Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170081
Mantegazza, Paolo 26 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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E perchè il libro abbia meglio a rispondere alle condizioni nuove di vita e alle esigenze dei lettori, che hanno ormai gusti letterari moderni e più raffinati, abbiamo incaricato il prof. Andrea Ferrari di rendere la forma più snella e più corrente, alleggerendola in taluni punti, in altri sostituendo le espressioni alquanto antiquate, ritoccando qua e là il periodare talora prolisso e stanchevole. Ma in questo tentativo di ammodernizzare la forma, e soprattutto di aggiornare il contenuto secondo le nuove scoperte e gli ultimi portati della scienza, è stata nostra cura precipua quella di lasciare integra la sostanza; sia pel dovuto riguardo all'autore, sia soprattutto perchè la materia è trattata dal Mantegazza con squisito senso artistico e scientifico, con tatto particolare, e sotto ogni punto di vista in modo esauriente e completo. Dalle prefazioni, che l'autore ha premesso alle prime edizioni, ci piace riportare qui il «Decalogo di Epicuro», che il Mantegazza ha posto in fronte al suo libro, come guida e ammaestramento «con cui ognuno potrà essere uomo felice, purchè lo voglia».

Per rimediare a questo difetto, pare che la natura abbia voluto mettere in noi un altro sentimento di riserva, il quale, essendo di ordine meno ideale, può essere facile a tutti: l'onore. Se al sentimento purissimo e trasparente della nostra dignità aggiungiamo una dose infinitesima di amor proprio, che è di colore molto spiccato, noi diamo al primo una tinta visibile agli occhi miopi. Basta per questo far subire alla nostra dignità una seconda riflessione, coll'emanarla al di fuori di noi sulla coscienza dell'umana società. Allora il raggio purissimo della nostra immagine morale si associa a qualche cosa di plastico e di sensibile, e noi, ricevendolo di ritorno nella nostra coscienza, lo sentiamo più intensamente. L'onore è uno dei sentimenti più indefinibili, perchè è un vero mezzo termine, un'immagine di mezza tinta adattata dalla natura alla umana debolezza. L'uomo di cuore elevato si difende da ogni bassezza, col solo sentimento della propria dignità, e l'onore per lui non è che un sinonimo. Se anche fosse isolato dall'umanità intera, non si abbasserebbe mai di una linea, perchè egli rispetterebbe la propria immagine morale come cosa santa, e non potrebbe tollerare i rimproveri del proprio alleato. L'uomo mediocre, invece, ha bisogno dell'aiuto dell'umanità intera per non venir meno alla propria dignità; ha bisogno del terribile spauracchio del disonore per non darsi vinto al primo cozzo d'armi. L'uomo elevato vede aperto il santuario e nudo il dio; mentre l'uomo volgare ha bisogno del tabernacolo e della reliquia, e l'umanità intera gli va ripetendo, che sotto lo splendido manto carico d'oro e di gemme, ch'egli adora, sta un dio formidabile che non si può impunemente offendere. In questo modo egli ubbidisce ad una potenza misteriosa che, curvandogli la cervice, non lo lascia guardare in alto, e il di cui nome basta a farlo tremare. Egli è superstizioso, mentre l'uomo che sente la propria dignità è religioso. Man mano che l'onore si va allontanando dal suo primitivo tipo di perfezione, esso si avvicina all'amor proprio, finchè si confonde colla vanità. Le pareti del tabernacolo si vanno ingrossando sempre più, mentre il dio che vi sta racchiuso si va facendo piccino piccino, finchè scompare del tutto. In questo modo può darsi che un uomo non si abbassi mai ad una viltà senza avere palpitato al sentimento della propria dignità. Egli ha ubbidito ad un codice che ha trovato già scritto nascendo, egli ha adorato un dio che non aveva mai conosciuto. Le leggi che regolano i piaceri della propria dignità e dell'onore sono le stesse, perchè sono determinate da un'identica natura. Essi sono quasi sempre negativi, cioè derivano, dalla riparazione di un'offesa. La dignità e l'onore non possono mai transigere senza portare se stessi alla perdizione; per cui, rimanendo immacolati, producono una gioia calma, che il più delle volte non si fa sentire. Quando invece sono messi in pericolo di vita, essi sorgono animosi alla riscossa e si riposano gioiosi sui loro altari. La nostra dignità non si compiace che delle grandi battaglie, mentre l'onore è fatto per le scaramucce. Nei grandi fatti d'arme esso fa da bersagliere. L'influenza di questi piaceri si esercita su tutti i sentimenti anche i più nobili e generosi, e la virtù è sempre il primo convitato alle loro feste. Leggendo la storia, si trovano molte azioni eroiche che si devono alla sodisfazione di questi sentimenti, e scorrendo negli archivi della memoria, ognuno può ricordarsi di aver provato queste gioie. Fortunatamente l'onore non è lettera morta che per pochissimi. L'uomo e la donna sentono ugualmente la propria dignità e l'onore; ma l'espressione di questi sentimenti riesce più seducente nella donna, perchè il coraggio morale, compagno della debolezza fisica, ispira maggior simpatia e ammirazione.

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Pochissimi fortunati con un solo colpo d'occhio misurano il secolo in cui vivono e la distanza che devono percorrere; e, gettandosi a corpo perduto nella strada che pare la natura abbia fatta per essi, corrono rapidamente alla loro meta. Quasi tutti coloro però che avrebbero diritto di aspirare alla gloria, messi nel centro che da sè dirama come tanti raggi le vie della scienza, corrono forsennati qua e là, senza sapere dove inoltrare il passo. Con lo sguardo vanno osservando tutte le strade, e nella baldanza del loro giovane cuore vorrebbero gettarsi in tutte ad un tempo, o percorrerle successivamente. Più d'una volta s'inoltrano di alcuni passi in un sentiero, e, impazienti di trovarlo troppo angusto o soverchiamente lungo, ritornano insodisfatti al centro donde sono partiti, maledicendo nel loro insano furore la natura che non concede ad essi una vita di secoli. Ma, infine, spossati dalle inutili aspirazioni e dalla lunga lotta, gettando un ultimo sguardo di desiderio alle regioni che non potranno percorrere, entrano rassegnati e tranquilli in una qualunque delle vie e vi si adattano per la vita. L'amor della gloria non può essere consentito che al genio, e pei mediocri è una profanazione o una bestemmia. La grandezza di questa passione proporzionata all'altezza della mente che la guida, ed anche quando arriva al fanatismo, essa arde e divora l'uomo che la sente, ed illumina l'umanità. Più d'una volta il genio si è offerto vittima spontanea sull'altare dell'umana civiltà, e ardendo se stesso è brillato in mezzo alle tenebre e si è spento. Egli ha acceso il proprio rogo, ma l'umanità, rischiarata da quel raggio, ha fatto un passo avanti in attesa di una nuova vittima e di un nuovo lampo di luce. Le turbe che formano l'umana famiglia sono mandre di ciechi che brancolano nelle tenebre e dirigono i loro passi nei sentieri determinati dallo spazio e dal tempo. Ma un solo genio compare, e gli occhi attoniti delle moltitudini a lui si rivolgono cercando luce e calore. Ed egli illumina i loro passi, e colla sferza della sua volontà obbliga a correre per un istante, onde guadagnare il tempo perduto; e finchè egli brilla, gli uomini gli corrono dietro, e a fuoco spento, quando l'astro è tramontato, l'umanità riprende il cammino per le sue vie. Le gioie della gloria brillano come soli, ma si acquistano a caro prezzo. Appena il genio si inoltra nella via che si è tracciata, mille nemici gli muovono contro cercando di arrestarlo nel suo ardito viaggio. I pregiudizi, l'invidia, l'odio, l'ignoranza, gli fanno inciampo ad ogni passo, ma egli lotta coraggiosamente per vincere e tirare innanzi. Nè questo basta: egli aspira con furore agli applausi, alle corone d'alloro, ai trionfi; ma invece più d'una volta percorre lunghissima via senza che un solo applauso ne rianimi gli spiriti affranti, senza che una mano pietosa lo sostenga nell'aspra lotta, o gli additi all'estremo orizzonte il premio che lo aspetta. Egli cammina solo e muto, per cui spesso teme di avere sbagliato la via, o di parlare in una lingua che gli altri non possono intendere. Allora si arresta esitando, e domanda a se stesso se veglia o sogna, se pensa o delira; finchè, confortato dalla propria coscienza, che riflette la sua mente in tutta la sua grandezza, prende coraggio e va innanzi. Spesso la gloria non è raggiunta che presso la fine del lungo viaggio; qualche volta ancora essa non depone la sua corona che sopra un cadavere, o sul freddo sepolcro manomesso dagli archeologi. Una vita consacrata alla gloria si può quasi sempre rappresentare con un fondo radioso di speranza, trapunto qua e là con foglie avvizzite di alloro. Il lampo di un momento di gloria sfavilla però di tanta luce, che basta ad illuminare l'oscurità di lunghi anni di fatiche e di miseria. Il delirio il più sfrenato non basta in quell'istante ad esprimere la pienezza della gioia che trabocca da ogni parte e non trova nei poveri mezzi del nostro organismo segni che bastino a rappresentarla. Eppure il genio, quando non spregia la gloria con fervido senso di superiorità, non si accontenta quasi mai dell'apoteosi più sublime, e, guidato dalla sfrenata fantasia, sogna glorie maggiori e più splendidi trionfi, e numera, con l'avidità dell'usuraio, i capitali della mente per vedere se può trarne ancora un interesse maggiore.

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Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Questo non gli impedisce di essere uno dei migliori galantuomini e dei cuori più generosi ch'io abbia mai conosciuto. L'amore del furto è, fortunatamente, una malattia sporadica che non arriva mai a farsi epidemica, e che compare qua e là nei due sessi e nei diversi paesi senza regola e senza misura. La civiltà può influire sul numero dei ladri di professione, ma non nella statistica dei dilettanti dell'arte, i quali nascono spontanei come i geni e da soli si sviluppano, arrivando qualche volta a un grado molto pericoloso di perfezione. Quando la presenza di estranei non impedisce al ladro di esprimere le sue gioie, egli ride di cuore, o sorride, o si frega le mani; ma in qualunque modo la sua fisonomia presenta sempre un'aria maliziosa, che svela il carattere morboso della sua gioia. Più d'una volta egli burla la persona derubata, come se fosse presente, arrivando in questo modo a render ridicola a' suoi occhi una disgrazia che deve far soffrire gli uomini dabbene, offendendo in loro il sentimento del giusto.

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L'uomo, animale destinato a vivere in società, deve avere necessariamente un legame morale che lo unisce a' suoi fratelli, e la natura gli ha concesso un affetto primitivo che nasce in lui e con lui muore, e che, oscurandosi nelle burrasche più violente delle passioni, torna però sempre a risplendere nel cielo, appena la calma abbia diradato le nubi che hanno ottenebrato l'orizzonte del cuore. Questo sentimento lega quasi tutti gli uomini per mezzo di un filo misterioso, facendone un sol corpo, un solo individuo. I mari e i monti sembrano dividere qua e là la catena che lega gli uomini da un punto all'altro della terra, e gli odii delle nazioni e dei governi spezzano violentemente il filo degli affetti; ma la corrente emanata da un popolo che soffre o esulta, che s'innalza o si abbassa, se non può correre con rapidità telegrafica, si diffonde però lenta e calma una superficie della terra ed arriva a confondersi con la corrente sempre viva, che produce da ogni parte l'umana famiglia, divisa ne' suoi innumerevoli alveari. Qualche volta una scintilla emanata dal genio ha impiegato molti secoli a far sentire la sua scossa all'umanità intera; ma nessuna corrente è andata mai perduta, e nella vita morale che riceviamo per eredità di nascita e di educazione, si confondono ancora misteriosamente le conquiste di Alessandro, la caduta dell'Impero romano e le guerre dei Crociati. L'oscillazione partita da Betlemme, or sono venti secoli, va diffondendosi ancora nelle estreme regioni dell'Australia, a cui misteriosamente si affiancano i fremiti partiti dalla Mecca. A scosse impetuose, o per correnti insensibili, il minimo movimento fa oscillare l'umanità intera, l'elidersi e l'incontrarsi misterioso di mille fremiti che partono da ogni punto del mondo abitato costituiscono la vita morale dell'umana famiglia. Nei grandi centri della civiltà, dove gli operai della macchina sociale formicolano laboriosi, le scintille partono senza posa; e diffondendosi per la rete delle strade ferrate e dei telegrafi, fanno muovere le nazioni d'Europa e d'America ad una vita agitate e turbinosa; mentre nelle lontane colonie, le correnti emanate dalle grandi pile della civiltà, arrivano deboli e lente, sicchè non producono più nè scintilla, nè scossa. A poco a poco per la forza della pila si accresce, i fili telegrafici, per i quali corre il pensiero, si moltiplicano, e noi ben presto dal centro dell'Europa potremo far palpitare con noi della stessa vita i selvaggi della Patagonia e quelli della Micronesia. In ogni modo un sentimento collega l'uomo all'uomo in un moto di simpatia. Indeterminato e confuso, questo affetto è il fondo sul quale si intrecciano tutte le passioni più o meno violente che legano fra loro alcuni individui, e ben di rado si mostra in tutta la sua semplicità e senza che il cuore v'abbia trapunta qualche immagine più viva. Due uomini, che provano il piacere di avvicinarsi, soddisfano il più semplice di tutti i sentimenti di seconda persona, che potrebbe chiamarsi affetto umano e sociale. Ben di rado però questa gioia esiste da sola, perchè l'oscillazione comunicata a questo sentimento, trae quasi sempre in simpatia d'azione altri affetti che lo elidono o lo ravvivano. Così, se due uomini che si incontrano si fanno paura, l'amore di se stessi oscura subito il piacere di vedersi, ed essi si allontanano o si mettono sulla difensiva. Se invece i due uomini parlano una stessa lingua e si conoscono a vicenda, associano al piacere di sodisfare il sentimento sociale, la gioia intellettuale di comunicarsi i propri pensieri. L'affetto sociale è soddisfatto tutte le volte che noi accomuniamo la nostra vita con quella di un altro uomo, sia che guardiamo semplicemente, insieme ad uno sconosciuto, uno stesso oggetto, sia che ci trovi assieme a migliaia di persone ad assistere allo stesso spettacolo. La parte misteriosa che prende questo sentimento a tutte le nostre gioie, viene espressa complessivamente della parola compagnia; ma riesce molto difficile a definirsi. Nello stesso modo che probabilmente in tutti i corpi trovasi misteriosamente celato qualche imponderabile, così in quasi tutti i nostri piaceri entra, come elemento indispensabile, l'affetto sociale: anche in moltissime gioie individuali, senza volerlo, si vive e si gode insieme a un'immagine che è fuori di noi. L'egoista più perfetto può isolarsi finch'egli vuole, ma è pur sempre un membro dell'umanità che deve con essa soffrire e con essa godere; e l'uomo individuo può resistere fisicamente, ma non moralmente; perchè l'uomo-completo, l'uomo fisiologico è sociale e vive insieme all'umana famiglia, anche quando vuol isolarsi da essa nella solitudine più profonda. L'uomo che ha vicino un altro uomo, e non ha alcuna ragione di odiarlo, anche senza vederlo lo sente, e senza saperlo comunica moralmente con lui. Supponendo che un uomo privo di tutti i sensi, tranne del gusto, sappia di essere a tavola con altre persone, egli ne sente la presenza e gode della loro compagnia. In questo caso il suo piacere è semplice e puro, e non deriva che da una sodisfazione passiva del sentimento sociale; egli non vede nè ascolta i suoi vicini, ma sa di essere in mezzo ad esseri della sue specie, e ne gode. Questo affetto però è così delicato, che si lascia modificare dalle passioni più miti. Così basta che il povero cieco e sordo-muto pensi un momento alle sue sventure, perchè il dolore cancelli il piacere ch'egli prova, e, invece di amare i suoi commensali, li invidi e li odii. Il sentimento sociale non ha che un carattere vago e indistinto quando ci mantiene allo stato di potenza, ma prende invece una forma determinata quando passa allo stato di forza attiva. In questo passaggio esso presenta il carattere speciale di tutti gli affetti, di seconda persona ai quali serve di sfondo, e che tutti rappresenta nelle leggi fondamentali che lo reggono. L'egoista e il superbo possono agire con veemenza e passione per sodisfare i loro piaceri prediletti, ma riflettono sempre in se stessi lo scopo dell'azione; mentre l'uomo che ama di qualunque affetto un suo fratello, pone la sodisfazione del proprio sentimento fuori di sè e si rallegra delle gioie altrui, provando un piacere molto maggiore, quando egli stesso direttamente ridesta nell'altro la gioia.

Pagina 152

Domandate ad una donna che ama, se ella abbia trovato nei cento volumi di letteratura e nei romanzi che ha letto, una storia esauriente dell'amore. Ella vi risponderà sorridendo che i libri hanno spigolato qua e là qualche gemma del tesoro, hanno involato qualche scintilla del vulcano; ma che la storia dell'affetto che le rode il cuore e le divora la vita col piacere e col dolore, non è stata mai scritta e forse non lo sarà mai. Nè io tenterò di tracciarla, e le donne che mi leggeranno potranno accusarmi di ignoranza, ma non di superbia. Per quanto sia smisurato l'arsenale di forme alle quali può ricorrere l'amore, esso in generale è costituito dal bisogno del riavvicinarsi dei due sessi, che devono comunicare la vita alla materia e formare un nuovo individuo. La parte che prende il sentimento in questo fenomeno è costituita dal sentimento dell'amore, il quale può arrivare a tal grado di potenza da far dimenticare lo scopo ultimo. È in tal modo che moltissimi si rifiutano ad ammettere che il fine essenziale e necessario dell'amore sia il congiungimento dei sessi, e credono che la definizione di questo sentimento, com'io l'ho data, tenda ad avvilirlo. La verità non può mai abbassare ciò ch'essa impronta del suo suggello. L'unione dei sessi non è un'azione brutale, nè vile: è legge necessaria di natura, è fenomeno fra i più belli della vita, e che solo l'uomo può deformare e avvilire colla prostituzione della morale, come può fare delle cose più belle e più sante. Si può amare, e violentemente, di purissimo affetto platonico, senza neppure pensare all'amplesso; ma nell'ordine, naturale delle cose, questa passione è sempre fondata sull'idea fondamentale del sesso e della generazione. Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

Pagina 167

Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

Pagina 186

La speranza non è un sentimento primitivo, nè una forza originale che abbia un punto fisso di partenza e una sua regione unica e necessaria, ma è soltanto un atteggiamento degli affetti, un'oscillazione del desiderio verso una meta, uno dei fenomeni più delicati e interessanti del mondo morale. È un desiderio, è un bisogno, è il profumo di un affetto che cerca un altro affetto è una vela che cerca la brezza d'una forza intellettuale che la possa sospingere. Il desiderio, intemperante e leggero, si innalza dapprima rapido e veemente, senza consultare la bussola, senza fiutare il vento e fors'anche senz'aver mai conosciuta la meta che deve raggiungere nè la strada che deve percorrere. Baldo e impaziente, non aspira che a salire, e, elevandosi, gode del moto concitato e libero, senza guardarsi attorno e senza dubitare. Ma non sempre la meta è raggiunta, e il caso ben di rado fa seguire la strada retta che riunisce il bisogno al piacere. Più spesso la nube leggera e vaporosa del desiderio, dopo essersi elevata rapidamente nelle regioni superiori dell'atmosfera, si arresta incerta e pende oscillante nell'etere. Là spirano lenti, tiepidi e profumati gli zeffiri, e sostengono mollemente sulle loro ali azzurre il desiderio che, senza salire nè discendere, vibra ed oscilla. Quel moto soave è la speranza, quella regione immensa è il campo a cui si elevano tutte le umane passioni, è il limbo dove i desideri stanno sospesi fra il cielo e l'abisso, aspettando la vita o la morte. Voi tutti dovete conoscere quella regione, perchè voi tutti certamente avete desideri che aleggiano sull'estremo orizzonte dei vostri sogni, e che vibrano del moto armonioso della speranza; voi tutti dovete avere colà le vostre nubi sospese, voi tutti dovete seguire con trepidazione le vicende delle vostre navicelle scorrenti su quel mare senza confini. Sì, un oceano senz'onde, ma temibile nella bonaccia e nella tempesta, e le nubi leggere del desideri che vi stanno sospese tremolano sempre incerte e paurose. Sono così delicati quei fiocchi di vapore che, scossi appena oltre la molle ondulazione della speranza, soffrono il timore, vero mal di mare di quell'oceano misterioso. Di quando in quando una nube oscillante a lungo precipita d'improvviso, colpita da un freddo mortale che l'ha condensata. Allora il moto della speranza cessa, e il dolce dolore tien dietro alla gioia. Altre volte un benefico raggio di sole arresta il desiderio nella sua caduta, e la nube, espandendosi leggera, oscilla ancora al moto soave della speranza e si innalza di nuovo. Così avviene che spesso gli umani desideri, in una vera altalena morale, pendano tra la speranza ed il timore, ed or salendo, or precipitando, occupano la vita. Qualche rara volta il desiderio, dopo aver vibrato del moto della speranza, si innalza rapido e diritto, e raggiunge la meta. In tutti questi movimenti, in tutta questa vita meteorica e nebulosa l'uomo passa la più gran parte dei suoi giorni, godendo delle gioie più vive, o soffrendo le più atroci delusioni. La ragione principalissima che rende tanto seducente la speranza è il moto incerto e alterno del desiderio, il quale aspetta e non dispera, vede ad ogni momento lo scopo, e ad ogni istante crede di poterlo raggiungere. Molti dei nostri desideri, dopo essere apparsi all'orizzonte nel primo spuntare della ragione, rimangono sempre oscillanti allo stesso posto fino alla morte. Più d'una volta la formula della vita di un uomo potrebbe essere rappresentata da un'unica nube, che paziente e sicura aspetta al medesimo posto il vento che dovrebbe innalzarla o abbassarla in mezzo alle intemperie e alle procelle dell'esistenza. Le gioie più vive però si provano quando il desiderio, oscillando di speranza, s'innalza a un tratto verso la meta. Vi è una vera e suprema voluttà in quella ascesa. La massima gioia si prova nel momento in cui la speranza diventa realtà, quando l'ultima oscillazione del desiderio che si perde si confonde col primo fremito della sodisfazione che comincia. Un'altra sorgente fecondissima di gioia deriva dall'alternarsi della caduta con la salita, del timore con la speranza. Per alcuni individui la tempesta agitata di queste incertezze costituisce anzi la massima voluttà. Tutti possono rammentare la trepida ansia di qualche momento della vita, nel quale si passa improvvisamente dalla speranza al timore, o dal dolore alla gioia. Una lettera impazientemente aspettata a lungo, e forse ormai non più sperata, ci arriva. I caratteri dell'indirizzo ci sono sconosciuti, ma il timbro della posta ci fa ritenere che quel foglio non possa assolutamente venire che da quell'unica che sopra tutte abbiamo in mente. La speranza più soave ci fa sospirare e sorridere: trepidanti guardiamo la lettera senza osare di aprirla. Là dentro vi è forse già segnata in nostra sentenza, là forse sta scritto il destino del nostro avvenire. L'impazienza ci consuma, ma il coraggio ci manca; e, guardando e riguardando, cerchiamo di indovinare dal modo in cui è scritto l'indirizzo, e fin dal modo con cui la lettera è stata suggellata le disposizioni dell'animo di chi ce l'ha indirizzata. Finalmente, dopo uno sforzo energico, la busta è rotta, il foglio è aperto, l'occhio avido e irrequieto corre alla firma, misura la lunghezza dello scritto e la commenta... Un rifiuto non potrebbe essere così lungo, una risposta consolante non sarebbe così breve. Tutto tortura e tutto consola, e passando dalla speranza al timore, in brevissimo intervallo di tempo proviamo uno spasimo di gioia e di dolore che non ha nome. Fra la disperazione e la felicità sta un deserto immenso, sul quale la speranza semina un sentiero di molle erbetta, che, ristrettissimo dapprima, va man mano dilatandosi fino a formare un vasto prato sempre fiorito, un vero eden di delizie. I gradi della speranza sono infiniti e si può dire che essa muta di volume ad ogni istante, tanto è sensibile ai minimi cambiamenti di temperatura, che or la condensano ed or la espandono. Tutti gli uomini sperano, ma non se ne trovano due soli che abbiano lo stesso capitale di speranza: l'uno è milionario e l'altro è pitocco; l'uno impiega i suoi fondi al cento per uno, e l'altro a stento ne ricava l'uno per cento. L'interesse della speranza è la gioia; ma come vi sono capitali che non dànno interesse, così vi è qualche speranza che non produce piaceri. Allora bisogna intaccare e divorare il capitale, misurandolo colle pretensioni della fame e coll'avarizia della miseria. Qualche volta, dopo aver consumato tutta la propria sostanza, bisogna vivere di elemosina, e in questo caso fortunatamente si trova molta generosità: tutti sono pronti a offrirvi il loro obolo e a mostrarsi caritatevoli. Quando poi non vi sentite di abbassarvi all'umiliazione dell'accattone, privatevi di qualcosa e andate a comperare un po' di speranza. Non mancano le botteghe dove la si vende; non mancano gli usurai che la pesano a libbre, ad once, a grani, e la vendono a tutti i prezzi, secondo il valore che hanno i fondi della fede pubblica. Quando l'uomo non può comperare un soldo di speranza, o quando non vuole abbassarsi al vile mercato, diventa suicida. L'uomo vivente senza speranza è un paradosso. Si può vivere senza godere, si può vivere in mezzo al dolore; ma per sopportare la vita bisogna avere fra mani una cambiale di gioia per l'avvenire, dovesse essere di un centesimo, dovesse essere falsa: una cambiale speranza. Essa costituisce il contravveleno dei più atroci dolori, il balsamo più soave delle piaghe morali. Quand'essa arriva a costituire un grande capitale può bastare a render amena la vita. Moltissimi individui si credono ricchi, perchè hanno nei loro scrigni fasci di valute, che potrebbero perdere tutto il loro valore col fallimento o la frode di un banchiere; così molti si credono felici perchè hanno fra mani mille cambiali per l'avvenire segnate dalla speranza. Essi muoiono sorridenti e beati senza che uno solo di quei biglietti di credito sia mai stato convertito in moneta sonante. È sotto quest'aspetto che alcuni economisti proclamano altamente che si debba in ogni caso impiegare i propri fondi su beni stabili e non sopra la carta; ma io trovo che quando non si può avere danaro sonante, è sempre meglio avere un credito, anche se inesigibile. Vi sono negozianti che lavorano sopra un capitale di credito, e vi possono essere anche uomini che vivono sopra un capitale di speranza. Quel che preme per giungere ai primi posti nel teatro della vita, è di avere qualche cosa fra mani onde abbagliare o ingannare il portiere, che fissa i posti alla folla che incalza per passare. In qualche caso ho veduto un petulante ciarlatano riescire a passare ai primi posti con un artifizio ingegnoso. Dopo avere sbuffato a lungo di impazienza e avere schiamazzato davanti alla porta per la quale doveva entrare nel teatro della vita, egli dava un pugno solenne sugli occhi del portiere, il quale, quasi accecato dal barbaglìo del colpo, credeva di vedere molt'oro, e curvandosi fino a toccare il suolo con la fronte, lasciava passare. L'oro porta sempre fra i primi posti. Se non volete credere a tanta imbecillità da parte del portiere, vi dirò che chi presiede alla distribuzione dei posti e alla gerarchia delle autorità è l'opinione pubblica, e allora mi crederete subito sulla parola.

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La lotta fra la ragione e la fantasia è la storia di uomini grandi; ma nei grandissimi queste due forze sono sempre compagne inseparabili, sebbene la seconda abbia per la prima la riverenza del figlio e del discepolo. I piaceri della fantasia ci rendono quasi sempre amanti della solitudine, perchè questa favorisce lo sviluppo più completo delle immagini, mentre il moto continuo, turbinoso del mondo ci distrae da ogni concentrazione fantastica. Essi hanno l'inconveniente di renderci meno interessanti gli spettacoli del mondo reale, i quali sono quasi sempre al disotto delle splendide immagini ch'essa crea col suo magico pennello. La fantasia, disponendo di tutto il mondo morale, può far entrare nel suo caleidoscopio anche le immagini date dal sentimento, le quali, essendo come le altre molto vive, possono arrivare al punto di illuderci sulla realtà di un affetto che non esiste in concreto. È in questo modo che alcuni uomini dotati di viva fantasia credono di possedere un cuore delicato e generoso, perchè possono descriverne gli affetti più veementi o squisiti. Può darsi che essi sentano veramente mentre parlano e scrivono, ma la fiamma suscitata dalla loro fantasia può essere spenta da un istante all'altro dalla volontà, mentre il fuoco dell'affetto non può essere spento dalla mente. Si può avere la fantasia più fervida e il cuore più arido del mondo. Essa è una facoltà puramente mentale, e quantunque possa rassomigliare assai a un sentimento nelle sue forme, non gli si avvicina mai nella sostanza.

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Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.

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Nei pesci e nei rettili credo che nessuno abbia mai letto l'espressione della gioia, mentre negli uccelli la vivacità dei movimenti, il brio del canto e il brillare degli occhi esprimono chiaramente il piacere. I mammiferi, che vivono liberi nelle loro foreste, nascondono ai nostri sguardi i loro piaceri, per cui non ne possiamo conoscere la fisonomia; quando ci è dato avvicinarli e osservarli a lungo, possiamo leggere sul loro muso, il dolore o la paura se ci sanno più forti di essi; mentre se hanno muscoli e denti più potenti dei nostri, potremmo trovarci in un tale stato da non poter sicuramente analizzare la loro fisonomia. Gli animali domestici esprimono la gioia con segni particolari, che noi conosciamo benissimo; e tutti sanno come il cane dimeni la coda, e il cavallo muova le orecchie e nitrisca in modo particolare. Si può dire che le espressioni elementari del piacere sono comuni a tutti i mammiferi superiori, ma che il riso non è concesso che all'uomo soltanto.

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Man mano ,che l'uomo-bambino avanza nel sentiero della vita, egli gode sempre più, quantunque non abbia idea del piacere. Egli allora è allo stesso livello dei bruti, i quali possono spasimare di gioia, ma non possono sicuramente formarsi l'idea di una sensazione piacevole. Nella fanciullezza la verginità della sensazione supplisce alla imperfezione delle facoltà superiori, per cui le impressioni più indifferenti nell'età adulta possono allora fornire una sorgente di piacere. In quest'età, d'altronde, il meccanismo della vita è nell'uomo sano così attivo, e il moto della nutrizione così continuo e vivace, che soltanto la coscienza di esser vivo costituisce un fondo di gioia, che spande la sua allegra tinta su tutti i giorni di quell'età. Tutte le volte che il sistema nervoso si trova in uno stato di grande benessere e di leggero eretismo, la minima sensazione basta a produrre piacere. È per questo che il fanciullo sano è quasi sempre allegro. Del resto, in quest'età il piacere spetta quasi sempre ai sensi, e specialmente al senso del tatto esercitato dai muscoli ai sentimenti minori e alle facoltà intellettuali di second'ordine. Ben di rado in questa età i lavori mentali riescono piacevoli, perchè la debolezza delle facoltà dell'intelletto esige ancora un soverchio sforzo nel loro esercizio, perchè ne possa nascere un piacere. Si studia soltanto per dovere, e se si studia con gioia, è perchè si accontenta l'amor proprio e si soddisfano i parenti e i maestri. Il giovane gode in generale più d'ogni altro le gioie più fulgide della prima età assieme ai piaceri più severi dell'età matura, salvo le eccezioni. Il giovane diventa qualche volta suicida, spesso maledice la vita, chiama meretrice la speranza; ma egli è sempre un ricco che muore soffocato dalle dovizie, è uno, scialacquatore che, dopo aver abusato di tutto e consumato immensi capitali, grida alla miseria e alla disperazione. Quando tutto gli sorride, quando è padrone del mondo dei piaceri, quando la natura intera sembra vezzeggiarlo, quando le simpatie di tutti lo elevano al cielo, egli osa sbadigliare e sorridere di sprezzo e di cinismo, e in mezzo alla felicità osa, con un vero sacrilegio di ingratitudine, rassegnarsi alla vita. La giovinezza, in generale, è l'età delle più grandi gioie, e chi maledice nell'atto di goderne abusa della vita, e rimpiange poi inutilmente nell'età matura il tempo sprecato e le forze consunte. Nella giovinezza si comincia ad imparare nuovi piaceri, forse si gustano tutti; ben di rado si arriva a farsi un'arte o una scienza della gioia. Si corre a dritta e a manca, si vola e si sprofonda senza misurare gli abissi, nè le proprie forze. Purchè ci sia da lottare e da vincere, da percuotere o da esser percossi; purchè, insomma, si possa delirare nel fuoco di un rogo o nel gelo d'un ghiaccio, si vive e si gode. Il primo bisogno è quello di scatenare la forza che ci divora, e purchè si sprigioni per qualche valvola, non c'importa del resto. Ora essa si spegne nelle contrazioni dei muscoli, ora si svapora in un diluvio di progetti impossibili, ora fischia rabbiosa e concitata dalla valvola delle passioni più violenti, ed ora si rintuzza in lunghi e pericolosi studi. L'uomo che a vent'anni non può fare scialacquo, nè essere prodigo, non è giovane e non lo sarà mai. In mezzo a tante gioie però il giovane non si arresta quasi mai ad analizzarle. Impetuoso e violento, non ha appena fiutato un fiore, non ha appena sfogliato un libro, che getta il fiore, trascura il libro, e corre innanzi in mezzo al turbine del mondo, urtando, urlando e agitando le mani avide di cogliere, di afferrare e di rompere. Quante sublimi imprudenze, quante generose utopie, quante bestemmie e quante benedizioni segnano il corso fulmineo di quel pazzo fisiologico! La natura però segna certi confini alla prodigalità dell'uomo, e quando il sangue gli scorre meno concitato nelle vene e la stanchezza della lunga e rapida corsa gli fa rallentare il passo, egli ha il tempo di asciugarsi il sudore della fronte e di guardarsi attorno. L'uomo in quel momento diventa adulto. Gli anni e il vigore del corpo possono tracciare i confini delle età fisiche, ma non delle età morali. Queste si corrispondono spesso, ma non sempre. L'adolescente può in alcuni casi abusare di una precoce intelligenza, e a diciotto anni può fermarsi davanti all'arena della giovinezza, può guardarsi attorno prima di iniziare la corsa, può tracciarsi il sentiero della vita. Allora quest'uomo diventa adulto senza essere stato giovane. Egli ha preveduto i pericoli di una corsa disordinata e folle, ha misurato le proprie forze e non le ha trovate bastevoli per permettersi le feste della giovinezza; vi rinuncia spontaneamente, e si rassegna a prendere a vent'anni l'andatura posata dell'uomo adulto. In ogni modo, sia che l'uomo diventi adulto a vent'anni o a quaranta, le sue gioie cambiano di natura o almeno di forma, e mentre prima i capitali de' suoi piaceri consistevano quasi tutti in beni mobili, ora si sono cambiati in beni immobili. Nella giovinezza si preferisce il convulso alternar della Borsa, e purchè si abbia un interesse molto alto, si va incontro senza paura al fallimento e alla rovina. Oggi milionario, domani senza un soldo. In questa terribile altalena vi ha movimento, vita, delirio; il giovane ne è contento. L'adulto, invece, si accontenta dell'interesse del quattro o del tre per cento, ma lo vuol sicuro e ipotecato. Impiega i suoi capitali in case o in terre, ma diventa sempre tributario di tutte le case di assicurazione, da quella degli incendi a quella per la grandine e per i vetri della casa. I beni immobili che fruttano i piaceri dell'adulto sono i sentimenti della famiglia, le calme aspirazioni della gloria, lo studio, la considerazione di se stesso, il concetto di possesso, ed altri capitali consimili. Quando l'adulto diventa vecchio, egli si trova povero di gioie, poichè, ad onta delle sue economie e delle sue previdenti sollecitudini, il tempo inesorabile lo ha spogliato, ed egli diventa avaro. Allora toglie i suoi fondi dalle mani degli affittaiuoli, e diventa egli stesso amministratore e cassiere. S'egli potesse maneggiare la zappa diventerebbe ben volentieri anche coltivatore. Diffida di tutti e vuole da solo vedere e misurare, e, concentrando tutto intorno a sè, cerca di allontanare tutti quelli che hanno l'aria di parassiti; ei non ha torto; i capitali dei suoi piaceri, de' quali ha fatto tanto abuso nella giovinezza, si sono ridotti ai minimi termini. L'economia dell'età adulta ha riordinato alquanto le sue finanze ma il tempo, contro il quale non vi ha assicurazione, gli ha rovinato le case, gli ha isteriliti i campi. Non gli restano più che alcune care memorie, e le pallide gioie che ha conservate nelle proprie serre riscaldate artificialmente. S'egli è sano di mente e di corpo, non è infelice, e, quantunque vacilli e sorrida di rado, ama la vita con trasporto, fors'anche con vero furore; e checchè si dica, quando l'uomo ama la vita, è perchè essa gli dà più piaceri che dolori.

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Chi desidera di diventar ricco sperando di essere più felice, il più delle volte non si inganna, e d'altronde aspira alla cosa più naturale del mondo; ma chi vorrebbe esser nato ricco, a meno ch'egli non abbia il genio dell'economia politica, desidera un bene pericoloso e un male probabile. Ogni professione ha i propri piaceri: una gioia speciale caratteristica con varie altre minori e secondarie; oppure una gioia alla quale si riuniscono vari piaceri sotto forme e proporzioni diverse in modo da costituire un gruppo speciale. La storia dei piaceri di ogni professione sarebbe certamente un lavoro molto interessante, se ad esse fosse unita la storia dei dolori, i quali, confondendosi e cementandosi insieme ai piaceri, presenterebbero la formula viva e fisiologica nelle diverse condizioni sociali. Il separare, nella storia delle professioni, i piaceri dai dolori, è un guastare uno dei più bei quadri di storia dell'uomo morale. Si possono dare diverse classificazioni più o meno razionali delle professioni umane, e si possono anche dividerle secondo la natura dei piaceri che in esse predominano. I piaceri del senso tattile puro e semplice sono più numerosi in tutte le professioni manuali ed artistiche, e la scultura sta forse al disopra di tutte. Le facili gioie del gusto sono, in generale, più vive nelle professioni del cuoco, del soldato e del medico. La grandissima differenza che esiste nella sensibilità dei nasi fa sì che nessuna professione possa esercitare sui piaceri dell'olfatto tale influenza da vincere in un modo sensibile l'organizzazione del senso. Se ciò non fosse, i fabbricatori e i venditori di essenze dovrebbero essere i privilegiati. I maestri di musica e gli artisti gustano più che gli altri dei piaceri dell'udito. I piaceri della vista si godono meglio nelle professioni di viaggiatore, di micrografo e di pittore. I piaceri dell'onore possono essere di tutte le professioni, ma si gustano più spesso in quella del soldato. Le gioie della gloria sono concesse a tutti, ma per aspirarvi bisogna essere almeno d'intelligenza aperta e di cuore fermo. Possono aspirarvi scienziati e artisti. L'ambizione con tutte le sue varietà minori concede maggiori piaceri a quelli che esercitano una professione di governo o hanno in mano il potere. I piaceri del possesso sono più vivi nelle professioni di banchiere, di negoziante e di possidente, se questa può ritenersi professione. I naturalisti e gli specialisti di ogni genere provano quasi sempre più degli altri i piaceri del raccogliere. I piaceri della benevolenza pratica dovrebbero essere più largamente concessi ai medici, ai sacerdoti e a tutti gli addetti a stabilimenti di beneficenza. L'amor patrio dovrebbe concedere gioie più vive al soldato. Le gioie religiose dovrebbero essere più squisite nella professione del sacerdote. I piaceri della lotta si gustano meglio nelle professioni del soldato, del cacciatore, dell'avvocato, del medico, del gladiatore, dello sportivo. Le gioie della giustizia sono tesori più largamente concessi al buon volere dei giudici. Le gioie della speranza sono largamente concesse a tutte le professioni nelle quali si lavora molto e si guadagna poco. I piaceri dell'odio e del furto spettano a tutti coloro che non hanno senso morale e rispetto per la proprietà. I piaceri che non ho nominati spettano a tulle le professioni, le quali vi esercitano una influenza così debole che il più delle volte sfugge ai nostri mezzi d'investigazione.

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Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Crede che i poveri siano fatti da Dio per esercitare la carità dei ricchi, nè mai ha domandato al Creatore perchè abbia dato il veleno alle vipere e le spine alle rose. Ella è felice.

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L'esercizio della funzione del sesso, formando il primo anello della catena sociale, ci rende più affettuosi e facili a compatire e a perdonare, mentre la vittoria completa sugli istinti della carne sublima le facoltà intellettuali a scapito del sentimento, oppure ci fa schiavi dei brutali piaceri della tavola, qualora la mente non abbia che pallidi bisogni. I piaceri del sesso hanno poi un'importanza molto diversa nella vita dei singoli individui. Chi è capace di godere dei tesori dell'intelligenza o delle squisitezze del sentimento, non dedica ai piaceri sessuali che una piccola parte di se stesso, mentre altri, per imperfezione congenita o per abbrutimento della condizione sociale, dedica la maggior parte delle sue forze alle lotte amorose. La monotona e lurida stoffa della vita di molti non porta altre tracce che una serie più o meno interrotta di punti segnati dai labili delirii di amplessi volgari. Per fortuna, però, gli individui normali, equilibrati, che non eccedono nè nell'astinenza, nè negli abusi, sono l'assoluta maggioranza, e questi della funzione, eminentemente volta alla riproduzione della specie, non fanno solo una fonte di godimento, e nemmeno la trascurano a danno dell'incremento demografico.

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Le relative sensazioni che si hanno in questi casi appartengono alla classe dei piaceri patologici, e condannano i colpevoli a soffrire, quasi la natura abbia invariabilmente fissato ad ogni individuo una certa misura di piaceri e di dolori, che noi possiamo accrescere e diminuire, senza mutarne però mai il reciproco rapporto. Così, quando veniamo ad aumentare la massa dei piaceri che ci è destinata, una mano inesorabile lascia cadere un granello sulla bilancia del dolore, onde non si alteri mai l'equilibrio. Si è disputato più volte dai fisiologi se la natura sia stata parziale verso uno dei sessi, concedendogli una più ampia coppa al banchetto dell'amore. Sebbene simile questione non sia positivamente solubile con esperienze e prove positive, credo che si possa con bastante sicurezza dedurre che la donna gode assai più dell'uomo nei deliri dell'amplesso, lasciando sempre da parte le eccezioni che derivano da condizioni individuali. L'apparato voluttuoso dei genitali femminei è assai più complicato di quello concesso all'uomo. La clitoride è nelle donne l'organo esterno del piacere, ed ha il suo riscontro nella verga virile. Ma la donna, oltre la clitoride, che può essere più o meno sviluppata e sensibile per l'uso diretto e pei piaceri che essa prende su se stessa, ha la vagina con le labbra, il vestibolo e il collo dell'utero, che in molte donne è fonte dei più intensi piaceri. Anche il seno dà piaceri sessuali nella donna: i capezzoli si fanno turgidi, ed una lieve carezza li eccita all'estremo, al pari della tiroide: infatti la pressione delle labbra sul collo, in un bacio intenso e prolungato, riesce di irresistibile voluttà. Gli organi genitali femminei nelle parti che servono al piacere sono tutti ricoperti da una membrana, irrorata continuamente da muco; ed essendo interni, conservano illesa la loro sensibilità. L'uomo invece ha la maggior parte della verga coperta da comuni tegumenti, e anche il glande viene più volte in contatto cogli oggetti esterni. L'apparato femmineo destinato ai piaceri del sesso ha una superficie molto più estesa di quella dell'uomo. La donna è dotata di una sensibilità più squisita dell'uomo, per cui sente assai più fortemente tutte le influenze degli oggetti esterni. Nell'atto della copula la donna è quasi pienamente passiva, e però, non essendo impiegata la più piccola parte di forza al moto, tutta la tensione riesce rivolta al senso. La donna non soffre dopo i piaceri venerei che una leggera spossatezza, che deriva dall'esaurimento in cui cade il sistema nervoso, e quindi si trova, assai prima dell'uomo, pronta a rinnovare gli amplessi. La donna è fisicamente sempre pronta alla copula, mentre l'uomo non lo è che qualche volta. Molte donne hanno più polluzioni nel tempo in cui l'uomo non ne compie che una sola. La donna, quantunque nasconda i palpiti del seno e i frequenti desideri sotto ampie vesti, aspira con maggior trasporto dell'uomo a questi piaceri, a lei resi ancor più seducenti dal mistero che le viene imposto dal pudore e dalle consuetudini sociali. Infine la natura nella funzione generativa doveva alla donna un compenso pei dolorj e pei pericoli che le riserva, e quindi le concede maggiori voluttà; le quali le fanno dimenticare la lunga serie di sacrifici che può incontrare nel cedere al prepotente bisogno. Vi è un fatto, tuttavia, che sembra contraddire apertamente a tutte queste ragioni, e dietro il quale alcuni affermano il contrario di quanto ho cercato di provare: sarebbe questo l'assoluta indifferenza od anche la noia che, nel fingere di partecipare al godimento, provano molte meretrici nel ricevere l'amplesso venduto. In questo caso peraltro noi siamo in un campo che appartiene interamente alla patologia morale, e quindi fuori affatto delle condizioni ordinarie. D'altronde l'abuso della copula rende la donna così indifferente a quest'atto ch'ella deve prestare tutta la sua partecipazione onde trovarvi piacere; e ha bisogno di una eccitazione locale più intensa e più prolungata per arrivare ad ottenere una polluzione completa. Quasi tutte le meretrici però hanno un amante, al quale cedono oltre il corpo anche l'affetto, e negli amplessi che loro riserbano provano anch'esse piaceri, che non possono dividere colla turba della loro clientela. Questo fatto non ha quindi alcuna importanza in simile questione, e serve solo a provare come, in tutti gli atti morali della donna, il sentimento entri quale principalissimo elemento, e abbia una tale influenza da modificare un atto, a cui siamo trascinati da tanta prepotenza di leggi anatomiche e fisiologiche.

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Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.

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La ragione prima che corre alla mente per ispiegare questo fatto è che la natura abbia voluto punire il colpevole che l'inganna, deludendone uno dei fini più importanti. Altri pensano che la rilassatezza e il senso di nausea che tengono dietro ai solitari piaceri, inducano un perturbamento generale che non si ha nella copula. Questo argomento, come il precedente, è però debolissimo, giacchè molte volte nel coito il pentimento e il timore delle conseguenze sono assai più gravi, senza che per questo si abbiano i disturbi fisici e morali che seguono l'onanismo. La facilità di ripetere gli atti lascivi dell'onanismo non vale a spiegare gli effetti di un'unica polluzione manuale, messi a confronto con quelli di una polluzione naturale. L'ipotesi dello sviluppo della elettricità nel contatto dei due sessi è puramente gratuita, sebbene non si possa negare interamente. Un'opinione probabile su questo argomento e che nell'onanismo e nella copula gli effetti sono pari quanto alla perdita materiale dello sperma, ma che nel primo l'organismo deve esercitare uno sforzo sproporzionato per ottenere il delirio del piacere, non trovandosi mai nell'orgasmo naturale, il quale non può aversi che nel contatto dei due sessi. Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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L'atto di accingersi a fumare apre una serie di piaceri coll'occupazione facile e interessante che richiede, sia che si abbia ad allestire e accendere il sigaro, sia che si debba caricare la pipa. Chi ha osservato un fumatore di buon gusto nell'atto che fa i suoi preparativi per abbandonarsi al prediletto piacere, deve ammettere che quel momento è delizioso: e non può essere altrimenti, dacchè la speranza di godere e la compiacenza di farne i preparativi con le proprie mani e senza fatica, sono elementi che devono produrre una sensazione piacevole. Del resto, basta osservare il giovane fumatore nell'atto di prepararsi a fumare una sigaretta. II secondo elemento cha entra a far parte di questo piacere tanto complesso è la sensazione del gusto, la quale nella pipe si limita al sapore del fumo, e nel sigaro consta anche della sensazione della saliva che imbeve le parti solubili delle foglie del tabacco. Le infinite varietà dell'acre e dell'aromatico formano mille combinazioni di piaceri conosciute a fondo soltanto dai consumati fumatori. In generale però i nervi gustatori e tattili della bocca sono in uno stato di irritazione piacevole, di vero orgasmo, e l'uomo gusta senza nutrirsi. Il senso tattile delle labbra e dei muscoli della bocca concorre pure al piacere nei moti alterni e delicati che sono necessari ad aspirare il fumo, a ritenerlo nella bocca e a farlo uscire in volute. L'olfatto ha grandissima parte in questo piacere, ma certamente meno degli altri elementi. In ogni modo non è indispensabile, perchè si può essere privi interamente dell'olfatto e quasi del gusto, e provar piacere nel fumare. Il profumo del tabacco, d'ordinario, viene aspirato dalle narici col fumo che esce dalla bocca; ma può passare anche dal retrobocca nel naso per le fossa nasali. Quelli che sanno fare uscire in colonne il fumo dal naso, provano anche il piacere d'una leggera irritazione della pituitaria, al quale si unisce la compiacenza di un giuoco bizzarro. La vista paga il suo tributo ai fumatori, svagandoli cogli scherzi della lenta combustione e delle vicende presentate dal fumo che sale in volute per l'aria. Gli effetti fisiologici della nicotina e degli altri principii volatili odorosi che vengono assorbiti e che agiscono a preferenza sul sistema nervoso, hanno pure una grande influenza sui piaceri del fumare, e vi contribuiscono specialmente col facilitare la digestione e coll'indurre la sensibilità generale in uno stato particolare di torpore eretistico, che può arrivare fino alla voluttà. I novizi vengono intossicati e soffrono; gli adepti s'inebbriano e se sono molto sensibili, provano in tutta la superficie cutanea un senso di tepore particolare o di prurito leggero molto piacevole. Infine i veterani provano una sensazione indefinita di benessere che li esalta. Tutti questi piaceri però non esistono da soli, ma si combinano fra loro in un accordo che li unifica e armonizza, formando un'unica sensazione piacevole. Sono futili tutte le questioni che si agitano ogni giorno sulla vera essenza del piacere del fumare, e se esso spetti al gusto, all'olfatto o alla vista. Nessuno di questi sensi gode da solo, ma concorre nella sua parte a produrre il piacere. L'elemento però che collega tutti i piaceri in un solo, facendo, direi quasi, da cemento, è il piacere di far qualche cosa, di esser distratto di quando in quando dal lavoro, o di interrompere l'ozio. L'ozio completo è insopportabile anche ai più inerti; ma il lavoro stanca e piace a pochi. Ora il fumar tabacco è una vera transazione, un vero trattato di pace tra l'inerzia e l'attività, fra l'odio al lavoro e l'avversione all'ozio. I più volgari, e quindi anche i più numerosi fumatori, non hanno mai saputo trovare nel fumare altro piacere che questo. In ogni modo i piaceri del fumare non sono patologici per la più parte degli uomini. I piaceri dell'olfatto, per quanto siano labili, sono troppo trascurati nei progressi della civiltà, ed essi non hanno ancora dato luogo a invenzioni relative di qualche importanza. In Europa il limitato uso del tabacco, le essenze di cui profumiamo i nostri abiti, e il tributo che ci offre l'orticoltura colla coltivazione di piante odorose, sono gli unici sollievi concessi a questo senso. In Oriente il naso è meno dimenticato che da noi, e nelle camere dei ricchi ardono profumi deliziosi. Queste gioie però sono elementari, e non costituiscono ancora un complesso di mezzi atti a produrre veri piaceri olfattivi. La civiltà futura riempirà questa lacuna? L'armonia e la melodia degli odori devono esistere, come esiste l'accordo in tutte le altre sensazioni.

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Così non v'è alcuno il quale in sua vita non abbia passato qualche quarto d'ora battendo sul tavolo i polpastrelli delle dita, o percuotendo le molle contro gli alari negli ozi del focolare, o picchiando il piede contro terra nelle noie di una insipida conversazione. Queste sensazioni piacevoli sono forse il primo elemento della musica, o almeno formano un anello di congiunzione fra le due grandi classi dei piaceri dell'udito. Un rumore forte e improvviso, che rompa a un tratto il silenzio per cessare subito dopo, può produrre un piacere per la scossa che comunica ai nervi sensori. In questo caso la sensazione non deve essere nè troppo debole, nè troppo forte. Il fischio d'una locomotiva, lo sparo d'un fucile o d'un fuoco d'artifizio, un unico tocco di campana che si perda nell'aria, o in tonfo d'un corpo pesante che cada dall'alto nell'acqua, possono produrre piaceri di questa natura. Altre volte la sensazione è piacevole per un carattere particolare, che solletica o commuove in modo speciale i nervi dell'udito, come il versarsi del grano in uno staio, il lacerarsi d'una stoffa di cotone, il rovesciarsi d'un carro di sabbia, lo stormire delle frondi, lo scrosciare d'una cascata, il fremere delle onde, il gemere dei venti, il rimbombar del tuono, e tanti altri rumori di natura molto diversa. Un rumore può arrecare piacere quando, senza cambiare di natura, muta di grado, salendo o decrescendo a poco a poco. In questo caso la ragione principale del piacere sta nell'attenzione prolungata, la quale eleva la sensazione ad un grado massimo di intensità. Basta rammentare il rumore di una carrozza o di una locomotiva, il fremito d'una verga metallica. Quando il suono va decrescendo, più d'una volta il nostro orecchio raccoglie avidamente le ultime vibrazioni sonore che vanno perdendosi, quasi a misurare la delicatezza del senso. Un altro piacere si ha nel contrasto di due rumori che si succedono, e che possono differire nella natura o in amendue questi elementi. Così il pesante martello del fabbro, che batte ora sull'incudine ed ora sul ferro rovente, può arrecarci in questo modo un piacere; nella stessa guisa l'eco ci interessa così vivamente nel confronto dei due suoni analoghi. Le più grandi gioie però che ci forniscono i rumori non sono le sensazioni per se stesse, quanto le immaginazioni e le idee che ci ridestano. In questo caso il senso non serve che di strumento, e il piacere è quasi puramente del sentimento o dell'intelletto. Alcuni rumori fragorosi, come quello del martellare e dello stridere della fucina, possono ridestarci all'operosità e all'energia; altri rumori monotoni e lenti, come quello del pendolo o del fluire blando delle acque del fiume, possono ispirarci alla calma ed al riposo. Lo stormire delle fronde e il fluttuar delle onde sulla sabbia della riva ci portano ad una soave melanconia e ad inenarrabili voluttà. Altre volte lo strascico di una veste di seta può ridestarci immagini lascive. Spesso il rumore di un vaso che si rompe ci fa sorridere all'idea del disappunto del malaugurato a cui è capitato l'accidente. Infine sono tali e tante queste sorgenti di piaceri, che il solo enumerarle sarebbe un improbo lavoro. Basterà dire che in qualche caso il piacere prodotto da un rumore può arrivare ai massimi gradi dell'umano sentire. Ciascuno può, a questo proposito, immaginare il delirio di gioia che può provare un prigioniero condannato a morte, che, dopo aver lavorato lunghe ore attorno alla porta che lo rinchiude, sente a un tratto, contro ogni speranza, lo scatto della serratura scassinata.

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I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Ma il numero in questo caso non è stato la causa necessaria del piacere, il quale proviene dal contrasto e dal ridicolo delle cose, non che dalla curiosità di sapere perchè mai quella sedia abbia la pretesa di possedere due membra più delle altre. La dimensione di un corpo può arrecarci piacere, quando sia estremamente grande o straordinariamente piccola. Queste sensazioni sono quasi sempre complicate dal piacere della novità, che però non entra come elemento essenziale. Tutti coloro che, per la prima volta, si recano sulla spiaggia del mare, provano un piacere infinito, nel quale entra anche la impressione per la immensità del piano che si stende innanzi ai loro occhi, sebbene forse la fantasia abbia già fatto loro immaginare uno spazio ancor più grande del reale. La distanza degli oggetti non ci interessa quasi mai da sola, ma arreca piacere col ridestarci idee o sentimenti diversi. I limiti del nostro orizzonte visuale sono immensi, e vengono segnati, da una parte, dal microscopio che ci mostra un infusorio della larghezza di un decimillesimo di millimetro, e, dall'altra, dal telescopio che ci mostra milioni di soli, dinanzi ai quali la nostra terra figura come un granello minutissimo di sabbia. A parità di circostanze, un oggetto vicino ci invita all'osservazione e al desiderio di toccarlo, al bisogno di possederlo; mentre un corpo immensamente lontano c'inspira ammirazione e stupore. Un oggetto vicino si guarda, un oggetto lontano si contempla; il primo c'interessa, parola in cui entra come elemento secondario anche il cuore, mentre il secondo ci sorprende. La forma degli oggetti ci può interessare vivamente da sè sola per gli elementi geometrici che, insieme al numero, alla grandezza e alla distanza, formano l'ordine e la simmetria. La simmetria è una sorgente fecondissima di piaceri, che derivano dai caratteri matematici dei corpi. L'artista può trovare nuove combinazioni di ordine e di misura, ma non può mai allontanarsi dal tipo invariabile segnato dalla natura. Nessuno ha mai pensato di dimostrare e di discutere le leggi fondamentali della simmetria: esse stanno scritte a caratteri indelebili nel nostro cervello, come condizione necessaria della sua funzione. Daltronde, nessuno potrà mai spiegare perchè la vista di una sfera perfetta produca maggior piacere di quella d'un ammasso informe, nello stesso modo che non si può dimostrare perchè due e due fanno quattro. Il numero concorre come elemento necessario nei piaceri della simmetria, dacchè questa non può esistere senza diverse parti, le quali si possono numerare. Una serie di oggetti della stessa natura può fornirci sensazioni piacevoli, diverse fra loro, a seconda che l'ordine principale, col quale sono distribuiti, è rappresentato da numeri pari o, da numeri dispari. Lo stesso si può dire del rapporto numerico delle diverse parti di uno stesso corpo. In generale l'ordine più semplice e regolare è segnato da numeri pari, e il piacere più elementare della simmetria consiste nel mettere due corpi l'uno di contro all'altro. L'ordine segnato da numeri dispari produce già un piacere più complesso, e per il quale sono necessari almeno tre oggetti o tre elementi geometrici di uno stesso corpo. Nella simmetria però il numero non è che un elemento secondario delle proporzioni geometriche; e quand'anche vari oggetti siano isolati fra loro e disposti in un ordine qualunque, noi tendiamo a riunirli per mezzo di linee immaginarie, costruendo vere figure geometriche. Senza saperlo, in questo modo, noi giudichiamo simmetrico un corpo o un sistema d'oggetti, quando le linee lo definiscono e formano una figura geometrica regolare. I piaceri più semplici dell'ordine e della simmetria sono prodotti da figure geometriche semplicissime, quali sarebbero le linee parallele o perpendicolari fra loro, i triangoli, i rombi, i quadrati, i poligoni e tutte le altre figure rappresentate da linee rette. Nuove combinazioni di piaceri si hanno dalle figure curvilinee, dal cerchio, dall'ellissi, dalla parabola, o dalla combinazione delle linee curve colle linee rette. Dalla geometria piana passando a quella dei solidi, troviamo i piaceri prodotti dalla vista dei corpi cristallizzati e degli oggetti che li imitano; giacchè moltissimi oggetti rappresentano grossolanamente corpi terminati da facce regolari e simmetriche. Le casse, i mattoni, i libri, e le diverse parti dei tavoli e delle sedie, sono varietà di prismi; mentre nelle stoviglie, nei bicchieri e nelle bottiglie vediamo parti di sfera. I gradi massimi dei piaceri della simmetria sono complicati da elementi intellettuali di un ordine superiore; per cui gli oggetti sono chiamati belli, quando nell'ordine delle loro parti sono d'accordo con la loro funzione, e corrispondono perfettamente al tipo ideale che ce ne formiamo. Sebbene però si abbiano infiniti piaceri dalla simmetria, esiste anche un bello irregolare, un'estetica del disordine; ciò che prova come nell'intricato meccanismo delle umane facoltà, dove infiniti elementi si confondono e si intrecciano, si possono avere effetti identici dalle cause più disparate.

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La sensazione per se stessa semplicissima di quell'oggetto non c'interessa, ma noi lo guardiamo con calma e indifferenza, senza che quella vista ci abbia ispirato la menoma idea. Altre voile invece contempliamo sorridendo un bambino che dorme nella culla, senza che quella vista ci ispiri alcun affetto o eserciti in qualche modo il nostro pensiero. È un'emanazione armoniosa del cuore che si confonde coll'immagine degli occhi, un pensiero senza forma che rimane allo stato latente e non si esprime. Questo fatto psicologico è molto delicato, e richiede una grande abitudine di osservazione per essere sorpreso; ma non è per questo men vero, e chiunque può farne sopra di sè la riprova. In ogni modo, esso è molto fugace, e si verifica di rado in tutta la sua purezza. Molti oggetti coi loro caratteri matematici e fisici suscitano subito in noi un'idea primitiva e indefinita, che forma la prima sorgente del piacere. La simmetria e la proporzione c'ispirano l'idea dell'ordine e della calma, e noi riposiamo lo sguardo con vera compiacenza sugli oggetti che ne sono forniti. Il disordine e la confusione invece o ci dànno una immagine ridicola che ci diverte per il contrasto che presenta col tipo di perfezione che abbiamo in noi, ovvero ci ispirano un ribrezzo che può anche essere piacevole. Quanto al bello, che nasce dalla mancanza di simmetria e di ordine, si può piuttosto divinare che spiegare, come quando ci si trova alla presenza di un orrido. Forse si può dire che la brusca disubbidienza alle leggi piace per l'ardimento che ci pare di vedere nella natura o nell'arte che se. n'è fatta colpevole, e perchè la forza, sotto tutte le forme, ha sempre qualche cosa di grande che esalta e piace. Il disordine degli oggetti inanimati può gradirci, specialmente quando essi sono in movimento, perchè ci dànno l'immagine di una specie di vita. Comunque sia, il disordine tradizionale della bottega del rigattiere ci riesce assai più piacevole dell'ordinata e regolare distribuzione delle pezze di panno del magazzino di un mercante; nello stesso modo che il sublime caos di un oceano che mugge è uno spettacolo assai più bello della tranquilla superficie di una palude qualsiasi. L'immensità di alcune immagini ci ispira l'idea dell'infinita grandezza del mondo e della nostra piccolezza, in un contrasto piacevole al quale spesso si associa anche la compiacenza di potere col nostro occhio abbracciare tanta vastità di orizzonte. Quando contempliamo dalla spiaggia l'immenso piano del mare e la volta del cielo che, in curva maestosa, si confonde coll'estremo limite di un orizzonte incerto e nebuloso, noi abbiamo sotto i nostri occhi un'immagine sensibile dell'infinito, e con lo sguardo vaghiamo su quel deserto smisurato di acque e di cielo cercando invano un confine e un punto fermo su cui riposare. L'apparire improvviso di una vela, in mezzo a quella solitudine che ci confonde, rianima a vita anche il sentimento, facendolo concorrere al nostro piacere; e nello stesso tempo gustiamo l'idea purissima dell'infinito e l'affetto simpatico per ciò che è vivo ed umano. Questo è l'elemento fondamentale del piacere che si prova alla vista del mare, e che forma quasi il telaio sul quale si possono tessere poi le più splendide combinazioni delle gioie del sentimento e della mente. La piccolezza estrema degli oggetti suscita pure in noi l'idea dell'infinito, mostrandoci in qual modo i confini del microcosmo non abbiano limiti come gli spazi imponderabili del cielo. I piaceri che si provano in questo campo formano l'attrattiva principale delle ricerche microscopiche. È poi veramente singolare il fatto che ci porta molte volte ad amare alcuni oggetti per la sola ragione che sono piccoli. Pare che noi associamo ad essi l'idea della debolezza, e che ci sentiamo ispirati ad averne compassione e a proteggerli, anche quando essi non hanno vita. Altre volte essi ci ridestano il desiderio di possederli; per cui, prendendoli fra le mani e guardandoli con attenzione, atteggiamo il volto all'interessamento e alla simpatia. Questo genere singolare di piaceri non si prova in tutta la sua intensità, che quando l'oggetto è ben definito e costituisce un vero individuo. Difatti, il frammento angoloso di una roccia, per quanto piccolo, non produce in noi il piacere che gustiamo nel contemplare un ciottolino liscio e rotondetto; come pure la barba di una penna d'oca non ci interessa quanto un piccolo fagiuolo. A questi piaceri, per se stessi minimi, si collega spesso l'attrattiva speciale di alcune Il moto concorre ai piaceri morali della vista con molti elementi. Innanzi tutto, essendo uno dei sintomi essenziali di ogni specie di vita, ci ridesta la simpatia che abbiamo per ogni essere vivente. Quando il movimento intenso è prodotto dall'industria umana, noi ce ne rallegriamo, compiacendoci della nostra potenza. Quando invece il movimento è naturale, ci ridesta quasi sempre sentimenti più umili e delicati, a meno che non si sia riusciti colle nostre ricerche a scoprire un moto che non si rilevava spontaneo ai nostri occhi. I movimenti naturali producono due classi di piaceri ben distinti a seconda che siano alterni o continui. In generale i primi ci commuovono ad una affettuosa malinconia, mentre i secondi ci fanno gustare i piaceri grandiosi e tristi che si hanno dalle immagini dell'infinito. L'onda, che fremente si rompe sulla spiaggia e poi si allontana per tornare in alterna vicenda, ci interessa e ci consola, perchè ci rappresenta il moto della vita: il giorno dopo la notte, il riposo dopo la fatica, il riso dopo il pianto, il ritorno dopo la partenza. Invece lo scorrere lento e non interrotto delle acque d'un fiume ci tiene assorti in cupa contemplazione, che riesce piacevole solo per la grandezza delle idee che ci desta. L'acqua che scorre ai nostri piedi, scherza e si muove, ma passa e non ritorna; il vortice che molina e si scioglie è seguito da un altro che lo incalza e poi sparisce; la foglia che cade dall'albero è trascinata via e non ritorna; e sempre instancabile, continua, un'onda segue l'altra e il moto mai non riposa. Questo spettacolo ci offre nei suoi elementi una formula assoluta dell'eternità, un esempio del sempre. Il suicida che s'affaccia ad un fiume per precipitarvisi, ritornerebbe più facilmente addietro, se invece dell'onda inesorabile che passa e non ritorna, vedesse il lieto alternarsi delle onde sulla viva d'un lago. Anche la luce nei suoi diversi gradi di intensità può avere un valore morale. Quando è intensa ci ridesta alla vita; quando è debole e incerta ci ispira alla malinconia e alla calma. La luce di una mediocre intensità, ma tremula, ha una attrattiva speciale, e se ne ha un esempio magnifico nella calma voluttà che ci prodiga l'astro della notte. I colori hanno un valore morale di una certa importanza nei piaceri della vista. Noi chiamiamo allegri il rosso, il bleu e il giallo, che sono i tre colori fondamentali, mentre diciamo tristi il nero, il grigio o il cinereo, puro e verginale il bianco. Questo fatto, che si riscontra in tutte le lingue, dimostra più d'ogni altra cosa la natura intellettuale delle sensazioni della vista. Quasi tutti hanno una speciale simpatia per qualche colore: io, ad esempio, amo con trasporto l'azzurro. Nei paesi caldi si preferiscono i colori più vivi, mentre, là dove il sole sorride di rado, anche gli uomini amano meglio le tinte meno tenui e più cupe. Molte nazioni negre hanno una vera passione per i colori più sgargianti. Alcuni colori poi producono immensi piaceri per le memorie che vi si riferiscono; e l'esule può, in lontani paesi, piangere di gioia alla vista della bandiera tricolore. Gli esseri viventi ci interessano molte volte al solo vederli, per l'affinità naturale che abbiamo con essi; e il piacere riesce in generale tanto maggiore quanto più essi ci assomigliano. I vegetali, per quanto siano lontani da noi per ogni principio di affinità, e per quanto la loro vista sia fredda e priva di movimento spontaneo, pure ci interessano assai più dei minerali per la parte che prendono ai piaceri della vista. Il prigioniero, che tra le connessure delle pietre del carcere scorge una tenera pianticina di lichene, prova un piacere molto superiore che se avesse trovato un minerale pregiato. Le parti di una pianta che in generale ci interessano maggiormente sono i fiori, perchè appunto in essi la vita si mostra in tutto il lusso delle sue forme e dei suoi colori. La bellezza delle forme e la varietà dei colori, infatti, hanno gran parte nel piacere che ci dànno i fiori, ma non ne costituiscono l'elemento principale. Talvolta il fiorellino più modesto ci interessa assai più di un magnifico fiore smagliante, perchè una simpatia misteriosa ci lega a questi esseri delicati, a queste tenere creature del mondo vegetale. Gli animali possono piacere, quando non siano schifosi o non ci incutano paura. Tutti però in qualche circostanza possono concorrere alle gioie della vista. Il rospo si ammira nelle vetrine dei musei, come la tigre ci piace meglio quando è chiusa fra le sbarre di un serraglio. Alcuni animali ci interessano per la loro piccolezza, e il piacere che si prova contemplando una formica che passeggia sulla nostra mano, scomparirebbe del tutto, se quell'insetto avesse la proporzione di un coniglio. Altri animali rallegrano la vista col brio dei colori, colla vivacità dei movimenti, colla stranezza delle forme: alcuni di essi ispirano l'affetto, altri la curiosità. Le fiere ci dilettano per la loro potenza muscolare. L'uomo è l'animale che ci interessa più di tutti gli altri ed è naturale, sia perchè ci riguarda direttamente, sia perchè è l'essere superiore nella scala della creazione. Più d'una volta mi sono sorpreso in atto di ammirare la bellezza delle forme e la nobiltà dell'incesso che lo caratterizzano. La vista dell'uomo poi ci risveglia subito quell'affetto indistinto, che è il fondamento e la ragione prima della società. Il piacere che proviamo in questo caso sale poi di grado, a seconda dei vincoli che ci legano alla persona che vediamo. Fra lo sguardo affettuoso di una madre che divora cogli occhi il bambino che tiene fra le braccia, e l'occhiata distratta che gettiamo a chi passa per via accanto a noi, sta un mondo intero di sensazioni e di piaceri, che si riferiscono al sentimento. L'incontrarsi degli occhi è sorgente di gioie immense. Quando abbiamo dinnanzi a noi un uomo, possiamo contemplarlo e analizzarlo da capo a fondo; ma se egli si allontana senza averci guardato, noi restiamo stranieri l'uno all'altro, e la sensazione e le idee che egli ci ha destate si chiudono nei limiti del nostro io. Ma se ad un tratto i nostri occhi si incontrano, noi ci troviamo in rapporto intimo di fratellanza, e ci mandiamo mentalmente il saluto dell'uomo all'uomo. Questa corrispondenza misteriosa degli occhi non può farsi che fra esseri della stessa specie: e quando anche il nostro sguardo s'incontrasse con quello del cane che ci ama o del cavallo che ci porta, il piacere sarebbe languido e puramente sensuale. L'uomo, invece, col balenar dell'occhio, parla all'uomo e lo intende, e le due coscienze sembrano affacciarsi l'una all'altra. Una sensazione della vista può essere piacevole per le memorie che ridesta in noi. L'esule che, tornando in patria, dall'alto d'un colle scorge una semplice macchia bianca, ch'egli intuisce essere la sua casa paterna, la contempla con un vero delirio di gioia, senza che l'immagine sia per se stessa interessante. Egli contempla un oggetto che gli è caro e di cui adora anche l'immagine, e rimane sospeso fra la sensazione e il mondo di memorie che sta dietro ad essa, ma che ancora non si schiude; ed egli guarda e riguarda e si arresta, piangendo di gioia, sopra un'immagine che è pur sempre la stessa, ma che per lui diventa sempre più interessante, quanto più egli la contempla. Sotto questo aspetto, il valore morale degli oggetti può crescere a dismisura il piacere che ci danno colle loro immagini. La vista di una quercia può far delirare di gioia l'Europeo, che da lunghi anni non vede che palme e felci. Una donna che fila può far piangere lagrime soavi ad un soldato, cui rammenta la sua vecchia madre e i racconti del focolare domestico. Io non posso vedere senza compiacenza il cortile di una casa dove cresca dell'erba, perchè è sull'erba di un cortile che io ho tentato i primi passi, ho trascorso le ore più care della mia infanzia cacciando insetti e giuocando coi ciottoli, e dove ho gustato le sensazioni più vergini. La passione dominante rende piacevole la vista degli oggetti che vi si riferiscono, e produce in questo modo una infinità di piaceri diversi. Il sibarita guarda con gioia la polvere veneranda di una bottiglia a cui sta per dare l'assalto, mentre il bibliofilo palpita di piacere vedendo, ad un tratto, nei palchetti di una libreria un libro che ancora non possiede. In questo modo anche gli oggetti più indifferenti o anche ripugnanti possono essere fonti di gioia. Il malacologo ritorna a casa festoso dalla passeggiata, per una nuova lumaca che è riuscito a prendere; mentre l'anatomico rimane collo scalpello sospeso, nell'atto di una compiacenza superiore, sopra un cadavere ributtante, perchè egli ha sotto gli occhi un caso di inaspettata importanza.

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L'interesse più grande che ci ispirano i lavori pittorici consiste nella compiacenza di veder imitata la natura, in modo che l'occhio rimane ingannato, e la mente si meraviglia come l'uomo abbia potuto sopra un piano e con poche tinte rappresentare immagini che rassomigliano tanto a quelle prodotte dai veri oggetti. È per quest'unica ragione che un grappolo d'uva, che è un oggetto comunissimo, non ci può interessare; mentre, dipinto perfettamente, può rallegrarci la vista ogni volta che lo guardiamo. Questo primo elemento entra a far parte di tutti i piaceri offerti dalla pittura, e costituisce quasi da solo le sensazioni che ci sono date dalla rappresentazione degli oggetti inanimati. II secondo elemento, che unito al precedente, forma gli effetti più sorprendenti, è la compiacenza di veder sorpresa la natura in un suo atto rapido e passeggero, per cui noi possiamo avere ad ogni istante sottocchio una scena che occorre in occasioni rare o lontane. Il paesista fissa sopra una tela il guizzar del lampo o il lieve tremolare delle onde, nello stesso modo che il ritrattista ferma ne' suoi quadri le umane passioni, arrivando a sorprendere perfino il fulmineo balenar degli occhi irati o il languore voluttuoso e incerto d'uno sguardo amoroso. Altre volte l'arte riunisce in breve spazio infinite bellezze, o le perfeziona, elevandole a un grado superiore al naturale. Così il pittore d'ornato riunisce gli elementi della simmetria, che qua e là si trovano sparsi nella natura, creandone nuove combinazioni; come il paesista ci presenta sopra una sola tela gli elementi di tanti paesaggi, facendone una vera creazione. È in questo modo che noi, senza uscire di casa, possiamo viaggiare in tulle le regioni della terra e commuoverci alle scene più affettuose o ai casi più strabilianti; riposarci nella calma di una figura angelica che dorme, o fremere nel turbine delle battaglie. Ai piaceri sensuali della pittura concorrono poi l'attenzione spinta fino all'analisi, l'amore di raccogliere e di possedere, e la vanità in tutte le sue forme. La fotografia è un grado minore della pittura, perchè vi manca il lato creativo dell'artista. Ma lo studio dei piani, il tono della luce, il punto di vista, la lunghezza della posa, fanno della fotografia un'arte particolare, che dà piaceri visivi sia per la scelta, sia per le positive che si possono ottenere. La scultura ci dà molti piaceri consimili a quelli della pittura, ma dai quali sono quasi sempre escluse le sensazioni dei colori. Qui il piacere è più sensitivo e meno intellettuale; perchè non si hanno figure, ma forme, e la fantasia riposa, trovandosi davanti immagini che tanto si rassomigliano a quelle che ci sono date dagli oggetti reali. L'architettura, la cesellatura e tulle le arti che imitano gli oggetti, ci dànno piaceri consimili ai precedenti, o che variano soltanto entro ristretti confini. In generale, il piacere è tanto maggiore quanto più noi abbiamo disposizione a quell'arte. Il profano vede, il dilettante guarda, l'artista osserva e si immedesima col capolavoro dell'arte. Questi tre individui camminano sopra una stessa strada, ma si arrestano a diverse stazioni. Canova contemplando Ia Venere Medicea, doveva fremere di voluttà; mentre Davy, dopo aver attraversato una famosa galleria, non sostava che davanti a una statua per dire: «Che bel pezzo di carbonato calcare!». Il caleidoscopio, il panorama, il diorama, la lanterna magica, lo stereoscopio e altri giuochi consimili sono fondati sui piaceri della vista, e ci rallegrano colla varietà delle immagini e coll'imitazione della natura. Il perfezionamento e la unificazione di tali apparecchi ha portato alla cinematografia, che è un trionfo di luce e di colore, atto a procurare i più intensi piaceri della vista. Se a questo si aggiunge l'ultimo portato della scienza e dell'industria, la televisione, si vede subito che ormai per l'uomo non vi sono più limiti nella ricerca del sodisfacimento di ogni suo bisogno e del raggiungimento d'ogni suo piacere. Anche il teatro procura larga messe di piaceri visivi, sia pei scenari che spesso sono veri capolavori di arte pittorica, sia per le scene che riflettono così bene la vita sotto gli aspetti più o meno drammatici. La fantasmagoria è un divertimento poco conosciuto, ma che è di effetto sorprendente. Noi siamo immersi in una profonda oscurità che a un tratto viene rotta da un punto luminoso, il quale per la sua piccolezza ci pare infinitamente lontano; ma ad un tratto si ingrandisce, piglia forme distinte, e sembra correre alla nostra volta; finchè la figura, arrivata ad una straordinaria grandezza, minaccia di precipitarsi su noi; ma poi, subitamente come è apparsa, si rimpicciolisce e si allontana per sparire nel buio. Le lenti e gli specchi che ingrandiscono, impiccoliscono, spesso deformano, e moltiplicano le immagini, possono piacerci per la novità delle sensazioni. Lo specchio piano riflette l'immagine dei corpi nella loro grandezza naturale, e ci può svagare con sensazioni, ma più ancora perchè riflette la nostra immagine, che possiamo rendere più o meno ridicola con opportune smorfie. In questo caso però il piacere deriva quasi interamente da un sentimento, e lo specchio riflette, assieme ai nostri tratti, la nostra vanità e il nostro egoismo. Queste gioie però sono innocenti, e si perdonano volentieri alla donna, che per qualche ora sta chiusa religiosamente nel laboratorio della sua toeletta per farsi bella e seducente. I fuochi d'artifizio fondati sui piaceri della vista, ai quali si associano poche sensazioni dell'udito. L'intensità della luce, la vivezza dei colori, il moto della immagini, sono i tre elementi che ne costituiscono la bellezza. I piaceri che si hanno dall'arte pirotecnica sono anch'essi complicati da elementi morali; e basterà rammentare a questo proposito la bianchissima luce del bengala che ci rappresenta la calma associata allo splendore e alla forza, e il vorticoso moto di un brillante girasole che inebbria la vista con tanta lussuria di luce e di moto. I fuochi d'artificio, presi in massa e ridotti a una formula che ce ne rappresenti quasi il valore fisiologico, si possono dire l'espressione più vera dell'allegria popolare; la quale, nel sorger subitaneo, nello scintillare rapido e prorompente, e negli scoppi tempestosi, è rappresentata a meraviglia dal balenare dei razzi, dal fremito delle piogge di fuoco e dal detonar delle granate e dei petardi. È per questo che tanto la sagra di un villaggio, quanto una festa solenne civile, terminavano spesso con fuochi di artifizio. La prima si accontenta dello sparo di una dozzina di insolenti mortaretti e di qualche umile razzo; mentre la seconda ci mostra tutto l'apparato sfolgorante dei prodotti più favolosi della pirotecnica. Le illuminazioni sono fuochi d'artifizio fissi per breve tempo, semplicissimi, che rappresentano una gioia calma e duratura. Il montanaro annuncia le sue feste accendendo i fuochi che brillano sulle cime dei monti, come le stelle con le quali sembrano confondersi. Il cittadino invece illumina le sue feste con torrenti di luce, che piovono da splendide lumiere e da ricche lampade elettriche. La luce è adorata dai popoli di Oriente sotto varie forme; essa raccoglie intorno al focolare gli uomini di tutte le nazioni; rallegra e dà vita, insieme al calorico suo fido e degno compagno. I piaceri della vista hanno una grandissima parte in quasi tutti i giuochi ed in un'infinità di divertimenti molto complessi: il ballo, il teatro, la caccia, la pesca, e tutti gli spettacoli grandi e piccoli, dal presepio meccanico alla grande esposizione, sono altrettante feste per il senso della vista, che aprono all'uomo uno smisurato orizzonte di piaceri, del quale non sono stati tracciati i confini. L'arte non ha ancora esaurite tutte le combinazioni degli elementi che già si conoscono, come l'ingegno umano non ha ancora piantato le colonne d'Ercole ai confini del mondo. Si faccia fare domani all'ottica un altro salto identico a quello che le fece fare Galileo, e noi vedremo aprirsi miniere infinite di nuovi piaceri. Da una parte vedremo col microscopio gli atomi primi dei corpi, mentre dall'altra contempleremo nuove regioni di mondi regolate da altre leggi di moto. Le opere più moderne di microscopia e di astronomia invecchieranno di un secolo in un giorno, ma l'uomo sarà contento di se stesso.

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