Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184188
Giuseppe Bortone 24 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Quanto a Lui, c'è, prima d'ogni altra cosa, da augurarsi che non abbia portato nel matrimonio quella certa stanchezza che gli potrebbe esser derivata da una precoce, né sempre sana, esperienza di vita: rischierebbe di procurare una prima grave delusione alla compagna, la quale, senza dubbio, è andata a lui piuttosto inesperta e con entusiasmo. Se pur non vuole, o non può, fare un taglio assoluto con la vita da scapolo, deve apportarvi una profonda, definitiva modificazione; giacché non vorrà continuare a frequentare gli amici, il caffè, il circolo, il teatro, lasciando sempre e sola a casa la compagna. L'ufficio, per quanto alto, e la professione, per quanto delicata, assorbiranno ancora tutta la sua attività, ma non fino al punto di fargli dimenticare o trascurare l'importantissimo elemento nuovo penetrato nella sua vita. Sentirà tutta la responsabilità del capo di casa, e farà prevalere la sua volontà illuminata e sana; ma non tirannicamente. Si può giungere allo stesso punto attraverso un dispotismo brutale e attraverso una dolce fermezza; ma, mentre il primo suscita un senso di malcontento, di rancore e, talora, di rivolta, l'altra suscita un senso di fiducia e di stima, e rinsalda l'affetto. Nulla farà mancare in casa di quel che è necessario od opportuno; ma senza colpevoli condiscendenze, sopra tutto dal punto di vista del lusso. Farà di tutto perché si appianino gli eventuali dislivelli di educazione; ma sapientemente; cioè, evitando gli scatti d'ira, l'acrimonia dell' ironia, le offese idiote della gelosia, la volgarità del rinfacciare. In una parola, egli saprà parlare alla intelligenza e al cuore di lei; non venendo meno, in nessun caso, alle regole della piú squisita cortesia: la quale, fra due che si vogliono bene, non è che l'espressione della stima, della fiducia, della premura, dell'amore. Quanto alla parte ch'egli deve avere nella educazione basterà ricordare che, come la madre deve esser d'esempio sotto un certo punto di vista, egli lo deve esser non meno per quel che lo riguarda: non si può educare quando si parla bene e si razzola male. E deve reprimere energicamente non soltanto ogni piú piccola mancanza di rispetto, ogni piú lieve atto d'indisciplina o di ribellione, ma anche ogni atto di scortesia, evitando qualciasi condiscendenza che, deplorevole nella madre, sarebbe deplorevolissima nel padre. Quanto all'avvenire dei figli, li illumini, ma non ne coarti la volontà o l'inclinazione, se esse sono legittime e sane: sopra tutto, li abitui a disdegnare le cosí dette « raccomandazioni », a fare esclusivo affidamento sulla loro preparazione e sul loro valore: quando ci sono e quella e questo, può esser loro consentito fare una « presentazione », ma null'altro! Questo delle « raccomandazioni » è un argomento troppo scottante. Non si pensa che tutte le cose nostre andranno assai meglio; che la fisionomia dell'Italia sarà completamente e definitivamente trasformata, soltanto il giorno in cui si sarà generalmente persuasi - e si potrà vedere e constatare - che il merito esclusivamente è messo in valore, incoraggiato, premiato.

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Una signora che voglia veramente esser tale non usa gioielli falsi: se ne creano tanti oggi che si può quasi dire esser questo uno dei segni del tempo; salvo che anche il gioiello falso non abbia, come ho detto, una sua particolare nota di rarità e di finezza.

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Pensate: il modo di rispondere a un invito a pranzo, di vestire, di presentarsi, di sedere, di consumare i cibi e le bevande, di conversare, di trattare, di congedarsi, di contenersi e comportarsi in genere richiede una costante e sapiente vigilanza su se stessi, la quale, per chi non ne abbia fatto l'abitudine in casa, rappresenta un grave imbarazzo, se non una vera e propria fatica. L'ora del desinare è la piú importante per una famiglia, come quella che vede raccolti intorno alla medesima tavola i vari membri, dedicati, per lo piú, a forme diverse di attività. Ed è la importante anche nei rapporti sociali; perché ammettere un estraneo a questa dolce e sacra intimità è la piú grande e bella prova che gli si possa dare di stima e di amicizia. Dato ciò, si pensi a quanta e quale cautela occorra nel fare e nell'accettare un invito a pranzo; e si pensi altresí alla disposizione di spirito con cui ciascuno, messo da parte ogni molesto pensiero, debba parteciparvi. E poiché il piú contiene il meno, credo opportuno prospettare il caso d'un pranzo che abbia un certo tono, e con degl'invitati. Ma si capisce che la vita familiare di tutti i giorni ha minori esigenze; perché, in fondo, non si tratta che di rifornire la macchina di combustibile, quando ricorrenze e circostanze eccezionali, o il desiderio di aver con noi e di onorare qualche amico non ci impongano fatiche e spese impreviste. L' ambiente non va preparato lí per lí; ma alcune ore prima: riscaldato, se d'inverno; con le finestre chiuse fin dal mattino, se d'estate: con la luce ben regolata, tanto se sia di giorno che di sera. Nella stagione calda, allontanare con ogni cura le mosche. Arrivano gl'invitati. Essi depongono ogni ingombro personale: le signore tengono soltanto la borsetta; e, prima che in sala, sono accompagnate in un'altra stanza dove possano « ravviarsi ». Se hanno avuto un pensiero gentile per la signora, questa disporrà se si tratta di fiori, che sieno subito sistemati in bei vasetti; non si affretterà a svolgere, qualora si tratti di un pacchetto; a meno che, per ragioni speciali, non ne sia pregata dall'offerente. Tutti i commensali sono nella sala: se c'è un ritardatario, lo si può attendere qualche minuto, non di piú. Se la signora desidera offrire l'aperitivo, lo serve da sé. Se vuol offrire del brodo ristretto, farà portare un vassoio con le tazze - mai piene fino all'orlo - e le offrirà in giro. I commensali prendono tazza e piattino. Sulla tavola. Un panno morbido; su questo una tovaglia candida, ben tesa; in mezzo, un vaso a fondo largo, pieno d'acqua o di sabbia bagnata con dentro dei fiori freschi e vivaci, col gambo piuttosto corto. Volendo, si può anche disseminare qualche fiorellino qua e là, o qualche ramoscello verde. I tovaglioli, tutti della stessa tela della tovaglia, ugualmente piegati e cifrati: candidi anch'essi. Quanti sono i commensali, tanti piatti, a pochi centimetri di distanza dall'orlo della tavola, e badando a che non ve ne sieno di sbocconcellati, macchiati, o appannati. Gli altri piatti - scodelle, se la minestra è brodosa vanno portati volta a volta, ben caldi, dalla cucina, dove possono esser tenuti nel forno a moderato calore, o su una pentola piena di acqua calda, o, per chi l'avesse, nello speciale scaldapiatti fra i radiatori del termosifone. Le posate debbono essere luccicanti: esaminare. specialmente se non sieno macchiate le lame dei coltelli e gli interstizi dei rebbi delle forchette. A destra del piatto, il coltello e il cucchiaio; a sinistra, la forchetta; davanti, i bicchieri: uno per acqua, uno per vino, uno per vino speciale (se c'e), una coppa per lo spumante (se c'è), dopo averli esaminati attraverso per vedere se sono tersissimi. Sieno disposti gradualmente, i piú bassi a destra; ciò perché, dovendo esser riempiti dalla destra, non riescano d'impaccio a chi deve mescere. Se non saranno, durante il pranzo, cambiate le posate - e in questo caso soltanto - usa anche mettere a destra un poggia posate di cristallo o di metallo. I tovaglioli, piegati in tre o quattro - o a triangolo, se sono elegantemente cifrati - debbono essere collocati sul piatto. Gli altri modi, piú o meno ricercati, di piegarli dànno l'idea della trattoria. Le bottiglie di vino e di acqua, le saliere, i portastecchini sieno messi in quantità e in modo da esservene uno per ogni quattro commensali. Anche le bottiglie, come i bicchieri, debbono essere tersissime. Che il sale delle saliere non sia in pezzi o umido, e non manchi lo speciale cucchiaino per prenderlo. Le sedie sono o accostate alla tavola o lasciate un po' aperte verso l'estremità dove siederà la padrona di casa. Altro lavoro indispensabile è quello di preparare i piani della credenza e della controcredenza, per evitare di aprire e chiudere continuamente sportelli e cassetti, o dover andare ogni tanto a parlare nell'orecchio alla signora. Sul piano, perciò, della credenza, un tovagliolo e, su questo, posate di ricambio, posate speciali, acetiere, oliere, qualche bottiglia di vino, il cestino col pane tagliato, e i piatti, se non sono in caldo. Sul piano della controcredenza, pronti i piattini per la frutta e per il dolce, con la relativa posata; pronte le tazze per il caffè, con il cucchiaino, le mollette, le zuccheriere piene, e quant'altro si prevede che potrà occorrere. Il vino rosso speciale va tratto di cantina e messo nella stanza da pranzo almeno due ore prima di servirsene. I vini bianchi vanno serviti freschi. Le bottiglie di vino speciale non vanno messe sulla tavola: nei pranzi d'etichetta né pur quelle di vino comune, dovendo mescere i camerieri. Le stoviglie e gli utensili non disposti nella stanza da pranzo sono tenuti ordinati e pronti in cucina. Il pane va tagliato a fette e collocato in un elegante cestino fra due tovagliolini bianchi: quando i commensali sono a tavola, si provvede a mettere un pezzo a sinistra di ciascuno, badando a rifornirli ogni volta che ne avranno bisogno e prima che l'abbiano finito, per non costringerli a chiederlo. Le frutta, bellamente disposte su foglie verdi o su tovagliolini bianchi in fruttiere, che è bene sieno portate a tavola soltanto al momento di servirle. Quando viene annunziato che « la signora è servita! », tutti, sull'esempio di lei, si alzano per passare nella sala da pranzo. Precede la signora piú ragguardevole, o piú anziana, accompagnata dal padrone di casa: non usa piú offrire il braccio; ma, per quelle famiglie ove si faccia ancora, o quando si tratti di persone molto avanti nell'età, l'uomo offre alla signora il braccio sinistro ed entra per primo nella stanza da pranzo. Gli ufficiali in divisa offrono il braccio destro. Seguono gli altri in ordine, direi quasi, gerarchico: ultima delle signore la padrona di casa. Negli altri casi, passa per prima la padrona di casa accompagnata dall'uomo presente che si vuol onorare: seguono gli altri; ultimo il padrone di casa. Non è lecito scegliere la signora da accompagnare: le indica a ciascuno la padrona di casa, badando a non separare, né ora, né nell'assegnare i posti a tavola, le coppie di fidanzati. I posti a tavola. O si trovano già indicati su un elegante cartoncino bianco, o li distribuisce lí per lí la padrona di casa. I posti d'onore sono: per le signore, la destra e poi la sinistra del padrone di casa; per gli uomini, la destra e poi la sinistra della padrona di casa; per gli altri posti, la loro, per cosí dire, gradazione d'onore è data dalla maggiore o minore vicinanza ai padroni di casa. E, come si vede, un cerimoniale un po' complicato, specialmente quando non si conosce la posizione sociale dei singoli invitati; ma bisogna cercar di cavarsela nella miglior maniera, perché il nostro prossimo è, spesso, piú sensibile a questo che all'eccellenza del pranzo. I criteri generali da seguire sono: prima di tutto, informarsi bene della posizione sociale e gerarchica dei singoli invitati; in secondo luogo, regolarsi secondo la posizione medesima e, a parità di condizioni, secondo l'età. « A parità di condizioni »; perché l'età non costituisce titolo per le precedenze. Se ci sono stranieri, dar loro la precedenza, secondo il rango sociale. Io conosco delle signore abilissime nell'assegnare i posti a tavola: esse, pur rispettando le precedenze, sanno cosí bene disporre i commensali fra loro, da suscitar sùbito vive simpatie, rendendo cosí piacevolissimi i loro ricevimenti. Per prender posto, come per cominciare a mangiare, attendere che l'abbia fatto la padrona di casa. Questa può, eccezionalmente, cedere all'ospite tali sue prerogative. Ordine del servizio. Si comincia dal servire la signora che è alla destra del padrone di casa; indi, quella che è alla sua sinistra; e poi, a mano a mano, le altre per ordine di precedenza. Si passa poi alla padrona di casa, all'uomo che è alla sua destra, all'uomo che è alla sua sinistra, agli altri; il padrone di casa si serve per ultimo. Però, se il pranzo non è ufficiale o non ha rigorose pretese di eleganza, si suole alternare il servizio; in modo che i primi e gli ultimi serviti non sieno sempre gli stessi; ed anche perché, francamente, non è simpatico che pur la spensierata e lieta operazione del mangiare faccia risaltare, a ogni nuova portata, la differenza del rango sociale o del grado gerarchico. A ogni modo, non si fanno complimenti circa la precedenza nel servirsi. Questo indicato è l'uso italiano; ché, in altri Paesi - in Inghilterra, per esempio - si suole servir prima la padrona di casa: usanza, forse, tramandata da altri tempi, quando si credeva doveroso rassicurare i commensali che non sarebbero andati incontro a sorprese poco gradite... Quando si ripassa, si va senz'altro da chi prima ha finito, ricordando che non si servono una seconda volta la minestra, l'insalata e il formaggio. Ecco, intanto, schematicamente indicate le norme principali per ben stare a tavola. Per i padroni di casa. Cureranno che non si vada a tavola piú tardi dell'ora fissata; che ci sia abbondanza di tutto; sí che i commensali possano servirsi senza preoccupazioni; nel distribuire i posti, tenuto conto delle precedenze, faranno in modo che sieno avvicendati uomini e signore, e che capitino accanto persone che abbiano tra loro simpatia: ciò gioverà anche a tener animata la conversazione ; non vengono a discussione fra loro, né rimproverano i figliuoli; non fanno atti d'impazienza con i domestici; non decantano i loro vini o altre cose di famiglia, né celebrano i pregi della loro cucina; non fanno capire che il pranzo è costato fatica o spesa; non si adombrano per qualche piccola disgrazia che lasci lí per lí tracce sulla biancheria ; anzi, la signora interviene prontamente a rassicurare il maldestro; non insistono con i commensali perché si mangi o si beva di piú; tanto meno ricorrendo a quel volgare mezzuccio: « Ho capito: non piace! »; mangiano in modo da non essere i primi o gli ultimi a finire. Salvo che non sieno a regime speciale, debbono almeno assaggiar tutto. Per tutti i commensali. La sedia né troppo lontana, né troppo vicina alla tavola; i gomiti stretti ai fianchi, il busto eretto; nessun dondolio sulla sedia; non si allungano le gambe sotto la tavola; né si puntano i gomiti sopra; non si fissa il tovagliolo nel colletto o fra i bottoni del panciotto; non si spiega completamente, e si tiene sulle ginocchia; non si puliscono col tovagliolo piatti e bicchieri, né si esaminano i bicchieri contro luce; non si divorano con gli occhi le portate a mano a mano che vengono dalla cucina; non si scelgono i pezzi migliori, servendosi, né si osserva il modo di servirsi degli altri; non si fanno complimenti, né si rifiuta di servirsi per primi, quando la padrona di casa ha cosí disposto; non bisogna distrarci, o distrarre, mentre ci serviamo; né si attaccano discorsi con chi serve a tavola; non si trascurano i vicini, specialmente se signore, ma li si serve con garbo e premura; non si mangia troppo in fretta o troppo lentamente; non va la bocca verso la posata, ma la posata verso la bocca; non si riempie il proprio piatto per poi lasciarlo a mezzo; non si soffia sui cibi per farli raffreddare; non si versa il vino nella minestra, né si fanno altre mescolanze poco usate; non si solleva la scodella per portar via il poco rimasto sul fondo; chi voglia farlo deve sollevarla dalla parte che gli è piú vicina verso il centro della tavola; non si apre la bocca masticando, né si parla a bocca piena; non si fa rumore con i denti masticando ; non si fanno i bocconi troppo grossi ; non si tracanna il bicchiere tutto d'un fiato e fino in fondo ; né si beve mentre si ha il boccone in bocca; o senza essersi prima pulito la bocca; che va anche ripulita subito dopo aver bevuto; non si mette il ghiaccio nei bicchieri; né si tengono questi a lungo fra le mani, perché il vino rosso sviluppi il suo aroma; non si taglia il pane col coltello, ma si spezza con le mani ; né si porta alla bocca tutto il pezzo di pane; né si toglie la mollica, e tanto meno la si plasma con le dita; non s'introduce la propria posata nel piatto di portata; non si taglia prima in pezzi tutta la carne o l'altro che s'ha davanti; non si intinge il pane nel sugo o nella salsa rimasti nel piatto; non si riprendono a spolpare le ossa già lasciate ; non si sposta verso destra o verso sinistra il piatto vuoto; non si raccatta una posata caduta e tanto meno la si rimette sulla tavola; non si taglia il pesce col coltello, salvo che non si tratti di pesce affumicato o marinato ; se c'è la spatola, tanto meglio ; diversamente, s'adopera la forchetta e un pezzetto di pane; non si tiene sulle ginocchia, ma sulla tavola, la sinistra, quando è inoperosa; in nessun caso si porta il coltello alla bocca; non si fanno commenti su cose che non piacciano o che non si possano mangiare; non si attira l'attenzione su qualche cosa di estraneo che si possa trovare nei cibi; non si usano gli stecchini che nei casi indispensabili: è sconveniente gingillarsi con lo stecchino o, peggio, alzarsi da tavola con lo stecchino in bocca; non si porgono i patti al servitore; non si parla d'affari o di cose tristi; né si fanno discorsi lunghi con commensali che sieno all'altro capo della tavola; non si fanno tragedie di parole per piccole disgrazie; non si adoperano per il naso fazzoletti poco puliti; né si caccia la testa sotto la tavola o da uno dei lati per soffiarsi; né lo si fa rumorosamente; né si spiega dopo il fazzoletto ; non si starnutisce fragorosamente, o in modo da far « piovere » nei piatti dei vicini; non si tirano nòccioli, bucce o altro ; meno che mai pezzi di pane: e ciò anche nelle riunioni allegre, dove è pur consentita qualche libertà; non si ravviano i capelli col pettine o con le mani, né le signore mettono fuori il loro armamentario da toeletta; non si decantano pranzi fatti altrove; non si chiedono cose che i padroni di casa non hanno fatto mettere a tavola, adattandosi ad imitarli; non si fuma senza che i padroni di casa lo abbiano autorizzato ; in ogni caso, mai prima che si sia finito di mangiare; se si hanno sigari o sigarette di qualità migliore di quelli offerti dai padroni di casa, si evita di servirsene o di offrirli; nessuno si leva da tavola prima che lo abbia fatto la padrona di casa; non si piega il tovagliolo, ma lo si lascia con garbo alla sinistra del posto occupato; non si porta via alcun che dalla tavola, tranne la propria minuta, se c'era, o, al piú al piú, qualche fiore che si aveva davanti. La moda dei brindisi è, fortunatamente, tramontata; ma, se si dovesse farne, cercare di essere semplici e brevi, né dimenticare la padrona di casa, o qualche cara persona di famiglia assente. Non si toccano i bicchieri, ma si sollevano all'altezza del proprio viso, allungando il braccio dalla parte del festeggiato. Se il brindisi fatto da una signora, essa non invita i commensali a bere. La posata. La forchetta si tiene con la destra, quando si tratta di vivande per le quali non è necessario adoperare il coltello; quindi, per maccheroni, risotto, verdure, frittate, sformati, uova - anche sode polpette, ecc. Si tiene con la sinistra quando, con la destra, si debba adoperare il coltello per tagliare. In tal caso, si prende con la forchetta il pezzo tagliato, con la punta del coltello si adatta su per benino del contorno o della gelatina o della salsa, e si porta alla bocca in modo che le rebbie della forchetta sieno rivolte all'ingiú. Quando occorresse interrompere, forchetta e coltello si mettono nel piatto a contatto di punte non sulla tavola o sull'orlo del piatto. Quando si è finito, se la posata vien cambiata, la si lascia nel piatto parallelamente; se si deve tenerla per la portata successiva si mette sul poggiaposate con i rebbi in giú. Si lascia anche nel piatto, quando si è mangiato il pesce o delle uova; perché, in tali casi, dev'essere senz'altro cambiata. Il cucchiaio si adopera per le vivande liquide o semiliquide e per alcune specie di dolci. Si può portare alla bocca o per la punta o per il margine laterale, dalla parte piú vicina al manico. Se una distinzione si vuol fare, è piú comodo adoperarlo dalla parte della punta quando, nel liquido, c'è qualcosa di solido. In questo caso, né si introduce troppo nella bocca, né si attira il contenuto succhiandolo, né si consuma la cucchiaiata a parecchie riprese. La posata non si prende dalla parte piú bassa: la forchetta si adopera col manico nel pugno; il cucchiaio, prendendolo col pollice e coll'indice e appoggiandolo sul medio ripiegato; il coltello si adopera anch'esso col manico nel pugno. Usa anche tenere il coltello e la forchetta fra le prime due dita, come si terrebbe una penna; ma io trovo questo modo poco comodo; tanto piú che non si può far forza col coltello, né si deve allungar l'indice sul dorso della lama. Nei casi in cui si tiene la forchetta con la destra, ci si può aiutare con un pezzetto di pane nella sinistra. Il formaggio si taglia col coltello ed il pezzo si adatta su un pezzo di pane. Delle mani bisogna servirsi il meno possibile: si può adoperarle per i piccoli volatili; ma è bene non darne l'esempio; se mai, farlo con garbo. Neanche le ossa, o le lische, si prendono con le dita; ma si depongono sulla forchetta e poi sull'orlo del piatto. Per mangiare le uova dette al guscio, servite nel portaovo, se non v'è lo speciale strumentino ad anello per romperle, se ne schiaccia la punta col cucchiaino - mai col coltello - vi si mette il sale e col cucchiaino se ne porta alla bocca il contenuto. Non si solleva il guscio per ripulirlo fino in fondo. Si può accompagnare col pane, ma questo non si intinge nell'uovo. Il guscio si mette accanto al portaovo e lo si schiaccia discretamente col coltello. Il bicchiere si prende dalla parte piú bassa. Non si va incontro con esso a chi ci mesce da bere, né si alza per significare « basta ». Si sa che il bicchiere proprio o di altri non si riempie fino all'orlo. Talora, l'alzare il bicchiere è giustificato dalla preoccupazione che la goccia attaccata alla bottiglia scivoli sulla tovaglia e ne macchi il candore: cosa quest'ultima da evitarsi con cura anche se sembri che la padrona di casa non ci badi o non ci tenga. Come si deve aver cura di non versare l'olio, di non incrociare la posata... Pregiudizi senza dubbio; ma è colpa nostra se alcuni ci credono ancora? Quando è servita qualche vivanda che non si sa come si mangi, o vien dato qualche cosa che non si sa come adoperare, è prudente attendere e seguire l'esempio degli altri. Piú d'una volta si è veduto accostare alle labbra la piccola coppa dell'acqua e una fettina di limone, che vien portata su di un tovagliolino col piatto delle frutta, e che serve per lavarsi le dita: tovagliolino e coppa si mettono a sinistra. Si ricorda, a questo proposito, un episodio accaduto alla Corte di Vienna: in un pranzo offerto a una Delegazione bosniaca, quando furono portate in tavola le coppe d'argento con l'acqua tiepida e profumata, il capo della Delegazione si alzò e, dopo aver brindato, bevve il contenuto della coppa, immediatamente imitato dagli altri deputati. Fra l'imbarazzo dei commensali, Francesco Giuseppe rispose al brindisi e bevve anche lui di quell'acqua, mentre l'etichetta obbligava tutti i commensali a fare altrettanto. Le ostriche si staccano con la forchetta dal guscio e si portano con questo alla bocca. Le foglie dell'insalata non si tagliano, ma si portano alla bocca come vengono servite, salvo che, si capisce, non vengano servite intere. I carciofi si possono mangiare con le mani; però, nei pranzi eleganti, non si suol portare in tavola che la parte piú centrale e piú tenera, la quale si mangia con la forchetta. Agli asparagi, presi con la pinza speciale dal piatto comune, si taglia la parte verde e si porta alla bocca con la forchetta, se serviti come contorno: se come portata, si possono prendere dal proprio piatto con le mani. Quanto ai piselli, se si vogliono mangiare all'inglese, ossia dopo averli schiacciati, ciò va fatto col coltello contro la forchetta, non col cucchiaio o col coltello o con la forchetta contro il piatto. Per la frutta, che viene servita in ultimo, si adopera la forchetta e il coltello. È un po' di fatica quando, come spesso accade, il coltellino non è affilato. Non si sbuccia intera ma si taglia prima a quarti: mele, pere. Le pesche si sbucciano dopo averle tagliate in due. Le albicocche non si sbucciano; si bagnano soltanto nella coppa che si ha alla sinistra del proprio piatto, senza tenervele molto, perché si suppone sieno state già lavate. Né pure le prugne si sbucciano: si portano alla bocca intere quelle secche; si tagliano a fettine quelle fresche, senza portare alla bocca il nocciolo. Alle banane si incide la corteccia da cima a fondo, denudandone la polpa, che si mangia a piccoli pezzi, dopo averla tagliata con la forchetta. Ai fichi freschi, tenuti con la sinistra per il picciolo, si porta via una fettina della parte superiore, dov'era il fiore e dove si possono essere fermati gli insetti; poi, si tagliano in quattro spicchi senza separarli presso il picciolo; se ne stacca col coltello la polpa e si porta alla bocca con la forchetta. Agli aranci e ai mandarini, tenuti con la mano sinistra, non con la forchetta, si incide a spicchi la buccia; indi la si leva, se ne separano gli spicchi e si tagliano a metà per trarne i semi: non si sbucciano in tondo, né a spirale. In America, usa tagliarli in due, senza sbucciarli, nel senso orizzontale, ed estrarne con un cucchiaino la polpa e il sugo. Le ciliege si portano alla bocca una per volta - non a ciocche - prendendole dalla coppa, e se ne lascia poi cadere il nocciolo sul cucchiaino o, se questo non c'è, sulla forchettina. Meglio cosí che lasciarli cadere nella mano socchiusa. Le fragole, se sono grosse, e servite col gambo, si prendono a una a una con le mani, si passano nello zucchero, che si è avuto cura di mettere nel nostro piatto, e si portano alla bocca. Se son piccole, si mangiano col cucchiaino. Le frutta col guscio legnoso - noci, nocciole, mandorle - si schiacciano, non con i denti o con le dita, ma con lo speciale strumento, se ne cava il contenuto e si porta alla bocca con le mani. Per il popone, si libera la polpa dalla buccia e la si porta alla bocca con la forchetta, dopo averla tagliata in pezzi con l'aiuto del coltello. L'uva si porta alla bocca chicco per chicco, e, per chi non usa ingoiarli, si fanno ricadere nel cucchiaino vinaccioli e buccia, e si depongono all'angolo del piatto. Il gelato si prende con la spatola dal piatto comune, badando a non farlo scivolare, e si mangia con lo speciale cucchiaino piatto, accompagnandolo, se ci sono, con i biscotti. Il caffè è servito a tavola nei pranzi di famiglia; in sala, nei pranzi eleganti: io trovo preferibile servirlo sempre in sala, sia per «occupare» quel po' di tempo che rimane ancora, sia per dar modo di sparecchiare. Se è servito nella stanza da pranzo, la padrona di casa mesce nelle tazze, portate in giro dal cameriere; se, in sala, è servito in giro dalla padrona di casa, aiutata da qualche figliola o amica; i liquori son serviti dal padrone di casa. Quando si va in sala per il caffè, si attende a fumare qui. Il segnale di ritorno in sala è dato dalla padrona di casa, la quale prende il braccio del suo cavaliere ed esce per prima: seguono gli altri, senza darsi il braccio: ultimo il padrone di casa. Quindi, tener presente che, per il ritorno in sala, si segue l'ordine contrario a quello tenuto per uscirne. Quanto tempo si rimane in una casa dove si è stati invitati? Normalmente non piú di un'ora; ma è prudente e delicato regolarsi secondo il numero delle persone, il tono della conversazione, l'età e le abitudini dei padroni di casa. Usava fare la cosí detta « visita di digestione », fra gli otto e i quindici giorni. A me pare una bella usanza, che meriti d'esser conservata. Per gli uomini, è sufficiente che portino la loro carta di visita. Quando si tratti, invece che di un pranzo piuttosto elegante, di una colazione e, in genere, di un pasto alla buona, è preferibile adoperare la biancheria a grossi quadri in colore. Ora se ne produce della eccellente, per qualità e per disegni: a me piace molto, perché dà un senso di letizia, sopra tutto se anche i boccali e i piatti sono a tinte vivaci. Fuori d'Italia - in Francia specialmente usano anche dei graziosi tovagliolini di velina e dei mensali di carta, che si rinnovano, si capisce, volta per volta, e che son da preferirsi senz'altro alla tela cerata, che ricorda l'osteria. Quest'apparecchiatura, molto sbrigativa e comoda, è usata largamente in campagna - dove non si può andare tanto per il sottile, né si può pretendere troppo - e per le cene fredde, al ritorno dal teatro e dal ballo. In queste, ciascuno dei commensali si serve da sé, e il piatto si cambia soltanto per il dolce. Conchiudendo, dirò che ora non usano piú, come un tempo, le interminabili sfilate di portate: si preferisce la qualità alla quantità, la finezza all'abbondanza. Perciò: che non manchi mai, possibilmente, una tazza di brodo ristretto: si profitti della grande risorsa offerta dagli antipasti e dai tramezzi, tornati trionfalmente, e giustamente, in onore; tanto piú che, per questi, si può anche non lavorare in cucina, trovandosi preparato in scatole tutto quel che si può desiderare; sempre graditi la galantina con la gelatina, i soffiati, gli sformati, i volanti ripieni, i pasticci di carne, gli arrosti di cacciagione, le trote, le varie ed eccellenti qualità di formaggi, la macedonia frutta... piú o meno di queste deliziose cosine, a seconda della stagione, dell'ora, della circostanza; almeno due qualità di vino speciale; e poi, un profumato caffè bollente; e una sigaretta squisita... e sempre, da cima a fondo, la piú gustosa delle vivande - una gioviale cordialità: - di grazia, che si potrebbe offrire e desiderare di piú e di meglio? E si tenga, infine, presente che la prova migliore della buona educazione non sta nell'offrire un pranzo, abbondante e succulento quanto si voglia, ma nel mescolarsi sapientemente con gli altri. La cortesia, ripeto, nel suo vero senso, riguarda appunto quelle regole che, nel gioco della vita, rendono piú facile e piú semplice l'accomunarsi con i propri simili.

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Non si porge con la sinistra, salvo che si abbia la destra impegnata per mescere o per altro. Servirsi con discrezione, senza guardarsi intorno, quasi per contare i presenti o per vedere se altri ci osserva; né cacciarsi in tasca o nella borsetta dei contentini per il bimbo lasciato a casa imbronciato. Ma usa « offrire » ancora? In alcune famiglie, si; in altre no. Certo non è bello interrompere d'un tratto una lunga consuetudine; tanto piú che lo sgranocchiare e il bere qualcosa in compagnia giova a rendere piú sorridenti i visi, piú animata la conversazione e, forse, meno maldicenti le lingue. Usava, e usa ancora, offrire il tè. È una bevanda poco adatta al nostro clima e... al nostro palato. Si cominciò ad offrirlo per snobismo; si continua, forse, perché costa poco; certamente, perché si crede un indice di signorilità e di distinzione manipolare questa beva da esotica. Tant'è che anche le donne di servizio - quando la signora è assente - l'offrono alle loro amiche, talora addirittura vestite col meglio della signora medesima e scimmiottandola nella voce e nei gesti! Esprimerò qui il mio vivo rammarico per la poca diffusione in Italia di tante «preziose » nozioni di erboristeria: ci sono innumerevoli e comunissime erbe aromatiche con cui si posson fare delle squisite e salutarissime tisane: basta mettersene al corrente, e vincere la difficoltà della scelta. Meglio ancora: c'è, forse, qualche nostra regione la quale non abbia un suo tipo particolare di vino liquoroso? Ce n'è per tutti i gusti, dalle malvasie ai moscati, dall'ambra al rubino, dai vini santi ai vini... indiavolati: tutta una serie interminabile di squisiti succhi d'uva, in cui par di vedere e sentire imprigionati fasci di raggi del nostro eterno sole. E non mi si parli, per carità, degli astemi: è gente che fa la schizzinosa soltanto di fronte ai tipi di vino ordinario, di vino comune. E mandate alla malora chi vi dice che offrire una coppa di spumante non è signorile: dove si va a cacciare la « signorilità! ». Del resto, chi teme di sembrar «volgare» se ne astenga, e si contenti, col suo calice di acqua fra le mani di star a guardare. A ogni modo checché sia, va offerto con cordialità e con una certa eleganza; e si può servire o in un'unica tavola grande o in tavolinetti separati. L'apparecchiatura richiede gusto, affinché gli ospiti rimangano con un ricordo gradito della visita. Le signore addolorate, perché avevano, come usa dire, i servizi scompagnati, possono ora allietarsi di una moda che si va diffondendo anche in Italia: quella di servire in piatti, bicchieri e tazze d'ogni forma, d'ogni colore, d'ogni capacità; e l'eleganza è in misura proporzionale della varietà; proprio come per le pellicce fatte di ritagli. Moda senza dubbio comoda e che avrà certamente fortuna, perché farà ricomparire sulle tavole recipienti riposti da decenni. Però stieno attente le signore nel fare le parti, e nel mescere; perché alcune visitatrici non si farebbero scrupolo di scendere, talvolta, al livello dei bambini e di guardare con la coda dell'occhio, invidioso, le piú fortunate di loro cui fossero toccati recipienti piú capaci. Largamente introdotto l'uso dei tovagliolini di carta: immagino ad iniziativa delle padrone di casa, le quali hanno preferito rinunziare a una nota di finezza piuttosto che vedere i loro lini striati, talora indelebilmente dal rosso delle labbra. In una prima visita, non usa offrire, anche perché le prime visite non debbono prolungarsi piú di una diecina i minuti. Se mai, vedendone l'opportunità, può offrire una sigaretta. Invece, si dà « da rinfrescarsi », come eccellentemente si dice in Toscana, anche nelle prime visite, quando queste sieno fatte in campagna. Non congedarsi subito dopo; ma né pure aspettare ad aver digerito. Non dimenticar mai che le visite piú gradite son sempre le piú brevi! Per andarsene, non si guarda l'orologio. La signora farà qualche dolce insistenza, ma non bisogna lasciarsi allettare. Né occorre attendere che sopraggiungano altre visite. Di una coppia prende l'iniziativa la signora: fra madre e figlia, la madre. Congedandosi, si saluta per prima la padrona di casa. La signora accompagnerà fino all'uscio di casa, se non ci sono altri: fino all'uscio di sala, se non è sola. Può esser sostituita in questo ufficio dalla figlia. Non accompagna un visitatore fuori della sala: lo può fare soltanto nel caso che téma non trovi la via d'uscita, o l'interruttore, per quanto, anche in questo caso, sia meglio suonare e farlo guidare dal servitore. Tanto la visitata quanto la visitatrice eviteranno di fermarsi a discorrere sull'uscio. Una padrona di casa d'animo fine eviterà abilmente che le visitatrici rimaste si abbandonino a un esercizio, non sempre benevolo, delle loro lingue nei riguardi della visitatrice che si è allontanata. Non facendolo, rischia anche di far prolungare la visita al di là della discrezione, perché qualche signora vorrà andarsene per ultima, sperando cosí di sottrarsi alla sorte comune. Senza dire di una scenetta gustosissima cui si può assistere nel caso, per es., che la visitatrice uscita rientri perché ha dimenticato un guanto: tutti le fanno festa perché ha procurato a tutti la gioia di farsi rivedere... Debbo dirlo? Assistendo a qualcuna di queste riunioni, mi sono persuaso che non sempre la logica vi domina. E mi son persuaso altresí che, molto spesso, l'amicizia fra le donne non è che una gelosia, una inimicizia larvata, che scoppiano alla prima, alla piú piccola occasione; per la qual cosa si regolano benissimo quelle signore che, a queste fiere di vanità, di pettegolezzi e di maldicenze, antepongono una salutarissima passeggiata in campagna. Probabilmente, la maggior parte delle nostre signore rinunzierebbe alle visite se, da noi, l'ora del tè fosse, come nel Giappone, un'ora di raccoglimento. «Il silenzio raccolto è interrotto soltanto dal gorgoglio dell'acqua che bolle. I Giapponesi hanno compreso la grande significazione del silenzio: sanno tutti i misteri ch'esso racchiude e rivela: sanno che nel silenzio l'uomo può scoprire aspetti insoliti della natura, e profondità insospettate della sua anima. La cerimonia del tè è basata sul silenzio e sulle sue rivelazioni improvvise: essa si svolge in una atmosfera di raccoglimento e di pace ». Vale come visita fatta il proprio biglietto ; meglio se lasciato a mano al servitore che se messo nella cassetta della corrispondenza. Da noi non usa piú, in tal caso, ripiegare la carta di visita in un angolo. Però il biglietto si può lasciare se apre la porta una persona di servizio o un bimbo: se, invece, viene alla porta una persona adulta di famiglia, è doveroso entrare. Non è necessario lasciarlo per le mancate visite amichevoli. I coniugi lasciano il biglietto intestato ad ambedue: una signora lascia il biglietto col proprio nome e il cognome del marito. Se la carta di visita si lascia a persone che sieno in albergo, vi si scrive in cima, a sinistra, il nome e il cognome del destinatario.

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- accento circonflesso, tracciato con una matita; e superbe capigliature corvine divenire, ad un tratto, di color castagno slavato; e delle chiome fluenti cadere sotto le cesoie, mentre altre ricciolute tornavano a fluire sulle spalle; e sottane prudentemente lunghe accorciarsi per mettere in mostra gambe non perfettamente diritte, nodi e varici; e certi cappellini dalle forme piú strane e grottesche; e i tacchi mobili, che or scompaiono completamente or si allungano fino all'inverosimile ; e le ciglia «a pistillo di papavero »; e ciprie di colori che non figurano pur tra quelli dell'arcobaleno; e unghie che somigliano agli artigli d'un rapace che abbia or ora dilaniata la preda... Già; perché, alla moda, usa oggi lasciar mano libera, come si suol dire, in tutti i campi; fino punto che essa sostituisce le proprie leggi a quelle dell'igiene e alle preoccupazioni per la salute. Chi non sa quante povere creature si sono gravemente ammalate, o addirittura spente, per procurarsi una «linea delicata » attraverso digiuni e cure le piú strane? Ed ora ecco che, proprio dall'America, donde ci venne la moda della donna crisi, ci viene la moda contraria: le girls che vogliono trovar marito debbono dimostrare - bilancia alla mano! - che hanno un certo peso proporzionato all'altezza... Se si chiedesse alla maggior parte delle signore in che cosa esse credono che consista l'eleganza, se ne sentirebbero di cotte e di crude...; ma nessuna, o quasi, si dimostrerebbe convinta che l'eleganza vera consiste in una « squisita semplicità ». « È cosí elegante che tutti si volgono a guardarla ». Si adduce, come prova d'eleganza, proprio un fatto che è prova del contrario. E si fa dipendere la « distinzione » dall'essere acconciate, imbellettate, addobbate in un modo piuttosto che in un altro; dall'usare o dal non usare alcune cianfrusaglie; la « distinzione », dico, che è una dote superiore, dipendente da ben altro. Chi oserebbe affermare che la popolana, giunta alla conquista del cappellino, sia piú distinta della signora autentica, che comincia a farne a meno? Ma è altro l'eleganza! Essa non può consistere nella sovrapposizione casuale, o balorda, dei dettami ultimi della moda; ma nell'adattare i medesimi ai propri caratteri somatici e psichici, all'età, alla condizione sociale: consiste, sopra tutto, nella disinvoltura, nella grazia, nel buon gusto: qualità che un po' si hanno da natura, un po' s'acquistano con l'esercizio. Senza dubbio, vi concorrono e il colore dei guanti e la forma del cappello e il nodo alla cravatta; ma non son tutto; come molte belle frasi disseminate in uno scritto non sono sufficienti a farlo dichiarare pregevole. Anzi, proprio come nei prodotti dell'ingegno, cosí nell'eleganza, è indispensabile uno «stile», una « nota personale»: la moda può e deve dare, come si suol dire, il la, ma non può né deve « uniformare ». Una signora dalla linea spiccatamente tonda e dalle curve abbondantemente pronunziate, che voglia vestire attillata; un'altra, da un bel viso di luna piena, che voglia portare il cappellino a guscio d'ovo; la sessantenne che si faccia acconciare sulla fronte una grigia frangetta a mo' di bimba - perché cosí prescrive la moda - non sono eleganti, ma goffe e ridicole. Ben se ne accorgerebbero se avessero gli occhi dietro la nuca e potessero notare gli sguardi strani e i sogghigni delle altre signore: non di rado, anche quelli dei signori uomini, pur essendo essi di manica larga, piú generosi, perché si fermano meno sui particolari. Per gli uomini, è ridicolo seguire la moda; essi, pur tenendone presenti le linee generali, debbono - nel vestire, come in tutto il resto - far prevalere il gusto personale, evitando ogni ricercatezza ed ogni effeminatezza, che sminuirebbero la loro dignità e la loro serietà. Se si sapesse come nasce la moda! Alcuni anni fa, un mio amico che vive a Parigi, un capo ameno quasi quanto me, ma fra i piú accreditati lanciatori di figurini, fece un viaggio al Madagascar e ne tomò ricco sfondato; perché, avendo caricato un piroscafo di pelli di scimmia, di cui, al Madagascar, c'era allora un'epidemia, appena a Parigi, lanciò la moda delle guarnizioni di pelle di scimmia. Poi, divertendosi un mondo, mise un allevamento di marmotte e, due anni dopo, lanciò la moda delle guarnizioni di pelle di marmotta! Ora - beato lui! - non lancia piú i figurini della moda, ma passa la sua vita fra due magnifiche ville: una al mare, al cui ingresso si vede uno scimmione imbalsamato che ride; e una in montagna, dove si è accolti da una imbalsamata marmotta in atto di canzonare. E oggi - non so se tutte le signore ne sieno a conoscenza - la pelliccia piú elegante è quella arca di Noè, fatta con ritagli di pelle d'ogni sorta; e tanto piú è elegante quanto piú è varia. Non si errerebbe affermando che la maggior parte delle donne sarebbero disperate, se le avesse fatte la natura come le concia la moda. Vero è che, nella scala zoologica, la femmina dell'uomo non è quella che ricorre al maggior numero di civetterie; ma è vero altresí che, nelle femmine degli altri animali, le civetterie sono - pare impossibile! - meno irragionevoli. La natura si corregge, ma non si altera, non si deforma: il trucco conseguirà il suo effetto soltanto a condizione che non si scopra. Vestirsi, specialmente per le signore, è un'arte, e l'arte suppone delle sfumature, una personalità: nel vestire, esse hanno una eccellente occasione di dar prova del loro gusto e di rivelare appunto la loro personalità: ed esse lo faranno soltanto a condizione che si sottraggono agli artifizi e alle esagerazioni. Quante donne non vediamo che, belle per se stesse, vestite di stoffa preziosa e di taglio perfetto, tuttavia non sono eleganti? Evidentemente, esse non sanno mettere in valore né la loro grazia, né l'eccellenza di ciò che indossano, né le cure spese per loro dall'artefice. Ciò vuol dire che l'eleganza non consiste in qualcuna di queste cose, o in tutte messe insieme: ciò vuol dire che i fattori essenziali dell'eleganza sono doti che, se si sono avute da natura, tanto meglio; diversamente, possono svilupparsi. Quando una signora indossa un vestito nuovo, un bel vestito, non deve aver l'aria, direi quasi, di essergli straniera; non deve dare l'impressione di pensare ad esso; i suoi atteggiamenti non debbono perdere la spontaneità; non deve farsi assalire da preoccupazioni e da timori che, per quanto non espressi, si notano ugualmente e contribuiscono a distruggere la bella armonia fra la persona e il suo abbigliamento, che è la nota essenziale, il fondamento della eleganza. Dicasi lo stesso per ogni altro particolare dell'acconciatura: preoccuparsi troppo della tinta delle labbra, della cipria, della espressione degli occhi, del sorriso, significa rimanere col pensiero fisso a queste cose, estranei alla conversazione, con lo spirito lontano: ogni naturalezza, ogni spontaneità è perduta! Se ciò dipende da timidezza, perchè non fare in casa l'abitudine d'indossare quel vestito, di acconciarsi in quel dato modo? In famiglia, la naturalezza e la spontaneità non sono sacrificate; le esagerazioni e le preoccupazioni sono bandite: una volta, poi, fatta l'abitudine, la spontaneità si conserva sempre e dovunque. In altre parole, bisogna, in ogni caso e sopra tutto, « essere se stessi ». Ecco ciò che, a questo proposito, è scritto nel nostro Dizionario della moda: « Personalità. - Le signore parlano spesso di personalità: le signore e anche i signori. Oggi è molto diffuso, né sempre è riprovevole, l'orgoglio per cui ciascuno mantiene vivo e palese il complesso delle sue particolari qualità, inclinazioni, preferenze; e tutte insieme costituiscono appunto la personalità. Nel campo della moda, poi, essa è la forza che presiede ad una funzione tra le piú delicate e rappresentative, vale a dire alla scelta degli abiti, essendo sempre desiderio delle signore trovare abiti che rivelino al mondo la loro personalità. Ma in che modo compiono gli abiti tale funzione? La compiono valendosi di quello che essi stessi dicono, perché ogni veste e ogni stoffa, come pure ogni cappello e ogni scarpa, dicono sempre qualche cosa, e assai chiaro è il loro discorso. Dicono quello che le signore vorrebbero che poi dicessero al mondo, quando, nel mondo, docilmente vestendole, le accompagnassero ». Si son vedute recentemente, nelle varie metropoli dei continenti, le piú straordinarie aberrazioni della moda: sulle calze femminili, uccelli, serpenti, fiori dipinti con colori «elettrici »; sui toraci maschili, lembi di caprone saldamente incollati e arricciolati « permanentemente »; agli orecchi, pesanti cerchi e catenelle con amuleti; ai polsi, massicci bracciali d'ogni materia e d'ogni foggia; sulle braccia, femminili e maschili, indelebili ghirigori mostruosi. Altro che « bizzarrie della moda »! In verità le nostre donne - sia detto a loro onore! - non soltanto non le hanno mai incoraggiate, ma cordialmente le deridono nelle rare apparizioni sui palcoscenici dei caffèconcerto . In conclusione, mettere un po' piú di buon senso nel seguire la moda non è male. Qui, come dovunque, « il troppo stroppia ». Pur volendo concedere alle nostre brave donne che uno degli scopi della loro vita - non l'unico, né il principale beninteso! - sia quello di piacere, bisogna si persuadano che il seguire servilmente la moda non è la via piú indicata per raggiungerlo. Le « novità » troppo frequenti, la ricercatezza, le eccentricità non rendono le donne eleganti, ma pretenziose o goffe; le rendono pericolose per le, forse, non pingui tasche degli eventuali futuri mariti - quindi, sa-pien-te-men-te, non ricercate, né elette - le rendono, in fine, antipatiche e insopportabili all'ingenuo già accalappiato...

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Nei casi di grande amicizia - o quando la signora ne abbia bisogno - le offre il braccio sinistro: gli ufficiali le offrono il destro quando portano la sciabola. È elegante che un ufficiale di grado piú elevato saluti per primo un suo inferiore quando quest'ultimo è accompagnato con signore. Due uomini mettono in mezzo una signora: di tre o piú uomini, si mettono in mezzo quelli piú ragguardevoli: alla destra di questi, o della signora, le persone, per cosí dire, numero due; alla sinistra quelle numero uno. Una coppia mette in mezzo una signora, o una signorina: il marito sempre alla destra della moglie, lasciando la destra a un altro. Due signorine possono mettere in mezzo un giovanotto, se c'è dimestichezza fra loro. Un giovinetto o una giovinetta vanno alla sinistra dello loro istitutrice: se sono in due, la mettono in mezzo. Si suol dire che è uno spagnolismo questo del posto: a me non pare; perché, in fondo, mira a far godere a tutti la compagnia e la conversazione della persona che si suol collocare in mezzo. Un uomo non ferma sulla via una signora che conosce; salvo casi urgenti, o che non possa incontrarla piú, o altrove. Per salutare una signora in auto, non s'introduce il capo nel finestrino. Alle signore non si dànno denari o lettere sulla via. Se, poi, è segno di dubbia educazione fissare insistentemente signore e signorine che passano, o volgersi indietro a guardarle, è indice di somma volgarità farle bersaglio di complimenti piú o meno sdolcinati e galanti. Lode incondizionata, a questo riguardo, merita l'iniziativa di alcuni Prefetti e di alcuni Questori i quali hanno energicamente affrontato l'increscioso inconveniente, sparpagliando da per tutto agenti della squadra mobile e facendo diffidare quegli stupidi elegantoni sfaccendati, detti «pappagalli della strada » - o esoticamente gagà - che si ostinano a infastidire le passanti. Molto spesso, in verità, anche le donne si volgono indietro per esaminarsi - ammirarsi o deridersi, secondo i casi; - ed è divertente vedere come rimangano male quando, voltatesi nel medesimo istante, si sorprendono a squadrarsi a vicenda. È sommamente ridicolo, per un uomo, fermarsi di fronte allo specchio di qualche mostra per compiacersi del nodo della cravatta o della piega dei calzoni. Per quanto è possibile, si deve evitar di camminare, come si suol dire, con la testa per aria; lo esige, prima di tutto, l'infernale movimento stradale moderno, che è quasi un permanente attentato alla incolumità e alla vita; e, in secondo luogo, l'obbligo di adempiere ai doveri della cortesia. Se si rimane mortificati quando si saluta uno sconosciuto scambiato per un conoscente, o gli si rivolge la parola, quando addirittura non lo si prenda sotto il braccio; e si risponde a un saluto che non era diretto a noi - il che, in fondo, non è gran male - si rimane peggio quando ci accorgiamo d'aver guardato una persona, cui eravamo stati presentati, senza vederla e senza farle un cenno di saluto. Quando le chiederemo scusa, la prossima volta che ci troveremo insieme, apprenderemo che essa aveva notato la nostra distrazione. Non è conveniente fermare sulla via amici professionisti - avvocati, ingegneri, medici, insegnanti - per consultarli intorno a cose riguardanti appunto la loro professione. Al passaggio d'un funerale, è doveroso fermarsi per salutare o cavandosi il cappello, o mettendosi sull'attenti, se si è a capo scoperto. Ugualmente, se passa la bandiera nazionale. Non diversamente, se passa una processione. Chi fosse d'altra confessione religiosa torna indietro, svolta, entra in una bottega; ma non rimane a capo coperto, quando tutti si scoprono ; se non per altro, come omaggio alla opinione altrui. È bello vedere in alcune città - a Siena, per esempio, - salutare le lettighe che passano con un malato. Non bisogna fermarsi in crocchi sulla via per discutere: i passanti son quasi come gli anelli di una catena: se ne tiri uno, vengono via tutti; se uno ne fermi tutti si arrestano. Il che accadrebbe anche se si leggessero giornali o lettere. Guardarsi dal parlare, per la via, a voce alta, o con gesti, o di cose delicate, o facendo nomi; dal bisticciarsi, per le coppie sopra tutto ; dall'indicare col dito; dal fischiare o zufolare; dal ridere sguaiatamente; dall'intavolare conversazioni con persone che sieno in finestra; dal passare davanti a persone ferme, che guardino vetrine o leggano manifesti; dal passare fra due o piú che vadano insieme. In alcuni paesi - e città! - si tenta finanche di passare fra due carabinieri di servizio, perché... porta fortuna! Se s'incontra una persona di nostra conoscenza in compagnia d'un'altra con la quale preferirebbe di non esser veduta, si passa oltre con disinvoltura come se non la si fosse notata. Se si porta l'ombrello, o il bastone guardarsi dal farlo roteare. Soltanto, poi, i venerandi pensionati di provincia fanno compiere all'ombrello l'ufficio del bastone. Su quello non ci si appoggia, passeggiando, né lo si porta, come un famoso personaggio da commedia, sotto il braccio, o in altro modo che possa dar noia a chi è al nostro fianco o ai passanti. Inoltre, per non intralciare il movimento, è doveroso andar sempre dal lato prescritto, che non è da per tutto lo stesso, specialmente nelle città dove le vie son senza marciapiede. Imbattendosi faccia a faccia con uno che non tenga la sua mano, piuttosto che fare per parecchi secondi quel grottesco va e vieni, da destra a sinistra e viceversa, con le braccia piú o meno aperte, proseguire risolutamente per la propria destra. Può darsi che si abbia bisogno di qualche indicazione o informazione: ci si rivolge garbatamente a qualche passante che si vede pratico del luogo o a una guardia - è meglio non disturbare una signora - chiedendo scusa del fastidio e ringraziando: si dà alla stessa maniera; dolenti se non siamo in grado di farlo. Se chi si rivolge a noi è uno straniero, non risparmiare anche qualche passo perché l'indicazione sia completa e precisa. Talora si formano, sulle vie e sulle piazze dei crocchi, degli assembramenti per un incidente o di fronte alla esposizione di una bottega: una signora specialmente non s'imbranca. E non si cerca in tutti i modi di passare ai primi posti, spingendo dietro gli altri, se c'è un qualsiasi pubblico avvenimento. Quando piove e noi siamo forniti d'impermeabile o d'ombrello, si lascia lo spazio piú riparato, presso i muri, ai passanti che ne sono sforniti: se s'incontra una signora amica in tali condizioni, meglio offrirle senz'altro l'ombrello che proporle di accompagnarla. Non si gettano sulla via carte strappate e né pure scatole vuote di cerini o di sigarette: se non ci sono, qua e là, lungo la via, gli speciali cestini metallici, si tiene tutto in tasca, salvo a sbarazzarsene quanto prima, e tanto meglio se in modo che ne possa usufruire la Croce Rossa. Mi si son proposti due quesiti: Possono le signore, per via, portare dei pacchetti? - Non era elegante, specialmente in alcune nostre regioni; ma, oramai, le signore hanno superato questo pregiudizio: a condizione, però, che i pacchetti, per il numero o per il peso, non diano l'idea dello sgombero. È elegante, per una signora, andare a passeggio con un cagnolino al guinzaglio? - Al guinzaglio si, non certo in quelle altre maniere in cui oltre Manica e in America - per quanto non sia altrettanto elegante fermarsi col cagnolino - lo si guardi o non lo si guardi!, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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Del resto, non c'è Paese civile il quale non abbia provvisto a proteggerla, pur negli uffici e nei laboratori, nelle sue grandi ed auguste funzioni di sposa e di madre. Anzi, non mi sembra qui fuor di luogo ricordare che, in molti Paesi, per la donna impiegata, i limiti d'età per la pensione sono inferiori a quelli dell'uomo; e che, in molti altri, soltanto le nubili possono essere impiegate: quando si sposano, debbono lasciare l'impiego, essendo inconcepibile che una donna possa, nel tempo stesso, essere buona moglie, buona madre e buona impiegata. Certo che essa non può e non deve abusare della sua qualità di donna per mancare alla puntualità, alla esattezza, alla disciplina: dal momento che si sostituisce all'uomo, è necessario si metta nelle medesime condizioni di spirito, bandendo ogni suscettibilità ed ogni pretesa; docile sempre; e pronta ad accogliere serenamente ordini e, talora, anche qualche cortese richiamo. Quindi, deferente con i superiori, i quali, in ufficio, hanno diritto al saluto; fuori dell'ufficio, salutano per primi; garbata e condiscendente con i colleghi; ma riservata, evitando ogni forma di familiarità e imponendo, col suo contegno, rispetto e stima: contegno che deve accentuarsi nel caso si veda « preferita dai superiori». È consigliabile anche una grande semplicità nell'acconciatura e nel vestiario. Trascurata, assolutamente no; ma né pur troppo elegante; perché l'eccessiva eleganza di una impiegata può nuocere alla sua reputazione. Chiunque, poi, è in un ufficio, in un laboratorio, in un'officina, deve tener presente che egli, tutti i giorni, si troverà a contatto con altri che, come lui, attendono a un lavoro. Perciò, i rapporti con i colleghi debbono essere improntati non soltanto a benevola reciproca comprensione e tolleranza, ma anche a cordialità, sí da evitare ogni ragione di equivoco e di dissenso; prestandosi anche, talora, a sostituzioni nel servizio in casi di urgenza. Nei rapporti coi superiori, deferenza ed ossequio; non scendendo mai tanto a basse adulazioni o a forme di servilità, quanto a pettegolezzi, chiacchiericci, insinuazioni. Questi sono, spesso, determinati dall'ambizione, da una specie di mania che alcuni hanno di strusciarsi ai superiori: che è da evitarsi, anche per rispetto alla propria dignità. Nei rapporti con gli inferiori, deve costantemente dominare un senso di equità che ispiri fiducia, e di benevolenza che ispiri simpatia; tenendo presente che le buone maniere e una delicata comprensione fanno ingollare anche le pillole piú amare. L'esperienza insegna che nulla giova tanto a conservare solidamente la concordia fra impiegati di un medesimo ufficio quanto la « misura » nella intimità delle relazioni: intimità che è bene evitare con i superiori, non fosse altro per non esser costretti, qualche volta, a tornare indietro. Il rispetto, infine, per tutto l'altro personale, per l'ufficio e per il pubblico impone una tenuta decorosa, senza mezze maniche, o penne sull'orecchio o occhiali sulla fronte o mani non eccessivamente pulite. E la piú grande cortesia nelle relazioni col pubblico, il quale, spesso, né sempre con ragione, è impaziente. Qualche rara volta accade di trovarsi di fronte a impiegati che parlano, rispondono, si muovono con comodo eccessivo; che pare non vedano o dimentichino che lí c'è qualcuno ad aspettare; che si direbbe quasi prendano gusto ad esasperare l'attesa impaziente del pubblico. E se vi arrischiate a cortesemente protestare, c'è il caso che vi sentiate rispondere: « Faccio già troppo per quel che mi si dà! ». Impiegati siffatti non darebbero certamente l'impressione di un popolo dinamico, che aspiri legittimamente a un maggior benessere col fare ottimo uso del tempo. Il pubblico, dal canto suo, comprendendo che il lavoro, di alcuni uffici specialmente, è noioso o complesso o estenuante, non deve esiger troppo o troppo facilmente impazientirsi o dimostrarsi intollerabile: dopo tutto, negli uffici, ci son macchine per scrivere, per calcolare, per pesare, per timbrare, ma ci sono anche « uomini»; e se, ogni tanto, ci mettessimo mentalmente nei panni di questi, finiremmo col conchiudere che, molto probabilmente, non ce la sapremmo cavare né piú presto, né meglio di loro. Per questo appunto - ossia per evitare atti di fastidio o di scortesia e perdita di tempo - è prescritto di presentarsi col denaro contato, col pacchetto pesato, con la dichiarazione scritta di che cosa precisamente, nei singoli uffici, si desidera dire, chiedere, sapere. Ma quanti, e proprio fra i piú impazienti, si uniformano a queste prescrizioni? E un altro stretto dovere del pubblico, quando si presenta in un ufficio, è quello di rispettare scrupolosamente il turno. Non è certo ben giudicato chi, mostrando o inviando la propria pomposa carta di visita, o ricorrendo ad altri sotterfugi, riesce ad ottenere trionfalmente la precedenza. Alcuni vogliono portare nella vita civile le relazioni d'ufficio: non è bello; sí che un superiore, per esempio, ricevendo in casa sua un subordinato, non rimarrà comodamente seduto e col sigaro in bocca, ma lo riceverà come riceverebbe qualsiasi altro gentiluomo.

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Chi non ha la fortuna di possedere una vettura propria profitta, quando ne abbia bisogno, di quelle, cosí dette, di piazza; le quali, per il tempo che dura la « corsa », sono come vetture private. In una vettura, l'uomo solo non siede mai a destra, perché il posto di destra dev'esser lasciato libero per qualcuno che si possa, eventualmente, invitare: può sedere a destra una signora. Se si è invitati in una vettura privata da una signora o da persona di riguardo, si va senz'altro a sedere con le spalle al conducente, se in carrozza; sullo strapuntino di sinistra, se in auto, salvo a mettersi accanto a chi ha invitato in seguito ad insistenza. L'ospite in vettura privata, a corsa finita, «si ricorderà » con discrezione dell'autista. Nell'automobile, il posto d'onore è quello in fondo, a destra, ultimo quello davanti a sinistra. Quando una signora si trovi nella propria vettura, conserva il posto d'onore; ma questo non è sempre a destra, sebbene dalla parte opposta a quella dove siede l'autista. In carrozza, i due posti di fondo son sempre riservati alle donne, anche se una è del personale della casa: il signore siede di faccia, dalla parte della mamma, della moglie o della figlia. In una vettura guidata dal proprietario, il posto dell'invitato è quello accanto a lui, per non lasciar solo il proprietario, come se fosse un autista. Quando si attraversino località incantevoli per i panorami che offrono, diventano migliori i posti d'onde si possano godere di piú gli spettacoli naturali. Quando si deve salire, se è aperto lo sportello sinistro, sale prima la persona che deve occupare il posto d'onore; se è aperto lo sportello destro, sale prima quella che deve occupare il posto a sinistra, non senza aver chiesto permesso. Quando una signora scende da una vettura, l'uomo che l'accompagna scende prima per aiutarla, offrendole l'appoggio della propria mano: dalla parte del dorso, se non v'è intimità. Se l'uomo si trova dalla parte opposta a quella d'onde la signora deve scendere, salta giú rapidamente, passa dietro alla vettura e va dall'altro lato. Nelle vetture private aperte - come quelle pubbliche - non si fuma, perché si darebbe noia agli altri con la cenere e le scintille. Nelle chiuse, e quando vi sieno signore, si fuma soltanto se autorizzati da loro; è elegante che gli uomini rimangano a capo scoperto. Nelle vetture aperte, le signore eviteranno di portare cappelli dalle tese larghe, o comunque facili ad esser rapiti dal vento, e lunghi veli svolazzanti. Di due vetture ferme, riprende per prima la marcia quella che trasporta... un carico piú prezioso.

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Non v'è obbligo di depositare il cappello e il soprabito allo spogliatoio: si deve farlo per il bastone e l'ombrello; salvo che non si abbia a disposizione un palco. Bisogna, però, cavarsi il cappello appena si entra nella sala. Per raggiungere il proprio posto, si passa dalla parte dove si disturba di meno. I « disturbati » si compiaceranno di alzarsi in piedi, specialmente se passa una signora. Quanto ai posti, se si è con signore, si lascia scegliere loro quelli preferiti; tenendo presente che i migliori sono quelli piú al centro e piú presso al corridoio; sopra tutto, quando, nei posti accanto, seggono signore: non si appoggia il capo sulla spalliera della poltrona, né si allungano le gambe sotto la poltrona davanti. Quali sono, poi, i posti d'onore in palco? Quelli davanti, si capisce: alle signore, specialmente se invitate, usa offrire, come il migliore, quello estremo, piú rivolto alla sala che al palcoscenico, salvo che, evidentemente, non si preferisca prender interesse allo spettacolo piuttosto che curiosare sugli spettatori o proporsi all'ammirazione dei medesimi. Fra amici, i posti si scambiano a turno. Da un palco all'altro non si stringe la mano, né si porge il binocolo o altro. Il binocolo non va tenuto sul davanzale; l'uomo lo mette a disposizione delle signore che sono con lui. Sul davanzale del palco non si appoggiano i gomiti, né si sporgono le mani in fuori: le braccia vanno tenute in modo da non turbare la comodità degli altri. Non s'insiste col binocolo verso un'unica direzione; per gli uomini, sarebbe anche una mancanza di riguardo verso le signore che sono con loro. Non si saluta di lontano una signora che si conosce; se mai, si va ad ossequiarla durante il prossimo intervallo. Se è vietato fumare, non si fuma: qualora fosse permesso, è bene non farlo se si è in compagnia di signore; salvo che queste non ne diano l'autorizzazione e il - non elegante - esempio. Durante gli intervalli, usa andare al fumatoio, al caffè, scambiarsi delle visite. Un uomo che ha accompagnato una signora non la lascia sola: se questa è venuta sola, non esce tranne che per andare a salutare un'amica in un palco vicino. Nei palchi non si fa piú di una visita. Un signore invitato può portare dei dolci che offrirà alla signora piú autorevole, o a una giovinetta: esse potranno offrirli agli altri, tenendo per loro quelli che avanzano. Bisogna evitare d'attirar l'attenzione degli spettatori col parlare ad alta voce, col ridere, o col fare gesti: il che devesi evitare pur durante gl'intervalli. Un contegno corretto va tenuto anche da chi si trovi ai posti piú in alto. Tutti debbono alzarsi in piedi quando squillino le note dell'inno nazionale. Si può, e si deve, mostrare d'aver capito lo spettacolo e d'averlo valutato. Rimanere impassibili non è un segno di superiorità, ma di passiva buaggine. Si applaude o si zittisce, ma senza eccessi. Le signore debbono farlo con maggiore riservatezza degli uomini. Io trovo poco dignitosi il fischio e lo schiamazzo: è già molto dimostrare la propria riprovazione col non applaudire. Se si capita accanto a un « invitato per applaudire » lasciarlo fare senza entrare in discussione. Ci si muove dal proprio posto soltanto quando il sipario è abbassato. E non ci si precipita verso l'uscita, specialmente se si è con signore; né ci si accalca allo spogliatoio. Qui, ritirando le proprie cose, si paga la quota prescritta, beninteso anche per le signore che si accompagnano, o si dà una mancia in proporzione degli oggetti depositati e del posto occupato in teatro. Una signora che si è accompagnata a teatro, specie se invitata, si riaccompagna a casa: onere, in verità non sempre gradito ai signori uomini. Se essa dispensa dal farlo, non si insisterà. Se desidera andare in vettura, si cerca questa e si paga la corsa. Se si dispone di vettura propria, salvo casi eccezionali, per i quali bisognerà scusarsi, non si manda a prenderla o a riaccompagnarla, ma si va. Una signora che s'invita da sé potrà essere dispensata dal pagare la sua quota: se lo rifacesse, insisterà per pagare. Va da sé che queste norme subiscono oggi delle profonde modificazioni - nei particolari, non nelle linee generali - perché, essendo le donne un po' da per tutto, si mettono spesso d'accordo, per esempio, con i colleghi d'ufficio; nel qual caso, si fa « alla romana ». In questo caso, specialmente, le signore e le signorine insistano per evitare ai signori uomini la noia e, talora, il supplizio dell'accompagnamento. Credano: per quanto cavallereschi essi sieno, preferirebbero pagar per loro due posti a teatro piuttosto che accompagnarle a casa. E poi, che bisogno c'è? Era doveroso al tempo dei rapimenti briganteschi o romantici, e quando, per la solitudine e per il buio delle vie, si poteva andare incontro a molestie. Ma oggi chi oserebbe dar noia a una donna che vada veramente per i fatti suoi? Senza dire che qualsiasi donna, sol con uno sguardo, può agghiacciare e far fare marcia indietro al piú intraprendente ed insistente dei seccatori. In Italia, all'uscita dal teatro, non usa accompagnare le signore al caffè o al ristorante: altrove, specialmente in Francia, è quasi di prammatica. C'è, in fine, chi, al teatro, si vergogna di farsi vedere « in alto » e preferisce non andarvi. È uno dei tanti indizi della stupidità umana; prima di tutto, perché, al teatro, si va per noi, per un nostro godimento, non per gli altri; il secondo luogo, se c'è della gente che crede di « essere onorata » da una poltrona o da un palco delle file cosí dette nobili, s'accomodi pure; tanto piú se la sua borsa non ne soffre: ma si può anche « onorare » una modesta sedia, o un palco dalla terza fila in su. È forse una colpa, per le persone intelligenti ed oneste, esser povere?

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Essendo, poi, impossibile, o quasi, la conversazione, a causa del frastuono dei motori, chi abbia bisogno di distrarsi porti con sé qualcosa di particolarmente interessante da leggere. E se dovessero verificarsi inconvenienti di stomaco, tener presenti le raccomandazioni per i viaggi per mare, servendosi, secondo le prescrizioni, dello speciale ricettacolo (col c, non col g!).

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Quanto all'equipaggiamento, prendere il meno possibile, ma bene scelto, sí che si abbia a portata di mano quanto può occorrere per le gare, per l'igiene, per i piccoli infortuni d'ogni genere. Le donne indossano la medesima tenuta degli uomini, aggiungendo qualcosina che sia come il segno di una sana e gioiosa femminilità. Se non si va in gita, ma per fermarsi qualche tempo in montagna, l'equipaggiamento è piú complicato, perché, negli alberghi di montagna, d'inverno come d'estate, la vita elegante ha molte esigenze. Altre importanti manifestazioni sportive sono il gioco del pallone, della pallacanestro, della palla a calcio, della lotta, del croquet, del golf, del polo, ecc., qual piú qual meno di uso o di moda nei vari Paesi; e ci sono, poi, il ciclismo, l'equitazione, la caccia, la scherma...: basta qui averle ricordate, e, sopra tutto, aver raccomandato che né la passione o la foga del gioco, né la brama di vincere possono autorizzare o giustificare la benché minima infrazione alle leggi della cortesia. Che anzi, nessuna occasione piú delicata di questa, per dimostrare - o col vestiario appropriato, o con la squisitezza delle forme, o col modo di trattare gli avversari - la propria perfetta educazione, la propria signorilità.

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E mi piace ricordare qui, a onore e gloria del nostro popolo, alcune nobili delicatissime usanze: in qualche paese dell'Abruzzo, quando è morto un contadino che abbia lasciato dei figli o la moglie, al tempo della maturazione, si formano delle squadre volontarie di mietitori, e provvedono a raccogliere la messe degli orfani e delle vedove, prima della propria. In alcuni paesi della Campania, siccome il fuoco in casa rappresenta la gioia, e si pensa che, per la morte d'un familiare, non si debba accendere il fuoco, tutti gli amici provvedono a mandare quel che può occorrere per il nutrimento della famiglia, recandosi essi stessi a consumare insieme i pasti. Magnifiche usanze che, purtroppo, vanno scomparendo ; mentre sopravvivono i lunghi ragnateli di crespo, ai quali, come ho detto, non sempre corrispondono i veli del cuore.

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Ciascuno, nel venire a contatto con la società, prima ancora di esigere il rispetto dagli altri, deve sentire il rispetto per se stesso: è ben difficile cogliere in fallo chi abbia sviluppato, educato, vivo questo sentimento: perché egli, prima di parlare o di agire, si chiede se quel che è per dire o per fare non sia in qualche modo lesivo della propria dignità o della dignità altrui. Mentre, poi, c'è un grado di dignità corrispondente, per cosí dire, ai vari gradi sociali, c'è una dignità che è comune a tutti, una dignità umana; e primissimo dovere della persona bene educata è di rispettarla in ognuno: il generale nel soldato, il ministro nell'usciere, il padrone nel servitore, l'insegnante nell'alunno, il passante in colui cui fa l'elemosina. Il peggior modo di qualificare una persona è dir di lei che « ha perduto ogni senso di dignità ». Dal momento, però, che la dignità è una virtú, non bisogna esagerare fino al punto di renderla suscettibilissima, trasformandola in « orgoglio ». L'orgoglio è molto sensibile; e derivano dalle offese ad esso - vere o presunte - le cosí dette « partite d'onore ». Fortunatamente, queste, oramai, non hanno più, fra noi, il loro epilogo sul terreno, ossia in quella barbarica usanza che era il duello. L'onore è qualcosa di troppo sacro perché si possa, quando si è gentiluomini, compromettere con leggerezza quello altrui, o vedere con leggerezza compromesso il proprio. Ciò che piú facilmente - e piú frequentemente - fa trascurare la dignità è l'eccessivo attaccamento al lucro, all'interesse. Questo attaccamento è, per se stesso, la negazione di ogni dignità; perché acceca fino al punto da spingere a dimenticare ogni senso di signorilità, di generosità, di decoro, nel parlare, nel vestire, nell'agire. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? Quanta povertà dignitosa, e quanta indecorosa ed esosa e spregevole ricchezza! L'avaro non può avere il senso della dignità, perché egli ignora che la ricchezza è un mezzo, non un fine; perché egli non capisce quanto meglio sia dare che chiedere; che la piú grande soddisfazione della vita è quella di dare, dare sempre, dare con gioia. Noi possediamo ciò che abbiamo donato: hilarem datorem diligit Deus, disse San Paolo. E, con l'avidità, con la taccagneria, l'ambizione. Anche questa mal si concilia con la dignità; perché l'uomo ambizioso, posseduto dalla febbre di dominare sui suoi simili, non guarda a mezzi, pur di « arrivare »; ed è costretto a transazioni frequenti con la propria dignità oltre che con le proprie convinzioni e con la propria coscienza - dovendo blandire, adulare e, non di rado, umiliarsi. « Transigere »: « la grande parola, che sembra il superlativo della prudenza, ed è quasi sempre il superlativo della viltà ». In fondo, l'avarizia e l'ambizione sono due aspetti dell'egoismo - che è la piú abietta, la piú brutale delle passioni umane - e, come tale, inconciliabile con la vera, con la grande signorilità. E c'è, in fine, la paura: trista parola e tristissimo sentimento, diffuso tra noi specialmente dal defunto regime, per il quale, sopraffatti dall'incubo di qualche male che ci possa capitare, si dimentica la propria personalità, si calpesta il proprio decoro e ci si rende schiavi di chi, in un modo o in un altro, ha saputo far nascere in noi quell'incubo. Parola e sentimento ignoti all'uomo « di carattere », all'Uomo, cioè, veramente tale, nel significato piú alto e piú nobile della parola.

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Se l'Esercito difende la Patria, quando questa ne abbia bisogno, la palestra in cui si formano e l'esercito armato e l'esercito civile - la Nazione, in una parola, tutta quanta - è la scuola. I soldati e i cittadini sono quali la scuola li fa! Di modo che la scuola è la funzione fondamentale di un popolo civile e che voglia guardare sicuro davanti a sé: dunque, il campo nel quale piú profondamente si deve incidere. Le norme del vivere civile non rappresentano ancora una materia specifica d'insegnamento, come già in alcuni Paesi - in Inghilterra, per esempio, dove è istituita anche una cattedra universitaria; - ma i docenti di ogni ordine e grado, che sono i funzionari dello Stato piú vicini al popolo, sanno che nessuno piú efficacemente di loro può inculcarle nelle nuove generazioni e, attraverso queste, nelle famiglie, nel popolo, in questo nostro popolo, esuberante piú d'ogni altro di viva cordialità, ma ancora non troppo esperto della « forma », di quella italiana specialmente; mentre, poi, si giudica da essa del grado di civiltà da un popolo raggiunto. Il luogo in cui la convivenza cameratesca diventa un grande problema è la scuola: qui essa ripone in termini nuovi uno dei temi fondamentali della pedagogia, e precisamente quello dei rapporti fra autorità e libertà. La pedagogia liberale, facendo scempio della saggezza dei suoi classici, come il Locke e il Rousseau, aveva finito per travasare tutta l'autorità nella libertà, e praticamente aveva esaltato il gusto romantico del fanciullo senza legge: il che si vede principalmente nella letteratura infantile che aveva scoperto « il monello », come il tipo della libertà naturale, terrore dei maestri, dei genitori, degli amici. Ora il fanciullo italiano è salvato da tale contagio, e risolve il rapporto con la semplice e composta ambizione di convivere col maestro in una passione comune; passione la scuola, passione l'avvenire della Patria. Ma in tale convivenza la legge del dovere si fa sentire, come, in un coro, la voce dominante.

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A una signora che, per la sua famiglia, abbia un titolo piú alto di quello del marito, si dà il titolo del marito; e se questo non ne ha alcuno, non le si dà alcun titolo. Quando poi, davanti al titolo, si mette il « signore »? In verità, l'indole stessa, il genio della nostra lingua comportano tale uso meno frequentemente che la lingua francese, per es., l'inglese, la tedesca: il monsieur, il mister, l'Herr si adoperano molto piú spesso che, da noi, il « signore »: questo ha un non so che di troppo umile, e quasi di servile. E, però, obbligatorio per gl'inferiori parlando ai loro superiori diretti e a quelli, in genere, con cui abbiano relazioni di semplice conoscenza: Signor Direttore, Signor Capo, Signor Ministro; è bello metterlo davanti agli alti gradi dell'Armata: Signor Ammiraglio, Signor Generale: come davanti al titolo nobiliare, rivolgendosi a signore: Signora Contessa, Signora Marchesa o a titolati anziani: Signor Duca: si tralascia senz'altro, parlando a titolati piú o meno coetanei, specialmente in un salotto.

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D'onde la necessità assoluta di sottostare a una regola, di ubbidire a una disciplina, di conformarsi, cioè, a tutto quello che esiste al mondo, perché nulla esiste al mondo che non abbia una sua legge e ad essa non ubbidisca. Chi si guardi intorno con occhio sapiente osserva l'ordine e l'armonia da per tutto; e ordine e armonia significano disciplina. Nulla è impossibile, nessuna mèta è irraggiungibile per l'uomo disciplinato; mentre tutto è incerto, tutto in balía del caso per l'uomo che non abbia saputo o voluto disciplinarsi. Ciò premesso, ne consegue che la disciplina non è una norma astratta, fuori della vita; ma quasi una linea di condotta perfettamente e costantemente aderente alla vita; una regola che non è fuori di noi, ma deve essere un nostro proposito fermo; anzi, piú che proposito, un sentimento profondo, che domini ogni nostro atto, si sia o non si sia osservati, ci sia o non ci sia una sanzione. Diversamente, la disciplina sarebbe null'altro che finzione, contraffazione, ipocrisia. Né essa si discute: è un principio che obbliga tutti; e tutti ugualmente; e da chiunque rappresentato: « è cosi, perché è cosí»; « questo si fa o non si fa, perché si deve o non si deve fare! ». La vita interna. È regolata, si può dire, ora per ora, e quasi minuto per minuto. C'è il tempo fissato per il riposo, per lo studio, per la ricreazione, e a nessuno dev'esser lecito protrarlo o accorciarlo secondo il proprio gusto: si pensi a quel che accadrebbe, se ciascuno facesse a suo piacere! Quindi, i vari segnali obbligano tutti, e immediatamente; l'ubbidienza « immediata » ai segnali è il fondamento della disciplina interna ; e non della interna soltanto, ma anche della interiore. È assolutamente errata l'osservazione che questa violenza fatta alla volontà dà poco buoni risultati, perché impone lo studio quando si preferisce la ricreazione, e il riposo quando si preferirebbe lo studio. Si confonde la « violenza » con l'« educazione » della volontà; educazione che, come ho detto, è la base di ogni successo e di ogni benessere della vita. E poi, sarebbe in parte vera, quando si trattasse di volontà consapevole, non di volontà giovanile, quasi ancora istintiva, la quale si capisce che preferirebbe il gioco allo studio, il letto alla scuola. Il convittore deve, dunque, tener presente che, mentre gli altri giovani della sua età sono educati in famiglia - in una società, cioè, molto ristretta - egli viene educato - e, a mio giudizio, per sua fortuna - in una società piú ampia, dove piú presto si sviluppano e si apprendono le nozioni di dovere e di diritto; dove non vi sono le condiscendenze parentali, che talora guastano l'opera educativa; dove, in fine, si sviluppa piú presto il senso della responsabilità - che è il piú grave e il piú importante della vita - essendo affidato al contegno del convittore il prestigio, la dignità, il buon nome non soltanto suo e della sua famiglia, ma anche della istituzione a cui egli appartiene. Pertanto, le norme della cortesia avanti esposte valgono per lui come per tutti; però s'impongono, per cosí dire, al convittore pin strettamente che agli altri. Un giovinetto che vada in giro con le scarpe polverose, con la giacca frittellosa, con dei bottoni pendenti o addirittura mancanti, può anche non esser notato o, al piú al piú, sarà sfavorevolmente giudicato, per quanto sconosciuto; se nelle medesime condizioni si trovasse un convittore, l'identificazione è presto fatta; e il nostro prossimo - disposto, per lo piú, a sentenziare all'ingrosso e poco benevolmente - da un convittore disordinato, giudica male il convitto; e il discredito ricade fatalmente dal convitto su tutti i convittori. Io conosco tanti i quali, pur alla distanza di decenni, si vantano d'essere stati educati in questo o in quel convitto: in convitti si capisce, che godevano e godono eccellente reputazione. Quindi, prima dote di un buon convittore dev'essere l'ordine; e ripeto qui che l'ordine non riguarda soltanto l'esteriore, ma tutte le nostre attività, tutti i nostri aspetti, dai piú effimeri ed apparenti ai piú spirituali e profondi: l'ordine, in una parola, è il primo passo per la educazione della volontà. Osservando come un convittore lascia il suo posto nel dormitorio o nello studio, come lascia la cameretta, come cura la tenuta, come sta a scuola, come partecipa ai giochi, si nota subito se egli è « ordinato ». È opportuno scendere a qualche particolare: Nel dormitorio, si rimane solamente nelle ore destinate al sonno, salvo che non sia altrimenti stabilito. Durante la notte, non si fanno cose che possano, comunque, disturbare il riposo degli altri. Le operazioni dello svestirsi, del vestirsi, della pulizia vanno eseguite con decenza e con sveltezza; beninteso che la sveltezza non deve giustificare la benché minima trascuratezza. La cameretta va tenuta pulita e ordinata, con ogni cosa al suo posto. Non si ricevono compagni nelle ore, o nelle maniere vietate; né vi si fa qualsiasi altra cosa non consentita dal regolamento interno. Non si fuma; né si tengono cose mangerecce che emanino odori sgradevoli, vini o liquori. È anche prudente non prepararsi il caffè con le enormi macchine a spirito, sia per lo sgradevole odore che questo lascia, sia per i pericoli che tali macchine presentano. Alla preghiera del mattino e della sera, si partecipa con la massima serietà; e con serietà non minore si partecipa al rito dell' alzabandiera. È il modo migliore di cominciar la propria giornata questo d'innalzare il pensiero a Dio e alla Patria. E si tenga presente che, presso alcuni popoli - l'americano, per esempio - piú grave castigo che si possa infliggere a un convittore o a uno scolaro è quello di escluderlo dal saluto collettivo alla bandiera! A studio: ci sono, si sa, quelli che studiano di piú e quelli che studiano di meno: quelli che evitano ogni distrazione, e quelli per i quali ogni occasione è buona per distrarsi. I primi hanno diritto a non essere in alcun modo disturbati; mentre il dovere dello studio dovrebbe esser sentito da tutti indistintamente. Studiar poco significa far brutta figura a scuola e in convitto; significa procurar noie - e dolore - alle famiglie, ai superiori e a se stessi; significa, quindi, scarsa sensibilità, scarso amor proprio. E che di buono si può attendere da un giovinetto che non abbia « amor proprio »? I convittori poco diligenti pensano mai alla vergogna, quasi alla tragedia e al lutto, del loro ritorno in famiglia: ritorno che dovrebbe, invece, essere una gioia per tutti? Anche i fratelli, anche le sorelline, che aspettano a braccia aperte chi ritorna vittorioso esprimono, con la loro accoglienza fredda, il proprio risentimento per l'ingratitudine dimostrata verso i genitori, per il dolore loro procurato, per le piccole bugie che si dovran dire, arrossendo, ai parenti e agli amici. E le vacanze? Si aspettano per lunghi dieci mesi; e poi quei giorni che sarebber dovuti essere di spensieratezza e di svago si convertiranno in giorni di preoccupazione, di amarezza, di tormento. C'è, è vero, chi non disturba gli altri durante le ore di studio perché dorme, o legge libri di viaggi e di avventure; ma costoro non sono meno riprovevoli; appunto perché dormono o leggono, invece di studiare; ossia perché non compiono il loro dovere e ingannano i genitori, i superiori e se stessi; se stessi, sopra tutto. Prima, però, di denunziare i disturbatori, è bene avvertirli e riavvertirli amichevolmente. Il posto a studio dev'esser lasciato in ordine, come quello del dormitorio, come la cameretta: al suo posto, e sempre al medesimo posto, ogni libro, ogni quaderno, ogni oggetto da scrittoio. È il solo modo di non perder tempo per cercar questo e per cercar quell'altro, e di ubbidire prontamente ai segnali. Al refettorio: che si vada a tavola con eccellente appetito è, senza dubbio, ottima cosa; ma cosa non altrettanto ottima è lanciarsi come lupi sulla preda, dimenticando ogni regola fondamentale di buona educazione. È, anche qui, mancanza di amor proprio costringere il superiore presente a ricordare le norme del ben stare a tavola. A chi può far piacere questo? Perciò, è indispensabile tener presenti le norme indicate, e attenervisi scrupolosamente. C'e anche da fare qualche raccomandazione in piú: siccome le tavole sono lunghe, e, spesso, accostate alle pareti, non precipitarsi al proprio posto, ma attendere che sieno prima entrati coloro che stanno dalla parte opposta a quella d'onde si entra. Se si legge qualche cosa, non disturbare; evitando sopra tutto, e in ogni, caso, di produrre, con i piatti o con la posata, quel frastuono che è caratteristico delle osterie d'infimo ordine. Poiché i commensali sono numerosi e gli ambienti non sempre vasti, è assolutamente necessario parlare sottovoce e non produrre rumore con le sedie, sia nel sedere a tavola, sia nell'alzarsi. Se si va a tavola con la tenuta di parata, e la minestra è brodosa, è lecito - ma soltanto eccezionalmente e ai piú piccini - di fermare il tovagliolo al colletto o fra i bottoni della giubba. Per qualsiasi reclamo non brontolare contro i servitori, né richiamare l'attenzione dei compagni, o fare con loro sfavorevoli apprezzamenti, ma - a tempo e luogo opportuni - esporre le proprie ragioni ai superiori. A ricreazione: il moto, la gioia piacciono a tutti; per la gioventú, sono l'espressione della vita: chi, in questa bella e cara età, non « esplodesse » dimostrerebbe di essere ammalato nell'organismo e nell'anima. Ma, per carità, che non si somigli a tanti veltri che escan di catena! Est modus in rebus: ci vuole una misura in tutto; anche nel passare dalla noia e dalla fatica dello studio, al sollievo e al giubilo della ricreazione. Se qualcuno vuol continuare a studiare non deve essere molestato o deriso dagli altri. Come egli non può pretendere che si parli sottovoce o che non si suoni il grammofono, cosí gli altri debbono rispettare il suo desiderio. Quante volte si suol ripetere, con tono canzonatorio, la parola sgobbone! Si è illogici e crudeli senza, forse, saperlo; perché, per lo piú, si dà quell'epiteto a compagni di volontà tenace che intendono di riuscire ad ogni costo, o a compagni che non hanno da spendere per « sussidiari » o per ripetizioni. Nei giochi, il convittore deve dimostrarsi di modi particolarmente signorili, evitando ogni atto di volgarità, di violenza, di frode, di sopraffazione: non deve deridere i compagni che hanno perduto; e, se gli si fa qualche scherzo, bisogna che ci sappia stare, che non si dimostri permaloso, quando, beninteso, lo scherzo sia sobrio e non offensivo; quando, in altri termini, sia contenuto entro certi limiti. Chi non desidera che si scherzi con lui non deve scherzare con gli altri. Arrangiarsi: è una brutta parola, venutaci dal francese, e che sa di caserma. Nei convitti, la si ripete piuttosto spesso e, purtroppo, la si pratica anche. Essa vuol dire « provvedere nel modo piú spiccio e piú comodo ai propri casi ». E scomparso un libro dallo scaffalino? Si provvede subito, prendendo lo stesso libro a un altro: si è improvvisamente spezzata una stringa? La si sostituisce con una portata via a un compagno. Per l'alta considerazione in cui ho i convitti, mi limito ad accennare al libro e alla stringsa; ma, talora, l'arrangiarsi va al di là delle piccole cose. Or mi domando come si faccia a non capire che, se l'arrangiarsi è uno scherzo, uno scherzo di pessimo genere, assolutamente da evitarsi; e, se non è uno scherzo, è qualcosa che si avvicina di molto al furto. Francamente, il convittore bene educato non si arrangia; e se si accorge che altri lo fanno sistematicamente a suo danno, deve denunziare il fatto ai superiori. Per i lestofanti ci son altri convitti! E, sia detto una volta per sempre, in questo caso, come in altri di qualche gravità, non si tratta di « far la spia », ma di salvare le proprie cose dll'istinto razziatore di altri; si tratta di salvare il buon nome del convitto: non farlo significherebbe complicità. Al piú al piú, per eccesso di generosità, si può denunziare il fatto, tacendo il nome degli arrangiatori sistematici, lasciando ai superiori la cura di identificarli. A ripetizione: questo delle cosí dette ripetizioni è divenuto, un bisogno quasi generale. E non se ne capisce la ragione; perché, fino a qualche decennio addietro - e quando i programmi erano piú vasti e piú complessi - la scuola bastava a tutti, e si ricorreva alle lezioni private soltanto nel caso di scarsa intelligenza o quando si voleva guadagnare qualche anno. Ci pensino, dunque, i convittori, e facciano del loro meglio per risparmiare questa spesa alle famiglie. A ogni modo, se lo credono necessario o opportuno, prendano pure lezioni; però tengano presente che esse debbono servire a colmare eventuali lacune, a completare il lavoro scolastico; in nessun caso, si deve ricorrere all'insegnante privato per farsi preparare da lui i cómpiti di scuola. Se cosí si facesse, il maggior lavoro e la maggiore spesa, invece di giovare, si convertirebbe in danno, perché si eviterebbe lo sforzo, che è il piú sicuro e piú efficace maestro dell'apprendimento. E si tenga altresí presente che l'insegnante privato è un insegnante come tutti gli altri, a cui si deve il massimo rispetto, e che non si può far venire o non venire secondo che piaccia o non piaccia, secondo che se n'abbia o non se n'abbia bisogno. La corrispondenza: è bene sia ridotta al minimo indispensabile. È doveroso scrivere almeno una volta per settimana alla famiglia. Si dice sempre la verità; si conferma che si sta di buon animo in convitto o, per lo meno, che ci si sta non troppo malvolentieri; non si fanno apprezzamenti poco benevoli sul trattamento o sui superiori, dando, come si suol dire, corpo alle ombre, ossia presentando come andamento generale quel che può essere stato uno sporadico e trascurabile caso particolare; si comunicano le piccole soddisfazioni ed anche le piccole sconfitte; si fa cenno dei timori, delle speranze e, sopra tutto, dei buoni propositi. Le lettere si fanno partire nei modi prescritti: se si ricorre ad altri mezzi, vuol dire che si ha qualcosa da nascondere; qualcosa, cioè, che non risponde a verità o che non è consentita dalle norme disciplinari. La vita esterna. Mi par quasi superfluo ripetere che, quando si è fuori, non si è il signorino Tizio o il signorino Caio, ma si è « un convittore», « uno di questo o quel convitto », per cui, qualsiasi cosa si faccia, di bene o di male, non ridonda tanto a merito o demerito della persona, quanto a merito o demerito della qualità specifica che si riveste, della istituzione di cui si fa parte. A scuola: il convittore dev'esser modello di diligenza, di contegno, di ordine. Se, per nessun alunno, è scusabile che gli manchi un libro, un quaderno, un foglio, la penna, lo è ancor meno per il convittore ; perché il convittore, anche in questo, si deve sorvegliare ed esaminare scrupolosamente prima di avviarsi a scuola. E sono riprovevolissimi quei convittori che « si rifanno » nella scuola del silenzio e della disciplina dovuti mantenere in convitto; com'è colpa gravissima obbligare un insegnante o un Preside a lamentarsi col Rettore della negligenza, del contegno poco corretto, del disordine dei dipendenti. Con i compagni esterni, i rapporti di buon cameratismo, e non oltre: se la classe è mista, uno squisito tratto cavalleresco con l'elemento femminile, ma nessuna smanceria o cascamortaggine. E, quando le lezioni sono finite, poiché l'istitutore è già lí ad attendere, allontanarsi sollecitamente e ordinatamente con lui, senza indugiarsi, con futili pretesti, per i corridoi, e magari a bocca aperta, per veder passare « le ragazze ». È bene non dimenticar mai che altro è « affermare - ed orgogliosamente anche! - di appartenere a un convitto » ed altro è « far la figura del collegiale ». A passeggio. Mai si è cosí sotto gli sguardi di tutti come quando si è a passeggio. Fa piacere all'occhio e allo spirito vedere dei giovinetti eleganti, che incedano marzialmente, composti e disciplinati, senza la piú piccola sguaiataggine nella voce, nel riso, nel gesto; senza dar noia ai passanti; senza volger il capo in giro, come un arcolaio, quasi alla ricerca ansiosa di una persona che interessi. Specialmente per le vie della città, né pur ci dovrebbe essere bisogno della vigilanza dell'istitutore, poiché ogni convittore dovrebbe esser animato da tale un senso di responsabilità da non permettersi cosa alcuna che possa, in qualsiasi modo, compromettere la reputazione dell'Istituto. Al teatro, al cinema, ai trattenimenti pubblici: la solita raccomandazione: presentarsi irreprensibilmente; e sempre tenere un contegno irreprensibile; come se esclusivamente dal contegno proprio dipendessero il buon nome e il prestigio del convitto. Da osservare in piú che, ai convittori in tenuta di parata e « in corpo », non sono consentite alcune piccole libertà permesse ai singoli: come lo scegliersi o il cambiar posto; il portare o il cavarsi i guanti, ecc.: per questo, attenersi scrupolosamente agli ordini ricevuti; anche per risparmiare al superiore presente il poco gradito compito di dover fare dei richiami in pubblico. Alle gare: signorilità nei modi, lealtà nello spirito; e impegnarsi a fondo perché trionfi il gruppo al quale si appartiene. Qui, come altrove, ora come sempre, esser animato da quello che, in gergo militare, si chiama « spirito di corpo ». I superiori: sono quelli che, implicitamente, hanno ricevuto dalle famiglie il delicato incarico di sostituirle nella educazione dei figlioli. Quando s'è detto questo, s'è detto tutto; e il convittore che questo comprende - e sente- sa anche quale debba costantemente essere il suo contegno verso di loro. Tale contegno si compendia in poche parole: rispetto assoluto ; ubbidienza incondizionata ; fiducia illimitata! Il buon convittore dimostra il suo rispetto per i superiori non in presenza loro e nelle forme soltanto. Parla con loro modestamente, stando composto, senza arroganza o presunzione; s'interessa vivamente a ciò che essi dicono o raccomandano; non risponde alzando le spalle ; non ne sparla, né si associa a chi ne sparla; se si vede trattato da loro con familiarità, non ne abusa; ubbidisce ed eseguisce anche quando par errato o eccessivo ciò che gli si chiede; subisce rimproveri e punizioni, anche se sembrano ingiusti; farà valer dopo le sue ragioni, se ne ha. In una parola, s'adopera piú e meglio che può per guadagnarsi la loro stima e la loro benevolenza. Il Rettore: è il Capo del convitto; colui che provvede e sovraintende a tutto ; colui che risponde di tutto, e su cui, di conseguenza, gravano tutte le responsabilità. Egli vuol bene ai convittori come a figlioli proprii, s'interessa piú che può alla loro salute, e meglio che può ai loro studi, alla loro formazione, a gettar le basi del loro avvenire. Comprende i disagi e i piccoli sacrifizi di ciascuno e ricorre a ogni mezzo e a ogni modo per attenuarli, per tener su lo spirito, per incoraggiare. E se, talora, par ch'egli prenda cura di alcuni piú che di altri, ciò dipende dal fatto che quelli hanno saputo, come poc'anzi ho detto, guadagnarsi piú degli altri la sua stima e la sua benevolenza, o perché dimostrano di aver maggior bisogno di sprone e di aiuto. Il che accade dovunque: ed è spiegabilissimo; ed è giusto - e doveroso - che, da un superiore, non si trattino alla stessa maniera quelli che fanno bene e quelli che fanno male. Invece, dunque, di mormorare, come spesso accade, meglio è mettersi in condizioni di farsi apprezzare e benvolere. Qualche volta - per fortuna, raramente! - il Rettore è costretto a mostrarsi un po' « duro ». È costretto, dico; perché ha anche lui una norma a cui sottostare, e piú rigorosa di quelle dei convittori; perché la vita e la dignità dell'istituto sono al di sopra del piccolo e povero interesse individuale e privato. Se nota, per es., una... pecora zoppa, egli, in quanto uomo, può anche compatirla; ma, come capo di un Istituto di educazione, deve energicamente cercar di guarirla ; e se nota un ramo insensibile e morto, deve inesorabilmente tagliarlo. Ciò può anche dispiacergli; anzi, si può esser sicuri che gli dispiace senz'altro; però, ripeto, nell'interesse della collettività, è suo stretto dovere farlo. Il Rettore, dunque, vive della vita di tutti, e singoli, i convittori - è quella la sua famiglia: - egli è accanto a loro, in mezzo a loro, anche quando ne è lontano; il suo spirito, vigilante e paterno, si sente da per tutto, a tutte le ore. Dato ciò, come non aver fiducia in lui, non rispettarlo, non volergli bene? Un convittore mi confessava candidamente d'aver conosciuto parecchi Rettori, ma nessuno piú severo del babbo. Il Vice-Rettore. Poiché il Rettore deve attendere a tutte le esigenze della vita del convitto, è giusto che, in qualcuna di esse, sia sostituito da un Vice-Rettore, il quale cura, specialmente, l'andamento disciplinare. E siccome c'è, anche nei convitti, una via gerarchica, il Vice-Rettore rappresenta, per cosí dire, l'ultimo gradino per il quale si accede al Rettore. È logico che questi sia informato di tutto; ma non sarebbe altrettanto logico che i convittori si presentassero a lui direttamente, facendogli affluire tutte quelle minuscole beghe che, nella vita collegiale, non mancano mai. Il Vice-Rettore esamina e vaglia e, quando lo creda opportuno, mette i subordinati a contatto diretto col suo superiore. Di modo che, dal momento che egli sovraintende immediatamente all'andamento disciplinare, e dal momento che questo è l'aspetto piú importante della vita collegiale, ognun vede quanto sieno laboriosi, ardui e delicati il suo compito e il suo ufficio. E chiunque tenti, in qualsiasi maniera, di sottrarsi alla disciplina tenga presente che gli procura un grande dispiacere, obbligandolo a ricorrere a sanzioni disciplinari. Gl'Istitutori: sono i piú vicini ai convittori: coloro che, per primi e meglio, ne conoscono i desideri, i bisogni, le ansie; coloro a cui piú spesso si ricorre, per chiarimenti ed aiuti; coloro che ne condividono la vita di tutte le ore. Le relazioni fra convittori ed Istitutori dovrebbero esser quali tra fratelli minori e maggiori; senza eccessive pretese o sciocche albagie da una parte; senza « arie », o colpevoli condiscendenze, dall'altra. Gli uni e gli altri dovrebbero essere legati da un sentimento di mutua benevola comprensione, basata sulla stima e sulla cortesia reciproca. Se non deve trascendere l'Istitutore, ancor meno deve trascendere il convittore. E non sono nel giusto quei convittori che giudicano buoni gl'istitutori solamente se e quando si rendono quasi complici delle loro eventuali marachelle, e permettono eccessiva intimità e libertà: familiarità, sí; ma, ripeto, non troppa, per non esser costretti, da un momento all'altro, a tirarsi indietro e far dare un giudizio poco lusinghiero sul modo di assolvere il proprio compito. I compagni. I compagni di convitto si ricordano per tutta la vita. Quando questa ci avrà avvolti nelle sue spire, ogni tanto, nelle piccole soste della varia attività quotidiana, affiora dal cumulo delle memorie qualche figura che visse con noi negli anni piú belli della prima giovinezza. E a chi non piacerebbe di esser ricordato dai compagni avvolto in una luce di cortesia, di amicizia, di fratellanza? Scaturisce da questa considerazione il modo di comportarsi del convittore con i compagni. Essere animato verso tutti da un sincero spirito di solidarietà e di cameratismo, che escluda ogni invidia e ogni gelosia: familiarità con pochissimi. Dimostrare della gratitudine per chi gli usi cortesia o, nel suo interesse, lo abbia trattenuto da qualche passo sbagliato, o lo consigli intorno a suoi eventuali difetti. Non essere avaro nel far piccoli favori, specialmente in cose che riguardano la scuola. Passar sopra a delle piccole offese, ed evitare ogni astio o desiderio di vendetta. Non millantare ricchezze, nobiltà, o altro, sopra tutto con chi non si trovi nelle medesime condizioni. Evitare lo stupido vezzo dei soprannomi. Non rivolgere mai la parola a chicchessia in dialetto, sforzandosi piú ch'è possibile di parlare l'italiano correttamente e con accento puro, specialmente quando questa è una delle ragioni principali per cui è stato messo in convitto. Non fare discorsi volgari, né dello spirito a spese di chicchessia. Non burlare i compagni per il paese d'onde provengono; per eventuali irregolarità nella loro famiglia; per la loro religione; per il loro modo di parlare; per qualche loro difetto fisico; per i natali poco nobili; per la poca intelligenza. In una parola, trattare tutti come si vorrebbe esser trattati da loro. È prudente, in fine, non invitare i compagni a casa propria per le vacanze, senza il permesso dei genitori; e non accettare con facilità e leggerezza inviti del genere. Gl' inferiori. Il convittore bene educato non tratta dall'alto al basso il personale di servizio, né usa con essa modi arroganti o poco cortesi. La cortesia autentica non si smentisce mai; anzi, s'afferma e spicca di piú specialmente nelle relazioni con gl'inferiori; perché, dopo tutto, non c'è merito ad esser cortesi con i superiori, e né pur con gli uguali, che, provocati, ci potrebbero energicamente rintuzzare. Qui, oltre alle raccomandazioni già fatte, mi sembra opportune ricordare al convittore ch'egli si deve guardare dall'indurre i servitori a trasgredire i loro doveri, scendendo con loro a pettegolezzi, o incaricandoli di commissioni che si vogliono sottrarre al controllo. Deve guardarsene, anche perché il servitore compiacente potrebbe esser sorpreso e vedersi applicare quelle multe, o addirittura potrebb'esser licenziato, con non grande soddisfazione di chi ne sarebbe stata la causa. CONCHIUDENDO: Se i giovinetti « sapranno » stare in convitto, ricorderanno sempre con piacere questo periodo della loro vita; e si accorgeranno che, nel convitto appunto, essi ricevettero la buona semente che, fruttificando, avrà fatto di loro degli ottimi cittadini.

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I Greci fecero una divinità del Silenzio; e le donne son troppo intuitive per non comprendere il valore di questa virtú, per non capire quanto ciò che non si dice abbia piú profondità, piú risonanza di quel che non esprimano le parole con i loro contorni limitati e precisi. Quale che sia il nostro sentimento, il silenzio è un gran mezzo di espressione: in ogni caso, è meglio tacere che parlare, come si suol dire, a vanvera. Saper restare muti è anche una delle piú sicure e piú belle prove d'intelligenza. Ma « sapere »; ossia servirsi del silenzio come di una dote superiore: la dote di chi ha ben compreso quanto di vero e quanto di falso, secondo le circostanze, ci sia nei famosi proverbi: Chi tace acconsente - Il silenzio è d'oro. - Un bel tacer non fu mai scritto. - Ex abundantia cordis os loquitur. Purtroppo, se questa virtú fosse apprezzata al suo giusto valore, la maggior parte delle nostre donne - e perché non degli uomini? - se ne starebbero permanentemente in casa, o permanentemente sole! La suddetta raccomandazione fa evitare parecchie altre gravi sconvenienze: 1) Di parlar troppo di sé o delle proprie cose. Vi sono alcuni i quali, nei loro discorsi, fanno affiorare mille volte il pronome di prima persona, e quasi calcandovi su la voce, come se averse la i maiuscola. Ignorano costoro che non c'è di peggio, per riuscire antipatici e insopportabili, che parlar troppo di sé; e che, viceversa, se si vuol riuscire amabili e simpatici, bisogna far di tutto per interessarsi agli altri. Si badi che non dico « fingere », ma « far di tutto » per interessarsi. Parimenti, il nostro prossimo, anche il meno geloso ed invidioso, non sopporta volentieri l'esposizione dei nostri pingui mezzi finanziari, delle cose preziose possedute o or ora acquistate e, in genere, di tutte le nostre « fortune »; tanto piú che, purtroppo, sono ben pochi quelli che potrebbero fare altrettanto. E anche meno è disposto a tollerare l'esposizione delle nostre sventure; essa diffonde nell'aria un senso di tristezza che, per carità e per solidarietà umana, oltre che per dovere, bisogna risparmiare agli altri. Non è certo di buon gusto, e né pur generoso, portarsi dietro, ovunque si vada, il fardello delle proprie disgrazie, preoccupazioni, miserie. È un po' difficile trovare qualcuno che non abbia ansie per la salute, o imbarazzi economici, o altre piccole e grandi pene e miserie personali o di famiglia. Intanto, starebbero freschi i nostri simili se, oltre che per le proprie, dovessero rammaricarsi anche per quelle degli amici e dei conoscenti : allora sí che il mondo sarebbe veramente una valle di lagrime, e dalla vita esulerebbe ogni sorriso! Le prèfiche, dunque, della vita se ne stieno in casa a brontolare, a meditare e piangere sul male dell'esistenza; ad invecchiare e a morire prima del tempo: e vengano a contatto con le altre creature umane soltanto quelle che, con la luce dello sguardo, con la parola calda, col sorriso cordiale, sanno diffondere intorno a loro la fede nella vita, la gioia dell'esistenza. Quindi, parlare per destare invidia, no; meno che mai per suscitare compassione. Le persone che piú volentieri si avvicinano, e con le quali si sta volentieri, sono appunto quelle che non fanno pesare la loro superiorità - in qualsiasi campo e quelle che non tormentano con la enumerazione interminabile di sciagure. Si tenga presente che, a queste ultime, l'esperienza dei secoli attribui il nefasto privilegio di « portar male » e affibbiò l'appellativo di iettatori. 2) Di spettegolare. Le signore specialmente se ne guardino: esse lo fanno spesso e piuttosto volentieri. Tante hanno questo non simpatico difetto; le quali, poi, ignorano che, fra loro medesime, si qualificano per « lingue d'inferno ». Dell'uomo pettegolo è meglio non parlare: lo si è definito, quando si è detto che egli ha rinunziato agli attributi piú nobili e piú fieri del suo sesso: la serietà, la dignità, la virilità. Giacché il pettegolezzo riveste non di rado i caratteri della maldicenza e, talora, della vera e propria calunnia. Si guarisce di questa peste imponendo a se stessi un costante contegno grave e rispettoso nei riguardi degli altri; evitando di « raccogliere le voci che corrono... »; di trasmettere, con piú o meno velata compiacenza, e con maggiore o minore arricchimento di frange, le voci raccolte; di parlare degli altri - specie, ripeto, se assenti - a base di « ma... », di « se... » e di punti sospensivi, pieni di significati misteriosi. La pietà di alcune lingue è peggiore della peggiore maldicenza! In alcuni Paesi d'Europa è stata bandita, contro il pettegolezzo, una vera e propria crociata, con comitati, assemblee, giuramento nelle scuole, circolari. In una di queste, era detto: « Non, si può avere un'idea delle grandi ripercussioni che la nostra iniziativa ha avuto in tutto il Paese. Le migliaia di lettere di plauso e di richiesta di moduli per l'adesione, pervenuteci in questi giorni, stanno a indicare che il pettegolezzo è diventato un vero flagello nazionale. Ed eccellente è stata trovata l'idea di estendere alla scuola la nostra campagna, e spiegare alle nuove generazioni quante tragedie potranno essere evitate se si riuscirà a estirpare la mala pianta! ». Si continuava invocando l'adesione e l'appoggio della stampa; ma, forse, i giornalisti si saranno rifiutati di prestar anche il giuramento... 3) Di far dello spirito non a proposito o di non buona lega. Son convintissimo che uno dei grandi benefizi - e dei meno dispendiosi - che si possano fare al nostro prossimo è quello di strappargli un sorriso o, addirittura, una bella risata: a condizione, beninteso, che quest'ultima non sia sguaiata; cioè, o troppo rumorosa o accompagnata da sussulti del corpo o da dimenamenti sulla sedia. Si dice che il sorriso aggiunge un filo alla trama della vita, e che il riso fa buon sangue: io non concepisco che una umanità sorridente. Ma quanto ci vuole per farla sorridere! Si capisce che qui si parla non del volgare cachinno, ma del sorriso e del riso sano e cordiale, suscitato non da lazzi piú o meno scurrili, né da buffonate e da istrionerie, ma da signorile umorismo. Quanto è difficile questo! Mentre, poi, è facile cadere nel ridicolo; e - si tenga bene in mente! - nulla, nella vita, si deve maggiormente temere del ridicolo. 4) Di fare dei discorsi arrischiati, di usare parole a doppio senso, di strizzare l'occhio... Cose sconvenientissime sempre e dovunque, anche mentre si trinca in una bettola; e da evitarsi in modo assoluto nelle riunioni di gente a modo, specialmente poi in presenza di signore o di ministri del culto. Se qualche imprudente - o maleducato - si arrischiasse a farne, cercare di cambiar discorso; in nessun caso, compiacersene, dimostrando col silenzio e con un atteggiamento anche piú serio del solito la propria riprovazione. 5) Di parlar «troppo» di cose tecniche. Queste non possono interessare tutti i presenti; per lo meno, non possono interessarli a lungo. Né è, certo, segno di generosa comprensione l'insistere presso un tecnico perché si indugi a parlare della sua scienza o industria: comincerebbe con l'essere lusingato; finirebbe col seccarsi. Chi lo crederebbe? ci sono alcuni i quali, prima di recarsi a una riunione, si leggono qualche voce dell'Enciclopedia, e poi girano e rigirano il discorso fino a che non hanno squadernato loro rara - recentissima - dottrina... 6) Di fare il « bene informato». Altra categoria, antipaticissima, questa dei « bene informati ». Gente, per lo piú, che passa da un ritrovo all'altro per raccogliere notizie, modificarle a gusto proprio e rimetterle in circolazione come se circostanze eccezionali le avessero portate a sua conoscenza; o che si vuol dar delle arie, facendo supporre vaste ed alte conoscenze. Malcelata millanteria, stupidità e, nella piú benevola delle ipotesi, mancanza di serietà e di prudenza.

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Ed è inutile aggiungere «quando lo meriti»; perché nessuna persona di senno vorrà trattenere presso di sé gente che non conosca il proprio mestiere, o non abbia voglia d'impararlo, o che non lo eserciti con coscienza. Bisogna, prima di tutto, provvedere a una sistemazione igienica e dignitosa; quindi, niente soffitte o bugigattoli senza finestre; non lusso di mobili, ma che non manchi l'indispensabile per poter tenere in ordine la persona e le cose. Quanto al nutrimento, dev'esser sano ed abbondante: lo stesso che per tutta la famiglia. Conosco delle famiglie dove non si beve vino, e pure si pensa a darne qualche bicchiere al personale di servizio. Quando c'è qualcosa di «speciale », non è doveroso farne parte; però è bello; e si può esser sicuri che il pensiero gentile sarà apprezzato. Si fisserà fin da principio come si desidera, o si esige, che stia in casa; si sarà meno rigorosi, e si consiglierà soltanto, per fuori, nei giorni di libertà. E si farà una netta distinzione fra i vari rami del servizio, per non pretendere dalla istitutrice quel che deve fare la cameriera, né dall'autista quello che deve fare il cuoco. Se ci fosse bisogno di aiuto o di sostituzione, chiederlo per piacere. Il trattare bene non significa permettere eccessiva confidenza; ciascuno al proprio posto! Perciò, non si permetterà che la persona di servizio tratti troppo familiarmente anche i bimbi, o che riferisca i pettegolezzi altrui. E gli adulti si asterranno dal venire a parole in presenza di lei, o dal parlare di cose intime proprie o della famiglia. Il marito dirà sempre « la signora » quando chiede di sua moglie; questa dirà sempre « il dottore, l'ingegnere, ecc. » parlando di suo marito. Gli ordini precisi, ma non secchi e privi di garbo; c'è differenza tra un « rifatemi la camera! » e un « volete rifarmi la camera? ». Un « grazie » e un « per favore », ogni tanto, non dispiacciono! Alle istitutrici sempre « signorina », e il lei: le persone di servizio, specialmente se sono in casa da molto tempo, si chiamano per nome e si può dar loro del tu. Si chiamano per nome le persone di servizio delle famiglie amiche soltanto se si conoscono da qualche tempo. In conclusione, le relazioni fra « padroni » e « servitori » debbono fondarsi su diritti e strettissimi doveri reciproci. I primi debbono aiutare, sorvegliare, consigliare queste persone meno istruite, meno fortunate di loro, piú disarmate di fronte alla vita; gli altri debbono essere rispettosi e fedeli, cercando non le famiglie presso cui si possa guadagnare di piú, ma dove ci sieno persone degno di stima e di affetto.

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D'altra parte, è giusto che chiunque ha fatto per noi qualche cosa a cui non era tenuto abbia una ricompensa: da chi ci porta un mazzo di fiori a chi ci aiuta a infilare il pastrano; da chi ci serve a tavola, in un ristorante o in una casa d'amici, a chi ci attacca un bottone nell'albergo. Perciò, è tutto detto quando si è raccomandato - a chi può - di non lesinare in fatto di mance; badando solamente che esse non sieno « poco dignitose » per la esiguità o per il modo.

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Di quanti regali abbia fatti - e sono veramente lieto di averne fatti molti! - credo che il piú « indovinato » sia stato questo, che pur mi costò meno di tutti gli altri. Ma l'uguale non si sarebbe trovato al mondo, e son sicuro che non rivedrò, prima o poi, quelle stesse coppe a un'altra esposizione di regali di nozze, come suole, piú o meno, accadere per i regali che non servono; fin che non vanno a finire nelle fiere di beneficenza... Per non sbagliare, è bene seguire questa norma: se le relazioni con l'uno o con l'altro degli sposi sono molto amichevoli, chiedere che cosa piacerebbe di piú; sperando, naturalmente, che l'interpellato, tenuto conto delle condizioni, sappia esser discreto. Se si è persona di famiglia si può addirittura dare alla mano la somma che si desidererebbe spendere: salvo, per gli sposi, il dovere di mostrare il modo degno in cui la somma stessa è stata impiegata. E tutta questione, ripeto, di gusto e di opportunità: io stesso, in altra occasione, regalai uno scaffale per libri; in un'altra ancora, una batteria da cucina: e, a una coppia che partiva per l'America, due acquerelli con due dei piú suggestivi paesaggi d'Italia. E bisogna anche, ahimé, tener conto dei pregiudizi locali : « le saliere portano bene... »; « le lampade portano male... », ecc. Il regalo va scelto per quello degli sposi che si conosce; e va a lui inviato - non portato - almeno sei giorni prima del matrimonio; con una carta di visita - non con lettera- del donatore. Se si conoscono ugualmente gli sposi, il regalo va indirizzato alla sposa. Vi sono anche regali collettivi, fatti da compagni d'officina o di bottega, da colleghi d'ufficio, da ufficiali del medesimo reggimento, da fratelli e sorelle: in questi casi, il regalo si accompagna o con un biglietto collettivo o con un biglietto con le firme dei donatori. Dei regali di nozze si ringrazia piú presto che si può e vivamente. Alcuni si servono di una carta di visita con la formula di rito « per ringraziare »: francamente non è bello; perché chi ha avuto un pensiero cosí gentile, e ha anche... affrontato una noia e una spesa, per quanto lievi, ha diritto a qualcosina di piú. Per i regali collettivi, si ringraziano i singoli donatori; tanto meglio se, il giorno delle nozze, si rinnovano i ringraziamenti ai presenti, e se si invia ai donatori qualche confetto. Ed è atto di doverosa cortesia, da parte degli sposi, di recarsi prima che possono, e sempre che sia possibile, a ringraziare personalmente coloro che hanno gentilmente aggiunto una riga al passivo del proprio bilancio. Può dare che siate scelti come madrina o come padrino per il battesimo o per la cresima d'una bimba o d'un bimbo. Ed ecco il dovere d'un regalino alla piccola o al piccolo. In Francia, usa farlo senz'altro ai neonati di parenti e di amici, In tal caso, la scelta è meno imbarazzante; tanto piú che la cosa non vi trova impreparati, avendo provveduto i genitori a farvi abilmente consultare circa il vostro assenso. E voi sapete anche che, fin da questa occasione, contraete non soltanto i noti impegni spirituali, ma anche quelli d'un nuovo regalo in occasione della prima Comunione, e poi un altro per il conseguimento d'un importante titolo di studio, e, in fine, un altro, piú tardi, per le nozze. La scelta, ora, è molto limitata. Trattandosi di battesimo, se la madrina vuol regalare, col beneplacito dei genitori del battezzando, un corredino, bisogna ricordi - ciò che, del resto, sanno benissimo le Ditte confezionatrici - che esso dev'essere ornato di nastri rosa per una bimba, di nastri azzurri per un bimbo; ovvero, per l'una e per l'altro, di nastri di raso bianco. Si suol anche regalare una piccola posata, con l'anello per il tovagliolo, e il bicchiere, in argento ; e poi giocattolini adatti per l'età infantile, e catenine d'oro. Io, anche alle catenine che, messe al collo o al polso, possono far male, preferisco gli spilli doppi - quelli che si dicono da chiudere - in cui sia infilata una medaglietta con una testina d'angelo, o con l'Angelo Custode, o con l'immagine del Santo di cui la bimba o il bimbo porta il nome. Lo stesso per la prima Comunione: però, in questa occasione, si può anche dare qualche libro bene scelto e ben rilegato, ovvero un astuccio con l'occorrente per scrivere, o un orologino, o qualche bella immagine in elegante cornice d'argento e, in genere, cose piú conformi ai bisogni dell'età e che piú possono riuscir gradite a chi sono offerte. Né finisce qui la serie dei regali. Se siete stati invitati per parecchie volte in una famiglia, e non potete contraccambiare l'invito; se siete stati ospiti per qualche giorno in campagna, e non v'è possibile, alla vostra volta, di ospitare; in tante altre circostanze del genere, si capisce che, alla prima occasione, manderete un regalino. Ed esso sarà in proporzione delle cortesie ricevute, e sarà gradito piú per la bella novità, che per il valore. Non è male, però, tener presente che questa affermazione va fatta con le dovute riserve, giacché non è vero, purtroppo, che quel che conta è il pensiero. Ahimé, talora, i vostri amici fingeranno di parlarne con compiacenza con gli amici comuni, ma lo faranno, piú che altro, per far risaltare la vostra miseria o la vostra tirchieria. Di modo che, se i regali non valgono veramente qualcosa, è meglio non farne; tanto, non sono i piccoli regali quelli che conservano l'amicizia! Ci sono, poi, i regalini-ricordo, al ritorno da un lungo viaggio, specialmente se fatto all'estero: ninnoli, per lo piú, graditi per la loro nota regionale o esotica. E c'è un'ultima categoria di regali, le cosí dette strenne di cui, in Italia, mi par che si vada perdendo l'abitudine: lo desumo dal fatto che, quand'ero ragazzo, ne avevo per Natale, per Capodanno, per Pasqua e, se non me le davano, le chiedevo; mentre oggi nessuno dà e nessuno chiede, all'infuori, si capisce, dei commessi dei fornitori... Però, non è male tener presente che l'abitudine è sempre viva fuori d'Italia, in Francia specialmente; sí che, dandosi l'occasione, ciascuno sappia come regolarsi.

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Chi crede opportuno mettervi qualche indicazione - che non abbia, però, il carattere di bardatura da fiera - lo faccia con la massima brevità e in caratteri piú piccoli. Né è elegante, contrariamente a quel che si crede, il biglietto di visita ridotto in proporzioni minime: ciò è appena consentito alle signore, ma senza esagerazioni. I litografati son da preferire agli stampati; gl'incisi ai litografati. Per gli uomini, può bastare l'iniziale del nome e il cognome: per le signore, il nome e il cognome del marito; per i giovani e per le signorine il nome e il cognome. Oramai, anche le signorine possono avere il loro biglietto di visita purché ne facciano un uso molto discreto. Per le vedove, il loro nome e il cognome del marito defunto, seguito, se piace, da quello che avevano da signorine, ma senza la parola « vedova »: per coniugi, il nome del marito e della moglie, col cognome del primo; e, per eccesso di cavalleria, il nome del marito preceduto, invece che seguito, da quello della moglie. In ogni caso, il nome deve precedere il cognome: si fa il contrario soltanto negli elenchi. Il biglietto di visita si manda per augúri, felicitazioni, condoglianze; per nascite, promozioni, onorificenze; per accompagnare regali, per presentazioni. In alcuni casi, è stato sostituito un po' dal telefono - nelle relazioni molto amichevoli - un po' dalla cartolina illustrata. Ma il biglietto è piú dignitoso della cartolina; salvo che questa non sia veramente bella, o spedita in busta chiusa. Anche il biglietto si spedisce in busta chiusa, quando si vuol attribuire importanza all'occasione per cui si manda o particolare considerazione alla persona cui s'invia. Usava che gli uomini portassero il proprio biglietto alla casa di una signora conosciuta a un pranzo, a una festa, a un ballo: ne lasciavano due, se la signora era coniugata; la indirizzavano ai genitori e alla figlia, se era signorina: oggi pare una ricercatezza o un perditempo; e i piú ne fanno a meno. E passi pure per le relazioni piú o meno comuni, ma non sarebbe certo corretto trascurar di portare la propria carta di visita quando si fosse stati presentati, in una delle occasioni suddette, a una signora d'alto rango o che fosse moglie di un'autorità, o un'autorità ella stessa. In tal caso, anche la signora presentata porta la carta di visita; e, se ha conosciuto anche il marito, porta il biglietto suo e quello del proprio consorte. Contraccambia la carta di visita soltanto il marito.

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In una parola, disporre ogni cosa in modo che l'ospite capisca che si è pensato a tutto, e che non abbia bisogno di chiedere nulla ; e il trattamento sia tale ch'egli si possa trovare a suo agio, e sia persuaso che la sua presenza non è di fastidio. Lo si accompagna alla stazione, lo si ringrazia della eccellente compagnia fatta, e si esprime l'augurio di poterlo presto rivedere in casa. A queste norme generali vanno aggiunte, tanto per chi è ospitato quanto per chi ospita, quelle particolari di delicatezza, riguardanti i rapporti fra uomini e signore, giovanotti e signorine. In fatto di ospitalità, le leggi e le persone sono sacre: violare comunque le prime, o comunque offendere le altre non è da gentiluomo. E un'ultima raccomandazione va fatta tanto a chi ospita quanto a chi è ospitato: oggi si parla un po' troppo e un po' da tutti - né sempre con competenza e serenità - di politica, di religione, di sociologia, di economia. Ora, questi argomenti vanno toccati con molta discrezione; specialmente se sappiamo o ci accorgiamo che le opinioni non concordano eccessivamente.

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Non ostante che la scienza abbia trovato, oltre la nicotina, altri potenti veleni nel tabacco; non ostante che i malanni causati dall'abuso di questo si riscontrino sempre piú numerosi e gravi, pure mai si è tanto fumato quanto si fuma oggi. Le statistiche ci dicono che il consumo del tabacco crebbe enormemente dopo il conflitto mondiale; con vantaggio, certo, delle regíe, ma con non altrettanto vantaggio delle funzioni cardiache e nervose, dell'attività visiva e mnemonica dei fumatori. Quindi, tutti dovrebbero evitare ogni eccesso, i giovanetti specialmente: e da nessuno si dovrebbe fumare nelle ore antimeridiane. La sigaretta, quando si aspiri, nuoce piú del sigaro e della pipa; ma il sigaro e la pipa debbono essere messi da parte quando ci si trova in presenza di signore. Anche se si sa che queste fumano, chieder sempre il permesso di accender la propria sigaretta, anzi, cominciar dall'offrir sigarette e fiammifero acceso. Le signore non offrono, come si suol dire, il fuoco: l'uomo presenta il fiammifero acceso, servendosene per ultimo. È finito, oramai, in soffitta l'in tre non si accende!; ma se, fra i presenti, ci fosse qualcuno per cui valesse ancora lo stolto pregiudizio, si ripassa il fiammifero acceso o se ne accende un altro, senza aggiungere che lo si fa per salvare la vita del piú giovine. Se le sigarette non sono di fine tabacco biondo, non offrirle e non fumarle. Fumando non si sputa; né si storce la bocca per mandar fuori il fumo ; né si lancia questo sul viso dei vicini. Né è elegante scuotere la sigaretta prima di accenderla, o spalmare di cera l'estremità superiore; la quale estremità deve esser tenuta delicatamente fra le labbra, senza esser bagnata. La cenere va fatta cadere negli speciali piattini; dove si lasciano e si schiacciano le cicche, non consumate fino al minimo possibile. Ogni persona bene educata, parlando con chicchessia, si leva la sigaretta di bocca; come la butta via - il sigaro si può spegnere - prima di entrare in qualsiasi casa privata. Le signore, pur fumando con discrezione e con grazia, dovrebbero non fumare « in pubblico ». E dovrebbero evitare che sentissero di tabacco la borsetta, il vestiti, i capelli, l'alito.

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Ed esse credono che ciò abbia sempre meno importanza a mano a mano che aumenta il numero degli anni di matrimonio. Errore gravissimo e che ha, spesso, delle conseguenze irreparabili. Proprio a mano a mano che cresce il numero degli anni di matrimonio, cresce l'importanza che la moglie sapiente deve dare alla sua, direi quasi, sana civetteria domestica. E ciò, perché la fiamma dell'amore, per mancanza di alimento, non si riduca a un po' di cenere, talora né pur calda, o non si trasformi addirittura in una prosaica abitudine. E l'alimento è dato precisamente dall'arte della donna di sapersi costantemente rinnovare agli occhi di colui di cui si porta il nome e si condivide la vita: rinnovarsi intellettualmente, senza dubbio; conservare la freschezza dello spirito, lo slancio della giovinezza; ma rinnovarsi altresí in quell'altro campo, certamente piú modesto e meno elevato, ma che ha, esso pure, come ho detto, la sua grande importanza. E i « vestiti smessi »? Darli a tanta povera gente che non sa di che coprirsi; o, se le condizioni economiche non lo permettono, rivenderli; o, meglio ancora, modificarli e adattarli, sí che, inservibili per la vita sociale, abbiano una nota di eleganza per la vita intima della casa. In altre parole, l'eleganza - come la bontà, la gentilezza, la condiscendenza - non deve essere soltanto « merce d'esportazione », ma anche, e specialmente, deve essere una nota di cui si faccia pompa in casa, nella famiglia. Dopo tutto, la « felicità del focolare » è costituita da tante piccole tenui sfumature, e non ne sarebbe certo un valido coefficiente la «sciatteria » di colei che, come ho accennato, non senza ragione, né in un senso soltanto, è detta « la regina della casa ». Una particolare delicatezza deve mettere nelle relazioni con i parenti di lui: la maggior parte delle mogli suole abilmente scasare questi, per sostituirli con i propri. Non è ben fatto; senza dire che ciò suscita malcontento nel marito, pur se, per quieto vivere, celato, e suscita rancori nella parentela. Riguardi particolarissimi per la suocera, per questa povera creatura che, dopo aver custodito gelosamente un figlio, per anni ed anni, come un tesoro prezioso, se lo vede portar via da una che, di fronte al suo geloso cuore materno, è la «prima venuta ». Bisogna comprenderla e compatirla; inducendola, col proprio squisito saper fare, nella convinzione che non soltanto la « sopraggiunta » non ha invaso il posto della madre nel cuore del figlio, ma che la madre, d'ora in poi, invece di un figlio, ne avrà due. E se le tocca vivere con lei, sia remissiva, con un sensino di comprensione e di compatimento per qualche attaccamento a cose e ad usanze oltrepassate: la dolcezza e la tenerezza vinceranno la gelosia materna; e, senza mettere il figlio nella dolorosa alternativa di scegliere fra la madre e la moglie, le faranno ottenere molto piú che l'alterigia e il dispetto. Ma il cómpito nel quale deve far di tutto per non venir meno alle speranze che la famiglia, la patria, la società hanno riposte in lei è l'educazione dei figli. Poiché, in questa, essa, per quanto non sembri, ha una parte prevalente, è necessario si adoperi in ogni modo per evitare falsi indirizzi; perché l'educazione sia completa e sana, guardando al loro avvenire piú che al loro presente; ricordando che, in loro, ogni soddisfazione, ogni vittoria nella vita sarà associata al ricordo della educazione materna. Per questo appunto, non le si raccomanda mai abbastanza di essere, sí, affettuosa, ma di saper anche esser ferma; di non intervenire inopportunamente, ossia, di non render vana la parte severa, e talora inesorabile, che spetta particolarmente all'uomo nella formazione del carattere. Giacché, purtroppo, vi sono delle madri le quali, mentre sono appena condiscendenti col marito, agiscono con i figli come se fossero le loro donne di servizio, facendosi in quattro per risparmiar loro il piú piccolo fastidio. Meno male quando son piccini; ma è grave - e deplorevole - che, anche quando hanno venti anni, vadano a cercar per loro il fazzolettino, e lo sistemino nel taschino della giacca, e mettano i bottoni ai polsini, e facciano il nodo alla cravatta; o, peggio ancora, accomodino la piega di qua, il ricciolino di là, uno spillo a destra, un fiochettino a sinistra..., quando, addirittura, non aiutino a lavarsi collo ed orecchi, a sistemarsi le unghie, a farsi la scriminatura e finanche, a incipriarsi e a truccarsi. Dovrebbero comprendere queste madri che non cosí si formano i figli per la vita, e che, se vogliono risparmiare delusioni ai figli e rimorsi a se stesse, debbono sforzarsi di comprimere ogni eccesso nei loro slanci di tenerezza e di abnegazione. Infine, porti nella vita domestica intelligenza quanto basta: ma molta delicatezza e moltissimo cuore; ricordando che l'esperienza dei secoli ha dimostrato che la sicurezza, la tranquillità, la pace delle famiglie dipendono molto piú dalla moglie che dal marito. Tutto questo costituisce la « signorilità femminile » nella casa: signorilità, aggiungo, che non viene sminuita dal frequentare la cucina - segreto prezioso per le donne!; - e, quando si è signore in casa, lo si è da per tutto!

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Gambalesta

216335
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
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Credo non abbia neppur tredici anni... Non ha saputo dirci il suo nome... Ma ora sta meglio... Guarirà. Nel delirio credeva di combattere ancora... Gli daranno una medaglia. Infatti nei primi giorni, delirando, Cuddu non aveva fatto che ripetere: - Avanti! Avanti!... Il cannoncino!... Bum! Bum! Avanti!... Viva Garibaldi!... Bum! Sgranava gli occhi, agitava le braccia; destava pietà e ammirazione. Era bastato che qualcuno avesse supposto che quel ragazzo, raccolto mezzo morto nella campagna di Milazzo, assieme con altri feriti, fosse stato là a battersi tra le Squadre, perché ognuno, raccontando il caso, vi aggiungesse un po' di frangia. Le signore messinesi, accorse ad assistere i feriti, si eran tutte accese di gran tenerezza per lui, e lo mostravano orgogliosamente, come una maraviglia, a quanti venivano a visitare l'ospedale e a portar regali di ogni sorta. Quando non ebbe più febbre e la ferita cominciava a rimarginarsi, egli vedeva attorno al suo letto quattro o cinque persone che lo guardavano con intensa curiosità, che gli domandavano: - Come stai? Ti senti meglio? - E soggiungevano: - Bravo! Ti sei meritato una medaglia! Bravo! Una medaglia? Cuddu veramente non capiva che cosa potesse significare una medaglia. Di medaglie egli conosceva soltanto quella di rame della Madonna, che era attaccata alla coroncina del rosario di sua madre. E per ciò non rispondeva niente, sorrideva come uno scioccherello. La gente, vedendolo sorridere così, pensava: - Non capisce nemmeno che è stato un eroe! A quell'età si è coraggiosi senza saperlo. Non ci si accorge del pericolo e gli si va incontro audacemente! Ora che gli avevano permesso di mettersi a sedere sul letto, appoggiato a parecchi guanciali, egli rammentava benissimo quel che gli era accaduto: il colpo al fianco, mentre stava per infilare la siepe di fichi d' India, e il dolore acutissimo, e gli occhi che gli si erano intorbidati... Era stata una palla!... Sentiva ora il terrore del pericolo corso e provava brividi per tutta la persona. - Compare Ignazio dov' è? - domandava. Quasi coloro che stavano là, specialmente le signore, potessero conoscerlo a dargliene notizia. - Chi è cotesto compare Ignazio? - rispondeva una signora premurosamente. - Il mio paesano, quello della Squadra. E, per acchetarlo e confortarlo, la signora soggiungeva: - Verrà, lo faremo cercare. Sta' tranquillo. Venne infatti, ma per caso, una mattina. Aveva inteso parlare anche lui di un ragazzo di dodici anni, ferito mortalmente combattendo tra le Squadre; ma non gli era passato per il capo che potesse trattarsi di Cuddu. Lo avea lasciato in cima alla collina ordinandogli di non muoversi di là; poi non aveva saputo più niente. E in certi momenti sentiva rimorso di non averlo costretto a tornare addietro quando lo aveva scorto seduto sul ciglione a poche miglia da Catania. Per le vie di Messina, aggirandosi tra la folla, egli lo aveva cercato con gli occhi, lusingandosi d'incontrarlo, e avea raccomandato agli altri suoi compagni paesani: - Se lo vedete, prendetelo per un orecchio e conducetelo in caserma! - Stava in pensiero anche per uno di quei di Ràbbato che gli era caduto a fianco, ferito a una guancia da una palla, senza che egli avesse potuto soccorrerlo perché in quel momento la mischia era calda e ognuno doveva pensare a sparare, e alla propria pelle; alla guerra è così. Quella mattina gli era stato detto: - Credo che il tuo paesano si trovi all'ospedale, se pure non è morto; là muoiono come le mosche. Ed era andato, e girava per le corsie, guardando a uno a uno i feriti. C'erano corsie senza letti, con strame per terra. Qualcuno dei feriti era morto, e nessuno se n'accorgeva. Egli continuava la ricerca, con un triste presentimento nell'animo. - Se pure non è morto! - aveva detto colui. E rimase, sentendosi chiamare da lontano: - Compare Ignazio! Compare Ignazio! - Tu! Gli vennero le lacrime agli occhi e si precipita ad abbracciare Cuddu, che scoppiava in pianto, balbettando: - Oh, compare Ignazio! - Che cosa è stato? Che cosa è stato? - Non lo affaticate facendolo parlare. Non vedete com' è commosso? - Scusi, signora... - Ve lo dirò io : si è battuto, è stato ferito... È vivo per miracolo. È vostro parente? - Paesano. - Potete esserne orgoglioso. Si è fatto onore; avrà una medaglia. Compare Ignazio non credeva ai suoi orecchi. - Ti sei... battuto?... Possibile? Com' è stato? Che hai fatto? Cuddu, a cui riusciva oscuro il significato di quelle parole: - Ti sei battuto? - spalancava gli occhi in viso a compare Ignazio, sorridendogli col solito sorriso da scioccherello che gli veniva alle labbra ogni volta che egli non capiva quel che gli domandavano. - Com' è stato? - insisteva compare Ignazio. - Non lo fate affaticare parlando; i dottori non vogliono. - Scusi, signora mia... E si voltò a un gran rimescolìo che avveniva in fondo alla sala. - Il Generale! Garibaldi! Il Generale! - correva di bocca in bocca. Tra i dottori, le signore e un séguito di camicie rosse, Garibaldi si fermava davanti a ogni letto, interrogava i feriti, diceva una buona parola, dava una stretta di mano. Parecchi feriti laggiù si erano rizzati a sedere sul letto, gridando: Viva Garibaldi! Cuddu accennò a compare Ignazio di farsi da parte. Aveva cessato di piangere; il viso, pallido per le sofferenze, gli si era improvvisamente acceso di viva fiamma ; gli occhi gli brillavano e sorridevano assieme con le labbra. - Lasciatemi vedere! - Non ti agitare; verrà anche da te! - gli disse la signora. - Io lo conosco; gli ho portato una lettera! - balbettò Cuddu, battendo le mani dalla gioia. La signora, che era tra quelle che più si erano affezionate a Cuddu per l'età, si sentiva già presa da forte commozione. Avrebbe visto Garibaldi da vicino! Gli avrebbe parlato! Lo aveva intravisto soltanto da lontano, dal balcone di casa, il giorno che il Generale era entrato a Messina, dopo la vittoria di Milazzo. E lo diceva al paesano di Cuddu con voce alterata dall'emozione. Un ferito, due letti più in là, aveva preso la mano del Generale e gliela baciava, tenendola stretta fra le sue, e gliela ribaciava, bagnandogliela di lagrime di riconoscenza e di gioia. Garibaldi sorrideva, gli diceva certamente belle parole, perché il ferito riprendeva a baciargli la mano con più forza, e non sapeva risolversi a lasciargliela libera. A piè del letto di Cuddu, il Generale si era fermato quasi dubitando che anche quel ragazzo potesse essere uno dei feriti. Cuddu credette che lo avesse riconosciuto e, togliendosi vivacemente il berretto bianco, articolò con un fil di voce: - Voscenza benedica! - Ferito al fianco, a Milazzo... Ha tredici anni! - si affrettò a spiegare la signora. - È in via di guarigione? - domandò il Generale, - È fuori di pericolo - rispose la signora. - Come ti senti? Sei stato bravo! - soggiunse il Generale, accostandosi al capezzale e accarezzando affettuosamente la testa del ragazzo. - È uno dei picciotti... Anche voi siete delle Squadre? - domandò a compare Ignazio, che si era messo sull'attenti e respirava appena. - Eccellenza, sì!... Questi è mio paesano. - Vi ho portato una lettera a Palermo - disse Cuddu rincuorato. Garibaldi stette un istante pensoso, quasi cercasse di ricordarsi. - Mi mandava mastro Sidoro - riprese Cuddu. - Lo mandò il Comitato. Alla dilucidazione di compare Ignazio il Generale accennò lievemente col capo e sorrise. - Come ti chiami? - Cuddu. - Domenico Costa - corresse compare Ignazio. - Di che paese? - Da Ràbbato, provincia di Catania. - Prendete nota - disse il Generale rivolto a uno del suo séguito. - Come avete detto? - domandò questi a compare Ignazio. - Domenico Costa, da Ràbbato, provincia di Catania. Ma, appena Garibaldi si fu allontanato, compare Ignazio, che non sapeva spiegarsi come Cuddu fosse stato ferito e non poteva affatto credere che si fosse battuto coi soldati borbonici, tornò a domandargli: - Com' è stato? Che hai fatto? - Niente - rispose Cuddu. Intervenne la signora: - Ora zitto! Ricòricati! Lo aiutò maternamente a rimettersi sotto la coperta, togliendo via parecchi guanciali, e: - Lasciatelo tranquillo - raccomandò a compare Ignazio. - Quella poveretta di tua madre!... Le faccio scrivere! Tornerò domani. E compare Ignazio uscì dall'ospedale, gesticolando come chi non arriva a spiegarsi quel che ha veduto e sentito. In verità Cuddu non avea fatto nulla da farsi scambiare per un eroe. E ora, dopo parecchi anni, ora che lo chiamano Mastro Cuddu, o meglio col nomignolo di Gambalesta, perché fa il manovale e anche l'espresso quando a qualcuno occorre di dover spedire una lettera d' importanza e avere sùbito la risposta, se gli domandano dei fatto di Milazzo, egli fa una mossa di compatimento. Non vuole ingannare la gente e farsi prendere per quel che non è stato, quantunque, per un anno, avesse indossato la camicia rossa, con la medaglia attaccata sul petto, e Garibaldi fosse rimasto un sacro ricordo per lui. Spesso, però, pensando alle sue scappate di ragazzo, rimpiange: - Se avessi dato retta alla mia povera mamma, ora non farei questo mestieraccio! Suol dire anche: - A questo mondo ci vuol fortuna! Mi hanno dato la medaglia, chi sa perché? Tanti altri, che forse se la meritavano davvero, non l' hanno avuta. Accade spesso così, pur troppo! Il nomignolo di Gambalesta, questo, sì, me lo merito e ci tengo. Guadagno più pane con le gambe che con le braccia! Si vede che il Signore mi ha fatto a posta per correre qua e là, e per portar sassi e calcina. Sia fatta la volontà di Dio! O forse Domineddio mi ha castigato perché ho disobbidito alla mamma!

Pagina 142

Cosima

243871
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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«Non abbia timore» rispose l'uomo, con una voce fra roca e dolce, ma anche quasi canora, che la padroncina non gli conosceva; «c'è Ippolito che è andato a raccogliere sterpi per il fuoco, e la sorveglia. Poi non si è quasi mai sentito niente, in questi posti. Chi vuole che veda la signorina? E poi è tanto savia, quella: non c'è pericolo che abbia dato appuntamento all'innamorato.» «Non si sa mai» insisteva la madre: e Cosima pensò in sua coscienza che realmente, su questo punto, si potevano elevare dubbi. «Le ragazze sono tutte stordite: quella, poi, ha certe idee in testa. Tutte quelle scritture, quei cattivi libri, quelle lettere che riceve. E non è venuto anche, a trovarla, un omaccione rosso come la volpe? e da lontano, è venuto, e poi ha scritto di lei sui giornali? La gente mormora. Cosima non troverà mai da sposarsi cristianamente: e anche le sorelle ne risentiranno, perché in famiglia tutto sta a sposar bene la primogenita. È vero che...» aggiunse con voce ancora piú lamentosa «ci sono anche i fratelli, che non ci fanno troppo da sostegno: oh, tu lo sai bene, Elia.» Egli lo sapeva: eppure aveva una fede cieca, un attaccamento appassionato per il signorino Andrea: ed anche la sua voce tremolò quasi di pianto quando ne parlò. «No, padrona, non si lamenti troppo del signorino Andrea. È buono, posso dire, quasi quanto lo era il signor Antonio: solo, è troppo generoso; è troppo amico di cattivi amici. Ma del resto bada alla roba, e ama le sorelle in modo particolare.» «Bada alla roba? Sí, ma per pigliarsi lui quasi tutta la rendita: e gioca, e va con le male donne. Questa la chiami bontà? Lo chiami amore per la famiglia? Andrea ci lascia appena il tanto per pagare i servi e le tasse. Io non dormo, un giorno o l'altro l'esattore verrà in casa a sequestrare: lo vedo in sogno, ne ho paura come del demonio. Oh, oh; Elia; e tutto questo perché i miei figlioli hanno abbandonato le vie del Signore.» «Lei esagera, padrona: ci sono figli peggiori: tutte le famiglie hanno la lor croce. Il signorino Andrea, dopo tutto, bada alla roba e la fa fruttare; è, dirò cosí, come un fattore, che si piglia la porzione maggiore. Ma poi metterà giudizio.» «No, Elia, non lo spero. D'altronde, che si fa? Siamo povere donne sole, con quel castigo terribile di Santus: e bisogna pure appoggiarsi ad Andrea. Tante volte penso di dividere il patrimonio: a ciascun figlio il suo; ma sarebbe peggio, poiché il disgraziato Santus in pochi mesi cadrebbe nella miseria, e anche il tuo signorino Andrea si giocherebbe la sua parte. Non c'è via di uscita: bisogna soffrire. E poi io voglio bene ai miei figli: troppo bene gli voglio; piú sono disgraziati piú li amo e li compatisco. Ma quella Cosima! È quella che piú mi dà pensiero.» «E invece sarà quella che piú le darà consolazioni: vedrà.» Ma la madre, mentre rimuginava nella padella le patate che lentamente si arrossavano e spandevano un buon odore, continuava a sospirare. Non è questo, Elia, io non ho bisogno di consolazione: la mia strada è finita, e nulla esiste piú per me tranne il bene dei miei figli. Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo cosí con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.» Oh, padrona!» egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato cosí. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: «Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani». «Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo piú.» Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so; non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.» Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie; né, d'altronde, ella voleva piú umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l'idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre.

Pagina 138

Dopo mezzo secolo di vita, Cosima ricorda ancora quel picchiare come di un tamburo che annunzia una disgrazia: lo sente ancora rimbombare dentro il suo cuore; è il suono piú terribile che abbia mai udito, piú funebre di quello che annunzia la morte, piú del suono della campana che chiama a spegnere un incendio. La buona serva si alza; ma prima di aprire ascolta, con ansia paurosa. Chi può essere? Un bandito, un ladro, un uomo della giustizia? Anche un fantasma può essere, un morto che passa nella strada e bussa alle porte per avvertire i viventi che l'inferno li aspetta. Era qualche cosa di peggio ancora: un morto vivente, che annunziava l'inferno, sí, ma prima della morte, nella vita stessa. Era Santus, con gli occhi azzurri velati, la lingua legata. Per misurare la gravità di queste disgrazie bisogna considerare anche l'intransigenza malevola dell'ambiente dove si svolgevano. Tutti si conoscevano, nella piccola città, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra erano i piú inesorabili. Quando si seppe del ritorno e della perdizione di Santus, fu un lungo compiacersi e sogghignare, fra i conoscenti della famiglia: e i piú cattivi erano i parenti. C'erano due cugine della signora Francesca, due vecchie zitelle che facevano pensione a un canonico - questo veramente santo - e stavano sempre in chiesa. Ogni tanto si presentavano nella casa di Cosima, rigide e composte, dure come due mummie; non parlavano molto, ma ogni loro parola era una frecciata: e di tutto, anche quando le cose andavano egregiamente, trovavano da ridire, persino se le ragazze avevano un abituccio nuovo, o si ornavano di un nastro economico ritagliato magari da un fazzoletto di seta logoro. Piombarono in casa il giorno dopo del ritorno di Santus, e fecero piangere la signora Francesca, addossandole tutta la colpa del disordine famigliare. Tutto, intorno, per loro, era una tragedia: e lo era, sí, ma forse, almeno per le ragazze, non irreparabile. Irreparabile lo era per le due vecchie zitelle, che, istintivamente, senza precisa cattiveria, riversavano sul destino degli altri il proprio squilibrio. Una carica particolare, quasi non bastasse la prima, fu fatta contro Enza, della quale si conoscevano gli amori segreti e palesi con Gioanmario: per le due acri e sterili zie, che mai avevano conosciuto l'amore, il romanzo innocente e in fondo melanconico dei due giovani innamorati era tragico e terribile quasi come quello di Isotta la bionda e Tristano, o di Paolo e Francesca. Predissero le cose piú sinistre per l'immorale e sfrontata ragazza, mormorarono che per causa di lei la famiglia e l'intero parentado erano scherniti e disprezzati da tutta la gente benpensante, e che il disonore ricadeva anche sulle sorelle che mai avrebbero trovato marito. La madre piangeva: che altro poteva fare? E, certo, neppure lei era contenta per la storia di Enza, sebbene, dopo le ultime disgrazie famigliari, la sua ostilità verso Gioanmario fosse diminuita, e pensasse che un uomo ordinato ed energico, in casa sarebbe stato di grande aiuto: ma non rispondeva alle insinuazioni vituperose delle cugine, e tale sua quasi accondiscendenza fu quella che piú esasperò Enza la quale naturalmente origliava all'uscio. D'un tratto si sentirono alte grida ululanti, e il tonfo d'un corpo che cade. Era lei, l'infelice ragazza, presa da un attacco isterico, quasi epilettico. Allora la madre si sollevò, come la cerbiatta alla quale vien ferito il figlio, e trovò l'energia di cacciar via le donne e di sollevare e confortare la sua bambina. Poiché tutti i figli, per lei, compreso il piú traviato, anzi lui forse piú degli altri, erano ancora deboli creature che il Signore avrebbe fatto crescere e rinsavire. Il risultato fu che Gioanmario fu riconosciuto come fidanzato di Enza, e si fissarono le nozze per l'estate seguente, appena egli si fosse laureato. Nozze umili e quasi tristi; non quali il padre aveva sognate e preparate per le sue figliuole. Ai due giovani sposi fu assegnata una modesta rendita, e concessa per abitazione una vecchia casa che la famiglia possedeva in un quartiere eccentrico della cittadina. Ma era una casa troppo grande, con una scala erta, le camere vaste dai pavimenti di legno, le finestre piccole, le pareti imbiancate con la calce; Enza ci si immelanconí e si strapazzò a pulirla e renderla abitabile, aiutata solo da una donna a mezzo servizio. Presto cominciarono i guai. Gioanmario, entrato nello studio di un avvocato, vi rimaneva tutto il giorno, e ancora senza compenso. Il dover vivere con la piccola rendita della moglie lo umiliava e lo esasperava. Provocato dal malumore di lei cominciò a rinfacciarle la fretta di essersi voluta sposare; ella rispondeva aspra: litigi violenti scoppiavano fra di loro, seguiti da riconciliazioni che duravano poco, da fughe di lui che rimaneva assente il più possibile. Una triste mattina, la donna che andava da loro per i servizi, corse spaventata a casa dei parenti, dicendo che aveva trovato la piccola padrona stesa a letto senza sensi, fredda come una morta. L'aveva fatta rinvenire; ma temeva che la cosa fosse grave. La signora Francesca era sofferente anch'essa, per un male alle reni, e le ragazze giudicarono di non spaventarla con le notizie di Enza. Cosima, che spesso andava, dai giovani sposi ed era al corrente della loro disordinata e dolorosa vita, corse lei con la speranza che si trattasse di uno dei soliti disturbi nervosi della sorella. La trovò insolitamente calma, troppo calma, abbandonata sul letto pallidissima, coi grandi occhi spauriti. Non parlava, non si moveva; ma un odore sgradevole e caldo esalava dal letto, e quando Cosima, con un coraggio superiore alla sua età, cercò di scoprire il mistero si accorse che l'infelice Enza giaceva in una pozza di sangue nero. Arrivò il medico e disse che si trattava di un aborto. Alla meglio tentarono di riparare; ma era tardi; prima che il marito tornasse da una seduta al Tribunale, Enza era morta. Morta, senza dolore, senza coscienza, vuota di tutto il suo sangue malato e turbolento: adesso era bianca, bella, purificata, come una statua di marmo scolpita sul suo modello. Prima di avvertire la madre e le sorelle, prima ancora che Gioanmario rientrasse, Cosima, da sola, chiuse i grandi occhi vitrei di Enza, ne lavò il corpo, trasportato in un lettuccio della camera attigua a quella matrimoniale; lo profumò; compose i bei capelli castani intorno al viso diafano e infine la rivesti del modesto abito bianco di sposa e le calzò anche le scarpette di raso. Agiva sotto l'impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l'abbandonò mai piú, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l'antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini.

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