i distributori di auguri sono un castigo di Dio. Possibile che non si rendano conto del disturbo che recano? Dell'inutilità e dell'inconcludenza del gesto? Dei residui di superstizione che esso contiene? Si sta studiando l'installazione nel firmamento di un satellite artificiale e la Terra è sotto la minaccia di venir polverizzata dalla scissione di un atomo nelle mani di un Hitler o di un Attila deluso di domani, e noi dobbiamo ancora assistere a questo flusso e riflusso di ipocriti e sciropposi biglietti di visita, dell'infantilismo oleografico dei « greetings » che bloccano il servizio postale, fanno camminare per quindici giorni i postini curvi sotto il peso dei formalismi, e paralizzano il corso normale delle lettere di serio contenuto. Il Capo dello Stato, pubblicando nei giornali che «nell'impossibilità di ringraziare singolarmente, uno per uno, li ringrazia tutti in blocco» dà un'elegante lezione a questi ritardatari. Non è esatto che non possa ringraziare uno per uno. Un segretario e due dattilografe potrebbero benissimo, in due giorni, spedire diecimila ringraziamenti stampati. Ma il Capo dello Stato, di tutti gli Stati, per il posto che ha raggiunto è un uomo intelligente in anticipo sulla mentalità corrente. Non può, come posso io, presentarsi in qualità di dilettante di anticonformismo, ma in cuor suo chissà quante volte avrà esclamato: «che stupida usanza!» Si chiami Franco, Salazar, Coty, Gronchi, egli sa che la Posta è un servizio dello Stato, responsabile, disciplinato e metodico, con una sua dignità e una sua etica professionale. Non bisogna farne un Ganimede o un Leporello, messaggero di puerilità e di bamboleggiarnenti, di menzogne e di convenzionalismi. Clemenceau scrisse che un libro è la morte di un albero, che cioè si è costretti ad abbattere un pioppo per estrarne la cellulosa necessaria a produrre quei quintali di carta. Ma per lo meno un libro è un libro, e se il lettore non avrà nulla da imparare e se il compratore si arresterà alla prima pagina, il suo autore ci avrà messo della speranza, dell'illusione, della buona fede. Pensate invece alle foreste che si spogliano ogni anno per mandare attraverso le terre e gli oceani tante parole d'amore senza amore, di ricordo senza concentrazione, di invocazione senza fondamento, che sono la replica di ciò che tutti dicono, la stereotipia di ciò che tutti fanno, la squallida manifestazione della pigrizia del cuore, mascherata di entusiasmo e di esuberanza, per formulare un augurio, questo collettivo ed epidemico controsenso escogitato dagli uomini per occultare malamente che «chaque instant de la vie est un pas vers la mort». E' un verso di Casimir Delavigne. Concludendo: 1°: non si mandino lettere e biglietti di augurio. 2°: avendone ricevuti, non si risponda. Le trecento persone che non avranno ricevuto il ringraziamento che aspettavano, non si raduneranno tutte trecento per stigmatizzare il vostro contegno. Ciascuno penserà che la lettera sia andata smarrita. Dopo sei anni capirà che è un vostro sistema; non so come lo potrà giudicare, ma avrete contribuito col vostro assenteismo a far avanzare di un dente la ruota della civiltà.

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Ma dal momento che gli storici escludono che egli abbia detto quelle parole, è inutile che io mi disturbi per dirvi il nome di colui che non le ha dette. pare che abbia detto « nihil expedit ». Cioè non c'è niente che meriti, non c'è nulla che valga la spesa. Bisogna essere bambini, o continuare a esserlo, o essere tornati bambini sotto l'irreparabile processo degenerativo delle cellule del cervello, per credere ancora all'utilità di questo nostro continuo rimescolare in un gioco sterile le parole del vocabolario. Non c'è niente che meriti. I cimiteri sono pieni di gente che credeva che il mondo non sarebbe riuscito ad andare avanti senza di lei. Pitagora imponeva ai suoi futuri discepoli una cura depurativa di due anni di silenzio prima di iscriverli alla sua scuola, e il silenzio dei monasteri ha favorito la meditazione, il perfezionamento e l'ascesi. Nelle vecchie famiglie cattoliche, quando una bambina petulante - imitando la madre, la zia e la nonna si abbandonava a un fastidioso chiacchierìo, un adulto le ordinava di chiudere la bocca, e di fare un fioretto alla Madonna. Ma i tre sistemi si indirizzavano a tre categorie diverse di persone, a tre mentalità distinte: il fanciullo greco aspirante alla filosofia e alla matematica, il benedettino e il carmelitano aspiranti a Dio, e finalmente la bimba, aspirante al matrimonio, fanno un impiego differente del dono della parola. La donna di altri tempi, vuota di idee, l'essere dai capelli lunghi e dalle idee corte, della quale sopravvivono oggi troppi esemplari, parla per il bisogno fisiologico di far funzionare gli organi fonetici, per il bisogno di emettere sotto forma di rumori l'acido carbonico della respirazione. La povertà delle sue idee ha per derivativo la parola, come gli uomini falliti in amore trovano un derivativo nelle gioie della mensa. I tea rooms sono pieni di signore che vi si dànno convegno per parlare durante ore e ore di niente. Se tendiamo l'orecchio, sentiamo ricorrere all'infinito i soliti e inconsumabili argomenti: «la gonna e la scollatura», «la jupe» e «le décolleté», «la pollera» e «el escote». Con questi discorsi la donna si inquadra nella mediocrità, tepidarium adatto alla proliferazione di tutta la flora della stupidità, sulla quale trionferà poi la putredine delle frasi insulse, dei luoghi comuni sfilacciati, dei tratti di spirito arrugginiti. Il giorno che vorrà elevarsi per il cambiamento che le auguro delle sue condizioni, si sentirà irreparabilmente catalogata nella paccottiglia umana, senza possibilità di migliorare di categoria. Il suo cervello si sarà plasmato nella miseria intellettuale, che è la miseria dalla quale non c'è speculazione in borsa o alta protezione che ci faccia uscire. A queste signore consiglio una buona cura di silenzio pitagorico. Per realizzarlo non c'è altro sistema che la lettura e lo studio. Le due ore passate al caffé con le amiche starnazzanti per richiamare l'attenzione dell'universo sul loro cappello nuovo e riempirsi di pasticcini che compromettono la linea, possono essere utilmente impiegate nello studio di una lingua straniera, e della propria lingua, il che è altrettanto utile e urgente, e nel formarsi una cultura generale. Lo studio conferisce alla bellezza. Presentatemi dieci donne di differente cultura, e io, senza sapere chi sono, senza che aprano la bocca, mi sento di indicarvi quella che ha letto diecimila libri, quella che ha una laurea, quella che conosce quattro idiomi, quella che ha l'abitudine alla cattedra - e le altre... Le altre, quelle che ostentano per i libri l'orrore che un ecclesiastico manifesta per le donne impudiche. Se le donne sapessero quale magico «institut de beauté» è lo studio, abbandonerebbero le creme e disdirebbero l'appuntamento col massaggiatore. Non c'è «rimmel» non c'è «khol», non c'è atropina che valga l'esercizio intellettuale, nell'illuminare gli occhi e dilatare le pupille. La donna ignorante che crede di farsi bella per mezzo dei sortilegi della cosmesi è come un calvo che versi tutte le sue speranze nella parrucca. Ai concorsi di bellezza internazionali assistiamo a una sfilata di graziosi mammiferi che sognano l'olimpo della televisione e l'empireo del cine. Riusciranno solamente quelle, generalmente le meno belle, che hanno negli occhi la luce dell'intelligenza. Mentre la cura di perfezionamento mentale si svolge, il mio consiglio è di parlare il meno possibile. Se è vero che la parola è stata conferita all'uomo per contraffare il proprio pensiero, il silenzio è stato offerto alla donna per darle il modo di farsi credere più intelligente di quello che è. Il silenzio le impedirà di impossessarsi avidamente delle idee e delle opinioni grossolane che ode per la prima volta, ornandola al tempo stesso di un'indicibile austerità. Il non dire ciò che tutti dicono è la vera aristocrazia mentale. Esempio: mentre ella guida l'automobile, un altro automobilista le attraversa la strada e la costringe a frenare. L'uomo comune, o la donna senza stile, lancerà fra i denti un'ingiuria o chiamerà a testimoni il Cielo e la persona che siede accanto, sulla scelleratezza e l'irresponsabilità di certi automobilisti. La donna di classe non si scompone, e rimette in marcia la conversazione interrotta e il motore. Il silenzio le impedirà di ripetere le frasi che tutti dicono: « Non ci sono malattie, ci sono malati; l'uomo ha l'età delle sue arterie; «l'apprenti sorcier» che non sapeva arrestare la magìa che aveva scatenato... ». Imparino ad apprezzare il prestigio del silenzio, dell'allusione lontana, della frase in sospeso, assai più efficace di quella completa e totale che cade come una sentenza o una martellata. Nel nostro pensiero la parte più importante è cio che gli altri indovinano. Sentite l'eleganza di una frase lasciata in sospeso: un vecchio ammiraglio diceva: - Ai miei tempi le navi erano di legno e gli uomini d'acciaio. Oggi le navi sono d'acciaio... E basta.

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Il mio codice della discussione è composto di due articoli: 1°: Non discutere, perchè la discussione presenta due casi: che tu abbia torto o che tu abbia ragione. 2° e ultimo: Aver ragione non serve a niente. E così finisce il mio codice della discussione. Se il tuo contradittore sostiene un'idea clamorosamente insensata, non ricorrere all'arbitrato di un terzo, con la speranza che dia ragione a te. Data la stragrande maggioranza degli idioti, dopo che ne hai trovato uno come avversario, puoi trovarne un secondo come arbitro.

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Qualora tu abbia moglie o qualcosa di equivalente, non fartela sedere accanto e non permetterle di collocarsi in piedi, di fronte, a farti una pantomima di Cassandra quando perdi, nè ténere esortazioni di sirena a ritirarti con lei, quando hai raggranellato qualche guadagno. Se anche lei ama la roulette o il trente et quarante, giocate a due tavoli diversi. Per esempio, tu nel casino di San Sebastiàn (Spagna) e lei in quello di Knokke-Le-Zoute (Belgio).

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Infatti, supponiamo che io abbia un bottone nero. I due primi hanno dunque visto questo bottone nero sulla mia schiena. Ora, avendo il primo risposto che ignorava il colore del proprio bottone, divenne evidente per il secondo che lui, il secondo, non poteva avere che un bottone bianco. Essendo rimasto nel dubbio, bisogna concludere che il mio bottone non è nero. E' bianco. E così il capo tribù liberò i tre, la professoressa sposò il discepolo, Dio benedisse le loro nozze, e dopo cinque mesi ebbero un figlio, che rivelerà presto una forte disposizione per il ragionamento matematico. Ma se voi proponete il problema in un gruppo di amici, uno dirà a casaccio «bianco» o a casaccio «nero». Un altro dirà che il problema è insolubile perchè il terzo aveva gli occhi bendati; un altro protesterà contro il vostro attentato all'integrità delle sue meningi; un altro... La gamma della stupidità umana è troppo estesa perchè io mi avventuri in supposizioni. Provate! E se poi volete assistere a una esplosione di cretineria, vi offro un ultimo test, il più intelligente che io abbia trovato finora. E' ragionamento puro. In un'isola imaginaria, vivono bianchi e neri. I bianchi dicono sempre e solamente la verità. I neri mentono sempre. Qualunque cosa i bianchi dicano è vero, qualunque cosa dicano i negri è falso. Una notte senza luna passano in una piroga tre uomini. Un tale che è sulla riva, domanda: «Siete bianchi o siete neri?» Il primo dà una risposta, ma non si odono le sue parole, perchè se le porta via il vento. Il secondo dice testualmente: «Ha detto di essere bianco; è proprio bianco; anch'io sono bianco». Il terzo, dice: «No, è un nero. Io sono bianco». Domanda: di che colore sono i tre? Ebbene, non avrete ancora finito di esporre il problema, che qualcuno o qualcuna risponderà: «Sono tutti e tre neri, perchè mentono». Oppure: «Due neri e un bianco». Oppure «Il primo è nero perchè non ha voluto rispondere». Guardatevi bene dallo sposare costui o costei. O dall'intraprendere qualcosa di serio insieme. E se volete spingere la vostra indagine psicologica all'estremo limite, osservate come reagiranno quando voi darete la soluzione, e le obiezioni che si scateneranno, e le cadute e ricadute da una stupidaggine all'altra, e la lentezza nel ragionare e la refrattarietà a capire. La soluzione è questa: Come avrà risposto il primo del quale non si udì la voce? Avrà risposto «io sono bianco», perchè o è bianco, e allora ha risposto io sono un bianco perchè dice la verità, o è un negro, e avrà risposto io sono un bianco perchè i negri mentono. Quando il secondo, affermando che il primo «ha detto di essere bianco» ci dà la dimostrazione di dire il vero, ne deduciamo che è un bianco. Ormai la verità la sappiamo, e concludiamo che il terzo mente, e perciò è un nero. Conclusione: il primo è un bianco, il secondo un bianco, il terzo un nero. Ma, conclusione delle conclusioni, avrete scoperto che razza di cranio avete come compagno d'ufficio, di caffé o di letto matrimoniale.

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Non c'è affare, nella Storia degli Affari, che abbia lasciato soddisfatte le due parti. C'è sempre un turlupinato effettivo o morale o potenziale. Colui che rende un servizio crede di aver dato il massimo; quello che lo riceve è convinto di non avere avuto abbastanza e finisce per raggiungere la sicurezza che tutto sarebbe andato bene e forse molto meglio senza il vostro intervento. Un proverbio spagnuolo (anche una persona di spirito può, una volta nella vita, citare un proverbio Prometto che non lo farò più. dice che «cada comedido sale jodido», ogni piacere, ogni servizio, riesce fottuto. E poiché la serie rossa non è infinita, e inevitabilmente tutte le situazioni si rovesciano, dopo un certo tempo, come una clessidra, colui che vi ha chiesto la presentazione al ministro, alla professional beauty, all'agente di cambio o a vostra moglie, il giorno che constaterà un passivo nel bilancio delle proprie avventure, vi dirà: - Me lo hai presentato tu.

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Non crediate però che questi abbia la vittoria taciturna. La soddisfazione minima che può prendersi è gridare allo sconfitto: - Cretino! Può accadere che la vanità umiliata pretenda una rivincita, ma qui riappare la saggezza di Salomone, reincarnata in un paracarri o in un albero, e il giorno dopo i cronisti di giornale avranno qualche cosa da scrivere. Accadrebbero meno disgrazie sulla strada se gli automobilisti ricordassero tre princìpi fondamentali: 1°) Non c'è nulla di così importante nella vita per cui meriti di arrivare mezz'ora prima. 2°) Non ci vuole nessuna intelligenza per schiacciare un acceleratore. 3°) Quando un uomo inutile e insufficiente ha dato cattivi risultati negli studi, nella vita, nel matrimonio e negli affari, gli rimane sempre quel minimo di cervello che basta a guidare un'automobile. L'automobilista apparirebbe meno cafone, se ricordasse altre tre norme: 1°) Non c'è da meravigliarsi che sulla strada ci siano dei maleducati e degli imprudenti o dei principianti. Sei stato un principiante anche tu. 2°) Se incroci una macchina guidata da una donna, non farti comicamente il segno della croce, per divertire il tuo compagno. Le donne guidano meglio di te. Lo dimostrano le statistiche delle Compagnie assicuratrici. 3°) L'osservanza del Codice della Strada non è un semplice dovere civico, ma è la base della buona educazione automobilistica. Non dico che coloro che accendono i fari sulle autostrade e non li spengono nonostante i segnali supplichevoli di quello che gli viene incontro siano dei criminali. E' già stato ripetuto troppe volte. E' un gaglioffo, che, protetto dall'anonimo, dà un saggio di cattiva educazione. Esasperare con colpi di claxon l'automobilista che si è fermato per imperizia o per un incidente e senza averne colpa blocca la strada, non serve a nulla, perchè egli ha la stessa voglia di muoversi che ne hai tu. Tutto ciò che ottieni è provocare lo strepito di altri venti claxon, che cedono al fenomeno del contagio mentale del teppismo collettivo. In materia di eleganza automobilistica, avvertirò che non è da gran signore chiamare la propria vettura con termini spregiativi, come «la mia carretta, il mio macinino». L'auto è uno strumento. Se ti serve, rispettalo. Ma non cadere nell'errore opposto. Non esaltarlo. Se hai un modello di quindici anni prima, già passato attraverso vari proprietari e reiterati restauri, non pagarti il comico lusso di uno chauffeur che si tolga il berretto a visiera per aprirti con un inchino lo sportello.

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Si può rimproverare a un ragazzo la sua impenetrabilità alla matematica, sebbene da Re Davide ad Anatole France tanta gente abbia fatto carriera senz'essere riuscita a imparare un'addizione. Si può deplorare in un ragazzo la grafia illeggibile, sebbene Carlo Magno sapesse appena fare la firma e Napoleone non decifrasse i propri scritti. Si può rimproverare la scarsa applicazione, sebbene essa sia imputabile alla carenza di acido ascorbico e sia correggibile con qualche dozzina di carote grattugiate, assai più benefiche dei pedagogici scapaccioni paterni. Ma rimproverare un ragazzo per la sua ipocrisia è come rimproverare un pesce perchè fa dei bagni troppo prolungati o un maiale perchè mangia gli avanzi e i rifiuti, invece delle brioches e delle peches Melba. La scuola dell'ipocrisia è la casa. Non si può pretendere la sincerità dal ragazzo quando la madre, al telefono, in presenza sua, per rispondere che il marito non è in casa, inventa particolari a catena: «E' uscito in questo momento; forse è ancora giù per le scale; se telefonava cinque minuti fa... ma che dico? un minuto, fa... sono venuti degli amici a prenderlo in automobile; è invitato a un pranzo a Frascati; deve incontrarsi col direttore delle dogane, per una partita di turaccioli giunti dalla Spagna, e che sono fermi in stazione; ah, questa burocrazia!» E il marito è di là, e sta fumando la pipa, in pigiama. Non si può esigere la sincerità dal figlio, quando la madre, al telefono - oh, quale incremento ha dato alla menzogna l'invenzione di Meucci (o di Graham Bell che sia) quando la madre, per sostenere la menzogna di una passeggera indisposizione, fa una voce fiacca, o rauca, o afona, e accusa un colpo d'aria attraverso il vetro di un tassì (che non ha preso), o una salsa tartara (che non ha mangiato) o le danze fino alle tre del mattino all'Ambasciata dell'Unione Sudafricana, dove non conosce nemmeno l'ascensorista. Non si può pretendere la lealtà dal ragazzo quando per giustificare ai suoi occhi le nostre menzogne, ricorriamo alla «riserva mentale»: - Ho risposto che papà non c'era. Infatti non c'era. Era sul balcone. Sarebbe più pulito prendere il ragazzo fra le ginocchia e insegnargli sistematicamente la tecnica e l'impiego della bugia, come si insegna alla lavagna la superficie del quadrato o il volume della piramide. Lo si metterebbe di fronte a uno dei due problemi della vita: la difesa (l'altro problema è l'attacco). Ma lasciare che assorba l'ipocrisia per contatto è la più grave immoralità dell'educazione. Un'arma lecita in questa nostra lotta per l'esistenza e la bugia. La bugia è una spada. L'ipocrisia è una spada precedentemente intinta nel veleno o nell'immondizia. Quando uno dei due coniugi dice all'altro: «rispondi che non sono in casa», quello che va al telefono deve eseguire l'ordine con la semplice formula: «non è in casa». Il «non c'è» telefonico è divenuto una formula-standard consacrata nel codice internazionale del vivere civile, ed equivale al «chiami in un momento meno inopportuno», o addirittura «non chiami mai più». Educato così, il bambino dirà semplicemente: - Il bicchiere non l'ho rotto io. Ma se ode la madre arrampicarsi e tuffarsi e rotolarsi srotolarsi fra particolari inventati, dirà: - Il bicchiere era sulla tavola; vicino c'era un giornale; iI vento ha aperto la finestra, il battente della finestra ha mosso il giornale e il giornale ha spinto il bicchiere. E il giorno dopo il padre dirà al maestro: - E' un ipocrita.

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Egli li infilava con lenta eleganza, e si metteva a scrivere le miserie e i misteri di Parigi, intingendo in un calamaio d'argento tempestato di pietre preziose la penna d'oro, dalla quale fluivano frasi come questa: «Nessuno ha il diritto di godere del superfluo, finchè ci sarà qualcuno che abbia bisogno del necessario». E si racconta che Ernesto Renan a un direttore di giornale che era stato a casa sua a chiedergli il permesso di pubblicare in appendice il suo romanzo «l'Abbesse de Jouarre», rispose che non faceva questione di prezzo, poichè il denaro era l'ultima delle sue preoccupazioni. Ma gli diede una lettera di presentazione al suo editore, accuratamente suggellata, nella quale gli diceva: «Chiedete a costui più che potete». Questi due scrittori confessarono che l'ipocrisia l'avevano imparata in casa. Uno dei due disse: - L'ho imparata sull'abbecedario francese. E l'altro: - Prima ancora di apprendere a parlare ho appreso nel seno della mia famiglia l'ipocrisia. Machiavelli, che aveva scritto «la Mandragola» per prendersi gioco della pretesa ipocrisia dei frati, fu mandato dai Medici a cercare, tra i frati, un predicatore per la Quaresima. II suo amico Guicciardini gli disse: - Attento che quei frati non ti comunichino il vizio delle bugie! Il Machiavelli rispose: - In materia di bugie sono licenziato e addottorato. La vita mi ha insegnato a mescolare il vero col falso, il falso col vero, in modo che non si riconoscano più. La vita, dunque, fu la cattedra; e non la casa. La menzogna si deve imparare più tardi, all'università della vita, e sperimentarla nei laboratori del mondo. Non bisogna ricevere, da ragazzi, lezioni particolari a domicilio.

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Non so che uso abbia poi fatto del bidé, né se la Corte d'Assise locale lo abbia condannato a una piccola pena o assolto con tutti gli onori. Nel 1546 in Favale di Basilicata la delicata poetessa Isabella di Morra fu uccisa all'età di 25 anni dai fratelli, per la scoperta della sua corrispondenza col poeta Diego Sandoval di Castro. Non dire che nella loro regione la statistica dei cornuti non è inferiore a quella degli altri paesi, perchè non so se lo nascondano o se non se ne siano ancora accorti.. Comunque, questa verità non vogliono sentirsela dire.

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Un russo che abbia del tatto, un ungherese che mantenga uno stile, non offriranno mai a un francese il borsch né il goulasch, ma gli faranno preparare un menu secondo la cucina francese. In Svizzera preparano un piatto squisito : la «fondue suisse», mescolanza di Emmenthal, Gruyère e vino bianco secco, che si mette in mezzo alla tavola bollente, su una fiamma ad alcool, e dove tutti i commensali intingono il pane e la forchetta, in una promiscuità, che nella scala delle usanze schifose non ha altro equivalente che la pratica sudamericana di succhiare a turno, nella stessa cannuccia il decotto di « yerba mate ». Per fare uno strappo a questo scambio di saliva e di bacilli, non si serva in recipienti collettivi né il «mate» sudamericano, né l'elvetica «fondue», né la piemontese «bagna cauda». Sesto: il locale più indicato per invitare a pranzo al riparo da tutti gli imprevisti, il locale dove l'ospite si trova veramente «come in casa sua», è il restaurant. Al restaurant non è costretto a mangiare ciò che l'anfitrione gli ha destinato: può raccomandare che la carne sia arrostita o sanguinante, esigere un altro contorno, lasciare l'aragosta al primo boccone senza oltraggiare la suscettibilità di nessuno, può invertire l'ordine tradizionale delle portate, e il suo «no grazie» invece di essere un'offesa, si converte in un'economia per il fesso che paga. In più c'è il vantaggio che quando si è finito di mangiare non è una villania andarsene, ma una necessità, un impegno commerciale, per cedere il posto ad altri clienti. E c'è l'inestimabile vantaggio che dopo il caffé e i liquori non si ha il dovere di invitare il pianista a «farci sentire qualche cosa». Rimane il tempo di finire la sera in un teatro o in un variété, per medicarsi la gola e gli orecchi delle sciocchezze dette e udite durante il pasto; o, se non si crede di averne ancora dette e udite abbastanza, si può andare in casa di quello fra i commensali che ha delle poltrone comode, del whisky ragguardevole una intelligente biblioteca. Ma se proprio sei decisa a invitare in casa tua - articolo settimo - abbi almeno la precauzione di radunare persone che già si conoscano e abbiano un minimo di affinità mentale. Il vecchio sistema di alternare un signore e una signora è infondato, a meno che la tua non sia una casa di appuntamenti o un'agenzia matrimoniale. Due uomini politici cóllocali a grande distanza, per evitare che improvvisino un meeting: due cacciatori cóllocali vicini, in modo che si smaltiscano a vicenda le loro eroiche fanfaronate, senza che l'uno affligga l'uditorio con le virtù del suo setter, e l'altro con la precisione del suo fucile o la furberia dei coccodrilli del lago Tanganika. Se c'è un poeta, sistemalo fra due donne belle e analfabete (non scarseggiano mai), così gli impedirai di toccare il più impopolare di tutti gli argomenti: la letteratura.

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Io ammiro quell'attrice italiana intelligente, raffinata e celebre, che scrive io bevo vermouth «Cinzano» con la scrittura di un'analfabeta che ne abbia bevuto tutto d'un fiato un paio di bottiglie. Le lettere d'amore non si firmano con nome e cognome; il solo caso in cui lo sgorbio, non-ti-scordar-di-me, il cuore trafitto da una freccia siano permessi. Quegli uomini che sono innamorati della propria firma (il maggior contingente è fornito dai capi ufficio delle pubbliche amministrazioni), riservino alla Patria i loro gladiolati geroglifici. Sull'anima di una donna non fanno effetto. Ne parlo per esperienza. Vari anni fa, in un ufficio consolare del Medio Oriente, mi occorreva un documento che era già stato rifiutato a vari connazionali da uno di quegli impiegati che sono feroci con i subalterni, fanatici col regolamento, implacabili con l'orario, gelosi della loro carta assorbente, il vero tipo del pète-sec che considera lo sportello come una feritoia attraverso la quale sparare sul contribuente. Gli presentai senza speranza la mia domanda, alla quale appose la sua complicatissima firma. - Che bella firma! - esclamai vigliaccamente, con gli occhi pieni di ammirazione per la spirale a vari giri bislunghi, nella quale aveva incastonato la gemma del suo nome. Mi sorrise attraverso l'oro degli occhiali e dei denti, e diede parere favorevole alla mia domanda. Quindici giorni dopo sul piroscafo Istanbul-Trieste incontrai una canzonettista che era stata la sua amica, era quasi sul punto di sposarlo... Raccontandomi la storia dei loro amori, la canzonettista tirò fuori dalla valigietta l'ultima lettera supplichevole che egli le aveva scritto fermo posta a Istanbul, e mi domandò: - E lei consiglierebbe a una povera donna di unirsi per tutta la vita a un uomo che firma le sue lettere d'amore, con nome, cognome e geroglifico, così?

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Secondo Bernard Shaw non esiste un uomo che non abbia un'ora di idiozìa il giorno, e aggiunge che il non oltrepassare quel margine è una prova di saggezza. Un medico canadese ha scritto che ognuno di noi una volta il mese ha un accesso di stupidità. Miguel de Unamuno, coniando una parola di sapore medico, inventò la estupiditis, forma acuta. Peggiore della stupidite è la stupidosi, forma cronica e degenerativa, spaventosamente endemica e inguaribile. Oltre a queste patalogiche fatalità se ne elencano delle altre: il ciclo tiroideo, che riserva a ognuno di noi, che ci crediamo esseri normali, undici giorni di depressione psichica, di astenia, di sfiducia in noi stessi, di mancanza di ispirazione, a cui seguono, fortunatamente, 33 giorni di carburazione soddisfacente, che può giungere all'entusiasmo e all'esaltazione. Le donne hanno in più un altro ciclo, che qualche volta coincide col ciclo tiroideo. Le ciabatte in testa, il «ritorno con mia madre», il «mi concedo al primo che passa» sono il più delle volte effetto della coincidenza dei due cicli. Chi vuol spacciarsi per intelligente, controlli il calendario dei suoi nervi e delle sue ghiandole, queste enigmatiche sfingi della fisiologia. Con l'autocontrollo e l'autosservazione, noi ci sentiamo arrivare la stupidità come ci sentiamo arrivare il raffreddore e la grippe. E' meglio in questo caso mettersi subito a letto, e seguire il consiglio che l'impertinente veneziana dava a Gian Giacomo Rousseau: «Lascia - almeno per quel giorno - le donne e studia la matematica».

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Questi signori sembrano a prima vista l'espressione sublime dell'altruismo e sono invece i più neri egoisti che l'inferno terrestre abbia inventato per la nostra dannazione. Contro costoro ci sarebbe una sola difesa: che ognuno di noi si sospendesse all'occhiello della giubba un cartellino come quello che negli alberghi di lusso il cliente pone fuori della porta nelle ore di siesta o di lavoro: «Do not disturb. No moleste. No me dérangez pas!» In certe ferrovie della Germania d'anteguerra c'era un carrozzone di prima classe destinato ai viaggiatori che non volevano essere molestati da colui che chiede un fiammifero o lo offre, da colui che tenta di iniziare una conversazione, da colui che allunga la mano sul giornale abbandonato dal viaggiatore di fronte. Carrozzone riservato, in poche parole, a coloro che chiedono al prossimo semplicemente la pace e il silenzio. Nel più grande elegante, e moderno albergo del mondo, il «Provincial» di Mar del Plata, accanto alla sala da pranzo immensa, che può ospitare un migliaio di commensali, c'è un salone un po' più piccolo, dove prendono posto le famiglie in lutto, la gente dai nervi esauriti, gli ecclesiastici, coloro che apprezzano i vicini silenziosi, i camerieri taciturni e il maître d'hôtel che viene solamente quando è chiamato, non dà consigli, non impone la sua volontà. Mi pare questo un sensibile progresso nella psicologia applicata. Non so se avrà imitatori. Anzi, temo di no. Nonostante la lotta che si conduce contro i rumori, contro il parassitismo acustico delle grandi città, mi pare che il non saper collocarsi dal punto di vista del prossimo renda difficile questa nobile campagna, e credo che gli effetti li vedranno i nostri tardi pronipoti. In treno è facile incontrare uno di quegli sciagurati buontemponi provvisti di quei maledetti apparecchi radio ad accumulatore, che, essendo portatili, se li portano dappertutto, e per tutto il viaggio appestano di suoni e di fischi, di pubblicità e di canzoni della loro onda preferita i quarantotto viaggiatori seduti che hanno voglia di leggere o di dormire, e i ventiquattro viaggiatori in piedi che già innervositi dallo stare in piedi, si sentono i nervi sfilacciati per l'esasperazione da quelle notizie che non li interessano o da quella musica classica alla quale preferirebbero una «milonga», o da quel «bolero» al quale preferirebbero una messa di requiem. Ma il proprietario dell'apparecchio portatile è convinto di fare un piacere ai 24 signori in piedi e ai 48 seduti. E' un delfino che lavora all'ingrosso.

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E' una somma che il cliente paga per compensarlo di tutto ciò che fa al di fuori di portare in tavola dei piatti, riempirli, aspettare che tu li abbia vuotati e portarli via sporchi. Questo extra, questo al di fuori e al di più è il sorriderti, quando tu dici una vecchia facezia, l'accettare il tuo tono di superiorità su di lui, semplicemente perchè tu sai la data del trattato di Campoformio, o il peso specifico del magnesio, o l'azione antagonista dell'atropina e della pilocarpina. Lo devi pagare perchè nell'infilare la sedia sotto i 120 Kgr. di una ricca e deflagrante matrona, resiste alla legittima tentazione di rovesciarle nell'oltracotante scollatura una bottiglia di Tomato Ketchup. Devi la mancia a chi ti rifà il letto, ti lucida le scarpe, ti porta un telegramma, perchè questo personale d'albergo è il testimone muto e discreto di tutto ciò che di abbominevole avviene negli alberghi; affari equivoci, contrabbando, ricatto, spionaggio, traffico di armi, di alcoloidi, di donne, di coscienze; e il groom, il portiere, la cameriera, il valet, tutti dànno la loro collaborazione indiretta senza partecipare agli utili. Ti consiglio anzi di darla subito. E' una coraggiosa affermazione di principio contro il «divieto» delle mance e assicura un servizio più premuroso e migliore. Il sistema non l'ho inventato io, ma lo scrittore milanese Rovani, del secolo scorso, che un giorno invitò a pranzo un amico, e per prima cosa diede la mancia al cameriere (operazione che allora si riservava per ultima): e ordinò in quest'ordine il caffé, la frutta, il formaggio, la carne, la minestra e gli antipasti. Il cameriere non rise, non fece obiezioni, trovò tutto naturalissimo, grazie alla mancia preliminare. Di cattivissimo gusto è discutere col cameriere sulla composizione dei cibi, sulla loro cottura e sul loro valore. Il cameriere è un intermediario fra il padrone della trattoria e gli avventori. Barbey d'Aurevilly invitò un altro letterato parigino a pranzo in un locale di lusso, ed essendo splendidamente generoso, pur essendo a corto di denaro, ordinò in pieno inverno un piatto di fragole. Mentre le stava mangiando diede un'occhiata alla lista: tre franchi ogni fragola (franchi-oro). Quando gli presentarono il conto raccapricciante, D'Aurevilly constatò che aveva abbastanza per pagare il padrone, ma non gli rimaneva per dare la mancia. - Cameriere, ho lasciato tre fragole. A tre franchi l'una, sono nove franchi. Mangiátele, sono per voi. Agì molto male quello scrittore. L'albergatore e il cameriere vendono due merci differenti: primo vende vino, carne, vegetali e dolci; il secondo vende dell'imponderabile, dell'inafferrabile e del relativo, ed è per questo che la mancia non dovrà essere soppressa nemmeno il giorno in cui invece del 22 per cento il cameriere percepirà il 100 per 100 sull'importo. Chi non vuole andare al restaurant si comperi pane, formaggio e un fiasco di vino, e si consumi il suo pasto in casa, o a cavalcioni sul parapetto di un fiume o nella sala d'aspetto della ferrovia.

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Non dico che la carità sia una somma che il ricco versa al povero; sarebbe inesatto: dei due il solo che abbia una posizione sicura è il mendicante. Data la continuità del suo esercizio; l'inesauribilità della sua materia prima, l'impermeabilità alla svalutazione della moneta (i suoi onorari aumentano parallelamente all'inflazione) la sua situazione è paradossale. Nella sua strana industria il deterioramento dell'impianto invece di diminuire il reddito aumenta la produzione. Le persone di cattivo gusto sottolineano la loro carità stradale amplificando il gesto e mormorando parole di compianto. Esse ignorano che il povero è generalmente un simulatore, ben fornito di risparmi; e non è ricco, si vede che è al principio della carriera, o ha giocato in borsa o ha cominciato col pagare i debiti fatti quando era un onesto lavoratore. Altri pedoni filantropi hanno i loro poveri fissi, con i quali si trattengono a discorrere, per accentuare la propria fedeltà al beneficato, l'autentico meritevole della loro filantropia. La conversazione col povero ha un fondo di vanità e di esibizionismo, e al tempo stesso serve a controllare di volta in volta se il venditore di tristezze non oltrepassa il confine fra la fame e l'appetito. Il filantropo della strada vuol essere sicuro di spendere bene i propri denari. Altro tipo di pedone: quando è con una persona di riguardo allunga il passo in direzione del povero per arrivare prima a pagare, come se si precipitasse alla cassa del bar ritirare i due scontrini del caffé; e se il compagno vuol dare anche lui qualche cosa al mendicante glielo impedisce dicendogli: «ho già dato anche per lei». Altro tipo: quello che dà (o non dà; è lo stesso) e accompagna il suo dare o non dare con colleriche imprecazioni contro le autorità che permettono una simile vergogna in una città come questa, e domandano al compagno o alla compagna, come se fossero il sindaco o la moglie del Presidente della Repubblica, che cosa si aspetta per ritirare in un ospizio quei parassiti della società e per punire col carcere l'accattonaggio. Una vecchia signora caritatevole, dopo aver compiuto come tutti i pomeriggi alla solita ora il suo atto di munificenza, guardò meglio il «suo» povero. L'angolo della strada era lo stesso, il cartello di ferro smaltato che gli pendeva dal collo con la parola «cieco» in caratteri romani era il medesimo, ma il cieco era diverso dal solito. Tanto diverso, che leggeva giornale. - Ma come? - esclamo l'anziana signora, martellando il marciapiede con un colpo secco del parasolino - Siete cieco e leggete il giornale? Il cieco levò lentamente lo sguardo verso di lei e le spiegò - Signora, il cieco non sono io; è un mio amico, e io lo sostituisco per oggi, affinchè nessun concorrente sleale usurpi il suo posto. Ma tutti gli incassi io li verso a lui, trattenendomi la percentuale convenuta. La signora, rassicurata appena per metà, domandò: - E il vero cieco dov'è? Il falso cieco rispose: - Il vero cieco è andato al cinematografo. Questa storiella mi pare istruttiva e ammonitrice. Il mendicante aspetta da noi del denaro, non delle interviste, non delle teorie, non delle invocazioni o delle imprecazioni contro le ingiustizie umane. Il mendicante è un signore che vive filosoficamente, e la moneta che gli buttiamo nel cappello non è diversa simbolicamente dalle olive che le donne greche buttavano nella ciotola di Diogene e dalla manciata di riso che l'indiano versa nella scodella dell'asceta solitario, senza distrarlo dalla sua estasi con inopportuni commenti. La maggior parte dei mendicanti non vende nulla. Sono quelli che hanno il coraggio delle proprie opinioni. Altri, mancando di questo coraggio, si dànno le arie di vendere qualche cosa: lastrine di celluloide per distendere il colletto della camicia, lapis copiativi o lamette di rasoio, e pretendono con questo di elevare di gerarchia l'accattonaggio. Il mio galateo insegna a fare la carità a questi falsi mercanti o non ritirando la merce o pagandola loro il doppio. Altri simulatori si infilano un paio di maniche bianche, si calcano in testa un berretto a visiera come se fossero le guardie giurate di chissà quale club, e si autoproclamano custodi di automobili. In realtà nessuno li ha investiti di tale incarico e se un ladro volesse impadronirsi della vostra vettura, quell'ometto in visiera e maniche bianche non avrebbe né il prestigio né l'autorità per impedirlo. Ma quando voi salite nella vostra macchina, egli, con gesti convulsi e giratori, vi indica come dovete muovere il volante per uscire dalla fila. Nessuno gli ha chiesto nulla, e l'automobilista occupato a districarsi dalla morsa di due macchine che si sono agganciate per i parafanghi è già così esasperato che non merita di essere maggiormente innervosito da un gaglioffo che, gli balla davanti, facendo contorcimenti burattineschi. Ma la mancia bisogna dargliela. E' una servitù alla quale l'automobilista deve sottomettersi, e sarebbe scorretto e inabile cercar di evitarla, approfittando per esempio della circostanza che l'ometto sta prodigando la sua competenza tecnica a un altro automobilista. Se non gli date ciò che gli compete per antico privilegio, la sua maledizione vi seguirà e la prossima volta un buco misterioso in un pneumatico vi obbligherà a fermarvi sul margine della strada a meditare sull'immediatezza e inevitabilità della formula delitto e castigo. Sarà bene invece che teniate sparse per le tasche monete e biglietti di piccolo taglio, specialmente se avete al vostro fianco una signora. Come tutti i mendicanti, questi falsi guardiani di automobili sanno che generalmente gli uomini caritatevoli fanno la carità non per il povero, ma per la platea, e che il gesto di dare è tanto più teatrale quanto più ornata di donne è la platea e quanto più desiderabili sono i décolletés. Lo sanno le piccole fioraie, le zingare, il ragazzino-che-ha-rotto-la- bottiglia-della-medicina-e-non-osa-tornare-a-casa-perchè-suo padre-lo-picchia, che si aggrappano alle coppie che hanno l'aria di essere innamorate. Quando un uomo accompagnato da una donna vuole districarsi da uno di questi parassiti e sottrarsi al loro ricatto, può ricorrere a una frase allusiva alla donna che è con lui: - Non darti tanto disturbo. Siamo sposati.

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Articolo 8°: Se fra i tuoi ospiti c'è un pianista, non pregarlo di suonare, perchè se è una schiappa, ciò costituisce una sgarbatezza verso i commensali, e se è un valore sembra che tu lo abbia invitato per elevare la gerarchia del tuo festino. Se è un violinista guárdati dal raccomandargli di portare lo strumento, se non vuoi sentirti rispondere come Paganini a quella certa signora: - Il mio violino non mangia mai fuori di casa. Articolo 9°: Non oltrepassare il numero di nove commensali, te compresa. La cifra massima fissata da Brillat-Savarin è dodici; e monsieur Legros, capo-cuoco dei Duchi di Windsor ed ex-chef dell'Aga Khan, esclude che si possa preparare un buon pranzo per più di una dozzina di persone. Ma se ne inviti dodici, non preparare per ventiquattro. Sarebbe uno sfarzo di cattivo gusto, la denuncia di mancanza di criterio è la prova che non hai l'abitudine degli inviti. Non cadere però nell'inconveniente opposto; cioè che le portate siano così scarse da obbligare un cavaliere a togliersi dal piatto un'ostrica per offrirla alla vicina, gesto galante che provoca quelle silenziose riflessioni destinate, giù per le scale, a concretarsi in crudeli commenti. Tristan Bernard, invitato in una casa dove al lusso delle argenterie e dei cristalli non corrispondeva altrettanta abbondanza di vivande, esaminò da ogni parte l'oca piuttosto sottoalimentata che aveva fatto con orgogliosa solennità la sua apparizione in un gran piatto d'argento, e mormorò fra la barba, quella folta barba nera che gli serviva da ammortizzatore alle più contundenti osservazioni: - Guardate, guardate il grazioso uccelletto. Con le sue zampine in aria sembra che dica: «Oh, quante persone si sono scomodate per me solo!». Articolo 9°: Consacra come un postulato questa verità: avere dei gusti (colori, cravatte, mostarde) è un diritto, e non condividere i gusti altrui è un altro imprescrittibile diritto, ma criticarli, discuterli o deriderli è mancanza di intelligenza e di cultura. Ammesso questo postulato, giungerai senza sforzi al corollario che il preoccuparti dei gusti dei tuoi invitati è un dovere. Se non conosci ancora i gusti dei tuoi invitati, li puoi interrogare per telefono, e non meravigliarti delle loro eventuali intolleranze. Il Maresciallo di Brezé sveniva alla vista di un coniglio, e l'astronomo Ticho-Brahé alla vista di una lepre; Erasmo da Rotterdam era colpito da un attacco di febbre alla vista di un pesce; Ambroise Paré e Alfredo De Musset tremavano davanti a un'anguilla, e molte persone sono allergiche per il profumo del tartufo. Il compositore Vaucorbeil aveva un tale orrore dei velluti, che quando era invitato in una casa per la prima volta domandava di che tessuto erano coperte le sedie. Conosco un'attrice cinematografica alla quale ripugnano le pesche; non ne dico il nome, perchè il suo nome, avvicinato alle pesche, mi provocherebbe un processo per parte del marito, sempre pronto a scoprire lo sfruttamento pubblicitario del nome della sua illustre, tenera e florida azienda domestica. La sensibilità tattile e olfattiva non si discute. Bisogna rispettarla, come si rispetta colui che, risalendo scimmiescamente attraverso i millenni lungo il suo albero genealogico, pianta i denti, con ancestrale voluttà, nel frutto intero. Lo scrittore Noel Clarasò ha detto che le vitamine sono l'invenzione di un tale che voleva giustificarsi di non saper sbucciare una mela. Articolo 10° : Se le ova, il burro, il pollo sono prodotti della tua fattoria, non metterlo in evidenza con la formula borghese «almeno si sa ciò che si mangia». Se sei un produttore di caviale o di olio o di datteri, non reclamizzare, per mezzo di quei campioni, la tua azienda. Il conte di Keyserling, in casa di un marchese francese, produttore di un famoso champagne, lo respinse, e col gesto di un moderno Nabucodonosor, reclamò: - Moët-Chandon, Moët-Chandon... Non ammetto altra marca! Articolo 11°: Da quando la medicina psicosomatica ha rivelato che l'uomo che mangia non è un semplice e squallido tubo digerente, abbiamo constatato che una buona digestione dipende anche dalle condizioni ambientali, dai colori che ci fanno cornice e dai suoni. Chiudi perciò l'apparecchio radio, affinchè nessuno per far sentire la propria voce sia costretto ad aumentarne il tono o il volume. Tu, padrona di casa, devi presentare, col timbro della tua voce, il tono giusto, come quel trombettiere che accompagnava Cicerone, per dargli, oggi si direbbe, il «la». Se tu, padrona di casa di un certo prestigio, parli sotto voce, tutti parleranno sotto voce, e si finirà col realizzare l'ideale espresso dall'umorista Miguel Zamacoïs, secondo il quale «bisognerebbe pranzare con dei sordomuti per assaporare come si deve un buon pranzo». Disgraziatamente le nostre tavole invece che cenacoli di sordomuti sono congressi di sordi urlanti. Articolo 12°: Non lasciarti esaltare, padrona di casa, dallo sfarzo. Si mangia bene esclusivamente nelle case dove non esiste un cuoco che debba giustificare degli stipendi né far onore alla propria firma, e nelle case dove la padrona «non sa far da mangiare». I pranzetti ideali sono quelli che si consumano negli ateliers degli artisti, dove si mangiano le sardine come escono dalla scatola, l'arancia come esce dalla carta velina azzurra e che tu stesso ti sbucci con i pollici, invece delle arcischifosissime «macédoines» di frutta, dove si consuma cioè un menu-standard, precedentemente concordato dove ognuno si siede dove vuole, scegliendo e cambiando di vicino, dove l'invitato ha l'impressione di non essere in casa d'altri, e dove - secondo la raccomandazione di Paul Claudel - il perfetto invitato è colui che fa in modo che il padrone di casa sia «à son aise», cioè si trovi comodo come in casa propria. La più bella innovazione dei tempi nostri nell'arte di convitare è la soppressione della tavola, che viene sostituita con una grande dispensa dove ognuno si serve di ciò che gli piace: pesce in bianco per chi ha lo stomaco rovinato o in salsa piccante per chi vuol rovinarselo, carne arrostita o sanguinante, legumi fritti o insalate, specialità locali o curiosità esotiche, e, col suo piatto in mano, va a mangiare un po' più in là, come i passeri. La padrona di casa evita con questo sistema che qualche sporcaccione formi le pallottole di mollica di pane, che qualche refrattario, non avendo il coraggio delle proprie opinioni, faccia scomparire una braciola di maiale o una fetta di torta nella cassa armonica del pianoforte o in un vaso cinese o che si commetta la gaffe di far passare sotto il naso di un vegetariano una «fritada de sangre» - specialità madrilena - o che si porgano «criadillas», testicoli di toro - specialità, di Valencia, - dell'ultimo toro ucciso nella corrida del giorno, alla pallida giovinetta che domani entrerà come novizia nel convento dell'Odoraciòn. L'«autoservizio» è il trionfo dell'indipendenza e dell'autonomia; colloca tutti sul medesimo piano e ti permette di rimanere per ultimo o di andartene per primo senza interrompere il servizio, anche prima delle ore 23,30, momento fatale in cui le insopprimibili poetesse, insistentemente pregate, dichiarano di non saper nulla a memoria, ma - vedi combinazione! - si ritrovano nella borsa una mezza dozzina di poemi inediti e un volume stampato.

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Aristide Briand, presente, si volse a un vicino e mormorò: - E' il ritratto di imbecille più riuscito che io abbia udito finora.

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Ma poichè c'è il pericolo che gli ultimi piatti (cacio e torta) mutino la mensa in una tribuna, l'invitato che vuol digerire tranquillo abbia la precauzione, al momento di mettersi a tavola, di prevenire l'anfitrione che alle 23,30 dovrà andarsene per un impegno imprescindibile. Se, scoccata quell'ora, crederà opportuno ritirarsi, nessuno deplorerà la sua defezione; se invece i liquori, o una donna, o la prospettiva di un affare o il tepore del camino gli suggeriranno di rimanere, la sua rinuncia all'impegno imprescindibile apparirà come un gesto di simpatia verso i padroni di casa.

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Durante il pasto si deve sganciare il telefono, se non si ha un servo che con una formula precisa, prima che l'interlocutore abbia detto il proprio nome, sappia rispondere che il padrone è a tavola e ha degli amici. Una persona educata non telefona dalle 12 alle 14,30 né dalle 20 alle 22, se non è più che sicura che l'altro abbia un segretario o un maggiordomo. Per nessun motivo il padrone di casa si alzerà da tavola per telefonare, e solamente un ostetrico è autorizzato a dare il numero di telefono della casa dove è invitato. Nemmeno il comandante dei pompieri. Nemmeno il Capo della Polizia. Nemmeno il Ministro degli Interni. All'atto di mettersi a tavola non si aspetterà che il padrone di casa domandi se ci si vuole lavare le mani. Dopo aver stretto tante mani nei saluti e nelle presentazioni, aver guidato l'automobile o toccato i denari per pagare il tassì, o essersi aggrappati alla maniglia del trolleybus, è naturale che le mani debbano essere deterse. Il padrone di casa accompagnerà l'ospite al bagno e gli porgerà l'asciugatoio senza dirgli «lì c'è il sapone». Il sapone lo vede da sè. E l'invitato non si guarderà le unghie prima di adoperare la spazzola. Se le spazzolerà senza preventivamente esaminarle. Se si vuole che le unghie siano costantemente bisogna spazzolarle anche quando pare che non ce ne sia bisogno. Una casa dove non esiste la spazzola per le unghie si guardi dall'invitare a pranzo. Non è nemmeno degna di offrire un té. A proposito di té. Quando è finito, non si chiama la cameriera per dirle di «aggiungere dell'acqua calda». La si chiama per dirle di preparare un altro té. L'acqua calda sulle foglie già sfruttate produce un estratto di tannino che può servire per gargarismi, per conciare le pelli o per fabbricare l'inchiostro, ma non produce del nuovo té. E se offri il té, questa risorsa mondana delle famiglie «economicamente deboli», non domandare se lo prende con limone o col latte. Fai servire latte e limone, senza fare domande. E che non manchi la bottiglia del cognac.

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In Italia questa manifestazione darebbe delle inquietudini all'ospite, il quale, vedendo ripetersi due o tre volte di seguito il gesto, avrebbe motivo di domandarsi: «possibile che stasera io non ne abbia indovinata una?» Ma il cileno bene educato, invitato in una casa romana o fiorentina, si informa in precedenza degli usi e costumi italiani, come farai tu quando entrerai in una casa di Santiago o di Valparaiso. In Cina, ai tempi dell'Impero e dei piedi femminili sferici, l'ospite di un generale o di un mandarino si vedeva presentare, alla fine del pasto, un piatto di riso bollito; egli doveva guardarlo, ma respingerlo. L'anfitrione porgendo quel piatto di riso intendeva esprimere all'invitato che tutto ciò che gli aveva fatto servire prima non era altro che una serie di « amuse-gueules », di effimeri trattenimenti, e l'invitato, rifiutando il piatto di riso, gli rispondeva simbolicamente che i preliminari lo avevano saziato e soddisfatto. In Scandinavia, dopo le frutta, il vicino di destra della padrona di casa si leva per pronunciare con poche frasi l'elogio del pranzo, della casa, degli ospiti e in particolar modo della signora. E' quindi raccomandabile a colui che prevede di essere l'invitato più importante, di prepararsi un piccolo speech. Non è necessario che citi la musica di Grieg, i drammi di Ibsen, né il genio politico di Gustavo Adolfo, né il fascino di Greta Garbo e di Ingrid Bergman. Basta rimescolare, come in tutti i discorsi di circostanza, le solite insulsaggini che avrà udito altre volte in analoghi speeches. In Polonia gli uomini baciano la mano della padrona di casa in segno di gratitudine. Alcuni lustri or sono le donne, in Europa Occidentale, passavano nel salotto e gli uomini si ritiravano nel fumoir. Oggi nei paesi anglo-sassoni e nell'America Latina gli uomini si indugiano nella sala da pranzo per qualche minuto prima di raggiungere le signore, questo elemento decorativo e musicale da non trascurarsi nemmeno per brevi istanti nella sinfonia intellettuale, sentimentale, estetica di una soirée. Allo stesso modo che la moda, secondo la definizione di Lin Yutang, non è che una variazione dell'eterna lotta fra il desiderio confessato di vestirsi e l'inconfessato desiderio di spogliarsi, così l'arte di comportarsi nella società è un gioco di equilibrio fra le stupidaggini consacrate e le delicate ribellioni individuali. E' la replica alla sentenza «si è sempre fatto così», e la risposta alla domanda «ma perchè si dovrebbe continuare?» E' la conciliazione fra il buon gusto, frutto di un'educazione estetica, e la tradizione. A costo di dare una pugnalata nel cuore a qualche tenero nipote, gli ho consigliato di lasciare a casa la zia, la buona, la cara, l'impareggiabile zia che fu la sua seconda mamma, ma che quando fra un piatto e l'altro il cameriere le vuol cambiare le posate, dice «oh, non si disturbi!», o il consanguineo di non so quale grado, che finito il caffé e fumata la sigaretta, butta il mozzicone a spappolarsi in fondo alla tazza, nelle ultime gocce di caffé. Le belle maniere sono il punto di arrivo di tutta un'educazione, il risultato di una serie di osservazioni e il prodotto di una disciplina. Chi vi contravviene per ignoranza o per mancanza di raffinatezza innata non se ne può rendere conto, ma imprime un urto carico di conseguenze agli individui di più sottile sensibilità. Quel signore che entra per la prima volta in casa tua, e per prima cosa accende una sigaretta; quel signore che si presenta alla tua porta senz'averti telefonato prima; colui che ti mette nella lettera il francobollo o, se vivi all'estero, quel fastidioso «coupon-reponse international», presentano, con questi stupidi gesti, la Wasserman, la temperatura e la pressione arteriosa della loro mediocre personalità. Non si meraviglino perciò delle possibili reazioni. Il poeta Ernesto Ragazzoni, che si era foggiato uno stile mentale su Edgar Poe, Oscar Wilde e Baudelaire, una sera, cedendo alle insistenze di un amico, aveva accettato un pranzo offerto in un gran restaurant da un arricchito di recente data, che dopo un violento piatto di pasta asciutta si sbottonò l'ultimo bottone del gilet e invitò il poeta, dandogli una confidenziale manata sulla spalla, a fare altrettanto, e proclamando: Nella vita bisogna fare i propri comodi. Il poeta si levò, posò il tovagliolo, e disse all'amico: - Io me ne vado. Perchè non mi avevi detto che si trattava di un bifolco simile? E fece bene. Il denaro compera tutto e corrompe tutte le coscienze, ma non conferisce il diritto di contravvenire alle regole dello stile, soprattutto a quelle che non furono scritte. Qualche strappo se lo può permettere colui che, avendo fatto della propria vita un'opera d'arte, contravviene a qualche norma, in piena coscienza di contravvenire. Un aristocratico veneziano che contava nel suo albero genealogico dei magistrati e degli ammiragli, dei cardinali e dei dogi, invitò a pranzo all'Hotel Danieli una minorenne, una sgualdrinella dell'ultimo raccolto, piuttosto di bassa origine, ma graziosa, vivace e decorativa. - Bambina mia - le disse l'aristocratico, fermandole la manina che stava strofinando il fondo del piatto con un pezzo di pane per raccoglierne il sugo - questo non si fa. La signorina trangugiò la lezione e abbandonò a malincuore quel sugo aromatico e dorato che, per usare le parole di Duvernois, sembrava sceso dal pennello di Rembrandt. Otto giorni dopo i due si ritrovarono a pranzo, e l'aristocratico intinse il pane nel sugo di un «poulet en cocotte». - Mi avevate detto - osservò la ragazza - che non sta bene intingere il pane nel sugo.... L'aristocratico rispose: - Io posso farlo, perchè da ottocento anni so che non si fa. Tu, no, perchè lo sai solamente da otto giorni.

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Qualora si abbia interesse a legarsi il poeta per la vita e per la morte, conviene studiare a memoria due sue parole, e infilarle nella conversazione quando meno il poeta se lo aspetta. Voi raccontate, per esempio, che un cane ha morso il portalettere. Dite: - Il portalettere, questo messaggero della Fatalità, come dice il nostro poeta... Le «pensioni» del Re Sole e le borse di monete d'oro che Mecenate e i Medici buttavano agli intellettuali di Roma e di Firenze erano pugni di fichi secchi al confronto di una citazione ben collocata. Il poeta da quell'istante penserà che siete il critico più avveduto del mondo e della storia, da Aristotile ai giorni nostri, e si presterà a giurare il falso per voi in tribunale e a spaccarsi le arterie dell'avambraccio il giorno che avrete bisogno di una trasfusione di sangue (in questo dannato caso però vi consiglio di non rivolgervi a un poeta). Se questo è il metodo da seguire con i letterati di scarto, con i letterati di valore la condotta è diversa. Il sistema meno impegnativo è collocare i loro libri bene in vista negli scaffali e non parlarne mai ai loro autori. Alphonse Karr si lagna delle persone che vengono «a lodarvi preci- samente per ciò che voi, autore, trovate detestabile in una delle vostre opere, o vi confondono con un altro». A una mia ammiratrice di Buenos Aires che pretendeva di aver letto tutti i miei libri domandai quale le era piaciuto di più. Dopo un lungo momento di perplessità mi rispose : - Le Mille e una Notte. Quando si ha la fortuna di vivere al di fuori del mondo delle lettere e di fare qualche cosa di più utile alla alla patria, alla società, all'industria o all'agricoltura, è raccomandabile la risposta che un droghiere parigino, nel febbraio 1830, qualche giorno dopo la battaglia per l'Hernani, diede a una masnada di studenti decisi a strappargli un giudizio su quel dramma, che segnava la nascita del Romanticismo, dichiarandosi per la scuola classica o per la scuola romantica. - Je suis épicier - rispose; cioè io sono droghiere.

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C'è un ultimo caso: che il padrone di casa abbia dei «fadings» nella memoria. E allora dica: - Presentatevi da voi. E i due dovranno dire, chiaramente, senza trasformare il loro nome in un sospiro né in un fischio : - Io sono Gianni Finlandia, giornalista. - Io sono Renato Taddei, professore di Diritto Internazionale all'Università di Roma. Senza aver l'aria di domandare: - E chi non mi conosce?

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In omaggio a questo principio, in certi grandi alberghi internazionali brilla un cartello con questo aforisma: «Il cliente ha sempre ragione», e in certi magazzini degli Stati Uniti si è messo in scena un piccolo dramma, meritevole di essere riassunto: il cliente o la cliente insodisfatta chiama il capo reparto, il quale risponde: - Mi pare che lei abbia ragione. Nell'interesse della casa, la prego di favorire all'ufficio reclami. Proiettata su un ascensore, la persona carica di fulmini di scintille viene introdotta nello studio di un signore che ascolta le lagnanze, prende degli appunti, offre delle sigarette, un whisky, un gelato e un té a seconda dell'ora, della stagione e del sesso, e preme un campanello: - Chiamatemi il signor Smith. Il signor Smith si presenta con un pallore di sonnambulo, e il severo funzionario riassume il fatto esposto dalla signora, e conclude : - Poichè quel commesso è alle vostre dipendenze e voi siete responsabile del personale, consideratevi licenziato. Passate alla cassa a ritirare ciò che vi spetta, perchè da questo momento non fate più parte della Casa. Il cliente esce, elettrizzato per aver stravinto. Il rimorso di aver messo sulla strada un padre di famiglia gli impedirà di tornare almeno per qualche tempo a fare delle lagnanze e delle proteste. Ma se il giorno dopo o dopodomani, o il prossimo lunedì si presentasse all'ufficio reclami, per nuove lagnanze, ritroverebbe il severo funzionario deciso a dargli ragione, a convocare il responsabile signor Smith, a licenziarlo sui due piedi, perchè il signor Smith pagato dalla casa per recitare la parte del capro espiatorio che, consacrando il principio che il cliente ha sempre ragione, si presta a farsi mettere sul lastrico mezza dozzina di volte il giorno.

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