Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170081
Mantegazza, Paolo 24 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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E perchè il libro abbia meglio a rispondere alle condizioni nuove di vita e alle esigenze dei lettori, che hanno ormai gusti letterari moderni e più raffinati, abbiamo incaricato il prof. Andrea Ferrari di rendere la forma più snella e più corrente, alleggerendola in taluni punti, in altri sostituendo le espressioni alquanto antiquate, ritoccando qua e là il periodare talora prolisso e stanchevole. Ma in questo tentativo di ammodernizzare la forma, e soprattutto di aggiornare il contenuto secondo le nuove scoperte e gli ultimi portati della scienza, è stata nostra cura precipua quella di lasciare integra la sostanza; sia pel dovuto riguardo all'autore, sia soprattutto perchè la materia è trattata dal Mantegazza con squisito senso artistico e scientifico, con tatto particolare, e sotto ogni punto di vista in modo esauriente e completo. Dalle prefazioni, che l'autore ha premesso alle prime edizioni, ci piace riportare qui il «Decalogo di Epicuro», che il Mantegazza ha posto in fronte al suo libro, come guida e ammaestramento «con cui ognuno potrà essere uomo felice, purchè lo voglia».

Per rimediare a questo difetto, pare che la natura abbia voluto mettere in noi un altro sentimento di riserva, il quale, essendo di ordine meno ideale, può essere facile a tutti: l'onore. Se al sentimento purissimo e trasparente della nostra dignità aggiungiamo una dose infinitesima di amor proprio, che è di colore molto spiccato, noi diamo al primo una tinta visibile agli occhi miopi. Basta per questo far subire alla nostra dignità una seconda riflessione, coll'emanarla al di fuori di noi sulla coscienza dell'umana società. Allora il raggio purissimo della nostra immagine morale si associa a qualche cosa di plastico e di sensibile, e noi, ricevendolo di ritorno nella nostra coscienza, lo sentiamo più intensamente. L'onore è uno dei sentimenti più indefinibili, perchè è un vero mezzo termine, un'immagine di mezza tinta adattata dalla natura alla umana debolezza. L'uomo di cuore elevato si difende da ogni bassezza, col solo sentimento della propria dignità, e l'onore per lui non è che un sinonimo. Se anche fosse isolato dall'umanità intera, non si abbasserebbe mai di una linea, perchè egli rispetterebbe la propria immagine morale come cosa santa, e non potrebbe tollerare i rimproveri del proprio alleato. L'uomo mediocre, invece, ha bisogno dell'aiuto dell'umanità intera per non venir meno alla propria dignità; ha bisogno del terribile spauracchio del disonore per non darsi vinto al primo cozzo d'armi. L'uomo elevato vede aperto il santuario e nudo il dio; mentre l'uomo volgare ha bisogno del tabernacolo e della reliquia, e l'umanità intera gli va ripetendo, che sotto lo splendido manto carico d'oro e di gemme, ch'egli adora, sta un dio formidabile che non si può impunemente offendere. In questo modo egli ubbidisce ad una potenza misteriosa che, curvandogli la cervice, non lo lascia guardare in alto, e il di cui nome basta a farlo tremare. Egli è superstizioso, mentre l'uomo che sente la propria dignità è religioso. Man mano che l'onore si va allontanando dal suo primitivo tipo di perfezione, esso si avvicina all'amor proprio, finchè si confonde colla vanità. Le pareti del tabernacolo si vanno ingrossando sempre più, mentre il dio che vi sta racchiuso si va facendo piccino piccino, finchè scompare del tutto. In questo modo può darsi che un uomo non si abbassi mai ad una viltà senza avere palpitato al sentimento della propria dignità. Egli ha ubbidito ad un codice che ha trovato già scritto nascendo, egli ha adorato un dio che non aveva mai conosciuto. Le leggi che regolano i piaceri della propria dignità e dell'onore sono le stesse, perchè sono determinate da un'identica natura. Essi sono quasi sempre negativi, cioè derivano, dalla riparazione di un'offesa. La dignità e l'onore non possono mai transigere senza portare se stessi alla perdizione; per cui, rimanendo immacolati, producono una gioia calma, che il più delle volte non si fa sentire. Quando invece sono messi in pericolo di vita, essi sorgono animosi alla riscossa e si riposano gioiosi sui loro altari. La nostra dignità non si compiace che delle grandi battaglie, mentre l'onore è fatto per le scaramucce. Nei grandi fatti d'arme esso fa da bersagliere. L'influenza di questi piaceri si esercita su tutti i sentimenti anche i più nobili e generosi, e la virtù è sempre il primo convitato alle loro feste. Leggendo la storia, si trovano molte azioni eroiche che si devono alla sodisfazione di questi sentimenti, e scorrendo negli archivi della memoria, ognuno può ricordarsi di aver provato queste gioie. Fortunatamente l'onore non è lettera morta che per pochissimi. L'uomo e la donna sentono ugualmente la propria dignità e l'onore; ma l'espressione di questi sentimenti riesce più seducente nella donna, perchè il coraggio morale, compagno della debolezza fisica, ispira maggior simpatia e ammirazione.

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Pochissimi fortunati con un solo colpo d'occhio misurano il secolo in cui vivono e la distanza che devono percorrere; e, gettandosi a corpo perduto nella strada che pare la natura abbia fatta per essi, corrono rapidamente alla loro meta. Quasi tutti coloro però che avrebbero diritto di aspirare alla gloria, messi nel centro che da sè dirama come tanti raggi le vie della scienza, corrono forsennati qua e là, senza sapere dove inoltrare il passo. Con lo sguardo vanno osservando tutte le strade, e nella baldanza del loro giovane cuore vorrebbero gettarsi in tutte ad un tempo, o percorrerle successivamente. Più d'una volta s'inoltrano di alcuni passi in un sentiero, e, impazienti di trovarlo troppo angusto o soverchiamente lungo, ritornano insodisfatti al centro donde sono partiti, maledicendo nel loro insano furore la natura che non concede ad essi una vita di secoli. Ma, infine, spossati dalle inutili aspirazioni e dalla lunga lotta, gettando un ultimo sguardo di desiderio alle regioni che non potranno percorrere, entrano rassegnati e tranquilli in una qualunque delle vie e vi si adattano per la vita. L'amor della gloria non può essere consentito che al genio, e pei mediocri è una profanazione o una bestemmia. La grandezza di questa passione proporzionata all'altezza della mente che la guida, ed anche quando arriva al fanatismo, essa arde e divora l'uomo che la sente, ed illumina l'umanità. Più d'una volta il genio si è offerto vittima spontanea sull'altare dell'umana civiltà, e ardendo se stesso è brillato in mezzo alle tenebre e si è spento. Egli ha acceso il proprio rogo, ma l'umanità, rischiarata da quel raggio, ha fatto un passo avanti in attesa di una nuova vittima e di un nuovo lampo di luce. Le turbe che formano l'umana famiglia sono mandre di ciechi che brancolano nelle tenebre e dirigono i loro passi nei sentieri determinati dallo spazio e dal tempo. Ma un solo genio compare, e gli occhi attoniti delle moltitudini a lui si rivolgono cercando luce e calore. Ed egli illumina i loro passi, e colla sferza della sua volontà obbliga a correre per un istante, onde guadagnare il tempo perduto; e finchè egli brilla, gli uomini gli corrono dietro, e a fuoco spento, quando l'astro è tramontato, l'umanità riprende il cammino per le sue vie. Le gioie della gloria brillano come soli, ma si acquistano a caro prezzo. Appena il genio si inoltra nella via che si è tracciata, mille nemici gli muovono contro cercando di arrestarlo nel suo ardito viaggio. I pregiudizi, l'invidia, l'odio, l'ignoranza, gli fanno inciampo ad ogni passo, ma egli lotta coraggiosamente per vincere e tirare innanzi. Nè questo basta: egli aspira con furore agli applausi, alle corone d'alloro, ai trionfi; ma invece più d'una volta percorre lunghissima via senza che un solo applauso ne rianimi gli spiriti affranti, senza che una mano pietosa lo sostenga nell'aspra lotta, o gli additi all'estremo orizzonte il premio che lo aspetta. Egli cammina solo e muto, per cui spesso teme di avere sbagliato la via, o di parlare in una lingua che gli altri non possono intendere. Allora si arresta esitando, e domanda a se stesso se veglia o sogna, se pensa o delira; finchè, confortato dalla propria coscienza, che riflette la sua mente in tutta la sua grandezza, prende coraggio e va innanzi. Spesso la gloria non è raggiunta che presso la fine del lungo viaggio; qualche volta ancora essa non depone la sua corona che sopra un cadavere, o sul freddo sepolcro manomesso dagli archeologi. Una vita consacrata alla gloria si può quasi sempre rappresentare con un fondo radioso di speranza, trapunto qua e là con foglie avvizzite di alloro. Il lampo di un momento di gloria sfavilla però di tanta luce, che basta ad illuminare l'oscurità di lunghi anni di fatiche e di miseria. Il delirio il più sfrenato non basta in quell'istante ad esprimere la pienezza della gioia che trabocca da ogni parte e non trova nei poveri mezzi del nostro organismo segni che bastino a rappresentarla. Eppure il genio, quando non spregia la gloria con fervido senso di superiorità, non si accontenta quasi mai dell'apoteosi più sublime, e, guidato dalla sfrenata fantasia, sogna glorie maggiori e più splendidi trionfi, e numera, con l'avidità dell'usuraio, i capitali della mente per vedere se può trarne ancora un interesse maggiore.

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Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Questo non gli impedisce di essere uno dei migliori galantuomini e dei cuori più generosi ch'io abbia mai conosciuto. L'amore del furto è, fortunatamente, una malattia sporadica che non arriva mai a farsi epidemica, e che compare qua e là nei due sessi e nei diversi paesi senza regola e senza misura. La civiltà può influire sul numero dei ladri di professione, ma non nella statistica dei dilettanti dell'arte, i quali nascono spontanei come i geni e da soli si sviluppano, arrivando qualche volta a un grado molto pericoloso di perfezione. Quando la presenza di estranei non impedisce al ladro di esprimere le sue gioie, egli ride di cuore, o sorride, o si frega le mani; ma in qualunque modo la sua fisonomia presenta sempre un'aria maliziosa, che svela il carattere morboso della sua gioia. Più d'una volta egli burla la persona derubata, come se fosse presente, arrivando in questo modo a render ridicola a' suoi occhi una disgrazia che deve far soffrire gli uomini dabbene, offendendo in loro il sentimento del giusto.

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L'uomo, animale destinato a vivere in società, deve avere necessariamente un legame morale che lo unisce a' suoi fratelli, e la natura gli ha concesso un affetto primitivo che nasce in lui e con lui muore, e che, oscurandosi nelle burrasche più violente delle passioni, torna però sempre a risplendere nel cielo, appena la calma abbia diradato le nubi che hanno ottenebrato l'orizzonte del cuore. Questo sentimento lega quasi tutti gli uomini per mezzo di un filo misterioso, facendone un sol corpo, un solo individuo. I mari e i monti sembrano dividere qua e là la catena che lega gli uomini da un punto all'altro della terra, e gli odii delle nazioni e dei governi spezzano violentemente il filo degli affetti; ma la corrente emanata da un popolo che soffre o esulta, che s'innalza o si abbassa, se non può correre con rapidità telegrafica, si diffonde però lenta e calma una superficie della terra ed arriva a confondersi con la corrente sempre viva, che produce da ogni parte l'umana famiglia, divisa ne' suoi innumerevoli alveari. Qualche volta una scintilla emanata dal genio ha impiegato molti secoli a far sentire la sua scossa all'umanità intera; ma nessuna corrente è andata mai perduta, e nella vita morale che riceviamo per eredità di nascita e di educazione, si confondono ancora misteriosamente le conquiste di Alessandro, la caduta dell'Impero romano e le guerre dei Crociati. L'oscillazione partita da Betlemme, or sono venti secoli, va diffondendosi ancora nelle estreme regioni dell'Australia, a cui misteriosamente si affiancano i fremiti partiti dalla Mecca. A scosse impetuose, o per correnti insensibili, il minimo movimento fa oscillare l'umanità intera, l'elidersi e l'incontrarsi misterioso di mille fremiti che partono da ogni punto del mondo abitato costituiscono la vita morale dell'umana famiglia. Nei grandi centri della civiltà, dove gli operai della macchina sociale formicolano laboriosi, le scintille partono senza posa; e diffondendosi per la rete delle strade ferrate e dei telegrafi, fanno muovere le nazioni d'Europa e d'America ad una vita agitate e turbinosa; mentre nelle lontane colonie, le correnti emanate dalle grandi pile della civiltà, arrivano deboli e lente, sicchè non producono più nè scintilla, nè scossa. A poco a poco per la forza della pila si accresce, i fili telegrafici, per i quali corre il pensiero, si moltiplicano, e noi ben presto dal centro dell'Europa potremo far palpitare con noi della stessa vita i selvaggi della Patagonia e quelli della Micronesia. In ogni modo un sentimento collega l'uomo all'uomo in un moto di simpatia. Indeterminato e confuso, questo affetto è il fondo sul quale si intrecciano tutte le passioni più o meno violente che legano fra loro alcuni individui, e ben di rado si mostra in tutta la sua semplicità e senza che il cuore v'abbia trapunta qualche immagine più viva. Due uomini, che provano il piacere di avvicinarsi, soddisfano il più semplice di tutti i sentimenti di seconda persona, che potrebbe chiamarsi affetto umano e sociale. Ben di rado però questa gioia esiste da sola, perchè l'oscillazione comunicata a questo sentimento, trae quasi sempre in simpatia d'azione altri affetti che lo elidono o lo ravvivano. Così, se due uomini che si incontrano si fanno paura, l'amore di se stessi oscura subito il piacere di vedersi, ed essi si allontanano o si mettono sulla difensiva. Se invece i due uomini parlano una stessa lingua e si conoscono a vicenda, associano al piacere di sodisfare il sentimento sociale, la gioia intellettuale di comunicarsi i propri pensieri. L'affetto sociale è soddisfatto tutte le volte che noi accomuniamo la nostra vita con quella di un altro uomo, sia che guardiamo semplicemente, insieme ad uno sconosciuto, uno stesso oggetto, sia che ci trovi assieme a migliaia di persone ad assistere allo stesso spettacolo. La parte misteriosa che prende questo sentimento a tutte le nostre gioie, viene espressa complessivamente della parola compagnia; ma riesce molto difficile a definirsi. Nello stesso modo che probabilmente in tutti i corpi trovasi misteriosamente celato qualche imponderabile, così in quasi tutti i nostri piaceri entra, come elemento indispensabile, l'affetto sociale: anche in moltissime gioie individuali, senza volerlo, si vive e si gode insieme a un'immagine che è fuori di noi. L'egoista più perfetto può isolarsi finch'egli vuole, ma è pur sempre un membro dell'umanità che deve con essa soffrire e con essa godere; e l'uomo individuo può resistere fisicamente, ma non moralmente; perchè l'uomo-completo, l'uomo fisiologico è sociale e vive insieme all'umana famiglia, anche quando vuol isolarsi da essa nella solitudine più profonda. L'uomo che ha vicino un altro uomo, e non ha alcuna ragione di odiarlo, anche senza vederlo lo sente, e senza saperlo comunica moralmente con lui. Supponendo che un uomo privo di tutti i sensi, tranne del gusto, sappia di essere a tavola con altre persone, egli ne sente la presenza e gode della loro compagnia. In questo caso il suo piacere è semplice e puro, e non deriva che da una sodisfazione passiva del sentimento sociale; egli non vede nè ascolta i suoi vicini, ma sa di essere in mezzo ad esseri della sue specie, e ne gode. Questo affetto però è così delicato, che si lascia modificare dalle passioni più miti. Così basta che il povero cieco e sordo-muto pensi un momento alle sue sventure, perchè il dolore cancelli il piacere ch'egli prova, e, invece di amare i suoi commensali, li invidi e li odii. Il sentimento sociale non ha che un carattere vago e indistinto quando ci mantiene allo stato di potenza, ma prende invece una forma determinata quando passa allo stato di forza attiva. In questo passaggio esso presenta il carattere speciale di tutti gli affetti, di seconda persona ai quali serve di sfondo, e che tutti rappresenta nelle leggi fondamentali che lo reggono. L'egoista e il superbo possono agire con veemenza e passione per sodisfare i loro piaceri prediletti, ma riflettono sempre in se stessi lo scopo dell'azione; mentre l'uomo che ama di qualunque affetto un suo fratello, pone la sodisfazione del proprio sentimento fuori di sè e si rallegra delle gioie altrui, provando un piacere molto maggiore, quando egli stesso direttamente ridesta nell'altro la gioia.

Pagina 152

Domandate ad una donna che ama, se ella abbia trovato nei cento volumi di letteratura e nei romanzi che ha letto, una storia esauriente dell'amore. Ella vi risponderà sorridendo che i libri hanno spigolato qua e là qualche gemma del tesoro, hanno involato qualche scintilla del vulcano; ma che la storia dell'affetto che le rode il cuore e le divora la vita col piacere e col dolore, non è stata mai scritta e forse non lo sarà mai. Nè io tenterò di tracciarla, e le donne che mi leggeranno potranno accusarmi di ignoranza, ma non di superbia. Per quanto sia smisurato l'arsenale di forme alle quali può ricorrere l'amore, esso in generale è costituito dal bisogno del riavvicinarsi dei due sessi, che devono comunicare la vita alla materia e formare un nuovo individuo. La parte che prende il sentimento in questo fenomeno è costituita dal sentimento dell'amore, il quale può arrivare a tal grado di potenza da far dimenticare lo scopo ultimo. È in tal modo che moltissimi si rifiutano ad ammettere che il fine essenziale e necessario dell'amore sia il congiungimento dei sessi, e credono che la definizione di questo sentimento, com'io l'ho data, tenda ad avvilirlo. La verità non può mai abbassare ciò ch'essa impronta del suo suggello. L'unione dei sessi non è un'azione brutale, nè vile: è legge necessaria di natura, è fenomeno fra i più belli della vita, e che solo l'uomo può deformare e avvilire colla prostituzione della morale, come può fare delle cose più belle e più sante. Si può amare, e violentemente, di purissimo affetto platonico, senza neppure pensare all'amplesso; ma nell'ordine, naturale delle cose, questa passione è sempre fondata sull'idea fondamentale del sesso e della generazione. Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

Pagina 167

Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

Pagina 186

La speranza non è un sentimento primitivo, nè una forza originale che abbia un punto fisso di partenza e una sua regione unica e necessaria, ma è soltanto un atteggiamento degli affetti, un'oscillazione del desiderio verso una meta, uno dei fenomeni più delicati e interessanti del mondo morale. È un desiderio, è un bisogno, è il profumo di un affetto che cerca un altro affetto è una vela che cerca la brezza d'una forza intellettuale che la possa sospingere. Il desiderio, intemperante e leggero, si innalza dapprima rapido e veemente, senza consultare la bussola, senza fiutare il vento e fors'anche senz'aver mai conosciuta la meta che deve raggiungere nè la strada che deve percorrere. Baldo e impaziente, non aspira che a salire, e, elevandosi, gode del moto concitato e libero, senza guardarsi attorno e senza dubitare. Ma non sempre la meta è raggiunta, e il caso ben di rado fa seguire la strada retta che riunisce il bisogno al piacere. Più spesso la nube leggera e vaporosa del desiderio, dopo essersi elevata rapidamente nelle regioni superiori dell'atmosfera, si arresta incerta e pende oscillante nell'etere. Là spirano lenti, tiepidi e profumati gli zeffiri, e sostengono mollemente sulle loro ali azzurre il desiderio che, senza salire nè discendere, vibra ed oscilla. Quel moto soave è la speranza, quella regione immensa è il campo a cui si elevano tutte le umane passioni, è il limbo dove i desideri stanno sospesi fra il cielo e l'abisso, aspettando la vita o la morte. Voi tutti dovete conoscere quella regione, perchè voi tutti certamente avete desideri che aleggiano sull'estremo orizzonte dei vostri sogni, e che vibrano del moto armonioso della speranza; voi tutti dovete avere colà le vostre nubi sospese, voi tutti dovete seguire con trepidazione le vicende delle vostre navicelle scorrenti su quel mare senza confini. Sì, un oceano senz'onde, ma temibile nella bonaccia e nella tempesta, e le nubi leggere del desideri che vi stanno sospese tremolano sempre incerte e paurose. Sono così delicati quei fiocchi di vapore che, scossi appena oltre la molle ondulazione della speranza, soffrono il timore, vero mal di mare di quell'oceano misterioso. Di quando in quando una nube oscillante a lungo precipita d'improvviso, colpita da un freddo mortale che l'ha condensata. Allora il moto della speranza cessa, e il dolce dolore tien dietro alla gioia. Altre volte un benefico raggio di sole arresta il desiderio nella sua caduta, e la nube, espandendosi leggera, oscilla ancora al moto soave della speranza e si innalza di nuovo. Così avviene che spesso gli umani desideri, in una vera altalena morale, pendano tra la speranza ed il timore, ed or salendo, or precipitando, occupano la vita. Qualche rara volta il desiderio, dopo aver vibrato del moto della speranza, si innalza rapido e diritto, e raggiunge la meta. In tutti questi movimenti, in tutta questa vita meteorica e nebulosa l'uomo passa la più gran parte dei suoi giorni, godendo delle gioie più vive, o soffrendo le più atroci delusioni. La ragione principalissima che rende tanto seducente la speranza è il moto incerto e alterno del desiderio, il quale aspetta e non dispera, vede ad ogni momento lo scopo, e ad ogni istante crede di poterlo raggiungere. Molti dei nostri desideri, dopo essere apparsi all'orizzonte nel primo spuntare della ragione, rimangono sempre oscillanti allo stesso posto fino alla morte. Più d'una volta la formula della vita di un uomo potrebbe essere rappresentata da un'unica nube, che paziente e sicura aspetta al medesimo posto il vento che dovrebbe innalzarla o abbassarla in mezzo alle intemperie e alle procelle dell'esistenza. Le gioie più vive però si provano quando il desiderio, oscillando di speranza, s'innalza a un tratto verso la meta. Vi è una vera e suprema voluttà in quella ascesa. La massima gioia si prova nel momento in cui la speranza diventa realtà, quando l'ultima oscillazione del desiderio che si perde si confonde col primo fremito della sodisfazione che comincia. Un'altra sorgente fecondissima di gioia deriva dall'alternarsi della caduta con la salita, del timore con la speranza. Per alcuni individui la tempesta agitata di queste incertezze costituisce anzi la massima voluttà. Tutti possono rammentare la trepida ansia di qualche momento della vita, nel quale si passa improvvisamente dalla speranza al timore, o dal dolore alla gioia. Una lettera impazientemente aspettata a lungo, e forse ormai non più sperata, ci arriva. I caratteri dell'indirizzo ci sono sconosciuti, ma il timbro della posta ci fa ritenere che quel foglio non possa assolutamente venire che da quell'unica che sopra tutte abbiamo in mente. La speranza più soave ci fa sospirare e sorridere: trepidanti guardiamo la lettera senza osare di aprirla. Là dentro vi è forse già segnata in nostra sentenza, là forse sta scritto il destino del nostro avvenire. L'impazienza ci consuma, ma il coraggio ci manca; e, guardando e riguardando, cerchiamo di indovinare dal modo in cui è scritto l'indirizzo, e fin dal modo con cui la lettera è stata suggellata le disposizioni dell'animo di chi ce l'ha indirizzata. Finalmente, dopo uno sforzo energico, la busta è rotta, il foglio è aperto, l'occhio avido e irrequieto corre alla firma, misura la lunghezza dello scritto e la commenta... Un rifiuto non potrebbe essere così lungo, una risposta consolante non sarebbe così breve. Tutto tortura e tutto consola, e passando dalla speranza al timore, in brevissimo intervallo di tempo proviamo uno spasimo di gioia e di dolore che non ha nome. Fra la disperazione e la felicità sta un deserto immenso, sul quale la speranza semina un sentiero di molle erbetta, che, ristrettissimo dapprima, va man mano dilatandosi fino a formare un vasto prato sempre fiorito, un vero eden di delizie. I gradi della speranza sono infiniti e si può dire che essa muta di volume ad ogni istante, tanto è sensibile ai minimi cambiamenti di temperatura, che or la condensano ed or la espandono. Tutti gli uomini sperano, ma non se ne trovano due soli che abbiano lo stesso capitale di speranza: l'uno è milionario e l'altro è pitocco; l'uno impiega i suoi fondi al cento per uno, e l'altro a stento ne ricava l'uno per cento. L'interesse della speranza è la gioia; ma come vi sono capitali che non dànno interesse, così vi è qualche speranza che non produce piaceri. Allora bisogna intaccare e divorare il capitale, misurandolo colle pretensioni della fame e coll'avarizia della miseria. Qualche volta, dopo aver consumato tutta la propria sostanza, bisogna vivere di elemosina, e in questo caso fortunatamente si trova molta generosità: tutti sono pronti a offrirvi il loro obolo e a mostrarsi caritatevoli. Quando poi non vi sentite di abbassarvi all'umiliazione dell'accattone, privatevi di qualcosa e andate a comperare un po' di speranza. Non mancano le botteghe dove la si vende; non mancano gli usurai che la pesano a libbre, ad once, a grani, e la vendono a tutti i prezzi, secondo il valore che hanno i fondi della fede pubblica. Quando l'uomo non può comperare un soldo di speranza, o quando non vuole abbassarsi al vile mercato, diventa suicida. L'uomo vivente senza speranza è un paradosso. Si può vivere senza godere, si può vivere in mezzo al dolore; ma per sopportare la vita bisogna avere fra mani una cambiale di gioia per l'avvenire, dovesse essere di un centesimo, dovesse essere falsa: una cambiale speranza. Essa costituisce il contravveleno dei più atroci dolori, il balsamo più soave delle piaghe morali. Quand'essa arriva a costituire un grande capitale può bastare a render amena la vita. Moltissimi individui si credono ricchi, perchè hanno nei loro scrigni fasci di valute, che potrebbero perdere tutto il loro valore col fallimento o la frode di un banchiere; così molti si credono felici perchè hanno fra mani mille cambiali per l'avvenire segnate dalla speranza. Essi muoiono sorridenti e beati senza che uno solo di quei biglietti di credito sia mai stato convertito in moneta sonante. È sotto quest'aspetto che alcuni economisti proclamano altamente che si debba in ogni caso impiegare i propri fondi su beni stabili e non sopra la carta; ma io trovo che quando non si può avere danaro sonante, è sempre meglio avere un credito, anche se inesigibile. Vi sono negozianti che lavorano sopra un capitale di credito, e vi possono essere anche uomini che vivono sopra un capitale di speranza. Quel che preme per giungere ai primi posti nel teatro della vita, è di avere qualche cosa fra mani onde abbagliare o ingannare il portiere, che fissa i posti alla folla che incalza per passare. In qualche caso ho veduto un petulante ciarlatano riescire a passare ai primi posti con un artifizio ingegnoso. Dopo avere sbuffato a lungo di impazienza e avere schiamazzato davanti alla porta per la quale doveva entrare nel teatro della vita, egli dava un pugno solenne sugli occhi del portiere, il quale, quasi accecato dal barbaglìo del colpo, credeva di vedere molt'oro, e curvandosi fino a toccare il suolo con la fronte, lasciava passare. L'oro porta sempre fra i primi posti. Se non volete credere a tanta imbecillità da parte del portiere, vi dirò che chi presiede alla distribuzione dei posti e alla gerarchia delle autorità è l'opinione pubblica, e allora mi crederete subito sulla parola.

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La lotta fra la ragione e la fantasia è la storia di uomini grandi; ma nei grandissimi queste due forze sono sempre compagne inseparabili, sebbene la seconda abbia per la prima la riverenza del figlio e del discepolo. I piaceri della fantasia ci rendono quasi sempre amanti della solitudine, perchè questa favorisce lo sviluppo più completo delle immagini, mentre il moto continuo, turbinoso del mondo ci distrae da ogni concentrazione fantastica. Essi hanno l'inconveniente di renderci meno interessanti gli spettacoli del mondo reale, i quali sono quasi sempre al disotto delle splendide immagini ch'essa crea col suo magico pennello. La fantasia, disponendo di tutto il mondo morale, può far entrare nel suo caleidoscopio anche le immagini date dal sentimento, le quali, essendo come le altre molto vive, possono arrivare al punto di illuderci sulla realtà di un affetto che non esiste in concreto. È in questo modo che alcuni uomini dotati di viva fantasia credono di possedere un cuore delicato e generoso, perchè possono descriverne gli affetti più veementi o squisiti. Può darsi che essi sentano veramente mentre parlano e scrivono, ma la fiamma suscitata dalla loro fantasia può essere spenta da un istante all'altro dalla volontà, mentre il fuoco dell'affetto non può essere spento dalla mente. Si può avere la fantasia più fervida e il cuore più arido del mondo. Essa è una facoltà puramente mentale, e quantunque possa rassomigliare assai a un sentimento nelle sue forme, non gli si avvicina mai nella sostanza.

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Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.

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Nei pesci e nei rettili credo che nessuno abbia mai letto l'espressione della gioia, mentre negli uccelli la vivacità dei movimenti, il brio del canto e il brillare degli occhi esprimono chiaramente il piacere. I mammiferi, che vivono liberi nelle loro foreste, nascondono ai nostri sguardi i loro piaceri, per cui non ne possiamo conoscere la fisonomia; quando ci è dato avvicinarli e osservarli a lungo, possiamo leggere sul loro muso, il dolore o la paura se ci sanno più forti di essi; mentre se hanno muscoli e denti più potenti dei nostri, potremmo trovarci in un tale stato da non poter sicuramente analizzare la loro fisonomia. Gli animali domestici esprimono la gioia con segni particolari, che noi conosciamo benissimo; e tutti sanno come il cane dimeni la coda, e il cavallo muova le orecchie e nitrisca in modo particolare. Si può dire che le espressioni elementari del piacere sono comuni a tutti i mammiferi superiori, ma che il riso non è concesso che all'uomo soltanto.

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Man mano ,che l'uomo-bambino avanza nel sentiero della vita, egli gode sempre più, quantunque non abbia idea del piacere. Egli allora è allo stesso livello dei bruti, i quali possono spasimare di gioia, ma non possono sicuramente formarsi l'idea di una sensazione piacevole. Nella fanciullezza la verginità della sensazione supplisce alla imperfezione delle facoltà superiori, per cui le impressioni più indifferenti nell'età adulta possono allora fornire una sorgente di piacere. In quest'età, d'altronde, il meccanismo della vita è nell'uomo sano così attivo, e il moto della nutrizione così continuo e vivace, che soltanto la coscienza di esser vivo costituisce un fondo di gioia, che spande la sua allegra tinta su tutti i giorni di quell'età. Tutte le volte che il sistema nervoso si trova in uno stato di grande benessere e di leggero eretismo, la minima sensazione basta a produrre piacere. È per questo che il fanciullo sano è quasi sempre allegro. Del resto, in quest'età il piacere spetta quasi sempre ai sensi, e specialmente al senso del tatto esercitato dai muscoli ai sentimenti minori e alle facoltà intellettuali di second'ordine. Ben di rado in questa età i lavori mentali riescono piacevoli, perchè la debolezza delle facoltà dell'intelletto esige ancora un soverchio sforzo nel loro esercizio, perchè ne possa nascere un piacere. Si studia soltanto per dovere, e se si studia con gioia, è perchè si accontenta l'amor proprio e si soddisfano i parenti e i maestri. Il giovane gode in generale più d'ogni altro le gioie più fulgide della prima età assieme ai piaceri più severi dell'età matura, salvo le eccezioni. Il giovane diventa qualche volta suicida, spesso maledice la vita, chiama meretrice la speranza; ma egli è sempre un ricco che muore soffocato dalle dovizie, è uno, scialacquatore che, dopo aver abusato di tutto e consumato immensi capitali, grida alla miseria e alla disperazione. Quando tutto gli sorride, quando è padrone del mondo dei piaceri, quando la natura intera sembra vezzeggiarlo, quando le simpatie di tutti lo elevano al cielo, egli osa sbadigliare e sorridere di sprezzo e di cinismo, e in mezzo alla felicità osa, con un vero sacrilegio di ingratitudine, rassegnarsi alla vita. La giovinezza, in generale, è l'età delle più grandi gioie, e chi maledice nell'atto di goderne abusa della vita, e rimpiange poi inutilmente nell'età matura il tempo sprecato e le forze consunte. Nella giovinezza si comincia ad imparare nuovi piaceri, forse si gustano tutti; ben di rado si arriva a farsi un'arte o una scienza della gioia. Si corre a dritta e a manca, si vola e si sprofonda senza misurare gli abissi, nè le proprie forze. Purchè ci sia da lottare e da vincere, da percuotere o da esser percossi; purchè, insomma, si possa delirare nel fuoco di un rogo o nel gelo d'un ghiaccio, si vive e si gode. Il primo bisogno è quello di scatenare la forza che ci divora, e purchè si sprigioni per qualche valvola, non c'importa del resto. Ora essa si spegne nelle contrazioni dei muscoli, ora si svapora in un diluvio di progetti impossibili, ora fischia rabbiosa e concitata dalla valvola delle passioni più violenti, ed ora si rintuzza in lunghi e pericolosi studi. L'uomo che a vent'anni non può fare scialacquo, nè essere prodigo, non è giovane e non lo sarà mai. In mezzo a tante gioie però il giovane non si arresta quasi mai ad analizzarle. Impetuoso e violento, non ha appena fiutato un fiore, non ha appena sfogliato un libro, che getta il fiore, trascura il libro, e corre innanzi in mezzo al turbine del mondo, urtando, urlando e agitando le mani avide di cogliere, di afferrare e di rompere. Quante sublimi imprudenze, quante generose utopie, quante bestemmie e quante benedizioni segnano il corso fulmineo di quel pazzo fisiologico! La natura però segna certi confini alla prodigalità dell'uomo, e quando il sangue gli scorre meno concitato nelle vene e la stanchezza della lunga e rapida corsa gli fa rallentare il passo, egli ha il tempo di asciugarsi il sudore della fronte e di guardarsi attorno. L'uomo in quel momento diventa adulto. Gli anni e il vigore del corpo possono tracciare i confini delle età fisiche, ma non delle età morali. Queste si corrispondono spesso, ma non sempre. L'adolescente può in alcuni casi abusare di una precoce intelligenza, e a diciotto anni può fermarsi davanti all'arena della giovinezza, può guardarsi attorno prima di iniziare la corsa, può tracciarsi il sentiero della vita. Allora quest'uomo diventa adulto senza essere stato giovane. Egli ha preveduto i pericoli di una corsa disordinata e folle, ha misurato le proprie forze e non le ha trovate bastevoli per permettersi le feste della giovinezza; vi rinuncia spontaneamente, e si rassegna a prendere a vent'anni l'andatura posata dell'uomo adulto. In ogni modo, sia che l'uomo diventi adulto a vent'anni o a quaranta, le sue gioie cambiano di natura o almeno di forma, e mentre prima i capitali de' suoi piaceri consistevano quasi tutti in beni mobili, ora si sono cambiati in beni immobili. Nella giovinezza si preferisce il convulso alternar della Borsa, e purchè si abbia un interesse molto alto, si va incontro senza paura al fallimento e alla rovina. Oggi milionario, domani senza un soldo. In questa terribile altalena vi ha movimento, vita, delirio; il giovane ne è contento. L'adulto, invece, si accontenta dell'interesse del quattro o del tre per cento, ma lo vuol sicuro e ipotecato. Impiega i suoi capitali in case o in terre, ma diventa sempre tributario di tutte le case di assicurazione, da quella degli incendi a quella per la grandine e per i vetri della casa. I beni immobili che fruttano i piaceri dell'adulto sono i sentimenti della famiglia, le calme aspirazioni della gloria, lo studio, la considerazione di se stesso, il concetto di possesso, ed altri capitali consimili. Quando l'adulto diventa vecchio, egli si trova povero di gioie, poichè, ad onta delle sue economie e delle sue previdenti sollecitudini, il tempo inesorabile lo ha spogliato, ed egli diventa avaro. Allora toglie i suoi fondi dalle mani degli affittaiuoli, e diventa egli stesso amministratore e cassiere. S'egli potesse maneggiare la zappa diventerebbe ben volentieri anche coltivatore. Diffida di tutti e vuole da solo vedere e misurare, e, concentrando tutto intorno a sè, cerca di allontanare tutti quelli che hanno l'aria di parassiti; ei non ha torto; i capitali dei suoi piaceri, de' quali ha fatto tanto abuso nella giovinezza, si sono ridotti ai minimi termini. L'economia dell'età adulta ha riordinato alquanto le sue finanze ma il tempo, contro il quale non vi ha assicurazione, gli ha rovinato le case, gli ha isteriliti i campi. Non gli restano più che alcune care memorie, e le pallide gioie che ha conservate nelle proprie serre riscaldate artificialmente. S'egli è sano di mente e di corpo, non è infelice, e, quantunque vacilli e sorrida di rado, ama la vita con trasporto, fors'anche con vero furore; e checchè si dica, quando l'uomo ama la vita, è perchè essa gli dà più piaceri che dolori.

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Chi desidera di diventar ricco sperando di essere più felice, il più delle volte non si inganna, e d'altronde aspira alla cosa più naturale del mondo; ma chi vorrebbe esser nato ricco, a meno ch'egli non abbia il genio dell'economia politica, desidera un bene pericoloso e un male probabile. Ogni professione ha i propri piaceri: una gioia speciale caratteristica con varie altre minori e secondarie; oppure una gioia alla quale si riuniscono vari piaceri sotto forme e proporzioni diverse in modo da costituire un gruppo speciale. La storia dei piaceri di ogni professione sarebbe certamente un lavoro molto interessante, se ad esse fosse unita la storia dei dolori, i quali, confondendosi e cementandosi insieme ai piaceri, presenterebbero la formula viva e fisiologica nelle diverse condizioni sociali. Il separare, nella storia delle professioni, i piaceri dai dolori, è un guastare uno dei più bei quadri di storia dell'uomo morale. Si possono dare diverse classificazioni più o meno razionali delle professioni umane, e si possono anche dividerle secondo la natura dei piaceri che in esse predominano. I piaceri del senso tattile puro e semplice sono più numerosi in tutte le professioni manuali ed artistiche, e la scultura sta forse al disopra di tutte. Le facili gioie del gusto sono, in generale, più vive nelle professioni del cuoco, del soldato e del medico. La grandissima differenza che esiste nella sensibilità dei nasi fa sì che nessuna professione possa esercitare sui piaceri dell'olfatto tale influenza da vincere in un modo sensibile l'organizzazione del senso. Se ciò non fosse, i fabbricatori e i venditori di essenze dovrebbero essere i privilegiati. I maestri di musica e gli artisti gustano più che gli altri dei piaceri dell'udito. I piaceri della vista si godono meglio nelle professioni di viaggiatore, di micrografo e di pittore. I piaceri dell'onore possono essere di tutte le professioni, ma si gustano più spesso in quella del soldato. Le gioie della gloria sono concesse a tutti, ma per aspirarvi bisogna essere almeno d'intelligenza aperta e di cuore fermo. Possono aspirarvi scienziati e artisti. L'ambizione con tutte le sue varietà minori concede maggiori piaceri a quelli che esercitano una professione di governo o hanno in mano il potere. I piaceri del possesso sono più vivi nelle professioni di banchiere, di negoziante e di possidente, se questa può ritenersi professione. I naturalisti e gli specialisti di ogni genere provano quasi sempre più degli altri i piaceri del raccogliere. I piaceri della benevolenza pratica dovrebbero essere più largamente concessi ai medici, ai sacerdoti e a tutti gli addetti a stabilimenti di beneficenza. L'amor patrio dovrebbe concedere gioie più vive al soldato. Le gioie religiose dovrebbero essere più squisite nella professione del sacerdote. I piaceri della lotta si gustano meglio nelle professioni del soldato, del cacciatore, dell'avvocato, del medico, del gladiatore, dello sportivo. Le gioie della giustizia sono tesori più largamente concessi al buon volere dei giudici. Le gioie della speranza sono largamente concesse a tutte le professioni nelle quali si lavora molto e si guadagna poco. I piaceri dell'odio e del furto spettano a tutti coloro che non hanno senso morale e rispetto per la proprietà. I piaceri che non ho nominati spettano a tulle le professioni, le quali vi esercitano una influenza così debole che il più delle volte sfugge ai nostri mezzi d'investigazione.

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Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Crede che i poveri siano fatti da Dio per esercitare la carità dei ricchi, nè mai ha domandato al Creatore perchè abbia dato il veleno alle vipere e le spine alle rose. Ella è felice.

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L'esercizio della funzione del sesso, formando il primo anello della catena sociale, ci rende più affettuosi e facili a compatire e a perdonare, mentre la vittoria completa sugli istinti della carne sublima le facoltà intellettuali a scapito del sentimento, oppure ci fa schiavi dei brutali piaceri della tavola, qualora la mente non abbia che pallidi bisogni. I piaceri del sesso hanno poi un'importanza molto diversa nella vita dei singoli individui. Chi è capace di godere dei tesori dell'intelligenza o delle squisitezze del sentimento, non dedica ai piaceri sessuali che una piccola parte di se stesso, mentre altri, per imperfezione congenita o per abbrutimento della condizione sociale, dedica la maggior parte delle sue forze alle lotte amorose. La monotona e lurida stoffa della vita di molti non porta altre tracce che una serie più o meno interrotta di punti segnati dai labili delirii di amplessi volgari. Per fortuna, però, gli individui normali, equilibrati, che non eccedono nè nell'astinenza, nè negli abusi, sono l'assoluta maggioranza, e questi della funzione, eminentemente volta alla riproduzione della specie, non fanno solo una fonte di godimento, e nemmeno la trascurano a danno dell'incremento demografico.

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Le relative sensazioni che si hanno in questi casi appartengono alla classe dei piaceri patologici, e condannano i colpevoli a soffrire, quasi la natura abbia invariabilmente fissato ad ogni individuo una certa misura di piaceri e di dolori, che noi possiamo accrescere e diminuire, senza mutarne però mai il reciproco rapporto. Così, quando veniamo ad aumentare la massa dei piaceri che ci è destinata, una mano inesorabile lascia cadere un granello sulla bilancia del dolore, onde non si alteri mai l'equilibrio. Si è disputato più volte dai fisiologi se la natura sia stata parziale verso uno dei sessi, concedendogli una più ampia coppa al banchetto dell'amore. Sebbene simile questione non sia positivamente solubile con esperienze e prove positive, credo che si possa con bastante sicurezza dedurre che la donna gode assai più dell'uomo nei deliri dell'amplesso, lasciando sempre da parte le eccezioni che derivano da condizioni individuali. L'apparato voluttuoso dei genitali femminei è assai più complicato di quello concesso all'uomo. La clitoride è nelle donne l'organo esterno del piacere, ed ha il suo riscontro nella verga virile. Ma la donna, oltre la clitoride, che può essere più o meno sviluppata e sensibile per l'uso diretto e pei piaceri che essa prende su se stessa, ha la vagina con le labbra, il vestibolo e il collo dell'utero, che in molte donne è fonte dei più intensi piaceri. Anche il seno dà piaceri sessuali nella donna: i capezzoli si fanno turgidi, ed una lieve carezza li eccita all'estremo, al pari della tiroide: infatti la pressione delle labbra sul collo, in un bacio intenso e prolungato, riesce di irresistibile voluttà. Gli organi genitali femminei nelle parti che servono al piacere sono tutti ricoperti da una membrana, irrorata continuamente da muco; ed essendo interni, conservano illesa la loro sensibilità. L'uomo invece ha la maggior parte della verga coperta da comuni tegumenti, e anche il glande viene più volte in contatto cogli oggetti esterni. L'apparato femmineo destinato ai piaceri del sesso ha una superficie molto più estesa di quella dell'uomo. La donna è dotata di una sensibilità più squisita dell'uomo, per cui sente assai più fortemente tutte le influenze degli oggetti esterni. Nell'atto della copula la donna è quasi pienamente passiva, e però, non essendo impiegata la più piccola parte di forza al moto, tutta la tensione riesce rivolta al senso. La donna non soffre dopo i piaceri venerei che una leggera spossatezza, che deriva dall'esaurimento in cui cade il sistema nervoso, e quindi si trova, assai prima dell'uomo, pronta a rinnovare gli amplessi. La donna è fisicamente sempre pronta alla copula, mentre l'uomo non lo è che qualche volta. Molte donne hanno più polluzioni nel tempo in cui l'uomo non ne compie che una sola. La donna, quantunque nasconda i palpiti del seno e i frequenti desideri sotto ampie vesti, aspira con maggior trasporto dell'uomo a questi piaceri, a lei resi ancor più seducenti dal mistero che le viene imposto dal pudore e dalle consuetudini sociali. Infine la natura nella funzione generativa doveva alla donna un compenso pei dolorj e pei pericoli che le riserva, e quindi le concede maggiori voluttà; le quali le fanno dimenticare la lunga serie di sacrifici che può incontrare nel cedere al prepotente bisogno. Vi è un fatto, tuttavia, che sembra contraddire apertamente a tutte queste ragioni, e dietro il quale alcuni affermano il contrario di quanto ho cercato di provare: sarebbe questo l'assoluta indifferenza od anche la noia che, nel fingere di partecipare al godimento, provano molte meretrici nel ricevere l'amplesso venduto. In questo caso peraltro noi siamo in un campo che appartiene interamente alla patologia morale, e quindi fuori affatto delle condizioni ordinarie. D'altronde l'abuso della copula rende la donna così indifferente a quest'atto ch'ella deve prestare tutta la sua partecipazione onde trovarvi piacere; e ha bisogno di una eccitazione locale più intensa e più prolungata per arrivare ad ottenere una polluzione completa. Quasi tutte le meretrici però hanno un amante, al quale cedono oltre il corpo anche l'affetto, e negli amplessi che loro riserbano provano anch'esse piaceri, che non possono dividere colla turba della loro clientela. Questo fatto non ha quindi alcuna importanza in simile questione, e serve solo a provare come, in tutti gli atti morali della donna, il sentimento entri quale principalissimo elemento, e abbia una tale influenza da modificare un atto, a cui siamo trascinati da tanta prepotenza di leggi anatomiche e fisiologiche.

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Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.

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La ragione prima che corre alla mente per ispiegare questo fatto è che la natura abbia voluto punire il colpevole che l'inganna, deludendone uno dei fini più importanti. Altri pensano che la rilassatezza e il senso di nausea che tengono dietro ai solitari piaceri, inducano un perturbamento generale che non si ha nella copula. Questo argomento, come il precedente, è però debolissimo, giacchè molte volte nel coito il pentimento e il timore delle conseguenze sono assai più gravi, senza che per questo si abbiano i disturbi fisici e morali che seguono l'onanismo. La facilità di ripetere gli atti lascivi dell'onanismo non vale a spiegare gli effetti di un'unica polluzione manuale, messi a confronto con quelli di una polluzione naturale. L'ipotesi dello sviluppo della elettricità nel contatto dei due sessi è puramente gratuita, sebbene non si possa negare interamente. Un'opinione probabile su questo argomento e che nell'onanismo e nella copula gli effetti sono pari quanto alla perdita materiale dello sperma, ma che nel primo l'organismo deve esercitare uno sforzo sproporzionato per ottenere il delirio del piacere, non trovandosi mai nell'orgasmo naturale, il quale non può aversi che nel contatto dei due sessi. Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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L'atto di accingersi a fumare apre una serie di piaceri coll'occupazione facile e interessante che richiede, sia che si abbia ad allestire e accendere il sigaro, sia che si debba caricare la pipa. Chi ha osservato un fumatore di buon gusto nell'atto che fa i suoi preparativi per abbandonarsi al prediletto piacere, deve ammettere che quel momento è delizioso: e non può essere altrimenti, dacchè la speranza di godere e la compiacenza di farne i preparativi con le proprie mani e senza fatica, sono elementi che devono produrre una sensazione piacevole. Del resto, basta osservare il giovane fumatore nell'atto di prepararsi a fumare una sigaretta. II secondo elemento cha entra a far parte di questo piacere tanto complesso è la sensazione del gusto, la quale nella pipe si limita al sapore del fumo, e nel sigaro consta anche della sensazione della saliva che imbeve le parti solubili delle foglie del tabacco. Le infinite varietà dell'acre e dell'aromatico formano mille combinazioni di piaceri conosciute a fondo soltanto dai consumati fumatori. In generale però i nervi gustatori e tattili della bocca sono in uno stato di irritazione piacevole, di vero orgasmo, e l'uomo gusta senza nutrirsi. Il senso tattile delle labbra e dei muscoli della bocca concorre pure al piacere nei moti alterni e delicati che sono necessari ad aspirare il fumo, a ritenerlo nella bocca e a farlo uscire in volute. L'olfatto ha grandissima parte in questo piacere, ma certamente meno degli altri elementi. In ogni modo non è indispensabile, perchè si può essere privi interamente dell'olfatto e quasi del gusto, e provar piacere nel fumare. Il profumo del tabacco, d'ordinario, viene aspirato dalle narici col fumo che esce dalla bocca; ma può passare anche dal retrobocca nel naso per le fossa nasali. Quelli che sanno fare uscire in colonne il fumo dal naso, provano anche il piacere d'una leggera irritazione della pituitaria, al quale si unisce la compiacenza di un giuoco bizzarro. La vista paga il suo tributo ai fumatori, svagandoli cogli scherzi della lenta combustione e delle vicende presentate dal fumo che sale in volute per l'aria. Gli effetti fisiologici della nicotina e degli altri principii volatili odorosi che vengono assorbiti e che agiscono a preferenza sul sistema nervoso, hanno pure una grande influenza sui piaceri del fumare, e vi contribuiscono specialmente col facilitare la digestione e coll'indurre la sensibilità generale in uno stato particolare di torpore eretistico, che può arrivare fino alla voluttà. I novizi vengono intossicati e soffrono; gli adepti s'inebbriano e se sono molto sensibili, provano in tutta la superficie cutanea un senso di tepore particolare o di prurito leggero molto piacevole. Infine i veterani provano una sensazione indefinita di benessere che li esalta. Tutti questi piaceri però non esistono da soli, ma si combinano fra loro in un accordo che li unifica e armonizza, formando un'unica sensazione piacevole. Sono futili tutte le questioni che si agitano ogni giorno sulla vera essenza del piacere del fumare, e se esso spetti al gusto, all'olfatto o alla vista. Nessuno di questi sensi gode da solo, ma concorre nella sua parte a produrre il piacere. L'elemento però che collega tutti i piaceri in un solo, facendo, direi quasi, da cemento, è il piacere di far qualche cosa, di esser distratto di quando in quando dal lavoro, o di interrompere l'ozio. L'ozio completo è insopportabile anche ai più inerti; ma il lavoro stanca e piace a pochi. Ora il fumar tabacco è una vera transazione, un vero trattato di pace tra l'inerzia e l'attività, fra l'odio al lavoro e l'avversione all'ozio. I più volgari, e quindi anche i più numerosi fumatori, non hanno mai saputo trovare nel fumare altro piacere che questo. In ogni modo i piaceri del fumare non sono patologici per la più parte degli uomini. I piaceri dell'olfatto, per quanto siano labili, sono troppo trascurati nei progressi della civiltà, ed essi non hanno ancora dato luogo a invenzioni relative di qualche importanza. In Europa il limitato uso del tabacco, le essenze di cui profumiamo i nostri abiti, e il tributo che ci offre l'orticoltura colla coltivazione di piante odorose, sono gli unici sollievi concessi a questo senso. In Oriente il naso è meno dimenticato che da noi, e nelle camere dei ricchi ardono profumi deliziosi. Queste gioie però sono elementari, e non costituiscono ancora un complesso di mezzi atti a produrre veri piaceri olfattivi. La civiltà futura riempirà questa lacuna? L'armonia e la melodia degli odori devono esistere, come esiste l'accordo in tutte le altre sensazioni.

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Così non v'è alcuno il quale in sua vita non abbia passato qualche quarto d'ora battendo sul tavolo i polpastrelli delle dita, o percuotendo le molle contro gli alari negli ozi del focolare, o picchiando il piede contro terra nelle noie di una insipida conversazione. Queste sensazioni piacevoli sono forse il primo elemento della musica, o almeno formano un anello di congiunzione fra le due grandi classi dei piaceri dell'udito. Un rumore forte e improvviso, che rompa a un tratto il silenzio per cessare subito dopo, può produrre un piacere per la scossa che comunica ai nervi sensori. In questo caso la sensazione non deve essere nè troppo debole, nè troppo forte. Il fischio d'una locomotiva, lo sparo d'un fucile o d'un fuoco d'artifizio, un unico tocco di campana che si perda nell'aria, o in tonfo d'un corpo pesante che cada dall'alto nell'acqua, possono produrre piaceri di questa natura. Altre volte la sensazione è piacevole per un carattere particolare, che solletica o commuove in modo speciale i nervi dell'udito, come il versarsi del grano in uno staio, il lacerarsi d'una stoffa di cotone, il rovesciarsi d'un carro di sabbia, lo stormire delle frondi, lo scrosciare d'una cascata, il fremere delle onde, il gemere dei venti, il rimbombar del tuono, e tanti altri rumori di natura molto diversa. Un rumore può arrecare piacere quando, senza cambiare di natura, muta di grado, salendo o decrescendo a poco a poco. In questo caso la ragione principale del piacere sta nell'attenzione prolungata, la quale eleva la sensazione ad un grado massimo di intensità. Basta rammentare il rumore di una carrozza o di una locomotiva, il fremito d'una verga metallica. Quando il suono va decrescendo, più d'una volta il nostro orecchio raccoglie avidamente le ultime vibrazioni sonore che vanno perdendosi, quasi a misurare la delicatezza del senso. Un altro piacere si ha nel contrasto di due rumori che si succedono, e che possono differire nella natura o in amendue questi elementi. Così il pesante martello del fabbro, che batte ora sull'incudine ed ora sul ferro rovente, può arrecarci in questo modo un piacere; nella stessa guisa l'eco ci interessa così vivamente nel confronto dei due suoni analoghi. Le più grandi gioie però che ci forniscono i rumori non sono le sensazioni per se stesse, quanto le immaginazioni e le idee che ci ridestano. In questo caso il senso non serve che di strumento, e il piacere è quasi puramente del sentimento o dell'intelletto. Alcuni rumori fragorosi, come quello del martellare e dello stridere della fucina, possono ridestarci all'operosità e all'energia; altri rumori monotoni e lenti, come quello del pendolo o del fluire blando delle acque del fiume, possono ispirarci alla calma ed al riposo. Lo stormire delle fronde e il fluttuar delle onde sulla sabbia della riva ci portano ad una soave melanconia e ad inenarrabili voluttà. Altre volte lo strascico di una veste di seta può ridestarci immagini lascive. Spesso il rumore di un vaso che si rompe ci fa sorridere all'idea del disappunto del malaugurato a cui è capitato l'accidente. Infine sono tali e tante queste sorgenti di piaceri, che il solo enumerarle sarebbe un improbo lavoro. Basterà dire che in qualche caso il piacere prodotto da un rumore può arrivare ai massimi gradi dell'umano sentire. Ciascuno può, a questo proposito, immaginare il delirio di gioia che può provare un prigioniero condannato a morte, che, dopo aver lavorato lunghe ore attorno alla porta che lo rinchiude, sente a un tratto, contro ogni speranza, lo scatto della serratura scassinata.

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I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Ma il numero in questo caso non è stato la causa necessaria del piacere, il quale proviene dal contrasto e dal ridicolo delle cose, non che dalla curiosità di sapere perchè mai quella sedia abbia la pretesa di possedere due membra più delle altre. La dimensione di un corpo può arrecarci piacere, quando sia estremamente grande o straordinariamente piccola. Queste sensazioni sono quasi sempre complicate dal piacere della novità, che però non entra come elemento essenziale. Tutti coloro che, per la prima volta, si recano sulla spiaggia del mare, provano un piacere infinito, nel quale entra anche la impressione per la immensità del piano che si stende innanzi ai loro occhi, sebbene forse la fantasia abbia già fatto loro immaginare uno spazio ancor più grande del reale. La distanza degli oggetti non ci interessa quasi mai da sola, ma arreca piacere col ridestarci idee o sentimenti diversi. I limiti del nostro orizzonte visuale sono immensi, e vengono segnati, da una parte, dal microscopio che ci mostra un infusorio della larghezza di un decimillesimo di millimetro, e, dall'altra, dal telescopio che ci mostra milioni di soli, dinanzi ai quali la nostra terra figura come un granello minutissimo di sabbia. A parità di circostanze, un oggetto vicino ci invita all'osservazione e al desiderio di toccarlo, al bisogno di possederlo; mentre un corpo immensamente lontano c'inspira ammirazione e stupore. Un oggetto vicino si guarda, un oggetto lontano si contempla; il primo c'interessa, parola in cui entra come elemento secondario anche il cuore, mentre il secondo ci sorprende. La forma degli oggetti ci può interessare vivamente da sè sola per gli elementi geometrici che, insieme al numero, alla grandezza e alla distanza, formano l'ordine e la simmetria. La simmetria è una sorgente fecondissima di piaceri, che derivano dai caratteri matematici dei corpi. L'artista può trovare nuove combinazioni di ordine e di misura, ma non può mai allontanarsi dal tipo invariabile segnato dalla natura. Nessuno ha mai pensato di dimostrare e di discutere le leggi fondamentali della simmetria: esse stanno scritte a caratteri indelebili nel nostro cervello, come condizione necessaria della sua funzione. Daltronde, nessuno potrà mai spiegare perchè la vista di una sfera perfetta produca maggior piacere di quella d'un ammasso informe, nello stesso modo che non si può dimostrare perchè due e due fanno quattro. Il numero concorre come elemento necessario nei piaceri della simmetria, dacchè questa non può esistere senza diverse parti, le quali si possono numerare. Una serie di oggetti della stessa natura può fornirci sensazioni piacevoli, diverse fra loro, a seconda che l'ordine principale, col quale sono distribuiti, è rappresentato da numeri pari o, da numeri dispari. Lo stesso si può dire del rapporto numerico delle diverse parti di uno stesso corpo. In generale l'ordine più semplice e regolare è segnato da numeri pari, e il piacere più elementare della simmetria consiste nel mettere due corpi l'uno di contro all'altro. L'ordine segnato da numeri dispari produce già un piacere più complesso, e per il quale sono necessari almeno tre oggetti o tre elementi geometrici di uno stesso corpo. Nella simmetria però il numero non è che un elemento secondario delle proporzioni geometriche; e quand'anche vari oggetti siano isolati fra loro e disposti in un ordine qualunque, noi tendiamo a riunirli per mezzo di linee immaginarie, costruendo vere figure geometriche. Senza saperlo, in questo modo, noi giudichiamo simmetrico un corpo o un sistema d'oggetti, quando le linee lo definiscono e formano una figura geometrica regolare. I piaceri più semplici dell'ordine e della simmetria sono prodotti da figure geometriche semplicissime, quali sarebbero le linee parallele o perpendicolari fra loro, i triangoli, i rombi, i quadrati, i poligoni e tutte le altre figure rappresentate da linee rette. Nuove combinazioni di piaceri si hanno dalle figure curvilinee, dal cerchio, dall'ellissi, dalla parabola, o dalla combinazione delle linee curve colle linee rette. Dalla geometria piana passando a quella dei solidi, troviamo i piaceri prodotti dalla vista dei corpi cristallizzati e degli oggetti che li imitano; giacchè moltissimi oggetti rappresentano grossolanamente corpi terminati da facce regolari e simmetriche. Le casse, i mattoni, i libri, e le diverse parti dei tavoli e delle sedie, sono varietà di prismi; mentre nelle stoviglie, nei bicchieri e nelle bottiglie vediamo parti di sfera. I gradi massimi dei piaceri della simmetria sono complicati da elementi intellettuali di un ordine superiore; per cui gli oggetti sono chiamati belli, quando nell'ordine delle loro parti sono d'accordo con la loro funzione, e corrispondono perfettamente al tipo ideale che ce ne formiamo. Sebbene però si abbiano infiniti piaceri dalla simmetria, esiste anche un bello irregolare, un'estetica del disordine; ciò che prova come nell'intricato meccanismo delle umane facoltà, dove infiniti elementi si confondono e si intrecciano, si possono avere effetti identici dalle cause più disparate.

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Come presentarmi in società

199953
Erminia Vescovi 26 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
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Dinanzi a sè vede braccia amorevoli tese a invitare e a sorreggere, tutto intorno a sè non vede che sorrisi; par che il sole non abbia altro ufficio che splendere sulla sua letizia, la terra non debba produrre erbe e fiori se non per offrirglieli; che il canto degli uccelli, il mormorare delle acque non abbia altro scopo che il suo diletto. Oh, vorremmo dire col Prati:

. - Nessuno abbia a soffrire per colpa tua. 5. - Non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi. 6. - La tua vita vale tanto quanto saprai farla valere. 7. - Non promettere mai, non giurare mai, non giudicare mai troppo facilmente. 8. - Agisci sempre in modo da non doverti poi vergognare delle tue azioni. 9. - E' nel tuo interesse conservarti onesto e virtuoso. 10. - Fa prima il tuo dovere e poi prendi il mondo come viene. NICOLA ORLANDI

Colle famiglie dei suoi scolari non abbia intimità parziali, e non accetti nè doni nè inviti. Potrà farlo, se dura ancora in loro la voglia, quando i fanciulli non siano più nella sua classe. Abbia rispetto alle abitudini del paese, usi speciali riguardi alle persone che godono maggiore stima: sia pronta a far un servizio, ma non si intrometta a dar consigli non richiesti, e si guardi bene dal darsi arie di dottoressa. Nel vestire, la maestra deve essere modello di serietà elegante e semplice. Le scollature, le trine trasparenti, e le gonnelle scarse spiacciono in tutte le donne che vogliono essere rispettabili, ma in una educatrice rappresentano una colpa imperdonabile. Le donne che stanno ai pubblici uffici hanno bisogno, oltre che di tutte le virtù dei loro colleghi maschi, anche d'una serietà a tutta prova, e di un vero spirito di sacrificio. E' una vera tentazione l'essere da mane a sera in vista della gente e spesso di gente che si fermerebbe volentieri a far ciarle di carattere tutt'altro che professionale. Le signorine devono in tal caso tagliar corto e mostrar di non gradire nessuna distrazione di questo genere. Ma tutto il loro contegno deve anticipatamente parlare in loro favore e scoraggiare gli insolenti. In generale, l'impiegata e la commessa portano un grembiulone scuro che nasconde e protegge il vestito. Ed è benissimo. Ma nel recarsi all'ufficio non sfoggi un'eleganza di cattivo gusto, che fa voltar la gente e domandarsi chi è mai quella giovane donna, che alle otto o alle nove del mattino, corre per le strade vestita così vistosamente. Ci guadagnerà la sua buona riputazione fra i colleghi e presso i superiori. Nell'ufficio non faccia chiacchiere inutili, non disturbi le colleghe, non si prenda libertà di scherzi e canzonature. Se ha dei colleghi maschi, sia molto riservata. E badi che in essi, talvolta, invece che degli ammiratori è molto più facile trovar dei rivali e degli invidiosi, sicchè piuttosto che di civetteria dovrà far uso di molta prudenza. Coi superiori sia sottomessa e rispettosa. Talvolta può darsi che siano ottime persone, con cui è facile l'ubbidire e il lavorare; talvolta hanno un carattere bisbetico ed esigenze soverchie. Qui appunto sarà il merito della signorina cortese e tollerante, e spesso avrà il suo premio. E si ricordi la signorina impiegata che, entrando essa a far parte del personale subalterno di un ufficio di uno studio, non perde già il suo diritto d'essere rispettata come si conviene, ma bisogna che si adatti a rinunziare a certe forme di riguardo concesse generalmente alla dorma per codice cavalleresco. Non pretenda dunque che il principale si alzi in piedi quando essa entra nel suo ufficio, nè che le ceda il passo all'uscio, nè che sia il primo a salutarla. Se egli lo farà, sarà per pura cortesia, ma essa non ha il diritto di pretendere nè questo, nè altro cerimoniale, e deve stare modestamente al suo posto di dipendente. Fuori dell'ufficio, poi, tornerà ad essere la signorina B la signorina C, e potrà avere anch'essa le soddisfazioni che son concesse a qualunque altra. Ma il pubblico che si trova a contatto con le impiegate, ha un duplice dovere di cortesia, verso queste oneste e povere lavoratrici, la cui vita è spesso tutto un sacrificio. Se sono giovani, un rispetto scrupoloso alla loro possibile debolezza, un gran riguardo ai casi pericolosi in cui possono trovarsi. Se sono anziane, si abbia riverenza alla cumulata fatica, alla vita sfiorata, alla stanchezza precocemente giunta. E tutto ciò si traduce nel risparmiar vane parole, nel render più agevole l'opera loro, nel ringraziarle, con semplice cortesia.

Il portamento esteriore dice in quale società un uomo viva ordinariamente, quale educazione abbia ricevuto, quale rispetto abbia di sé e degli altri. Il portamento deve essere naturale, diritto, franco e disinvolto. Tutto ciò che indica rilassatezza o negligenza dev'essere bandito, come l'abbandonarsi sui sedili, il tener la testa ciondoloni, le spalle curve, le braccia a dondolo mentre si cammina. Ma si eviti anche la rigidezza delle membra e l'apparenza dello sforzo, che fan pena a vedersi e indicano persona poco assuefatta alle civili relazioni. Chi sta duro o impalato sembra un superbo anche se non lo è, oppure ha l'aria di un coscritto davanti ai superiori. Semplicità e naturalezza. La testa dev'essere diritta, la fronte serena, il volto deve aver sempre una espressione di benevolenza. E per chi è buono davvero, non ci sarà difficoltà in questo; giacché anche quando ha i suoi crucci si studierà di non farli pesare sugli altri. Al contrario, il viso stravolto, lo sguardo torvo, la faccia aggrondata indicano abitudini morali di egoismo e selvatichezza e mettono in fuga la gente. Gli occhi non devono voltarsi qua e là continuamente, e nemmeno devono fissarsi in faccia alle persone con aria di investigazione curiosa, o con ostentazione di superiorità. La bocca sia chiusa; le labbra aperte sono dello sciocco incantato. Le mani non si devono tenere in tasca e nemmeno dietro il dorso, non mettersele alla testa, non cacciarle addosso all'interlocutore. Tener le braccia napoleonicamente al sen conserte può essere opportuno quando un personaggio voglia dare un'alta idea della gravità dei suoi pensieri, o quando posi pel ritratto; proscritto in ogni altro caso. Mettersi le mani ai fianchi è gesto da lasciarsi a Perpetua e alle comari del suo genere. Certamente i gesti aggiungono efficacia e chiarezza al nostro dire, e ne sono spesso il miglior commento, ma non si devono muovere le braccia come banderuole, non si deve agitarsi come burattini, stordire l'interlocutore coll'immagine del moto perpetuo, mettersi a rischio di rovesciare o urtar qualche cosa, dar qualche schiaffo involontario. Chi fa in tal modo mostra piccolezza di cervello, poca padronanza di sè, poca fiducia nell'efficacia delle sue parole. Che le mani non si devono cacciar fra i capelli, nelle narici, o nelle orecchie, non occorre, adesso, insegnarlo altro che ai bambini. Ma ci sono alcuni, e anche persone bene educate, che se le portano talvolta alla fronte, se le fregano sulla faccia, se ne accarezzano le guance o il mento. Son atti non conformi a correttezza e compostezza. E l'appoggiarvi la guancia, reggendosi sul gomito, è graziosa abitudine, purché sia passeggera, e armonizzata coll'espressione del volto e di tutta la persona. Ma fatta abitualmente e goffamente indica poco riguardo per gli altri e amore dello star comodo. Nel camminare, il passo sia franco, regolare, e adatto alle convenienze. L'uomo d'affari camminerà sollecito; la signora o la giovinetta, andando a fare una spesa, o recandosi al proprio ufficio, faranno bene anch'esse a tenere una certa sveltezza. Ma nei pubblici passeggi, nelle riunioni, nel recarsi a qualche cerimonia il passo sarà invece lento e posato. In ogni caso, si guardi poi di non trascinar le piante, e di non battere i tacchi con rumore molesto agli astanti. E' una cosa volgarissima un passo pesante, è grazioso l'incedere leggero e come scivolante. Ma non sta bene nemmeno giunger presso a due che parlano tra loro senza farsi sentire in alcun modo, come se si volesse sorprenderli. Nel sedere, una persona veramente ben educata non accavalla le gambe, non si pone obliqua, non si abbandona sulla spalliera, non si dondola sulla sedia, con manifesta noncuranza dei presenti. Questi modi scorretti, una volta severamente proscritti, sono stati recentemente adottati... chi lo direbbe mai? dal sesso gentile. Una donna saggia e onesta non si mostra mai in una posizione indecorosa, perché sa che sopra il capriccio momentaneo della moda, a cui ciecamente sacrificano le teste leggere, ci sono le leggi inviolabili del pudore e del riserbo. E sa anche che la vera eleganza sta nella compostezza e nell'armonia delle attitudini e delle movenze. Quindi, ad esempio, una signora sedendo non accavallerà le gambe, a meno che l'ampiezza e la lunghezza della sua gonna siano tali da consentirle quella posa senza farle perdere nulla di quella compostezza e di quell'armonia. Alcuni hanno in questo un dono innato di grazia: tutto in loro è disinvolta eleganza, nessuna delle loro mosse è soverchia o impacciata, non mai troppo rapida nè troppo lenta, non mai angolosa e affettata. Di costoro bisogna dire come fu detto della poesia:

. - Non costringere altri a fiutare cosa che abbia odore nauseante... - Non grattarti il capo, non metterti le mani nelle orecchie e nelle narici... Questi e altri simili ammaestramenti rivolgeva Monsignor Della Casa ai suoi lettori, che pur erano onoratissimi gentiluomini; noi non abbiamo più bisogno di dirlo se non ai contadini, e talvolta anche essi, per un istintivo pudore o per una reminiscenza della scuola, sanno che certe cose non si devono fare. Eppure, la lista dei nefas non si è per questo raccorciata. Ai tempi nostri, mutati gli usi e le relazioni sociali, nuovi doveri di cortesia si sono introdotti, e nuove necessità di certi riguardi. L'igiene alza più forte la voce, e la pulizia è divenuta più schizzinosa. E le nuove idee e le nuove usanze rendono necessaria l'aggiunta di molte altre norme. Ora, per esempio, sono i fumatori che hanno bisogno degli avvertimenti del Galateo, e ci sarebbero i ciclisti, genia malvagia, irruente e dispettosa, e gli automobilisti che credono che tutto il mondo sia per loro... Tante cose si mutano col tempo!... Ma tante restano ancora. Poichè ci sono ancora gli incorreggibili maleducati che sbadigliano in conversazione, o che voltano altrui le spalle, o che mormoran fra loro, o interrompono i discorsi altrui. Ci sono quelli che si piglian tutte le confidenze, che entrano in tutti i nostri affari, ci son quelli che vogliono imporre sempre la loro volontà, ci son quelli che scherzano su tutto e su tutti e non sanno tollerare una celia dagli altri, ci sono quelli che in un caffè s'impadroniscono di tutti i giornali e li ritengono per sè; quelli che chiedono a prestito i libri e non pensano più a restituirli. Ma invece di questa spiacevole e interminabile lista sarà meglio presentare le buone regole che si convengono ad ogni circostanza e caso della vita, e venir notando secondo l'occasione quello che si deve o non si deve fare da chi ha la giusta ambizione di mostrarsi uomo cortese o almeno urbano. Vediamo dunque il fas e il nefas nel portamento della persona, nelle vesti, a mensa, nelle conversazioni, nella presentazione e nei convenevoli, nel modo di salutare e di interpellare.

Così dei titoli accademici; perciò diremo: Caro Avvocato, o Caro Conte, oppure Egregio Avvocato, Egregio Dottore, - regolandoci sulla confidenza maggiore o minore che si abbia colla persona. Non si mette mai un titolo per intestazione, senza farlo precedere da un aggettivo (egregio professore, carissimo ingegnere) e non scriveremo mai a una signora: Egregia professoressa - Stimatissima maestra - Chiarissima dottoressa, per le ragioni già dette parlando delle buone regole nella conversazione. L'intestazione «Chiarissimo Professore» si usa invece con i docenti universitari. Soltanto un dipendente o un fornitore si rivolgerà a un titolato o a un professionista con la formula «Egregio Signor Conte», «Egregio Signor Ingegnere», ecc. A una persona inferiore, a un fornitore si suole scrivere: Caro signor B - Cara signora C - secondo la professione. S'intende poi che agli alti dignitari dello Stato e della Chiesa si daranno i titoli prescritti, e si ripeteranno nel corpo della lettera, e nella frase di chiusura precedente la firma. Cominciando la lettera si tenga qualche distanza dall'intestazione. Questa distanza, secondo le buone regole, deve essere tanto maggiore quanto più di riguardo la persona a cui scriviamo. E' poi necessario, in tali casi, non scrivere se non da un lato del foglio: il margine ora non si usa più, ma non è bello nemmeno nell'intimità vedere le righe correre sino all'estremo limite e talvolta - orrore! - le parole ripiegarsi in giù lungo il lembo destro... Nella frase di chiusura, bisogna badare alle stesse regole dell'intestazione: affetto, devozione, rispetto, cortesia, devono ispirarle opportunamente, secondo i casi. Diremo ad un parente o ad un caro amico: Ti abbraccio di cuore, tuo aff. ecc. - Ricevi un abbraccio dalla tua B, ecc. A una persona di mezza confidenza: La prego di gradire i miei cordiali ossequi. - Mi creda, egregio ingegnere, il suo aff. e dev. B. C. - Coi sensi della massima stima, suo obbl. P. C. - Con rispettosi saluti, obbl. e dev. B. M. Coi fornitori e alle persone inferiori: Con i migliori saluti, N. N. Una signora non metterà mai nella sottoscrizione l'aggettivo umilissima (salvo in una supplica al Capo dello Stato) e non si dichiarerà mai serva di nessuno. Nella firma si pone sempre prima il nome, poi il cognome: se vi sono titoli... si lasciano nella penna, per non passar da vanesi di cattivo gusto. Però, scrivendo ad ignoti, e quando sia necessaria una indicazione che qualifichi lo scrivente, si suole usare il titolo professionale o accademico. Sulla busta si scrive colla massima chiarezza il nome e cognome della persona, preceduti dai rispettivi titoli. Dopo il nome e il cognome si suol mettere talvolta l'indicazione del grado e l'ufficio. On. N. N. - Deputato al Parlamento. Conte B. C. - Presidente della Congregazione di Carità. Signora T. M. - Direttrice dell'Orfanatrofio Femminile. Queste indicazioni sostituiscono spesso l'indirizzo della via e numero, e giovano al recapito con maggior sicurezza. Non è ben fatto abbreviare gli aggettivi scrivendo per esempio: - Ill.mo Stim.mo, ecc.; tuttavia si può tollerare nelle buste; non mai nella intestazione interna, e tanto meno nel corpo della lettera. In fondo, a destra, si scrive il nome della città, e l'indicazione della provincia se si crede necessario. E' sconsigliabile scrivere solo Città quando la lettera non ne deve uscire: potrebbe darsi invece che per isbaglio fosse mandata altrove o scivolasse fra qualche giornale, e allora dove rimandarla? Il francobollo va messo sempre a destra, in alto. Chi non si fida della semplice ingommatura della busta, metta un sigillo, una marca di suo gusto, ma non contravvenga alle regole chiaramente espresse pel servizio postale, mettendo il francobollo dietro la busta, a mo' di chiusura. Venendo poi alle regole per una lettera bene scritta, diremo che la migliore di tutte è di lasciarsi guidare dal cuore, dalla convenienza e dal buon senso. E anche dalla prudenza, in certi casi, perchè dice il proverbio latino, verba volant, scripta manent... Si abbia la massima cautela trattando argomenti delicati; non ci si abbandoni alla collera, all'impulso cattivo del momento, se dobbiamo scrivere una lettera di rimprovero; si usi tutto il riguardo nel dare consigli, specie se non richiesti. Non si scriva a dritto e a traverso, facendo quegli sgradevoli graticci che stancar gli occhi. Le convenienze vietano di usare la macchina da scrivere per la corrispondenza che non sia d'ufficio. Per praticità, e sull'esempio dell'estero, fra giovani si tende ora ad abolire questa regola, quando ci sia una certa confidenza. Comunque, non si usi mai la macchina per scrivere una lettera privata ad una signora od a un superiore; se si fosse costretti a farlo per ragioni speciali (ad es. lunghezza eccezionale della missiva o particolare mancanza di chiarezza della nostra grafia) non si dimentichi di chiederne perdono nella lettera stessa. Si dev'essere pronti nel rispondere, specie se ci vien chiesto qualche favore, o se dobbiamo dare qualche informazione o notizia che prema. E pronti anche nel ringraziare dopo l'arrivo di qualche dono, per non lasciar la persona gentile nel penoso dubbio, se sia giunto o no. Chi poi avesse ricevuto una lettera da impostare, lo faccia subito, per non correre il pericolo di dimenticarsene... all'infinito. Chiedendo ad altri questo favore, si consegni la lettera col francobollo già apposto. Sarebbe scortese dargli in mano il danaro e peggio ancora riservarsi di darglielo dopo e dimenticarsene!... Una lettera da presentarsi a mano porta sempre scritte le parole: per favore. Se questa lettera è di presentazione va consegnata aperta, e non deve parlar d'altro. Se è lettera di carattere privato c'è chi dice che si può benissimo consegnarla chiusa. Sarà sempre più cortese però, affidandola a persona che non sia inferiore a noi, consegnargliela aperta, ed essa ha l'obbligo, ricevendola, di chiuderla in nostra presenza, con una cortese protesta. Una signora non scrive mai a lungo ad un uomo, e specialmente se l'età non è matura in uno almeno dei due. E c'è pure chi si diletta cogli ignoti conosciuti nella quarta pagina d'un giornale. Gente che ha tempo da buttar via, poco giudizio, e che si espone anche al caso di aver dei gravissimi dispiaceri... Le lettere anonime sono, chi non lo sa? una delle più riprovevoli e vili azioni. Chi ne ricevesse una, badi di non turbarsene eccessivamente; il più saggio partito è di buttarla nel fuoco e non pensarci più. Analoghe alle lettere sono le cartoline, di cui ora si fa molto uso: nella modalità hanno press'a poco le stesse regole. Si badi però che sarebbe sconvenienza scrivere una cartolina a persona molto a noi superiore, anche se fosse per una comunicazione di due righe. E anche scrivendo a parenti e amici, non si usi mai della cartolina, quando si abbia qualche cosa di delicato o di personale, per non correre il rischio che la notizia sia saputa dal portinaio o dalla domestica prima che dalla persona a cui doveva giungere, e che dia luogo a indiscreti commenti!

E non parliamo dell'orribile vizio di sputare in treno, contro cui si combatte ora una multilaterale e accanita battaglia, e che sembra abbia già ottenuto gran parte del suo intento. Una signora non rivolge mai la parola a uno sconosciuto, in treno, se non per chiedergli quei piccoli favori che non impongono se non l'obbligo di un grazie. Sconvenientissimo si mostrerebbe colui che volesse per forza attaccar conversazione con una signora: essa ha diritto di respingere questi tentativi con dignità e severità e, occorrendo, anche con modi più risoluti. Fra uomini poi, e più ancora fra signore, si avviano spesso e volentieri dei dialoghi che poi divengono generali, e spesso, dopo un'ora o due di viaggio comune, lo scompartimento sembra diventato un salottino dove ferve una conversazione ben nutrita, e squillano allegre risate. Niente di male, se quelle conversazioni si aggirano su terni di carattere generale, e danno modo a chi può di palesare il proprio ingegno e la propria arguzia. Ma sarebbe imprudente, e mostrerebbe piccolo cervello chi raccontasse in pubblico i fatti propri. Eppure accade qualche volta che, dopo un breve tragitto, una persona che ci sta accanto ha creduto bene di farci conoscere di sé e la patria e la condizione, e la famiglia, e gli amici, e le abitudini e i gusti, e le speranze e gli affari... Il nome talvolta sì, talvolta no. Questi originali bisogna lasciarli sfogare, e non dar loro troppa ansa, e soprattutto non credersi obbligati a contraccambiare confidenza con confidenza. La signorina che viaggia (ormai ce ne sono tante!) sarà riguardosa e riservata al massimo, e cercherà di non dare soverchia confidenza a nessuno. E' lecito in treno far colazione con qualche cosa che si sia portato seco. Ma siano cibi asciutti e senza troppi odori forti: un panino ripieno, una tavoletta di cioccolata, qualche frutto precedentemente sbucciato o facile a sbucciarsi e basta. Si lascino stare i polli, gli stufati, la roba unta in genere, i formaggi e i salami, che danno così sgradevole aspetto alla refezione. Si abbia un tovagliolo da stendere sulle ginocchia, un bicchierino per bere, e si gettino dalla finestra gli avanzi e le carte e ci si ripulisca bene le dita e la bocca, passando, se si può, nel camerino dove c'è (o ci dovrebbe essere) l'acqua corrente. Non è obbligo offrire agli altri ciò che si è portato per mangiare: se però ci fossero persone di conoscenza o con cui si avesse fatto un po' di conversazione, si può offrire un arancio, una caramella, un cioccolatino ecc. ecc. Coi bambini poi sarebbe quasi una crudeltà fare diversamente. Si tenga aperto o chiuso lo sportello vicino a noi secondo il piacer nostro; perchè questo è un diritto che il regolamento concede; ma si abbia anche riguardo a persona che mostrasse di soffrire, sebben lontana, l'aria corrente, o di sentirsi soffocare a finestrino chiuso. Non si deve muoversi spesso senza ragione, passando e ripassando davanti a chi siede, ma questi, alla loro volta, devono tener composte e non distese le gambe, per non impedire agli altri il passaggio. Chi arriva alla stazione di scesa raccolga con qualche anticipazione i suoi bagagli, si riaccomodi la persona, e stia pronto allo sportello. Con un cortese buon viaggio ai suoi compagni, qualcuno dei quali sarà sempre gentilmente pronto a porgere la valigia e ad aiutare in altro modo che occorra, si scende e si va dritti dritti verso l'uscita, dove si consegnerà al bigliettario il biglietto già preparato prima, per non far perdere il tempo e impedire il libero passaggio degli altri.

E' ovvio poi che i concertisti, o siano essi cultori esclusivi dell'arte, o semplici dilettanti, devono far in modo che il pubblico non provi nessuna delusione e non abbia a deplorare la serata perduta. Quello che è detto per chi si reca a un concerto, che non sia una serata di gala, va detto anche per chi assiste ad una conferenza. Una signora può recarvisi sola; sarà bene però se, nell'uscire, si unirà con qualche amica fornita di cavaliere che la possa riaccompagnare a casa. Il vestire dev'essere modesto, ma accurato, e tanto più se il conferenziere è celebre e presume un pubblico ragguardevole. Ed è certo uno spettacolo assai nobile quello di una accolta, spesso numerosissima, di persone chiamate colà dal desiderio comune di intendere una parola alta, di aprire la mente a nuove verità, di vivere un'ora di vita intellettuale più intensa e più feconda. Tra quegli ascoltatori vi sono spesso uomini che hanno già un nome nell'arte e nella scienza, vi sono vecchi professori che credono di non saperne mai abbastanza, vi sono raffinati intellettuali che colgono bramosi ogni occasione per elaborare e tornire ancora più la loro coltura, vi sono anche dame gentili che sanno coltivare il sapere senza darsi l'aria pedante di superdonne. Un pubblico così fatto (e si riconosce subito) desta veramente riverenza, e impone dei doveri a cui la persona novizia deve sapersi piegare. Si entri dunque senza chiasso e gli uomini a capo scoperto: ciascuno prenda il posto che gli conviene, si attenda l'oratore in silenzio, oppure in moderata conversazione con chi siede vicino, e che deve immediatamente cessare, quando l'uomo col suo rotolo in mano, si presenta alla cattedra che gli è preparata. Si ascolti in silenzio, si approvi con discrezione qualche passo che sembra meritevole, ma senza interrompere frequentemente e senza prolungare un plauso che farà certo piacere al parlatore, ma che alle lunghe disorienta. Non è poi lecito mormorar commenti sottovoce, sia benevoli o no; e non si deve far mostra della propria erudizione, completando le citazioni classiche accennate dal parlatore. E' una tentazione, qualche volta assai viva. Finito il discorso, si applaudisca a piacere e si tributino anche quei segni di amicizia e di consenso che formano il coronamento della cerimonia. Gli amici più vicini gli stringan la mano con lodi e congratulazioni: altri si facciano presentare, tutti gli porgano ossequi e ringraziamenti per la bella ora passata, pel diletto di cui son debitori al conferenziere, il quale, intanto, poveretto, si terge il sudore dalla fronte non sa come fare a rispondere a tutti. Vi sono però conferenze di carattere popolare o informativo, ove le cose vanno molto più semplicemente; si fanno per lo più nei teatri o in altre sale di spettacoli pubblici, il pubblico rimane quasi estraneo all'oratore, e bene spesso composto di sconosciuti fra loro. In tali casi, v'è libertà massima nel vestiario, nell'entrata e uscita, nella scelta del posto: rimangono sempre però i doveri generali delle persone bene educate che devono guardarsi dal fare ogni cosa che possa disturbare o spiacere. E i conferenzieri hanno essi dei doveri verso il pubblico? E come, se ne hanno! Chi chiama della gente a spender una serata per udirlo, e spesse volte fa anche pagar un biglietto, si assume la sua bella responsabilità. Ma purtroppo, al giorno d'oggi, tale responsabilità viene assunta con molta leggerezza. Dante diceva dei suoi tempi guerreschi:

Tuttavia discrezione vuole che si evitino le ore in cui si suppone che la nostra presenza possa essere di qualche disturbo: nella mattinata, per esempio, giacchè è facile che la signora abbia le sue occupazioni speciali, e tanto più nelle ore dei pasti. Presentarsi quando la famiglia è a tavola non è lecito se non in casi specialissimi; come pure non si scusa con nessuna intimità il penetrare nelle stanze d'uso personale, se non siamo esplicitamente invitati. Le visite di convenienza si soglion fare nelle ore più tarde del pomeriggio: generalmente dalle quindici alle diciotto. L'uomo che si reca a far visita ad una signora si vestirà correttamente. Introdotto, depositerà nella stanza d'ingresso il cappello, il bastone o l'ombrello, il soprabito, ed entrerà nel salotto facendo un inchino generale, poi rivolgendosi direttamente alla padrona di casa, e inchinandosi a lei. Sedutosi, sosterrà con brio e con disinvoltura una conversazione che non deve essere troppo lunga. Indi, colto un momento opportuno, si alzerà accommiatandosi con brevi convenevoli, inchinandosi di nuovo, con ossequio, prima alla signora del salotto, indi alle altre persone e uscirà rapidamente. Una signora che si reca in visita dovrà essere vestita colla massima accuratezza e con una ben intesa eleganza, giacchè questo è pur un modo di palesar il suo rispetto alla compagnia. Ma non usi un lusso sfarzoso, non si carichi di gioielli. Una signorina poi deve unire sempre la semplicità all'eleganza, altrimenti darebbe prova di pretensione e cattivo gusto. Non si devono nemmeno portar nei salotti le mode troppo originali, i colori troppo vistosi e tanto più le fogge troppo arrischiate. E' raccomandabile anche di non far uso di profumi acuti, che possono dar fastidio alle persone delicate. Veramente, l'uso dei profumi troppo violenti non è mai da consigliarsi alle persone che vogliono mostrarsi serie e di buon gusto, così come adoperare un profumo di qualità scadente è segno di volgarità. I migliori profumi sono, in genere, quelli estratti dai fiori, che risvegliano sempre sensazioni gradite: fra le acque artificiali consigliabili per l'igiene tiene il primo posto l'acqua di Colonia, e noi Italiani abbiamo carissima l'acqua di Felsina. La signora che entra saluterà sempre prima la padrona di casa; rivolgerà poi un lieve cenno alle altre persone, se le sono ancora sconosciute, e non si porrà a sedere se non dopo le presentazioni. In certe case però, si usa che il servo o la cameriera annunzino a voce alta il nome dei nuovi venuti, così le presentazioni rimangono abolite. Se nel salotto vi fossero già persone di sua conoscenza, la signora entrata rivolgerà ad esse i suoi saluti, subito dopo che alla padrona di casa. Prenderà posto dove c'è libera una seggiola o una poltroncina, senza guardar tanto, o siederà sul divano vicino alla padrona, se il posto è libero. A destra o a sinistra?... Il posto dell'ospite sarebbe sempre a destra, tuttavia in certe province si usa che la signora che riceve tenga sempre il suo posto alla destra del divano. Se nel salotto v'è caldo, la visitatrice aprirà con discrezione la pelliccia o il mantello. S'intende che avrà lasciato in anticamera l'ombrello, anche se asciutto. La conversazione dev'essere sostenuta con garbo, e diretta specialmente dalla padrona di casa. Quando poi è passata una mezz'ora circa, si può far l'atto di congedarsi, salvo a rimaner ancora, se la signora ne farà gentile istanza. Si suol approfittare, generalmente, a prender congedo, dell'arrivo di un'altra persona, e ciò per dar meno disturbo. Ma se quella persona fosse una comune conoscenza, la cortesia impone di non lasciarle credere che siamo stati messi in fuga da lei... Non potendo fare diversamente, ci si deve scusare con brevi e gentili parole. La signora che riceve ha l'obbligo di mostrare in tutti i modi il suo gradimento. Perciò farà in modo che il salotto sia ben preparato e ornato di fiori o piante, avrà cura che nell'inverno vi sia un tepore gradevole (e non eccessivo, come purtroppo si fa talora) e nell'estate ombra e frescura. Ma riguardo all'ombra, si badi che è molto spiacevole per chi entra, passar dalla luce del di fuori alle tenebre assolute di cui si compiacciono certe signorine. Spiacevole...e pericoloso. Si urta contro le poltroncine, si mette in pericolo l'integrità dei ninnoli sui tavolini, si cerca un posto a tastoni, e talvolta non si riconoscono le persone. Grazie al cielo, ora, l'usanza dei pesanti tendoni di panno e velluto scuro è sparita, combattuta dalle sagge norme d'igiene; nelle stanze si lasci circolare l'aria e regnare la luce, moderando poi l'una e l'altra a seconda delle ore delle stagioni. La signora che riceve indosserà un abito speciale, per mostrar alle sue visitatrici che desidera trattarle con premuroso riguardo: ma quest'abito, per quanto elegantissimo, non deve mai essere sfarzoso, perchè sembrerebbe, allora, che volesse soverchiarle e umiliarle. Potrà adornarsi dei suoi gioielli, ma scegliendo i meno appariscenti, e non sovraccaricandosi di anelli o di braccialetti. Ella accoglierà con un sorriso e con dimostrazioni di piacere le amiche e le conoscenti, alzandosi e andando loro incontro. Per gli uomini, la signora non si alza mai, se non fossero sacerdoti, o vecchi venerandi, persone di straordinario merito. Farà subito le .presentazioni, se è necessario, e rivolgerà alla nuova arrivata le domande d'uso, sulla salute, la famiglia, ecc., non però con fare convenzionale, ma coll'espressione di un sincero interesse. Farà poi in modo che la conversazione divenga generale, riprendendo anche, se è il caso, l'argomento di cui si trattava prima che giungesse la visitatrice, e accennandone a questa le antecedenze, perchè possa parlarne con cognizione. Si studierà poi di fare in modo che tutti si trovino a loro agio, e darà l'esempio di una moderata allegrezza, dimenticando per quelle ore i crucci e i fastidi che eventualmente potesse avere. E' cortesia cercar di trattenere le persone che fanno atto di accommiatarsi; ma non si potrà usare con un uomo, e nemmeno con una signora, quando sia molto superiore per grado o per età. La signora accompagnerà sulla soglia le sue visitatrici, ma non mai nell'anticamera, per non lasciar sole le altre. Se c'è una cameriera o un servo, è ufficio loro ricevere in anticamera e aprir loro la porta: se per un caso qualunque (non c'è da meravigliarsene in questi tempi!) non ci fossero, la signorina di casa adempirà con molto garbo questo dovere. Riguardo alle visite, l'uso di avere un giorno fisso di ricevimento va quasi del tutto scomparendo. Ora le signore preferiscono dare ogni tanto un tè, a cui amici e conoscenti, numerosi o no secondo l'importanza della riunione, vengono invitati, seguendo il grado di amicizia, per telefono o con un biglietto alcuni giorni prima. Altrimenti, la signora che voglia andare a trovare un'amica si assicurerà per telefono che questa sia in casa nel giorno che le conviene, e le farà visita senza altre formalità, dopo le cinque del pomeriggio. Se per un caso di forza maggiore la signora che ha annunciato o che attende una visita dovesse assentarsi senza poter avvisare l'altra, non dimentichi di farle poi le più ampie scuse. Quando si offre il tè (che ora ha quasi soppiantato il buon caffè, così semplice a offrirsi e a prendersi) bisogna che vi sia un tavolino preparato appositamente, con tazze finissime e tovagliette e tovaglini bianchi trinati. La padrona di casa, aiutata dalla signorina, se c'è, fa circolar le tazze e offre il latte o il rhum, secondo i gusti, e i finissimi biscotti. Ne risulta qualche volta una complicazione poco piacevole, specialmente per le visitatrici che hanno le mani guantate e ingombre: borsetta, piattino, tazza, cucchiaino, dolci... Se però è un tè in grande, ci devono esser tavolini appositi per posar tutte queste belle cose, e il servizio è fatto dai domestici in giro. Per le visite di condoglianza si aspetti almeno una settimana; si faccia una visita breve, portando un abito scuro e serio di foggia, evitando le convenzionalità, e adattando il tono della conversazione al carattere, all'età, alle idee della persona afflitta. Dai malati si vada poco e brevemente; si cerchi d'infonder loro speranza e serenità, e si mostri una sincera premura per tutto ciò che li riguarda. Invitati a ritornare, se veramente si pensa che la nostra compagnia possa riuscir di conforto, si prometta e si mantenga. Alle ammalate è gentile portare fiori non profumati, i quali, nel caso si tratti di una puerpera, saranno di preferenza bianchi. I bambini non si conducono in visita, e nemmeno si dovrebbero condurre le giovinette sotto i diciotto anni. In campagna, naturalmente, si passa sopra a queste regole. E accade qualche volta che il visitatore o la visitatrice si tiri dietro il cane... cosa deplorevole per mille ragioni. Anche nella casa ove si va in visita c'è talvolta un cane (e questo, pur troppo, accade anche in città). Ebbene, si consiglia alla padrona di tenerlo lontano dal salotto intimo. Quelle amabili bestiole considerano, si sa bene, ogni ospite del loro padrone come nemico personale, e gli vanno incontro ringhiando e abbaiando. La musica dura spesso un bel pezzo, e intanto il visitatore non può nemmeno scambiar una parola coi padroni di casa, che invano cercano di far tacere l'insolente, e spesso credono di giustificarsi dicendo questa bella ragione: non abbia paura, non fa nulla. Meglio tenerlo chiuso nel luogo suo, tanto più che simile diletto si rinnova spesso anche nel momento del congedo. E a proposito del congedo non sarà male avvertir le signore che per quanto siano in confidenza con una visitatrice, per quanto sia loro cara la sua compagnia, non devono trattenerla mezz'ora sulla porta o nell'anticamera. Questo avviso naturalmente va dato anche a chi fa la visita. Giungendo in un paese nuovo, o recandosi ad abitare un nuovo casamento, tocca a chi arriva far visita alle persone cui desidera entrar in relazione. La prima visita va restituita entro gli otto giorni. Non sarà male accennar qui ai biglietti da visita, che spesso sostituiscono la nostra persona....Essi devono essere in cartoncino bianco elegantissimo e devono portar col nome e cognome della persona, i suoi titoli e il suo grado. I professionisti vi mettono talvolta il loro indirizzo. Vi son però dei personaggi così insigniti di gradi e titoli, che la litania ne sarebbe un po' troppo lunga: molto opportunamente si suol usar da loro due specie di biglietti da visita: l'una solo col nome e cognome, l'altra con l'elenco dei gradi e dei titoli; adoperando la prima con amici e parenti, la seconda nelle relazioni ufficiali. Il titolo nobiliare non si mette quando si pone la corona. Le signore hanno il loro biglietto da visita col nome e cognome da fanciulla e da maritata; col titolo o colla corona se sono nobili per via di marito. Il cognome del marito precede sempre quello di nascita. Un tempo le signorine non avevano biglietto da visita; ora però questa regola si va eliminando. Una donna generalmente non mette sul suo biglietto titoli professionali; se però le è necessario essere conosciuta anche professionalmente, preferisce ricorrere, come già detto a proposito degli uomini, al doppio biglietto: uno col titolo per la professione ed uno senza per la vita di società. Il biglietto da visita di una signorina non porta nè titolo nobiliare nè corona. L'abitudine di mettere lo stemma sui biglietti è caduto in disuso e sopravvive un po' soltanto in provincia. Sul biglietto si scrivano poche parole di circostanza; non è bello ricorrere alla sigle p. p. c. - p. c. - p. a., che sono asciutte e volgari. Si mandano i nostri biglietti in occasioni d'auguri, di condoglianza, ecc.: si lasciano alla porta quando non si è potuto fare una visita, piegandoli all'angolo. Visitando il Sommo Pontefice l'uomo avrà l'abito nero da mattina, la signora sarà vestita di nero con velo. Non si portano guanti. Dinnanzi al Santo Padre, i visitatori si inginocchiano, Gli prendono la mano senza stringerla, e ne baciano l'anello. Le domande di udienze private si rivolgono al Ministro dei Sacri Palazzi o al Vescovo della propria Diocesi, che le trasmette alla Santa Sede. Nel visitare un Vescovo, la signora si presenta in abito serio e corretto, ma non occorre il velo. Si accenna una genuflessione presso la poltrona ove siede Monsignore, il quale raramente permette che si eseguisca, e si bacia l'anello pastorale.

Certo, bisogna che chi sta a un banco abbia molta e molta pazienza. Ci sono delle signore incontentabili che fanno metter sossopra tutta una bottega, ci son le modiste e le sartine che si credon permessa ogni indiscrezione, c'è chi disprezza tutto, e chi non vuol dare il prezzo ragionevole. Il commesso o il negoziante procurino di far il possibile per accontentar anche le più bizzarre esigenze, siano prudenti e corretti nella discussione sulla qualità e sui prezzi, e se vedono andarsene lo sperato acquirente senz'aver concluso nulla, si confortino col pensare o col dire, anche ad alta voce e cortesemente: «Sarà per un'altra volta». E così è ben più facile che si guadagnino la clientela, che non facendo come certuni, i quali non rispondono nemmeno al saluto della signora che se ne va, senza aver potuto, per buone ragioni, comprar quello che voleva. Vi son dei negozianti che eccedono però nel loro zelo, e si mostrano indiscreti, e vogliono per forza imporvi la loro mercanzia, anche se assolutamente non vi conviene e non vi lasciano più uscire. Anche questi disgustano il pubblico il quale, dopo tutto, ha diritto di scegliere tra un negozio e l'altro e di spendere il suo denaro come meglio gli sembra. Nelle mercerie e nei negozi di generi alimentari c'è talvolta un po' di ressa. Allora bisogna che chi sta al banco si moltiplichi in sveltezza e usi molta pazienza. Tenga d'occhio chi è venuto prima e chi è venuto dopo, e non faccia preferenze spiacevoli. E si ricordi bene che la gente che aspetta ha il tempo misurato, e che è bensì disposta ad aspettare che venga il suo turno per essere servita, ma non a vederselo prolungare per ciarle inutili fatte tra venditore e qualche cliente di sua speciale conoscenza. La bottega non è un salotto di conversazione, e se può esser lecito, in certi casi, aggiunger al saluto una domanda e una risposta, non si deve stancar la pazienza altrui con dialoghi di carattere personale, scherzi, spiritosaggini o altro. Questo è il difetto in cui cadono i commessi giovani, e le commesse, quando non hanno giudizio... Chi poi entra in un negozio deve prima aver pensato a ciò che deve comprare e press'a poco quello che vuol spendere. Si esamini con attenzione la merce che viene offerta, si chieda pure qualche altra qualità se questa non conviene, ma non si disprezzi, non si facciano confronti con altri negozi, non si faccia buttar all'aria tutta la bottega; quando si vede che il genere richiesto non si presenta fra tanti, è meglio cercar altrove, congedandosi però con un cortese saluto, e con una parola di scusa. Riguardo al prezzo, è giusto fare un'altra offerta se pare esorbitante, ma l'impuntigliarsi quando il venditore mostra assolutamente di non poter cedere di più, e peggio ancora pretendere di cambiare i prezzi fissi, e il fare interminabili discussioni per poche lire, è da persone grette e maleducate. Entrando ed uscendo, è sempre obbligo rispondere con cortesia al saluto. E se nel negozio, tra le persone che aspettano ce ne fosse qualcuna di nostra conoscenza, si saluterà semplicemente, senza chiederle nulla dei fatti suoi, e senza avviare conversazioni perditempo. Un galateo speciale dovrebbe presiedere alle relazioni tra gli operai, i fornitori ecc. e chi si trova nella talora malaugurata necessità d'avere bisogno dell'opera loro. Chi non sa le innumerevoli vane attese? Chi non sa le ripetute chiamate al telefono? Chi non sa i ritardi nel portar il lavoro fissato? La puntualità è diventata, per certi lavoratori e lavoratrici, veramente un nome vano senza soggetto. Essi ben sanno che possono contare sopra una tolleranza inesauribile, che ha le sue basi nella necessità e talvolta ne abusano. L'operaio diligente e cortese, la lavoratrice puntuale son dunque tanto più graditi quanto più rari. Chi si serve dell'opera loro faccia comprendere con buone parole e colla prontezza del pagamento quanto sappia apprezzare tale merito. Accade veramente, però, che talvolta le sarte o le modiste sono così oppresse dal lavoro, in certe stagioni, che non sono veramente colpevoli dei loro ritardi. Tocca allora alle signore clienti usar discrezione e pazienza, non pretendere quello che umanamente è impossibile e non aggravare colle loro esigenze la fatica già eccessiva. Una signora prudente accaparrerà a tempo debito il loro lavoro, e questo le darà il diritto di essere meglio servita: se non avesse molta fretta, facendole lavorare nella così detta stagione morta, recherebbe un vantaggio a loro e a sè. Non si faccia aspettar il denaro a chi ha lavorato per noi. E' questione di diritto, ma quante signore, che pure hanno la borsa aperta per mille capricci, tralasciano il pagamento della sarta, della cucitrice, dell'operaio che ha lavorato in casa loro! E lo fan per negligenza, per dimenticanza, talvolta per una colpevolissima ostentazione. Chi ha il senso del dovere, chi ha l'animo educato a sensi cristiani non tarda mai a compiere il suo dovere verso questi umili, per cui il denaro del lavoro quotidiano rappresenta il pane, l'alloggio, il pagamento forse di debiti urgenti, forse le cure necessarie a qualche povero infermo.

L'arte di fare un complimento non è molto facile: bisogna che sia opportuno, breve, arguto, che abbia tutta l'aria della spontaneità, anche quando è lungamente elaborato. Chi non ricorda il povero Don Abbondio, quando si stava stillando il cervello per trovare una frase adatta per l'Innominato convertito? Ebbe però il buon senso di respingere quella che gli era venuta in mente: «Me ne rallegro» perché era come dire «che essendo stato finora un demonio vi siate finalmente deciso di diventar un galantuomo come gli altri». E pensa e ripensa gli venne in mente che poteva dirgli: «Non mi sarei mai aspettato questa fortuna d'incontrarmi in una così rispettabile compagnia». Ognuno vede come il complimento non fosse corrispondente allo speciale stato d'animo in cui il poveretto si ritrovava... ma via, dopo tutto non era mal rigirato. E sia detto a sua lode che seppe risponder molto bene alle umili parole del Cardinale Federico, il quale lo pregava di dirgli se nella sua condotta trovava eventualmente qualche cosa di riprovevole: «Oh, monsignore, che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?» - Benché il briccone aggiungesse poi tra sé: «Anche troppo!». E' un fatto che il complimento sgorga facilmente dal cuore e riesce bene quando si dirige a persona che veramente lo meriti. Ma talvolta invece i meriti sono scarsi, e nel complimento si pecca di enfasi, di esagerazione, e si cade anche spesso nell'adulazione. Se proprio non è necessario, allora è meglio tacere: se il dovere impone una frase cortese, si cerchi d'esser semplici il più. possibile. Riescono poi molto spiacevoli alle persone di buon senso quelle che si profondono in vani complimenti, senza misura, senza opportunità, e come spesso accade, senza sincerità. Le donne si lodano reciprocamente il vestire, la casa, i figli, i lavori femminili; fatte con garbo, queste lodi possono andare. Ma è brutto scaraventar in faccia frasi come queste: - Lei possiede perfettamente tutte le lingue. - Lei suona stupendamente. - Lei è un grande artista... - Quando non si tratti che di poveri dilettanti e di persone appena modestamente colte. Un genere di complimento molto volgare e molto usato è quello che riguarda l'aspetto esterno della persona. «Com'è ingrassata! - Come sta bene! - Che bel colorito! - Ha la faccia proprio tonda!..» - Molto usato, come ho detto, ma tutt'altro che fine, e spesso anche tutt'altro che opportuno. C'è chi lo dice per abitudine a persona che non vede da qualche tempo, c'è chi lo dice badando solo a un momento di apparente floridezza, c'è chi lo dice sempre. E allora c'è il caso che il complimento sembri ironia, o ferisca anche più direttamente le più delicate fibre dell'anima. A una signorina che aveva perduta la madre da quindici giorni, e si trovava in visita confidenziale presso un'intima amica, toccò sentirsi dire da una conoscente sopraggiunta a caso, la testuale frase seguente: Non l'ho mai trovata così bene... Alle signore, in generale, non piace mai di sentirsi dire che sono ingrassate, ad altre invece può dispiacere che si dica il contrario. Lasciamo dunque da parte simili osservazioni o limitiamole alle strettissime conoscenze di cui sappiamo il gusto. Chi poi riceve il complimento, deve mostrare garbo e modestia nella risposta. Certe lodi si possono gentilmente respingere: è opportuno poi, spesso, ricambiare al lodatore, e sviare il discorso riportandolo su di lui. Ad ogni modo si cerchi di rispondere più brevemente che sia possibile, e soprattutto di non far in modo che la risposta sia appicco a nuove lodi. Alle congratulazioni, alle condoglianze, è bene rispondere con affettuosa semplicità, affermando la propria gratitudine e mostrando di credere alla sincerità di chi parla. Talvolta il complimento è il preludio di una domanda di qualche servizio: talora consiste anche in un'offerta... Spiace anche qui l'affettazione e l'esagerazione, e ci ritiene dall'approfittar di quell'offerta che non riputiamo sincera. Benchè si sappia però, come dice il Manzoni, che ai complimenti bisogna far la tara... Un modello perfetto di cortesia è nello scambio di complimenti che il Divin Poeta pone sulle labbra reciprocamente di Beatrice e Virgilio. Ella che ha bisogno d'un favore lo interpella così:

. - Siete sicuro che abbia a piacerle? - Sono padrone io. E ci vuole uno stratagemma della brava Felicie perchè i due poveretti possano incontrarsi almeno una volta, e poco manca che questo grande atto d'audacia mandi a monte il matrimonio. Tra questo e il moderno costume inglese e americano, che i giovani si fidanzino per conto loro, avvertendo i genitori solo a cose fatte, c'è posto per una quantità di casi e di circostanze graduate. Comunque sia, questo colloquio iniziale tra le due parti deve avere la massima chiarezza e la massima serietà. E non si tema di affrontar la questione finanziaria: dopo, sarebbe molto più malagevole e, del resto, per dare o rifiutare un consenso è giusto che si abbiano in mano tutti gli elementi. Appena accettato come futuro sposo il giovane fa la sua prima visita da fidanzato. Se tale visita deve rivestire la forma di presentazione ufficiale alla famiglia, la fidanzata, vestita elegantemente (ma non mai con troppo sfarzo) circondata dai parenti e dagli amici intimi che sono stati invitati per farle festa e conoscere lo sposo, lo accoglierà, cercando di frenare il soverchio della sua commozione, e di mostrarsi serena, disinvolta, schietta, nella sua letizia. Da quel giorno, egli può frequentar la casa, nelle ore e nei modi che saranno fissati di comune accordo. La convenienza non permette che i due giovani rimangano soli nei loro colloqui, e la mamma o chi per lei non può sempre essere a loro disposizione: è bene dunque che le visite sian fatte con discrezione e quando meglio convenga alla famiglia. E' permesso, però, al giovane dar una rapida capatina, anche ogni giorno, se vuole, e informarsi come sta la sua diletta. Non tarderà molto a consegnar l'anello di promessa, che sarà più o meno ricco secondo la sua condizione, ma nel quale cercherà di indovinare il gusto di lei. Una semplice gemma bene incastonata in un leggero cerchio è meglio adatta di ogni complicato lavoro d'oreficeria. C'è chi diffida delle perle perchè «significan lacrime» si dice in Germania, c'è chi guarda con orrore l'opale, come portator di disgrazia. Avviso a chi credesse di tenerne conto. La sposa potrà contraccambiare con un regalo analogo: una spilla, un paio di gemelli ecc. non mai con un altro anello. Usano in certi luoghi partecipar il fidanzamento con annunci a stampa. Comunque esso si annuncia agli amici e parenti con lettera o a voce, secondo i casi; spesso l'annunzio ufficiale alla famiglia si dà con un pranzo, unendo questa cerimonia colla consegna dell'anello. E comincia allora pei due giovani un periodo lieto e solenne, come auspicio della futura felicità; ma nel quale hanno nuovi doveri di convenienza a cui non possono venir meno. E' il periodo in cui si studiano e si preparano: devono comunque star insieme quant'è giusto e ragionevole, e aprirsi liberamente l'animo loro, e anticipar quella fusione d'idee e di sentimenti ch'è garanzia di felicità matrimoniale. Non si mostrino dunque bramosi di svaghi e distrazioni; se il giovanotto non sarà biasimato perchè talvolta va ancora al caffè coi suoi amici, o si fa vedere al teatro, la signorina eviti possibilmente, se il fidanzato abita nella stessa città, di recarsi per abitudine a divertimenti ai quali egli non intervenga. Ciò dimostrerebbe una smania di godere che darebbe poca garanzia della sua serietà di sposa futura. I due giovani, se escono colla madre o con altro parente, le si metteranno ai lati, e non cammineranno innanzi frettolosi, lasciando dietro a sè, sola e sgambettante, la persona anziana a cui debbono tutto il rispetto. Son cose che non si dovrebbero dire eppure l'amore rende talvolta ciechi ed egoisti, e fa dimenticare un po' le convenienze. I guardiani, alla loro volta, non prenderanno delle arie da carabiniere, e non invocheranno gli occhi d'Argo. Se il giovane è ben educato non oserà certo prendersi una libertà meno che rispettosa verso colei ch'egli deve stimare e onorare per tutta la vita: e una fanciulla saggia e modesta, in nessun caso lo permetterebbe Non ci sarà dunque niente di male, se durante le visite convenute, resteranno per qualche minuto a quattr'occhi. E' bensì severamente proibito dal codice delle convenienze che il giovane dorma sotto lo stesso tetto della fanciulla: ma le mutate condizioni della vita d'oggi fanno sì che spesso questa regola non sia più osservata. Del resto, quando i due giovani siano conosciuti per la loro rettitudine e per la loro solida formazione, nessuno penserà ad interpretare male questa infrazione alla vecchia regola. S'intende che quando i due fidanzati si assenteranno insieme per qualche giorno, in occasione di qualche gita od altro eviteranno di andare soli, a meno che non vadano ospiti di parenti o amici. Se i fidanzati sono lontani, è ben naturale che provino il desiderio di estendere in lunghe lettere i loro sentimenti. Si lasci su questo la massima libertà: e sarebbe veramente indiscreta la madre che, salvo gravissime ragioni, volesse leggere quella corrispondenza... d'amorosi sensi. Non è bene anticipar i nomi di parentela ai futuri suoceri, cognati, ecc. Se poi tutto andasse all'aria? E ciò potrebbe anche accadere. Ci son delle gravi ragioni per cui i due giovani, dopo essersi praticati alquanto, capiscono ch'è meglio rinunziare al disegno vagheggiato. E se la rottura è fatta seriamente, dignitosamente e ragionevolmente, si dirà dalle persone di buon senso: Meglio così che un matrimonio mal riuscito. Durante il fidanzamento (che non dovrebbe mai esser meno di tre mesi o più di un anno, salvo specialissime circostanze) si procede in casa della sposa all'allestimento del corredo. Questo dev'essere adatto alla condizione della sposa e alla vita che dovrà condurre: si preferisca roba solida, di qualità fine e ben lavorata, a quel subisso di trine, di veli, di mussoline e di sete trasparenti che si è cercato di mettere di moda. E' una eleganza frivola, costosa e niente affatto pratica ne conveniente. Una volta, la giovanetta cominciava ben presto a preparare il suo corredo, e se lo trovava pronto al momento delle nozze; ora si ordina, si compra, si commette di qua e di là, e talvolta con troppa fretta. Il corredo personale della sposa vien portato nella futura casa nei giorni imminenti a quello dello sposalizio, e dovrebbe esser tutto pronto e cifrato già colle sue iniziali. C'è poi il corredo della casa, che suol essere fornito dallo sposo o dalla sposa, secondo l'usanza del paese o secondo i comuni accordi: questo deve portar le iniziali del marito ed esser pure composto di roba solida più che vistosa. S'intende però che la pompa delle tovaglie di Fiandra (benchè ora non siano più in gran uso) e dei ricchi lenzuoli di lino ricamato non è vietata a chi può procurarsela. E' uso in certi luoghi esporre il corredo della sposa; uso ch'io non temo di asserire indiscreto e sconveniente. E'. invece normale l'esposizione dei regali, col relativo bigliettino portante il nome del donatore. Agli sposi si regala quello che si può e si vuole: a cominciar dai ricchi gioielli, che però sogliono esser dono solo dei parenti o degli amici strettissimi, giù giù per una serie infinita di cose, utili o inutili, ricche modeste, artistiche o... antiartistiche. Quel che temono specialmente gli sposi e che dispiace anche al donatore è il duplicato, il triplicato dello stesso dono... Si cercherà di evitarlo indagando opportunamente in modo più o meno diretto il gusto e il desiderio degli interessati. Quando poi s'avvicina il gran giorno, si procuri d'aver previsto tutto e provveduto a tutto: gli annunzi, gli inviti, ogni particolare del vestiario e ricevimento, e di esser perfettamente in regola colle carte e colle pratiche sia civili, sia ecclesiastiche. E non sarà male ricorrere, per questo, all'aiuto di qualche buon amico di famiglia, che abbia più tempo a sua disposizione, e meno pensieri per la testa. Ora, in seguito al Concordato del Laterano il matrimonio religioso assume il valore del matrimonio civile: la cerimonia è dunque una sola. I due sposi vestiranno colla massima eleganza relativa alle loro condizioni: «tight» o abito scuro da mattina lo sposo, se è civile, o grande uniforme se è militare; la sposa non rinunzi, se può, alla leggiadra poesia della bianca veste e del velo fluttuante. Ma se essa non fosse più giovanissima, se non si credesse opportuno uno sfoggio di toilette, può avere un bello e ricco abito da società e un elegante cappellino, e in conformità al suo vestire sarà quello delle signore del corteo. Lo sposo eviti l'abito da pranzo (il cosiddetto «smoking») che contrariamente a quanto molti credono, specialmente nei piccoli centri, non va mai portato di mattina nè per altre occasioni che non siano, come dice il nome, una riunione serale. Le automobili se non sono di famiglia, devono essere provvedute dallo sposo. Nel primo veicolo entra la sposa col parente che deve condurla all'altare, nel secondo lo sposo coi parenti più prossimi della sposa suoi, negli altri i testimoni e gli invitati. La sposa è condotta alla chiesa e su per le scale del municipio dal padre, o dallo zio o dal tutore, e apre il corteo; segue immediatamente lo sposo colla futura suocera o la più stretta parente. In Francia e in certe città si usano le damigelle e i cavalieri d'onore, giovani amici e parenti, disposti a coppie (una o due) ed elegantemente vestiti. Nei matrimoni di gran lusso vi sono anche i paggetti che reggono lo strascico della sposa. Ma ora si tende anche in queste cerimonie a una gran semplicità, anche da famiglie molto facoltose, Purchè gli sposi sian felici - si suol dire - che cosa importano tante pompe? Perchè dar tanto pascolo alla curiosità? E taluni spingono questa teoria sino a celebrare il matrimonio quasi clandestinamente. E fanno male, perchè questo atto, compiuto nel libero giubilo del cuore, segna l'inizio di una vita nuova e merita d'esser celebrato con quanto apparato si può. Al ritorno dalla chiesa, la compagnia si trattiene per un rinfresco (che deve essere finissimo ed abbondante) o per una ricca colazione. C'è chi usa farla addirittura all'albergo, per risparmio di tempo e di brighe, ma altri biasimano come troppo prosaico tale uso. Però una bella sala elegante, una mensa riccamente adorna, fiori a profusione possono trasformar anche il banale aspetto di un luogo d'albergo. Lo sposo e la sposa staranno vicini, e intorno a loro i parenti e i testimoni, per ordine d'importanza e di intimità. E' difficile che alla fine del banchetto non ci siano i brindisi: ma, per carità, brevi e discreti! Gli sposi potranno rispondere con un semplice grazie; qualche parente anziano può alzarsi e parlar in nome loro e della famiglia. Ai presenti si distribuiscono confetti. Le scatolette di dolci per amici e conoscenti vanno inviate nei giorni seguenti le nozze. La spedizione degli annunzi matrimoniali, precedentemente preparati, si fa almeno una settimana priprima del giorno del matrimonio. Per gli invitati al ricevimento, si acclude alla partecipazione un biglietto di invito a stampa. Il testo di quest'invito sarà il seguente: «Il signor e la signora X Y saranno in casa il giorno ..... all'ora ..... (oppure: dopo la cerimonia) per un saluto agli sposi». Generalmente sono i parenti degli sposi che figurano nella partecipazione; ma se gli sposi non sono più molto giovani, o se non hanno più i loro genitori, la comunicazione avviene direttamente colla formula più semplice: - Carlo M. e Maria G. annunziano il loro matrimonio -. Alla data si aggiunge l'indicazione del domicilio, affinchè si possano spedire i biglietti di congratulazione e d'augurio.

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Naturalmente, ancor più riservata e corretta nel suo contegno, quando abbia a che fare con un religioso, dovrà essere una signora, la quale dovrà evitare ogni familiarità ed ogni libertà che possa prestarsi ad interpretazioni malevole o mettere l'ecclesiastico nell'imbarazzo. Il padre provinciale dei Cappuccini di Monza conduce Agnese e Lucia dalla Signora. «Ma state un po' discoste - dice loro - perchè la gente si diletta a dir male, e chi sa quante chiacchiere si farebbero se si vedesse il padre provinciale con una bella giovane... con donne, voglio dire». Che diremo poi di quelle signore le quali in tram, in ferrovia, trovandosi alla presenza di un religioso, non sanno trattenersi da quella deplorevole libertà di mosse e di posizioni che l'uso moderno (non però delle persone rispettabili) ha introdotto? E di quelle che si fanno trovar in casa propria e in casa di comuni amici con vesti tirate e succinte, e con larga esposizione delle membra superiori e inferiori? Mi raccontava un egregio monsignore che, invitato a un castello per tenervi alcune conferenze, la gentil padrona di casa gli andò incontro coll'automobile, alla stazione del paese. Era d'estate... e l'abbigliamento della signora, tutto veli e trasparenza e svolazzi, lo mise tanto a disagio che per tutto il tragitto non se la sentì di alzar gli occhi su lei. A tavola, le commensali non eran da meno. Ed egli dovette trovar la franchezza cristiana di fare, quando gli parve il momento buono, una rimostranza che fu, del resto, benevolmente accolta, giacchè quelle brave signore non peccavano se non per frivolezza. Interroghiamo insomma il buon senso e il buon cuore, e i suggerimenti che ci daranno rispetto a persone che hanno diritto a riguardi più oculati e a un contegno più corretto, saranno certo i più opportuni. E se ciò si dice per i sacerdoti, e per i frati, e pei religiosi in genere, molto più deve dirsi per le suore. Di queste creature silenziose, raccolte, attive, ora se ne trovano sempre in gran numero, per le strade, nei tram, in ferrovia, nelle anticamere. Esse hanno diritto al rispetto più scrupoloso, a tutti gli atti che la cortesia ci suggerisce come utili. Se ad ogni dama e ad ogni donna si deve riverenza, tanto più ne han diritto queste che dedicano tutta la loro vita al bene, ed è giusto che il contegno pubblico attesti la pubblica riconoscenza. Si rifletta altresì che ad uno sgarbo maschile o femminile, una signora del mondo può ribellarsi, e far sentire le sue proteste, e fors'anche metter molto bene a posto l'insolente. Una suora invece deve tacere e soffrire. Basterebbe questo per frenar la parola e l'atto scortese che assumerebbe un carattere di prepotenza e di viltà. Il che naturalmente è tutto alieno dall'animo dei miei gentili lettori, che non scorrono queste pagine se non per aver una conferma al loro consueto modo di agire.

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Discorrendo coi nostri compagni di passaggio, si abbia cura di non alzar soverchiamente la voce, di non rider troppo, di non far cenno che sembri offesa o scherno a chi si trova sul nostro cammino. E' poi molto scortese, come già si è detto, fermarsi, nell'enfasi del discorso, sul marciapiede e costringer così anche gli altri a fermarsi. E' un perditempo e poi un intoppo alla circolazione. La persona bene educata tiene, o sola o accompagnata che sia, un contegno serio e riservato; una donna poi peccherebbe troppo gravemente d'imprudenza se si allontanasse dalle norme più severe. Essa in tal modo incoraggerebbe i bellimbusti e gli avventurieri, i quali non mancano mai, specialmente nelle grandi citta. Ma può capitare anche alla fanciulla più riservata, alla signora più rispettabile d'aver a fare qualche volta con un mascalzone (altro titolo non merita) che si ponga a darle molestia. Se il contegno più austero, se il silenzio più sprezzante non bastano a scoraggiare colui, la donna seria e prudente non si abbassi a rimproveri nè a minacce; faccia cenno al primo vigile che le capita, e gli affidi l'incarico di dare al malcreato la debita lezione. E' il mezzo più semplice e il più conveniente. Davanti agli avvisi, alle vetrine, alle curiosità d'altro genere, non si facciano lunghe fermate, il che è indizio di curiosità eccessiva e di poco riguardo agli altri. Se poi è uno spettacolo sconcio, come una lite, un ubriaco, o altro, si ricordi il severo rimprovero che si buscò Dante dal suo maestro Virgilio e Maestro Adamo. E il povero Dante ne rimase così umiliato, così vergognoso, che non sapeva nemmeno trovar parole per scusarsi: tanto che il buon maestro ebbe compassione di lui e, concedendogli tosto il suo perdono, gli aggiunse un prezioso consiglio che fa anche per noi e per tutti:

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Essendo la strada il luogo dove si può essere esposti a qualunque incontro, si abbia cura di non scendervi se non vestiti di tutto punto. So di una certa signora, che fidandosi perché era scuro, e doveva far quattro passi e non più nella strada, uscì colle scarpe da casa, col cappello alla diavola, col soprabito male abbottonato... ed ebbe la bella sorte d'imbattersi nella più elegante e più maldicente delle sue amiche... Ma la strada non è soltanto il luogo dove si cammina. Anzi, ai tempi che corrono, ai poveri pedoni vien limitato e contrastato in ogni modo lo spazio: tutto il resto è il regno delle vetture, dei tranvai, delle biciclette, e soprattutto delle terribili automobili. Camminare per certe strade è talvolta un'impresa, traversare certi incroci di vie principali è una fortuna non comune. I vecchi, i malati, i bambini non dovrebbero arrischiarsi, preferendo dare un giro più lungo, ma più sicuro; gli altri faccian uso di tutta la loro prudenza e di tutta la loro calma, attenendosi poi rigorosamente ai cenni dei vigili, che sono messi apposta. S'intende poi che chi corre pazzamente in bicicletta, in carrozza, in automobile, infischiandosi dei regolamenti, dimostra di essere un villano, egoista e superbo. Purtroppo riescono talvolta a sfuggir ai castighi che si meritano, e vi sono di quelli che, dopo aver buttato a terra qualcuno, proseguono con doppia velocità la loro corsa, esimendosi dal dovere sacrosanto di riparare alla disgrazia cagionata, per quanto è possibile, nei vari casi. La persona bene educata rispetta i regolamenti, non si espone al rischio di far male a nessuno, serba un contegno calmo e signorile, sia che guidi la sua bicicletta, sia che tenga il volante di un'automobile.

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Si dà il caso, per esempio, di una professionista che non abbia comodità nella propria casa, o di chi risieda in quella città per qualche mese all'anno, come spesso accade alle insegnanti. Molti occhi curiosi sbirciano la donna che entra nella pubblica sala e siede alla mensa aperta a tutti: talvolta gli occhi sono anche maligni e si divertono a dar materia di commento a lingue ancor più maligne. Una signora dunque non sarà mai abbastanza riservata, specialmente se è sola. Entrerà con modestia e con franchezza, si toglierà il mantello se l'ambiente è notevolmente più caldo che fuori, non mai il cappello. Non farà conversazione a voce troppo alta con chi la accompagna, si asterrà dal ridere forte, dal volger troppo gli occhi in giro; lascerà al suo cavaliere dare gli ordini al cameriere e far le osservazioni. Se è colla madre, o colla zia, o in genere con altra signora più anziana, le userà tutti i riguardi nella scelta del posto, l'aiuterà a togliersi e a rimettersi il mantello, e non permetterà mai che il cameriere adempia a questa bisogna, ringraziando, però, con cenno cortese alla sua offerta. Ora è meno raro di un tempo vedere signorine, anche giovanissime, entrar a prendere un pasto in qualche ristorante. Mancherebbe seriamente ai doveri non solo del galateo, ma della più elementare convenienza chi si permettesse con tali giovanette il più piccolo atto di libertà, uno sguardo men che rispettoso. Al caffè vanno per serale ritrovo i signori uomini, e talvolta vi conducono anche le loro signore. Ma una donna sola, che voglia esser rispettata, cercherà di non trattenersi oziosamente a uno di quei tavolini; solo di giorno le sarà lecito sedere quel tanto che è necessario perchè le venga servito un gelato o una bibita qualsiasi di cui abbia bisogno. Se però accompagna i suoi bambini, nessuno troverà a ridire di vederla fermarsi un po' di più. Gli uomini, se sono soli, nel caffè chiuso hanno una grande libertà, di cui però faranno bene a non abusare; fumano, conversano ad alta voce, ridono, scherzano. In generale sono amici e colleghi che si riposano dalle fatiche del giorno. Ma hanno però l'obbligo di rispettarsi reciprocamente, di vigilare che lo scherzo non si tramuti in offesa, che la discussione non divenga disputa... Molte gravi querele, che spesso son finite nel sangue, hanno avuto origine da una parola imprudente, da uno scherzo troppo confidenziale... Tra conoscenti che non siano amici, e tra estranei frequentatori del caffè, si usi cortesia e riguardo: non si accaparrino i giornali e le riviste, non si finga di non vedere chi cerca un posto, non si pretenda d'esser sempre serviti prima. All'aperto, quando i tavolini son gremiti di gente che nelle belle serate gode la musica, i caffè presentano l'aspetto di una piacevole e variopinta confusione. Si odono voci gaie di signore e giovinette, voci squillanti di bambini, trilli e risate. E un tintinnio di bicchieri e di piattini, e un correre affaccendato di camerieri da un tavolino all'altro, e... se è lecito trarre a scherzo una frase classicamente solenne:

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Non basta lavarsele nè una, nè due volte al giorno: ogni volta che si abbia terminato una faccenda domestica o un lavoro d'ogni genere, ogni volta che sono state a contatto con qualche cosa che le abbia anche lievemente maculate, bisogna ricorrere alla catinella e al sapone. E così si deve fare anche rientrando dal passeggio o da altro luogo pubblico, e anche diciamo tutto, se abbiamo dovuto stringer le mani del nostro prossimo; mani immacolate, vogliamo credere, e perfettamente sane... ma, insomma... E le unghie van tenute pulitissime e bianchissime; per mantenerle tali bisogna che non sian troppo lunghe; ma nemmeno è bello vederle rase al polpastrello. Il rispetto alla nostra persona si manifesta in modo specialissimo nelle vesti. La biancheria intima deve essere mutata almeno una volta alla settimana, le calze assai più spesso. Chi poi si presentasse in pubblico colle vesti sbottonate, colle scarpe slegate, col lembo dei calzoni o della gonna sfilacciato o fangoso, col bavero del soprabito lucente, ohimè! di untume, o coperto di polvere, costui, dico, fosse anche un Solone o un Galileo, correrebbe un gran rischio di farsi guardare come uno strano animale. Ma si riderà anche del bellimbusto azzimato, si riderà anche del vecchio e della vecchia che ricorrono ai più visibili espedienti: «Pour réparer des ans l'irréparable outrage». Non si veggono forse i belletti stesi sulle guance rugose, e le chiome posticce, e le sopracciglia disegnate, e i capelli tinti di biondo e di nero, che passan per tutti i colori dell'iride, quando sarebbe così nobile e spesso così bella la canizie? Chi rinunzia alla propria personalità fisica dimostra cervello meschino e perde ogni diritto al rispetto altrui. E' orinai generalmente invalsa fra le donne l'abitudine di truccarsi. Premesso che ciò non si addice ad una adolescente, la donna che vi ricorre ricordi che il trucco deve servire a ravvivare o a correggere lievemente il viso, non a cambiarne totalmente le fattezze. Quindi lasci i ceroni e le impiastricciature violente ed eccentriche alle dive, che ne hanno bisogno per esigenze tecniche di palcoscenico, e si accontenti di un ritocco sobrio, appena accentuato di sera, che è sempre molto più signorile ed oltre a tutto anche molto più riuscito esteticamente in quanto il trucco migliore è sempre quello che non appare, avvicinandosi maggiormente alla naturalezza. Quanto detto sopra vale per tutte: ma è evidente che assume anche maggior valore riferito a signore non più giovani, le quali oltre alla naturale dignità ùdella donna devono considerare anche la dignità particolare richiesta dalla loro età. Ma non si corre questo rischio soltanto trascurando o alterando il corpo che Dio ci ha dato, compagno dell'anima e suo strumento nell'operare. Noi dobbiamo rispettar ancor più la nostra personalità morale. O poche o molte sian le doti che ci furono concesse, è obbligo nostro di farle valere in nostro vantaggio e altrui, e se è dissennato e superbo chi ne mena pompa, anche più di quanto si conviene, chiameremo stolto chi si compiace di avvilirsi e di snaturarsi in faccia alla gente. Perciò chi tiene un linguaggio indecoroso manca di rispetto a sè e agli altri, e così pure chi buffoneggia e scherza nelle brigate in modo scurrile. Poichè, dice Baldassare Castiglione, ci sono bene nelle corti coloro che ciò fanno per sollazzo altrui, ma si chiamano con altro nome e non gentiluomini. Non so quanto potesse toccar da vicino l'ammaestramento ai lettori de' suoi tempi. Ai nostri, di questo bel vezzo buffonesco rimane ancora qualche traccia nelle conversazioni di villaggio. C'è qualche specialista nel rifare il verso di questo o quell'animale; c'è chi s'è fatta una legge di non rinunziar mai a nessuna goffa spiritosaggine che gli venga sul labbro, pur di guadagnarsi la fama di uomo faceto... E nemmeno si deve avvilir se stessi con perpetuo atteggiamento servile verso gli altri. La cortesia non deve escludere il decoro, la compiacenza non deve estendersi ad ogni servigio, la lode non deve prender l'aspetto dell'adulazione, il complimento non dev'essere mellifluo e a getto continuo. Chi si mette prono innanzi a tutti, non si deve meravigliare se a molti verrà la voglia di calpestarlo. E nel parlare di sè, l'uomo saggio si terrà tanto lontano dalle ridicole vanterie, quanto da un'affettazione di umiltà. Chi protesta ad ogni istante di non valere nulla, di non esser capace di nulla, di reputarsi l'ultimo di tutti, corre talvolta il rischio d'essere scambiato per un ipocrita... e il rischio non è piacevole. Ma se la gente lo pigliasse sul serio? Se queste ripetute proteste di nullaggine attecchissero nell'opinione pubblica? Si può rispondere che i fatti smentiscono le parole, e che il vero merito si paleserà da sè. E' vero, ma talvolta un preconcetto formatosi di una persona può trovar una certa difficoltà a sparire. L'esperienza ci mostra molti fatti di questo genere. Ad ogni modo, questa può sembrare una originalità di cattivo gusto. Facciamo debita stima dei doni che il clemente creatore ci ha dato, e ricordiamoci che la modestia è verità, come diceva il Manzoni, che di queste cose se ne intendeva, e che se vogliamo essere stimati dagli altri dobbiamo anche mostrare che di noi stessi abbiamo una ragionevole e giusta stima.

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A un pubblico di riguardo, il conferenziere si presenta vestito colla massima accuratezza: in certi casi è prescritto l'abito nero di società, coi guanti bianchi, di cui potrà liberare la destra se abbia bisogno di leggere. In tutti i modi, anche se la conferenza si fa di giorno e dinnanzi a un pubblico modesto, non si deve tener soprabito e tanto meno cappello, e tutto il vestire deve spirare decoro e accuratezza speciali. Ora non è raro il caso che le conferenze sian tenute da donne. E allora, attente, signore che vi esponete, attente più che mai! Badate che le critiche, se fallite alla prova, sarebbero cento volte più acri di quelle che si rivolgono agli uomini, perché la presunzione, se spiace in tutti, diventa ancor più spiacevole nella donna, e prende anche spesso le forme del ridicolo. Quando una signora, nella coscienza di far bene, per obbligo d'ufficio, o per fine sentimento di arte si assume l'impegno di parlare in pubblico, curi la sua preparazione, curi la sua voce, curi anche (e perchè no?) il suo vestire, che richiede in tal caso una signorile semplicità. E si presenti con garbo e naturalezza e, sia che legga, sia che parli, tenga alta e ben modulata la voce, in tutto il suo contegno, colla modestia e colla semplicità, cerchi di farsi perdonare quello che sta facendo che non è cosa che soglia piacere: e infine il sedere a scranna e il darsi ufficio di ammaestrare altrui. Il che, se mal si tollera negli uomini, può diventar in una donna cosa ancor meno tollerabile alla comune vanità.

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Al contrario, il marito bene educato deve sempre mostrare di approvare ciò ch'ella fa, e difenderla contro gli altri, anche se in cuor suo giudichi che ella abbia torto. Tale gentilezza cavalleresca non gli impedirà poi di disapprovarla, o anche rimproverarla a quattr'occhi: è questo, anzi, suo preciso dovere. Ma sarà severissimo nell'esigere dai servi e dai figli il massimo rispetto verso di lei. Vi sono persino dei casi in cui il marito e la moglie, disuniti nell'animo da profondi dissapori, hanno così bene saputo osservar le convenienze reciproche da andar avanti anni ed anni, colle apparenze di una pace domestica che riusciva a ingannare anche gli intimi. E chi oserebbe biasimare un tale inganno, che conservò ai figli il rispetto verso i genitori e risparmiò all'animo loro terribili impressioni in un'età in cui non si cancellano più? Fuori, di casa, il gentiluomo deve sempre mostrarsi lieto e onorato di accompagnarsi con sua moglie, e deve farla partecipe di quegli onesti piaceri che la loro condizione permette. E' brutto veder il marito che frequenta le conversazioni, i teatri, persino i balli, lasciare a casa la moglie senza una legittima ragione. Se poi egli è un uomo di studi e alieno dalla mondanità, pensi che non può pretendere altrettanto da una giovane donna, e procuri di vincere le sue ripugnanze e accompagnarla a qualche ritrovo da lei specialmente desiderato. Nelle sere poi in cui c'è ricevimento in casa, non gli è assolutamente permesso assentarsene del tutto, e dovrà anzi coadiuvare la moglie nell'accogliere gli ospiti, nel presentare i rinfreschi, nel trattenerli piacevolmente. Gli sarà bensì permesso, dopo aver adempiuto questi obblighi, ritirarsi cogli amici nel salotto a fumare o a far qualche partita di bigliardo. Nelle visite di giorno, però, il marito non suole accompagnare la moglie se non nel giro consueto, dopo il ritorno dal viaggio di nozze, e quando, fissandosi per ragione d'ufficio in qualche città nuova, si fa la conoscenza dei superiori e dei colleghi. E in queste visite egli porterà tutto il garbo e la prudenza, astenendosi da ogni osservazione e da ogni frase che possa mettere a disagio la sposa, in riguardo a persone estranee, e assecondandola, anzi, in quello che ella dice e propone. Ma ai doveri del marito corrispondono quelli della moglie, e la mancanza, da parte sua, è ancor più biasimevole. L'amorevolezza, il buon garbo, la cura della propria persona sono doti assai più femminili che maschili: basta talvolta la mancanza di una di queste per mandar all'aria la pace domestica. Uno scrittore francese ha scritto che il primo dovere della donna è quello di essere bella. Un paradosso, si capisce, ma che pure ha un fondo di verità. La fanciulla ha istintivo il culto della propria persona, il desiderio di abbellirsi. E' la natura che glie lo ha messo nel cuore, come ha dato i petali variopinti ai fiori, e le ali screziate alla farfalla. E' il desiderio di attirare, di piacere: desiderio spesso inconscio, e che si accompagna spesso, senza contraddirle, con le doti più belle dell'anima. Ma accade talvolta che, dopo il matrimonio, la cura della propria persona, il desiderio di piacere cedano alla negligenza e alla svogliataggine. E allora la sposina, la giovane madre, girano per la casa spettinate e malvestite, o in pantofole o in veste da camera, scusandosi colle faccende domestiche, e dichiarando che non hanno ambizione... che ormai son piaciute a uno e basta così. Ma proprio quell'uno prova un senso di disgusto e di mortificazione nel veder così sciatta la bella personcina che aveva presentato, a lui, la incarnazione del suo ideale. E' una caduta lacrimevole dalla poesia alla prosa! E sarà feconda di molti guai se egli farà, forse anche involontariamente, il confronto colle signore che vede fuori, linde, agghindate, eleganti. La saggia sposa, dunque, non creda che soltanto le sue virtù domestiche possano bastare: procuri di conservar sempre le sue attrattive fisiche; si pettini con garbo e si mostri sempre con un vestitino accurato e grazioso. Se vuol attendere alle faccende domestiche si copra d'un ampio grembiulone, se non vuol sciuparsi le mani faccia uso di grossi guanti. Ma procuri di mostrare al marito, quand'egli la ritrova tornando dalle sue occupazioni, una donnina graziosa e piacente. E i suoi modi siano sempre gentili, il suo aspetto sempre sereno. Bisogna pensare che l'uomo che talvolta rincasa, stanco e di cattivo umore, ha bisogno di chi l'aiuti a dimenticare i guai della vita, e che proprio a lei è affidato questo ufficio gentile. Largheggi pure di saluti e d'accoglienze affettuose, e insegni ai figliuoli a fare altrettanto. Se lo vede burbero, se riceve qualche parola pungente, non s'indispettisca, non ribatta: lasci passare quel momento, e la serenità non tarderà a comparire. E procuri che la mensa abbia un gaio aspetto, e che nei cibi sia accontentato il suo gusto. Talvolta basta un'inezia di questo genere per rasserenare un animo torbido. Se ella ha avuto qualche fastidio domestico, se la donna di servizio si è licenziata, se i bambini sono petulanti, procuri di dimenticare queste piccole contrarietà e di frenare il malumore. Ma che dire, invece, di quelle mogli che, appena il marito rincasa, lo assalgono col racconto di ogni spiacevolezza, e guastano al pover'uomo quel poco riposo che gli è concesso? S'intende che negli affari domestici esse devono prendere consiglio dal marito, e partecipargli ciò che riguarda la servitù o i figliuoli, ma devono saper scegliere il tempo, e farlo con modi discreti. La saggia moglie gli risparmi tutto quello che può inutilmente infastidirlo; non gli introni il capo con pettegolezzi di vicini, con ciarle sconclusionate. Cerchi invece di portare il discorso su argomenti piacevoli e cari ad entrambi, cerchi d'interessarsi a quanto egli racconta, e se le par il caso di esprimere un giudizio e di dargli un parere, lo faccia con modi prudenti e cortesi e non manchi mai di ringraziare alle piccole cortesie ch'egli le usa a mensa o altrove, e cerchi alla sua volta di mostrarsi servizievole e pronta ad ogni suo desiderio. Talvolta il marito desidera uscire a passeggio o passar una serata al teatro, ma da solo, dice, non si divertirebbe: ci vuole la compagnia della moglie. E allora essa sappia apprezzare quel sentimento, e lo assecondi: anche se il suo desiderio sarebbe stato invece di rimanersene a casa, si vesta ed esca, e procuri di fargli buona compagnia. Solo nel caso che avesse bambini piccoli, il dovere verso di loro l'assolverebbe da ogni altro. Ma, del resto, bisogna ricordarsi che la vita in comune è fatta tutta di piccole condiscendenze e di piccoli sacrifici, i quali però trovano sempre ampio compenso. E a questo mondo non c'è nulla che valga la pace domestica. Se il marito è uomo di studi, se occupa un posto pubblico molto elevato, la donna si ricordi che sarebbe una vera colpevolezza da parte sua molestarlo con esigenze personali, turbargli l'ordine delle sue occupazioni. Sappia comprendere e rispettare il raccoglimento che spesso egli impone intorno a sè, e non mostri un volgare egoismo nel pretendere che i grandi interessi della scienza o della cosa pubblica cedano alle sue voglie e ai suoi gusti. Mostri in tal caso una onesta compiacenza dei meriti di suo marito: si guardi però bene dal forzare le sue confidenze o, peggio, di darsi importanza in pubblico. La casa è il regno della donna. Nel farla bella, ella non deve soddisfar solo una sua personale inclinazione, ma deve anche pensare di gradire al marito, assecondando le sue inclinazioni. Se a lui piacciono i fiori, le piante, gli oggetti d'arte, è una vera fortuna: sarà tanto più facile a lei accontentarlo in cose sì facili e belle e guadagnarsene la gratitudine e l'ammirazione. Abbia poi la moglie tutta la cura verso la biancheria e i vestiti del marito. Anche se vi fossero persone di servizio in abbondanza, ella si riservi di sorvegliar la sua guardaroba, perchè nulla vi manchi. E se il marito ha a questo proposito una qualche mania, una esigenza un po' esagerata, procuri di compatire di assecondare. E' forse meglio che un uomo pecchi di soverchia ricercatezza che di trascuratezza volgare. E, del resto, quando un uomo si presenta in società, si giudica spesso dal suo vestire l'abilità della moglie il grado del suo affetto per lui... Un bottone ciondolante, una camicia male stirata sono stati origine, talvolta, di scene domestiche assai disgustose, e di commenti estranei molto... pungenti per la signora.

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Quando però si abbia il sospetto di qualche sottrazione bisogna andar molto cauti nell'accusare; perchè altrimenti si possono aver noie gravissime, ma una volta che i sospetti sian divenuti certezza, colpire risolutamente e colle prove alla mano. Per un fatto di questo genere, o per gravi altre ragioni, si può licenziar un servo sui due piedi. Altrimenti corre l'obbligo dei tradizionali otto giorni, che talvolta poi divengono quindici e più. E talvolta si finisce con una conciliazione. Ma badi bene la signora che ci sia un sincero buon volere da una parte e dall'altra, perchè altrimenti potrebbe un giorno sentirsi rivolgere la frase umiliante: è stata lei che mi ha trattenuta. Un po' d'interessamento ai casi familiari della servitù può essere bontà gentile, ma ci si guardi dal cadere nella curiosità e nel pettegolezzo. E tanto meno la signora parlerà delle cose sue colla domestica. I tempi dei confidenti da scena sono finiti, e la donna che oggi ha raccolto le vostre confidenze, domani, se è licenziata, se ne farà un'arma contro di voi. Le signorine, specialmente le giovinette, sono inclinate all'amorevole e fiducioso chiacchiericcio colle cameriere, e talvolta se ne fanno complici in qualche amoretto clandestino. E' questo un gravissimo errore di convenienza e di dignità: le mamme sagge si servano di tutta la loro vigilanza perchè ciò non accada mai. Impediscano dunque che tra le figlie e le domestiche ci sian conversazioni inutili e le tengano lontane per tutto quel che non riguarda il servizio. E non si discorra in famiglia, e specialmente a tavola di argomenti delicati in presenza dei domestici. Essi stanno colle orecchie tese, pronti a intendere e a fraintendere, e a metter poi in giro ciò che hanno sentito e capto a modo loro. Si dissimulino anche, per quant'è possibile, i dissapori domestici. In certe circostanze di solennità, o per qualche lavoro straordinario, si dà alle persone di servizio una mancia proporzionata all'età, al tempo da che sono in casa, all'importanza del loro lavoro. Si usa anche far loro dei regali in natura; ma sarà bene sceglier sempre oggetti pratici, e badar alla solidità più che all'eleganza, se si tratta di capi di vestiario. In quanto poi agli indumenti smessi, si diano alle persone di servizio solo quelli che possono essere adatti alla loro condizione: non è bello veder la cameriera colla camicetta di raso azzurro, guarnita di pizzi o col paltoncino di velluto che la signora indossava prima. Ed è bene far loro comprendere che tale eleganza sciupata sarebbe di pessimo gusto, e che a loro si addice molto meglio un vestitino semplice, ma fresco e pulito. La livrea ormai non si usa più che dalle case principesche. I padroni che tengono servitù maschile hanno però il diritto di pretendere che si presenti sempre in abito decentissimo, e in ciò devono contribuire secondo accordi speciali: normalmente un domestico porta durante il giorno una giacca rigata; a tavola serve con giacca bianca e guanti bianchi. Le cameriere portano generalmente grembiule e cuffietta nel servizio, e bisogna persuadere le riottose che sono molto più graziose così che non nel figurino svisato che preferirebbero adottare. La balia poi... oh, quella va soggetta a tutti i capricci della gente di cattivo gusto e di molti denari. Una volta, si usava che la balia portasse il costume del suo paese, eseguito con ricchezza e fedeltà che si poteva maggiore. Ora anche in questo campo si preferisce maggior semplicità. La balia, questo importantissimo personaggio, ha ora delle pretese fantastiche, e dei capricci incredibili, ben sapendo che tutto le sarà permesso e concesso. Essa ha in mano un'arma troppo potente... E la condizione della mamma non è davvero molto allegra dinanzi a lei. Cerchi, colle buone, di persuaderla, di domarla, di piegarla; abbia una gran pazienza con quella rozza montanara che crede di poter fare in tutto e per tutto a modo suo. Talvolta, però, la balia si affeziona non solo al bambino, ma anche alla famiglia, e non è raro che si trasformi in una domestica brava e fedele. L'acquisto, allora, è stato prezioso, e compensa il sacrificio che può essere costato. I bambini sogliono essere il tormento della servitù, coi loro capricci, le loro bizze, le loro piccole tirannie. Una saggia mamma non deve permettere che i suoi figlioletti stiano troppo in relazione con loro; ma se ciò qualche volta è inevitabile, guardi di avvezzarli ad essere cortesi, a non impermalirsi di poco o nulla, a non alzar la voce insolente. E nelle questioni che talvolta sorgessero, il suo amor materno non deve accecarla sino al punto di non riconoscere che qualche volta una povera servetta, maltrattata ingiustamente dai piccoli tiranni, merita di essere compatita se le scappa la pazienza... In quanto agli obblighi dei domestici verso i padroni, si riassumono in questi: fedeltà, obbedienza, rispetto. Del primo, risponde la loro coscienza, e non è il caso di parlarne qui: riguardo all'obbedienza, essa può essere talvolta semplicemente questione di rispetto. Può piacere o meno di far una cosa; ma quando i padroni la comandano (naturalmente si parla di cose lecite) il buon servo deve obbedire, e non stare a discutere gli ordini. Le cerimonie di rispetto variano poi, naturalmente, da casa a casa, secondo l'importanza ma il minimum che consiste nel contegno ossequioso e discreto non deve tralasciarsi mai, neanche nella più modesta famiglia. Non si deve dunque permettere che i servi designino la persona dei loro padroni se non con l'appellativo di signore, signora e signorini, oppure col titolo nobiliare, sempre preceduto, s'intende, dal predetto appellativo: signor conte, signora baronessa. Non entreranno nelle stanze senza chieder permesso, non alzeranno troppo la voce parlando, non prenderanno mai per primi la parola. Non entreranno mai nei discorsi dei padroni: è sconvenientissimo poi che a tavola, servendo, mettano bocca nei fatti loro. Avranno cura di non presentarsi se non in aspetto decente, e dovendo porgere qualche oggetto ai padroni, si serviranno sempre d'un piatto o d'un vassoio. Ammoniti, ascolteranno ciò che vien detto loro, senza ribattere scortesemente. Se il rimprovero è giusto, sarà tutto a loro vantaggio, se così non fosse, hanno il diritto di addurre le proprie giustificazioni; e se lo fanno con bel modo e con ragioni persuasive i padroni sarebbero ben caparbi e stolti se non si arrendessero. Tra persone di servizio, quando ce n'è più d'una, bisogna cercar di andar d'accordo. Le vecchie abbiano indulgenza e buon garbo nell'istruire le giovani: queste procurino d'esser docili e rispettose. Tra maschi e femmine si eviti ogni confidenza soverchia, che è male per se stessa, ma che può esser fonte di altri e gravissimi mali.

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Se l'ora del pasto è ancora lontana, si offra un ristoro di caffè, biscotti, bibite fresche o altro, secondo la stagione, poi si lasci in libertà, supponendo che abbia bisogno di riposarsi alquanto, o almeno di metter in ordine la sua roba. La camera dev'essere pulitissima, adorna della migliore biancheria, fornita di tutto ciò che può essere necessario, e deve spirare anch'essa, per così dire, l'allegrezza e la festa dei padroni di casa. E ciò non è difficile: bastano pochi fiori nei vasi, o qualche tralcio di verdura, chiare tendine ai vetri, qualche ninnolo di buon gusto sui mobili. La padrona di casa deve vigilare perchè questo aspetto giocondo del primo arrivo non venga poi meno e deve insistere cordialmente presso l'ospite, perchè manifesti ogni suo desiderio, se mai avesse bisogno di qualche altra cosa per sue speciali abitudini. A tavola gli va dato il posto d'onore, e si deve cercar di trattarlo meglio che sia possibile, indagando i suoi gusti e cercando di soddisfarli. Nel corso della giornata, si cerchi di tenergli compagnia senza imporsi in modo da privarlo della sua libertà, e s'egli desidera talvolta di rimaner solo, si rispetti il suo desiderio. Talvolta una persona si reca in una città per vederne le bellezze: se v'è nella famiglia qualcuno che abbia pratica e cultura sufficiente per essergli di guida gradita, è obbligo suo di farlo: altrimenti si lasci libero di provvedere in altro modo. Se poi viene per affari, basta contentarsi di dargli quelle indicazioni che eventualmente egli richiede: metterglisi alle costole sarebbe una vera indiscrezione. In campagna poi, si deve lasciargli ampia libertà di girare il parco o giardino o i campi, e nel tempo stesso indicargli le passeggiate più gradevoli e accompagnarlo. I padroni di casa devono poi cercar di divertire gli ospiti, quando son giovani e vivaci, con qualche bella gita, con qualche invito ai vicini, con qualche partita di piacere secondo l'opporportunità dei luoghi. La conversazione dev'essere vivace, serena, improntata al buon umore: non è permesso mostrare una faccia immusonita che faccia sospettare all'ospite di esser venuto a noia, o di dar qualche disturbo. Se i padroni di casa hanno dei pensieri fastidiosi loro particolari (può capitare a tutti, purtroppo!) cerchino di dissimularli. E si guardi anche di evitare in sua presenza di sgridar i bimbi, di rimproverar i servi di... discutere troppo vivacemente tra marito e moglie o tra altri membri della famiglia, di raccontar liti o pettegolezzi avuti coi vicini. Queste cose disgustano una persona di delicato sentire, e la mettono spesso in una condizione di penoso imbarazzo. Infine, chi è ricevuto in casa altrui ha però molti e delicati doveri. Anzitutto, non giunga con un corteo di valige e involti che faccia supporre in lui l'intenzione di una lunga permanenza. Tuttavia, egli deve avere con sè tutto ciò che serve al suo uso personale e alle sue speciali abitudini, giacchè sarebbe sconvenientissimo che lo chiedesse agli ospiti; e deve anche aver seco quel tanto di vestiario che sia richiesto dalle svariate circostanze. Non potrà dunque mancare, oltre l'abito da passeggio o da casa, anche un abito elegante da serata, quando abbia da supporre che dovrà intervenire a qualche pranzo di gala, a qualche ricevimento, a qualche concerto o rappresentazione. Il rispetto a sè ed ai suoi ospiti esige che l'abbigliamento sia sempre accuratissimo, e la pulizia scrupolosa. Quantunque gli sia stato detto ch'egli può e deve considerarsi in casa sua, egli non prenderà alla lettera questa espressione, se proprio non fosse presso amici intimi o parenti cordialissimi. Invece bisognerà ch'egli cerchi di uniformarsi agli usi e ai costumi di chi lo ospita, e senza parere di far un sacrifizio. Che se realmente fosse tale per lui, se avesse delle abitudini alle quali non sa rinunziare, è meglio che non vada in casa d'altri. Si astenga, per quant'è possibile, dal parlar inutilmente dei suoi gusti e delle sue preferenze; quando ne fosse richiesto, bisogna regolarsi secondo i casi. Qualche precettista severo impone di non palesarli affatto, e ciò, evidentemente, per evitare il pericolo che gli ospiti troppo cortesi e premurosi si affrettino ad assecondarli anche con loro disturbo. Ma io credo invece che, se si tratta di cose molto importanti e facilmente possibili, sia anche un piacere per loro di sapersi come regolare, e che nulla dia noia quanto l'incertezza d'aver fatto o no cosa gradita. A tavola, procuri di contribuire con una amabile conversazione al piacere comune. Si guardi bene dal contrariare le opinioni o i gusti altrui, di mostrare fastidio o sprezzo per qualunque cosa o persona, si astenga dalle discussioni in cui c'è pericolo di accalorarsi troppo. Se vi sono altri ospiti in quella casa, anche se non fossero persone molto a lui gradite, è obbligo trattarle con ogni cortesia. La tolleranza e la discrezione debbono essere una regola costante del nostro contegno, e se non sappiamo imporcela, sarà meglio evitar di stare in casa altrui. Il precetto che dette Don Abbondio ad Agnese, mentre salivano l'erta del castello dell'Innominato, è ottimo per sè, anche spogliato di quella impronta paurosa che era nel carattere del brav'uomo. «Ricordatevi, le disse, che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quel che si vede». Naturalmente, una persona dabbene che si rechi presso i suoi amici non si ritroverà mai nel caso di veder cose che la sua coscienza non approva. Tutt'al più dovrà chiudere un occhio sulla petulanza d'un bimbo, sulla vanità d'una fanciulla, sulla negligenza di qualche servo. Un rimprovero non potrebbe esser permesso che nella strettissima intimità. L'ospite deve saper bastare a se stesso, nel caso che i suoi amici non potessero molto occuparsi di lui. Legga, passeggi, stia nella sua camera, non vada indagando le occupazioni e gli affari della famiglia o della servitù. Sfugga ogni cosa che possa sembrare curiosità indiscrezione: si offra invece, opportunamente, a qualche servizio. Una giovinetta, una signora giovane anche anziana, purchè goda buona salute, possono benissimo tener in ordine la camera loro, e dar aiuto nelle faccende domestiche, dove non c'è molta servitù. Possono anche, eventualmente e con discrezione, dar una mano in cucina, se ci fosse qualche invito straordinario. Appena spirato il tempo precedentemente stabilito, l'ospite si disporrà alla partenza. Naturalmente, i padroni di casa gli faranno cortese insistenza perchè si trattenga ancora, ma egli deve avere il buon senso di comprendere se tali insistenze vengono solo fatte a fior di labbra, o se rispondono a un sincero desiderio, e deve avere la fermezza di resistere assolutamente, se abbia ragione di credere che la sua permanenza, quantunque gradita sotto l'aspetto dell'amicizia, possa recar disturbo protraendosi ancora. In tutti i modi, è sempre meglio lasciar desiderio di sè, anzichè correre il pericolo di esser ritenuti indiscreti. In campagna, generalmente, ci si trattiene più che in città. Partendo, si scambiano calorosi ringraziamenti. Gli ospiti affettuosi e gentili ringraziano chi è venuto a far visita in casa loro: chi ha ricevuto le cortesie ringrazia ben più a ragione. In realtà egli rimane con un debito morale, e qualche volta anche con qualche obbligazione materiale. Alle persone di servizio deve dar una mancia proporzionata ai servizi ricevuti e alla durata dell'ospitalità: sarebbe molto sconveniente far questo in presenza dei padroni di casa. Ma non deve temer che essi lo abbiano poi ad ignorare: il viso ridente dei domestici nell'accompagnarlo alla porta sarà testimonianza sufficiente, e tanto più quanto sarà stata più larga la mancia. Giunto a destinazione, l'ospite dovrà scriver subito alla famiglia presso cui ha dimorato lettera a cui è obbligo di risponder subito, per non far nascere il dubbio fastidioso che non sia giunta e il timore d'aver fatto cattiva figura. In essa egli renderà conto del viaggio, e rievocherà i bei. giorni passati insieme, ripetendo i suoi vivi ringraziamenti. Chi credesse di cavarsela con una cartolina illustrata mostrerebbe di essere uno screanzato. Bisogna poi ch'egli pensi a un modo anche materiale per manifestar la propria riconoscenza: ma sarebbe indelicatezza mandar subito un regalo: si aspetti alla prima occasione, per la ricorrenza di qualche festa. Il regalo può essere di ogni genere, ma sempre proporzionato all'entità delle cortesie ricevute, e al gusto dei padroni di casa: un oggetto d'arte, un libro di valore, un lavoro eseguito di mano propria, qualche giocattolo, se vi sono bimbi. Una specialità gastronomica di qualche valore può essere pure molto gradita, ma solo fra persone di confidenza. Un'altra avvertenza è importantissima per chi è stato qualche tempo in casa altrui. Naturalmente egli è rimasto unito alla vita di famiglia, e ha veduto e sentito molte cose. Partendo, cerchi di dimenticarsi tutto quello che non potrebbe tornare se non a onore degli ospiti. Non si lasci vincere dalla voglia di dimostrarsi più informato degli altri, taccia gli interessi a cui fosse stato immischiato, i discorsi che potesse aver udito. E va da sé che si mostrerebbe sommamente villano e ingrato se osasse andar sparlando di loro, in qualsiasi maniera. Quando fosse richiesto delle sue impressioni, si limiti a parlare delle cortesie ricevute, del buon volere dimostrato, del piacere goduto, così genericamente, e scansi ogni inchiesta indiscreta. I precetti che qui sopra abbiamo esposti si applicano anche, con qualche lieve differenza, alle pensioni di famiglia. Chi tiene pensione deve cercare di accontentare in tutto i suoi clienti, che in fine son poi come ospiti, e di dar loro quegli agi e quel trattamento che si convengono ai patti stabiliti, mettendovi di più un'amorevolezza cordiale. E chi sta a pensione abbia riguardo anche al comodo e al gusto altrui: cerchi di essere puntuale ai pasti, non disturbi col rientrar troppo tardi in casa, non abbia esigenze irragionevoli. Gli è bensì consentito di esporre i suoi desideri e anche le sue preferenze: non gli è permesso brontolare e lamentarsi o per questo o per quello, ad ogni istante: piuttosto cambi pensione. Ha naturalmente l'obbligo di dar le mance usuali alla servitù, nelle solennità, e quando lascia la casa, e, se gli sembra opportuno, farà cosa gentile offrendo tratto tratto qualche dono alla padrona di casa. Lasciando la pensione, non mancherà di ringraziare per le cortesie ricevute (o poche o molte che siano state!) e se veramente ha avuto da lodarsi di chi la teneva, scriverà almeno una volta dalla nuova sede, e si ricorderà poi con qualche biglietto o cartolina illustrata nelle ricorrenze festive.

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E un povero non dovrà mai fare un dono così fastoso da lasciar credere che non abbia potuto pagarlo, oppure gli sia costato pesanti sacrifici. Riguardo alle circostanze, abbiamo già accennato, nei vari capitoli, i doni che si offrono per i battesimi, per le cresime, per le prime comunioni; quali doni si scambiano i fidanzati fra loro, e quali si offrano dai padrini e da parenti e amici in occasione del matrimonio. Ripetiamo però ad ogni modo che qui c'è una gran libertà, che va crescendo sempre coi tempi. Ed è naturale: crescono le graziose creazioni dell'industria, mentre crescono sempre più i piccoli bisogni, o reali o artificiali. Così, mentre una volta era quasi di prammatica il dono di gioielli, ora invece si vede fra i regali ai giovani sposi una gran quantità di oggetti eleganti e pratici: argenteria, ceramica, tappeti, scrignetti, lampade elettriche, cartelle, mobilucci intarsiati, ecc. Presso gli anglosassoni c'è un'usanza molto pratica. La signorina che sta per maritarsi compila una nota degli oggetti desiderati e la sottopone ai parenti e agli amici, perchè scelgano l'oggetto che credono; poi, cancellato questo, passano la nota ad altri, sinchè la lista rimane esaurita, e tutti rimangono pienamente soddisfatti. Questa usanza comincia ad apparire anche fra noi, sebbene essa tolga un po' troppo la poesia del dono, che deve rappresentare un pensiero proprio. Ma per indovinare, chi sa far le cose con garbo, facendo abilmente un po' d'inquisizione presso gli intimi della persona cui vuol fare il dono, riesce ugualmente nel suo intento. C'è anche chi, invece dell'oggetto, offre il denaro corrispondente, ma questo non è da farsi se non tra strettissimi parenti. In ogni altro caso, il dono deve aver l'aria di una gentile sorpresa, e rispondere a un desiderio determinato dall'età, dal carattere, dalle abitudini, ecc. Ai bambini si regaleranno giocattoli e libri illustrati, e anche qualche scatola di dolci, affidandola però alle mani della mamma. Alle fanciulle qualche oggettivo di utilità diretta: astucci da lavoro, cartelle da disegno, musica, mobilucci eleganti, scrignetti intarsiati, fazzoletti di seta, ecc. A un giovanetto un astuccio da compassi, un album per cartoline, una macchina fotografica, un servizio da scrivere, un pallone pel gioco del calcio e, se volete essere molto generosi, un bell'orologio o... una bicicletta! A maschi o femmine, poi, sarà sempre un dono opportuno e gradito un libro illustrato, o una raccolta di monografie, o una serie di opuscoli a collana. Anche l'abbonamento a un giornalino potrebbe andar benissimo. Per gli adulti, la scelta è ancora più ampia, fra tante cose belle e utili che presenta la civiltà moderna. Basterà che la scelta sia ben fatta: allo studioso darete un libro pregiato o un servizio da scrittoio, o uno strumento dell'arte sua; alla signora elegante un astuccio con profumi, un portafazzoletti ricamato, un cofanetto da gioielli. Vi sono poi doni che possono piacere ed essere utili a tutti: un cannocchiale da campagna, un portaliquori o un servizio da tè, una lampada elettrica, un necessario da viaggio, o un gioco di dama, scacchi, o simili. E i libri belli e buoni, di recente pubblicazione, e statuette di bronzo o di ceramica, e le belle stampe e incisioni, e le riproduzioni fotografiche di monumenti e i quadri a olio, e le miniature e gli acquarelli... Un dono qualunque dev'essere sempre presentato con garbo e allora acquisterà un valore assai maggiore a quello intrinseco, mentre in certi casi anche un soggetto di gran pregio può riuscire poco gradito, e forse anche offendere. Non si creda di far bene, e di dimostrar modestia, se nell'atto di presentare il nostro dono, si affetti di spregiarlo e considerarlo cosa da nulla: sarebbe anzi una vera indelicatezza. Non occorre poi dire che non tocca a noi di magnificarlo, e di esaltarne il gusto e l'arte, e magari di lasciarne indovinare il prezzo. Non si crederebbe possibile, ma c'è ancora della brava gente che cade o nell'uno o nell'altro di questi eccessi, mentre sarebbe tanto opportuno ricordare il volto amico e il tacer pudico di cui parla il Manzoni. Un oggetto di casa, come un gingillo, un quadretto, un vaso, ecc. non si devono mai offrire come regalo di circostanza. Solo sarà lecito farlo, e anzi gradito, quando chi lo abbia veduto e ammirato ne abbia mostrato desiderio, ma sempre come regalo extra. Non si deve però in tal caso, se la persona rifiutasse, insistere con queste volgari ragioni: - Sono stanco di vedermelo sotto gli occhi! - Non so che farmene, ecc. Diremo invece garbatamente: - Sono ben lieto di poterti fare un piacere. - Quest'oggetto starà meglio in casa tua che nella mia. - Giacchè ti piace e lo gradisci, è tuo, ecc. Dono gradito e gentile è quello di un lavoro delle proprie mani. Ma chi non sa trattare con vera perizia il pennello, il bulino, i ferri da pirografare, l'ago da ricamo, ecc., si astenga dal presentare saggi infelici del suo buon volere. La persona gentile che li riceve, farà buon viso e ringrazierà anche di cuore, pensando alla fatica che avete fatto per amor suo, ma essa e chiunque altro veda il lavoro lo giudicherà, nel suo intimo per quel che vale. Un dono non deve mai essere fatto nel momento in cui chiediamo un favore, e nemmeno subito dopo l'averlo ricevuto. Gravissima sconvenienza poi sarebbe chiedere un favore a una persona poco dopo averle presentato o inviato un regalo. I regali si portano di persona, se è possibile, altrimenti si accompagnano con un biglietto gentile. Chi poi riceve il dono è obbligato a dar una mancia al portatore. E riguardo al donatore deve mostrar la più cortese riconoscenza, e gradire e lodare l'oggetto, anche se veramente non ne sappia che fare e non gli piaccia; bisogna che tenga conto della gentil intenzione e del sacrificio di spesa e di tempo che può anche esser costato. E se il dono non fu in ricambio di qualche importante servigio, egli si terrà obbligato ad un contraccambio, che farà però con tatto e delicatezza, alla prossima occasione. A proposito di doni, vien naturale anche qualche parola sui servigi che si possono chiedere e prestare tra amici. Vi sono taluni dal carattere molto espansivo che largheggiano in offerte... Quando poi viene il momento, sembra che se ne siano dimenticati del tutto. Il meno che si possa fare con questi cotali è di considerarli come gente dal cervello leggero, e procurare di non mettersi nel caso di aver davvero bisogno di loro. Agli amici buoni si potrà chiedere, con discrezione, e quando si sappia che davvero lo facciano volentieri, e senza loro troppo grave sacrificio, una raccomandazione presso qualche personaggio, una presentazione a chi ci possa giovare, l'ospitalità per noi o per uno della nostra famiglia per breve tempo e ragioni imprescindibili, e anche il prestito di qualche oggetto: una bicicletta, un cannocchiale, uno spartito, un libro, ecc. ecc. Chi prende a prestito una cosa qualunque assume l'obbligo di conservarne perfetta l'integrità. Se accade qualche guasto, deve ricomperar l'oggetto e far le sue scuse: restituirlo sciupato è una mancanza che non si può scusare nemmeno nella più stretta intimità. In quanto ai libri, c'è una pessima abitudine imperante anche tra persone agiate e civili: quella di non restituirli, che è ladreria bella e buona. Chi poi chiede a prestito un oggetto personale, come oggetti di vestiario, gioielli, finimenti, ecc. ecc. mostra di non conoscere i limiti della discrezione che va rispettata anche fra gli intimi. La questione del prestito di denaro esce veramente dai confini del galateo... C'è sempre però un suggerimento buono da dare: se prevedete che la persona non possa o non voglia, risparmiatele il penoso momento del rifiuto. Ricevendo una richiesta di qualsiasi favore, si rifletta un momento prima di negare o consentire: l'impulsività può farci errare talvolta. Promettere senza potere poi mantenere sarebbe spiacevole e mortificante: e nemmeno si deve dir un no reciso, mentre, pensandoci bene, può darsi che troviamo il modo di accontentare l'amico. E se il favore si concede, non si faccia con aria d'importanza; se si nega, il rifiuto deve essere almeno addolcito con gentili parole e buone ragioni. A chi ci chiede in prestito un libro o altro oggetto, non usiamo la scortesia di dirgli: bada che ne ho bisogno presto - spero che non lo sciuperai - non far che te lo abbia a richiedere. Tali formule sono scusabili appena con fanciulli; ma se voi non vi fidate di quella persona, trovate piuttosto una buona ragione e tenete il vostro oggetto al sicuro. Si tenga anche presente quando si vien richiesti d'una prestazione qualsiasi, o di una persona, o di borsa o d'altro, che chi dà presto dà due volte, e che iI modo premuroso e grazioso accresce pregio al servizio. Belle sono a questo proposito le parole che il Manzoni pone in bocca al conte di Carmagnola:

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E perciò non mostra dispetto nelle perdite, e non imbaldanzisce vincendo: non lascia poi nemmeno lontanamente supporre che, oltre alla soddisfazione d'amor proprio, abbia anche la vogliuzza di quel poco guadagno... Se gioca con un compagno poco avveduto, e che è causa delle sue perdite, si guarda poi bene dal mortificarlo con rimproveri e col mettere muso. In caso di contestazioni, dopo esposte le sue buone ragioni, se vede che non valgono, preferisce lasciar cadere anzichè dar motivo di incresciose questioni e magari di liti. Non occorre poi dire che nel gioco, fosse anche colla posta di due soldi o nulla, si deve usare la più scrupolosa correttezza. Accade talvolta ai giovani di aver tutt'altra voglia che di sedere a un tavolino con delle carte in mano, eppure devono farlo, per compiacere un vecchio parente o un amico di casa. E' un piccolo sacrificio: lo facciano volentieri, senza mostrar che loro pesa, per riguardo a quelle care persone, e se queste avessero poi anche l'innocente vanità di voler vincere con frequenza, non rifiutino loro questo piccolo vanto. Nelle serate, specialmente di campagna, sono talvolta usati i cosidetti giochi di società, che sono occasione di gioconde risate, di scherzi piacevoli, di piccole malizie... Tra persone educate, sono innocenti e simpatici; possono anzi qualche volta esser perfino interessanti e istruttivi. Ma non sono esenti da qualche pericolo. Il cosidetto gioco della berlina, quello dei segreti, le domande e risposte, le cosidette penitenze si prestano talora a indiscrezioni e malizie. I giocatori dunque devono astenersi scrupolosamente da ogni personalità, da ogni allusione offensiva, da ogni confidenza soverchia. E questo si raccomanda specialmente nei riguardi reciproci tra giovanotti e signorine. Più ancora sono in uso adesso i giuochi all'aria aperta: il tennis, la pallavolo, la pallacanestro, tutti quelli che abbiamo importati dall'Inghilterra anche coi loro nomi esotici. Sono giochi eccellenti, e molto meno pericolosi per la moralità e la convenienza che quelli di salotto: si possono dire anzi assolutamente innocenti per se stessi. Tuttavia vi si mescola sempre un po' di varietà e di puntiglio; vi può essere da parte delle signorine un po' di civetteria, e un'affettazione di mascolinità che non è di buon gusto. Si evitino anche le soverchie familiarità: i giovanotti trattino con cortese cameratismo le loro compagne di gioco, e queste si contentino dell'onesto piacere dell'esercizio fisico e della soddisfazione di saper giocar bene. Per questi giochi si suol usare uno speciale costume, elegante e comodo: giovanotti e signorine si attengano a quello senza ricercatezze e senza affettazioni. E la bicicletta? Ormai essa è diventata d'uso tanto comune che il discutere se convenga o no alle signore e alle signorine è fuori posto. Vadano dunque, se loro piace, in bicicletta! E non solo per i bisogni eventuali di ufficio, ma anche per piacer loro, in campagna. Ma non facciano mai gite o passeggiate da sole, o nemmeno in due, troppo lontano. Non si sa mai!... E il vestire della ciclista sia pratico, sia corretto, sia modesto, sia... più abbondante che scarso. Pensino ai movimenti che devono fare e alla necessità d'esser convenientemente coperte. In campagna, e specialmente in montagna, si fanno anche gite a piedi, oppure aiutandosi con muli, asinelli, ecc. Sono piacevolissime quando sono ben organizzate, e vi prendon parte persone valide, allegre e ben affiatate fra loro. Coloro dunque che non si sentono in forze, e non vogliono assoggettarsi a qualche disturbo, o hanno delicatezze eccessive, rimangano a casa e non disturbino il piacere degli altri. Coloro poi che vi prendono parte, uomini e donne, devono stare al programma fissato dal capo gita, presentarsi vestiti ed equipaggiati secondo che vien loro prescritto; portar nella compagnia tutta la migliore disposizione per contribuire all'allegrezza comune, ad esser tolleranti e servizievoli reciprocamente. Al capo gita si deve ubbidienza cortese e cooperazione in quello che egli domanda. Siccome poi l'organizzare una gita di qualche importanza richiede spesso tempo, preoccupazioni, ricerche, fatiche, è giusto che gli venga testimoniata riconoscenza da chi ne ha profittato. Ed é anche doverosissimo pagare colla massima sollecitudine la quota di spesa. I gitanti hanno il diritto e il dovere di essere allegri. Possono dunque ridere, scherzare, cantare all'aria aperta. Ma negli alberghi, nei ristoranti, nei rifugi, devono astenersi dalle chiassate che fanno distinguere la gente per bene da quella che non è tale. E si ricordino anche che la familiarità dei due sessi durante questi innocenti piaceri non deve mai trasmodare in confidenze e contatti biasimevoli. Ciò vale naturalmente anche per ogni altro genere di sport, nel quale la persona veramente fine ed educata saprà sempre conservare, nel modo di vestire come nel contegno, una linea ed una misura di equilibrio lontane da ogni eccentricità e da ogni eccesso.

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Si abbia garbo e riguardo nel servirsi di vino e di salse in modo da non farne cader nulla sopra la tovaglia: le posate si appoggino sul piatto quando non vi sia il reggiposate, come si usa in certe famiglie; si tenga presente però che l'uso del reggiposate non è elegante ed è ormai per di più sorpassato. S'intende poi che una persona appena appena civile non mangerà parlando, non si empirà spropositatamente la bocca, non berrà quando non ha ancora inghiottito il boccone... E' se per disgrazia le toccasse di trovar nel suo piatto (può accadere una volta tanto anche alle mense più curate) qualche cosa che desti la sua nausea, e possa destarla in altro, saprà bellamente dissimulare, e far sparire... il corpo del delitto. E' lecito commentar i cibi che vengono in tavola? S'intende commentare in senso favorevole... Ai pranzi d'invito ciò sarebbe sconvenientissimo. Ma in famiglia e tra amici la cosa è diversa: si può far elogio di un piatto speciale, tanto più quando è preparato dalla padrona; si possono lodare i vini che son prodotti dalle terre possedute dall'anfitrione. E così delle frutta, del burro, dei salumi, ecc. Ma starebbe male il padrone di casa che avviasse egli stesso le lodi, e male la signora che vantasse l'abilità della sua cuoca o delle sue figlie nella preparazione di quei cibi. I discorsi che si fanno a tavola devono essere improntati ad amorevole allegria. Se siamo in famiglia, è l'ora che dobbiamo render piacevole in tutti i modi. Bando dunque alla musoneria, bando alle discussioni gravi, bando alle dispute di qualsiasi genere. Non si discorra di malattie, non si discorra di morti, o di sventure pubbliche o private. Ognuno porti il suo contributo di notizie, di osservazioni, di amabili facezie. Se la compagnia è numerosa, generalmente si divide in gruppi, e le conversazioni si avviano più intense tra vicini. Alla fine del pranzo, però, accade che gli animi sono più accesi, l'affiatamento è maggiore, la conversazione si alza rumorosa e generale. Le persone bene educate non eccedono però mai nemmeno in questo, e soprattutto tengono presente l'antica avvertenza che imponeva ai commensali di conservare il silenzio, uscendo, su quanto era stato detto nella forse troppo libera espansione degli animi. Il caffè si prende a mensa in un salotto a parte, accompagnato generalmente da liquori. E' vietato versar il caffè troppo caldo nel piattino e sorbirselo in tal modo; si aspetti piuttosto che si raffreddi alquanto mentre vi si scioglie lo zucchero, e si sorbisca pian piano. Non è ben fatto, ricevendo dalle mani della signora la tazzina di caffè o altro, di passarla ad altra persona in segno di riguardo, perchè sembra tacito biasimo a chi ci ha servito di non aver ben tenuto l'ordine di gradazione. Un ultimo avvertimento. Il Parini, accompagnando alla mensa il suo hgiovin signore, lo avverte che a lui non è lecita in nessun modo la mediocrità:

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Ma si badi che sia discreto, ben diretto, appropriato al caso, e che abbia un valore morale. Chi potrebbe chiamar insolenza l'ironia sapiente e garbata di Socrate contro i sofisti? Ed è anche molto graziosa la risposta degli Ateniesi a chi annunziò loro che Dionigi il tiranno era morto di gioia perchè una sua commedia era stata coronata in Atene. «Se l'avessimo potuto prevedere, dissero, lo avremmo coronato venti anni prima». Ad ogni modo è sempre meglio tacere e sacrificare un motto, anzichè offendere l'altrui amor proprio e farsi un nemico senza ragione. E perciò stesso si eviti di scherzar troppo familiarmente cogli astanti, e di pungerli senza ragione: e si badi che ciò è molto più sconveniente con le persone inferiori a noi per condizione e che non possono ribellarsi. Non faremo mai oggetto di celia qualche difetto fisico delle persone, o presenti o assenti che siano; ciò è regola vecchia, ed ogni eccezione può essere pericolosa. E nemmeno è permesso scherzar imprudentemente sulle usanze particolari, sulla professione, sulla patria di taluno. E' un triste vezzo, quest'ultimo, di noi italiani, che ancor abbiamo nel sangue il germe delle antiche discordie, e sentiamo l'eco di tanti detti ingiuriosi che un tempo si scambiavano tra di loro gli abitanti delle città vicine... Ma non solo lo diciamo per celia; purtroppo c'è chi ha il mal gusto di criticar per metodo la città nella quale il caso lo ha portato a vivere, di metterne in ridicolo le usanze, di deplorarne il clima, di biasimarne la cultura, la vita intellettuale e materiale, di lamentarsi perchè troppo rumorosa o troppo quieta, o, quando non si sa più che dire, censurar velenosamente gli abitanti e dire per esempio: Gran bella città sarebbe Napoli... se non ci fossero i Napoletani. Bisogna far guerra a questa scortesia antipatriottica ed ingiusta: è tempo che i benefici dell'unità non siano frustrati da piccolezza d'animo e di idee. Tornando all'argomento di prima, la celia però tra amici dev'essere amichevolmente tollerata, e chi ne è fatto segno, non deve mostrarsi permalosamente indispettito. Parlando di celie e di motti spiritosi, è opportuno qui ricordare che il buon gusto interdice le parole a doppio senso, i bisticci, i calembours nei quali si deliziano i provinciali dallo scarso intelletto, e che formano il tormento di chiunque sia dotato di vero spirito. Passi per una volta o due, ma farne un fuoco di fila, introdurli per forza in ogni discorso, sviare talvolta o interrompere un argomento importante con simili scempiaggini, è veramente spiacevole... I discorsi frivoli e leggeri annoiano le persone di buon senso e si devono sfuggire. E il parlar del tempo e della stagione? E' questo l'argomento satireggiato come il più insulso e impersonale... Pure non a torto Melchiorre Gioia difende chi. se ne occupa notando che le vicende delle stagioni hanno grande influenza sullo stato fisico e morale della specie umana, sui prodotti dei campi, sul corso del commercio, e non di rado sui pensieri degli uomini grandi e piccoli: a un punto tale che gli uomini di scienza ne osservano l'andamento progressivo e ne desumono delle leggi. Ora poi che la metereologia va pigliando basi scientifiche così stabili, si può escluderla davvero dagli argomenti frivoli. Se però non si avessero a mettere in campo che inutili geremiadi sulla siccità o sulla pioggia ostinata, è meglio tacere. E non vorremmo essere troppo severi con le madri di famiglia che si confidano le loro angustie domestiche, piccole e grandi, tra cui è l'eterno argomento della servitù... Questi e altri discorsi, però, come quelli dei colleghi d'ufficio riguardo alle miserie della loro professione, vanno tenuti nell'intimità, e sono compatibili solo se non si prolungano troppo. Chi poi ha noie, dolori, fastidi, preoccupazioni tutte personali si guardi bene dal metterle come tema in una conversazione: non avrà altro effetto che di annoiare gli astanti, e di riceverne qualche parola di stereotipato compianto, che ben mostra la loro indifferenza. Certe confidenze non sono permesse che tra intimi amici, da cui veramente possiamo avere conforto e consiglio. Si deve cercar, invece, nel soggetto del nostro discorso, di scegliere ciò che comunemente è gradevole. Le notizie buone, sia degli amici, sia delle vicende pubbliche, le festività, le ricorrenze, gli spettacoli, i libri, le esposizioni, i viaggi, i lieti incontri... E la lista sarebbe infinita. Tra le persone colte e fini, si parla volentieri di argomenti letterari e scientifici, si pongono e si sviluppano questioni morali e psicologiche, e la conversazione resta continuamente nutrita. Trovandoci poi in gruppi ristretti, o in dialogo con una persona sola, è arte cortese quella di saperla intrattenere con ciò che la riguarda e la interessa di più. Alla madre di famiglia si farà parlare dei suoi figli, colla modesta massaia ci potremo intrattenere di economia domestica, colla persona devota delle ricorrenze e solennità e funzioni religiose, col giovane studente dei suoi studi e dei suoi progetti per l'avvenire. Al vecchio chieder notizia sugli usi del suo tempo, all'agricoltore dell'andamento dei suoi raccolti, dei vari modi di coltivazione, ecc. ecc. Ma bisogna stare attenti. Ci son per esempio certi letterati che si impuntigliano e si seccano quando il profano vuol entrare nel suo campo; ci sono gli scienziati che tengono volentieri per sè le loro cognizioni; ci sono i medici che stanno all'erta per paura di essere indotti a dare un consulto gratis, ci sono i funzionari pubblici che hanno paura che si voglia carpir loro qualche segreto d'ufficio. Vi sono poi moltissimi, (anzi è tendenza comune) che nella conversazione voglion dimenticare le noie delle loro consuete occupazioni, e dimostrano chiaramente che tale argomento non è loro gradito. E noi rispetteremo le loro riserve. Così pure, mentre è cortesia informarsi di ciò che riguarda gli interlocutori, e interessarsi delle loro vicende, bisogna star ben attenti che tale interessamento non abbia a sembrar loro indiscreta curiosità. Ci sono taluni così ombrosi che solo a chieder loro dove andranno a passar le vacanze o a che ora arriverà quel tal parente che desiderano tanto, piglian l'aria di chi riceve una domanda indiscreta, e si esimono dal rispondere, o lo fanno con aria dispettosa. E anche questa gente va lasciata stare e con loro bisogna tenersi sulle generali. Si devono cercare, discorrendo, argomenti su cui facilmente si va d'accordo, ma è bello e utile ravvivar la conversazione anche con qualche obbiezione, per meglio svolgere tutti i lati di un argomento, e permettere ad ognuno di dire la sua. La discussione è uno dei piaceri più delicati. Ma si badi però di non andar mai tant'oltre che la disputa si accalori, e quando così si vedesse che accade, è bene sviar l'argomento, o troncarlo con una celia opportuna. Ognuno deve portare il suo tributo alla conversazione comune. E' disdicevole e offensivo per gli altri starsene sempre a bocca chiusa, e quasi sdegnoso della compagnia; è presunzione e petulanza voler sempre tener tutti pendenti dalle nostre labbra. E' bene, se si deve fare un racconto piuttosto lungo, chiederne prima licenza con una parola gentile, e se vediamo che il discorso annoia o non interessa, si interrompa senz'altro, sviando con garbo, senza mostrare risentimento o dispetto. Ma se gli ascoltatori si infastidiscono, bisogna pensare che talvolta è colpa del parlatore, che la tira troppo lunga, confonde troppe cose insieme, apre interminabili parentesi, ripiglia stentatamente il filo del discorso. Chi sappia di aver tali difetti, abbia la prudenza di non metterli in mostra. A un amabile e facile parlatore si presta orecchio assai volentieri anche a lungo, e gli si perdona un po' d'indiscrezione. Non è bene però che una donna prenda la parola e la tenga per tempo notevole, essa correrebbe il pericolo di passare da saccente e presuntuosa, taccia intollerabile nel suo sesso. Coloro che poi non vorrebbero mai lasciar parlare gli altri, e troncano e ripigliano loro le parole in bocca sono paragonati da Mons. Della Casa a quei polli che nell'aia si rincorrono per togliersi di becco la spiga di grano. Giacchè nella conversazione l'arte necessaria è non solo di saper parlare, ma anche di saper ascoltare. Bisogna ricordarsi che anche gli altri hanno diritto a esporre le loro idee, e non annoiare con continue interruzioni; bisogna aspettare la fine di un discorso prima di far una domanda superflua o un commento forse inopportuno. E bisogna tollerare con pazienza certi sfoghi prolungati di vecchi e d'infermi, e la ripetizione delle stesse cose, e spesso anche fastidiose e inutili querimonie. E se talvolta accade di sentir cose anche spiacevoli, per una ragione o un'altra, e non si abbia autorità sufficiente a imporre il silenzio, bisogna rassegnarsi a udire anche quelle, senza impegnarsi in dispute inutili: basterà il tacere come segno della nostra disapprovazione e come salvagaurdia della nostra responsabilità. Bene inteso però che se fossero offese alla morale o alla fede o ai più sacri sentimenti umani (il che non si suppone che come eccezione in una brigata civile) non è il caso affatto di dissimulare una ben legittima indignazione. Si può e si deve interrompere il discorso in bocca al malcreato, e allontanarsi da lui. In tutti gli altri casi, dobbiamo cortese ascolto a chi parla, e partecipazione alle sue idee. E' perciò sconvenientissimo, mentre uno intrattiene la conversazione, alzarsi, passeggiare per la stanza, guardar l'orologio, tamburellar le dita sulle ginocchia e sui mobili. E quando siamo in dialogo diretto con qualcuno, si devono tener gli occhi rivolti a lui, e mostrar di comprendere e gustare ciò ch'egli dice, e non mai guardar qua e là, mostrando una scortese distrazione. Ma il nostro interesse per ciò che viene raccontato non deve però estrinsecarsi con interruzioni inutili, con domande anticipate, con commenti ad ogni passo. E anche non bisogna esagerare nelle esclamazioni e nelle approvazioni. Si lasci finire il discorso, e poi si risponda con calma e con moderazione: daremo maggior prova di cortesia e d'interesse. Che dire poi di taluni, che dopo aver f atto una domanda non aspettano la risposta, e foggiandola da sè, fabbricano su questa osservazioni e commenti che naturalmente riescono a sproposito, e senza dar tempo a rettificazioni proseguono con una ridda di altre domande, di esclamazioni, di consigli?... Dio ci scampi da questi cotali!... E Dio ci scampi anche da coloro che, dopo essersi appena preso il tempo di salutarci, aprono immediatamente le cateratte della loro eloquenza per narrarci enfaticamente tutto ciò che è loro accaduto da che non ci siamo visti, e tutto quello che hanno fatto o fanno o faranno, e quel che non faranno altresì, e il perchè... Dico ce ne scampi Iddio, perchè i rimedi della prudenza umana sono a questo proposito assai scarsi. Tacere, e aspettar la fine del diluvio, per esaurimento? Ma l'esaurimento non avviene mai, le riserve sono eterne. Mettere una frase d'approvazione o di contrasto sarebbe appoggiar imprudentemente una mano sopra una valvola che provocherebbe nuovi getti impetuosi. Non c'è altro, se non liberarsene al più presto possibile, e cercar di scansare simili incontri, quando si disegnano da lontano. Coloro non sono, in fondo, altro che egoisti, e l'egoismo è nemico capitale di ogni cortesia. Per questi, la conversazione non è che un monologo, a tutto loro perpetuo beneficio. Badiamo anche al nostro modo di parlare. Non si devono metter fuori le parole con tal rapidità da soffocare gli altri e non farsi intendere; e nemmeno così lentamente da indurre a noia chi ci ascolta, oppure con una pronunzia strascicata, con innumerevoli ripetizioni. E si guardi anche di non prender l'abitudine di intercalari, innocenti bensì, ma ridicoli, e che talvolta nel senso del discorso producono bizzarri accozzi di idee, e curiosi equivoci. A persone bene educate è inutile poi raccomandare di non usar mai espressioni di imprecazione, o altre che vi somiglino, nemmeno per via di figura rettorica. Si scansino anche le esclamazioni popolari proprie al parlare d'ogni città. E in quanto alla bestemmia (che purtroppo infierisce in certe regioni d'Italia anche nelle classi elevate) l'opinione pubblica va fortunatamente segnando una energica reazione, e il Governo saggiamente l'ha assecondata con sanzioni punitive ai colpevoli. Può accadere, nel discorso, di dover nominar qualche cosa che la decenza vieterebbe. La persona urbana evita lo scoglio con mutar l'espressione, e se poi è anche persona colta, sa cavarsela graziosamente con una metafora, una perifrasi, una citazione classica... Ognuno sa poi che in una conversazione non è lecito appartarsi in due, e parlar segretamente. Ma se ciò qualcuno facesse, non si deve mostrar curiosità, anzi allontanarsi e guardar altrove. Nel parlare si eviti l'enfasi, l'esagerazione, la prosopopea. Certuni si rendono intollerabili col parlar sempre di sè e delle cose proprie, in perpetua lode, altri, raccontando ciò che han visto o sentito, vanno tanto esagerando che divengon ridicoli, e perdono il credito, come millantatori e bugiardi. Nel discorrere, si tenga il volto atteggiato a corretta piacevolezza, senza smorfie e contorsioni; non si apra troppo la bocca, non si gestisca continuamente, si evitino i suoni onomatopeici. Raccontando poi una facezia, si conservi la serietà sino in fondo: chi s'interrompe a mezzo col riso sciupa il piacere altrui e perde l'effetto. Il linguaggio da usarsi in conversazione dev'essere corretto ed elegante, ma senza affettazione. Si evitino le parole troppo ricercate, i termini troppo tecnici, gli inutili barbarismi. E' poi una sconvenienza, in un salotto dove si trovano persone di altre provincie, parlar il dialetto locale. Purtroppo tale uso permane, in certe regioni, anche tra persone altolocate, ma speriamo che col tempo si faccia luogo alla nostra bella e cara lingua comune. Quando due o più persone, dopo aver ben cinguettato nel loro dialetto, si rivolgono al forestiere e gli chiedono: Lei capisce non è vero? - è naturale che quello risponda: Io non ascoltavo ciò che non è diretto a me. Usar poi una lingua straniera in presenza di chi non la comprende, è mancanza ancor più grave, perchè, oltre metterlo fuori dalla conversazione, gli si aggiunge una specie di umiliazione per l'inferiorità intellettuale di quella tal ignoranza, mentre può valer più di noi per mille altre ragioni. Nel discorrere, insomma, bisogna aver una quantità di grandi e piccoli riguardi, i quali palesano la persona gentile e padrona di sè, e destano la simpatia e la gratitudine. Con la conversazione si collegano naturalmente le presentazioni, i saluti, i complimenti.

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Coll'interlocutore c'è chi crede più elegante usar la terza persona e dir per esempio: - Non credo che il signore abbia torto. -- Son ben contento di veder la signora stabilita nella nostra città, ecc. Ma questa forma è in realtà affettata e si presta anche all'equivoco. Lasciamola ai francesi, e noi dichiariamo invece: - Credo che Lei Signore, non abbia torto. - Son ben contento, Signora, di vederla stabilita nella nostra città, ecc. Per finire, ecco un mazzetto di consigli a proposito della conversazione. - Parlate meno che potete, ascoltate più che potete. - Quando non siamo cogli intimi, riflettiamo sempre sulle conseguenze che possono venire dalle nostre parole. - Difendere sempre quando si può, accusare solo quando si deve. - Mai costringere quando si può convincere. Possibilmente discorrere di fatti e non di persone. Meglio mostrarsi poco spiritosi che troppo. - Per trovarsi bene con una persona occorre procurare, quando stiamo con essa, di vestirci delle, sue abitudini e di partecipare ai suoi gusti. - Chi non ammette mai che gli altri possano aver ragione, ha quasi sempre torto. - Non date giudizi assoluti; esponete solo le vostre opinioni. - La pedanteria è noiosa; insoffribile la leggerezza. - Non date mai consigli senz'esserne richiesti; e anche quando sia così, disponetevi serenamente a non vederli quasi mai messi in pratica. - Trattenete quant'è possibile sul vostro labbro la frase amara: «Ve l'avevo pur detto!». - Procurate che ognuno si stacchi dalla vostra conversazione più amico di prima. - Sia sempre l'animo vostro sì alto, il cuore così puro, da poterlo scoprire. - Procurate di non metter mai il vostro interlocutore nella spiacevole alternativa di una menzogna o di uno sgarbo. - Parlate di voi meno ch'è possibile: il lodarsi è da fatuo, l'avvilirsi da stolto. - Non tutte le verità sono da dirsi: ciò che offende senza giovare, più che franchezza, è scortesia malevola.

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