Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

169022
De Amicis, Edmondo 5 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Perché è ancor vivo nell'anima di tutti quegli che diede all'amore alla mestizia il linguaggio della più dolce melodia che abbia mai intenerito il cuore umano; e possono mutar scuole e gusti ,possono passar torrenti di nuove musiche e aurore e soli di nuove glorie, ma la parola divina che egli ha parlato al mondo rimarrà eterna, ed eterno il suo caro nome: caro nome che, mezzo secolo dopo la sua morte, noi non possiamo pronunciare ancora senza un sospiro di rimpianto, come se a noi stessi fosse stata rapita innanzi tempo la consolazione celeste della sua voce. Catania, con le sue strade diritte lunghissime, arieggia Torino, ma ha aspetto più vario e più gaio per il color più chiaro degli edifizi e per il dislivello del suo suolo, composto in buona parte di vecchie lave vulcaniche; il quale ascende verso l'Etna, sovrastante alla città e visibile da ogni punto. Chi la vede per la prima volta in una giornata serena non si può capacitare che in una città così splendidamente lieta possano infuriare tante tempestose passioni di parte, combattersi tante accanite battaglie politiche. Essa ha l'incanto della gioventù, a cui brilla in viso la coscienza della forza e la fede nell'avvenire. E' infatti la città più florida della Sicilia. E nonè di fresca data la sua prosperità crescente. Dopo il memorando terremoto del 1693, che la distrusse tutta quanta, Catania rifatta venne prosperando continuamente, e dal 1860 in poi è quasi raddoppiata la sua importanza. Per giungere a questo essa non ebbe che ad aiutare la sorte e la natura che l'hanno privilegiata d'ogni favore. Situata quasi nel punto di mezzo della costa orientale dell'isola, al Lembo della più vasta e più fertile delle pianure siciliane, alle falde del gran vulcano fecondatore, intorno a cui fioriscono le più svariate colture, essa accoglie in sé e manda fuori dal suo porto profondo in grande abbondanza ogni specie di prodotti agricoli e minerali, e alimenta fra le sue mura, oltre alle generali industrie cittadine, una quantità d'industrie speciali, che danno una straordinaria attività al suo commercio e attirano Greci, Inglesi, Tedeschi ad accrescerle senza posa con nuovi sfruttamenti e nuove imprese. Ma non è città industriale e commerciale soltanto: è ricca d'Istituti di beneficenza, possiede biblioteche cospicue, è sede d'una delle maggiori Università d'Italia, in cui sono laboratori rinomati di chimica e di fisica, d'anatomia e di zoologia, e rinomatissimi di geologia e di mineralogia; ed è fra i primi d'Europa, visitato da scienziati d'ogni paese, il suo Osservatorio Astronomico, in specie per riguardo alla fotografia stellare, a cui è propizia la maravigliosa limpidità atmosferica , e agli studi geodinamici, ai quali appartiene una collezione di fotogrammi sismici, forse la più preziosa del mondo.

E' una successione di golfi e di seni dalle curve graziosissime, dominati da alti promontorii dirupati, che si specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole. Si percorre il primo tratto, lungo il mare, in vista delle diciassette isole dell'Arcipelago Eolio, che par che sorgano l'una dopo l'altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e leggere, tinte di colori soavi, d'un'apparenza quasi vaporosa. E le pianure verdi, solcate da innumerevoli corsi d'acqua, succedono alle pianure verdi, i boschi ai boschi, i vigneti ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d'avanzi di colonie greche e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d'aranci, le siepi di fichi d'India, le spalliere di áloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un'aria imbalsamata che vi delta nel sangue e nell'anima un sentimento delizioso della vita. E quante grandi immagini del passato vi sorgono dinanzi da ogni parte! Su quel ridente azzurro del golfo di Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell'altre acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta l'armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d'Angiò; laggiù riportò Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l'esercito cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall'esercito greco di Gelone e di Terone. A grandi lampi vi passa dinanzi tutta la storia dell'isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e sociale di tre continenti, e d'in fondo al passato immenso vedete sorgere l'albore d'una speranza: poiché se l'Italia peninsulare, come fu detto con felicissima immagine, è un braccio teso dall'Europa nella direzione dell'Africa, la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità quella affermata dal Fischer, ch'essa possiede una stoffa di colonizzatori di primordine "atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni cielo". Chi sa che nell'avvenire dell'Africa non sia il risorgimento dell' "organo prensorio" d'Italia? Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la Conca d'oro, ecco Palermo!

Non credo che ci sia al mondo altra grande città decaduta che abbia dinnanzi a sé una così maravigliosa immagine del suo grande passato; non credo che esista un altro così ampio, così magnifico, così solenne cimitero istorico com'è questo dei quattro quartieri siracusani scomparsi; appetto al quale scompare alla sua volta la città vivente, o quasi si dimentica. Dico "Cimitero" poiché le poche ville sparse, i due o tre alberghi, le due piccole chiese di Santa Lucia e di San Giovanni e le case rustiche qua e là disseminate sono come perdute nell'amplissimo spazio. Le rovine colossali lo dominano intero. Dovunque volgiate il passo, anche per i piani erbosi e fra i vigneti, dove le rovine non sono visibili, voi le vedete ancora. Vedete le gradinate grandiose del teatro greco e dell'anfiteatro romano, scavate nella roccia, in gran parte ancora intatte, immagine d'un lavoro quasi sovrumano, che vi sgomenta e le pareti scoscese delle latomie profonde, e le vaste gallerie delle necropoli, e gli acquedotti enormi, e gli avanzi delle antiche mura dell'Acradina; e da tutti questi frammenti della sua ossatura gigantesca la visione della città intera vi sorge dinnanzi, con la sua sterminata cinta merlata e turrita, coi suoi porti affollati di navi, coi suoi templi superbi, coi suoi arsenali, i ginnasi, i mercati, i bagni, i giardini; immensa, bella e terribile, qual'era ai tempi di Dionisio il vecchio. La più maravigliosa delle rovine è il forte d'Eurialo, posto verso la punta del triangolo rivolta ad occidente: una delle più ammirabili opere di architettura militare dell'ingegneria greca: chiave della difesa di Siracusa; dove le muraglie del lato sud si congiungevano. Dovrebbero risonare e scintillare le parole come colpi di scalpello nella pietra per descrivere l'aspetto di quelle quattro torri poderose, di quei fossati profondi scavati nel macigno, di quel cortile interiore dove si riconoscono ancora i ricetti dei cavalli e delle macchine, di quella rete di passaggi sotterranei, dove s'ammassava la cavalleria per le sortite improvvise. Tutto questo è così forte, cosi fiero, così formidabile, così vivamente ed eloquentemente antico, che il primo senso d'ammirazione vi si muta a poco a poco in stupore, e in qualche momento vi scote un brivido come se la vostra vista intellettuale, per un miracolo, penetrasse a traverso i secoli trascorsi, e le palpitasse davanti di vita vera la storia, che non era prima per essa se non una visione di larve.

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Chi può maravigliarsi che davanti a un tale spettacolo l'Imperatrice di Germania abbia lasciato cadere a terra un diamante senza avvedersene? Questo mi disse quello stesso custode del Teatro che trovò il diamante fra i ruderi vicini alla porta e che lo riportò all'Augusta Signora. Ed egli stesso mi riferì con alterezza di cittadino taorminese un motto che aveva udito il giorno innanzi da una bizzarra signora straniera incantata del panorama: motto ch'io metto qui come suggello al mio povero tentativo di descrizione. - "Credo poco all'Inferno; ma credo al Paradiso perché l'ho visto... ed e questo".

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Così caldamente innamorati d'ogni bell'ideale che amano ed onorano anche chi ne abbia fatto loro balenare appena un vago riflesso con poca arte e con malsicura coscienza; cosi ingenuamente generosi che ingrandiscono e abbelliscono con l'immaginazione uomini e cose, credendo che sia loro virtù intrinseca quello che essi mettono in loro di proprio! Ma v'erano altri sentimenti delicati in quelle dimostrazioni. Tutta quella gioventù sapeva che quel suo ospite aveva sofferto dei grandi dolori, e lo festeggiava per consolarlo; pensava, vedendogli i capelli bianchi, ch'egli non aveva più lungo tempo da vivere, e voleva che la sua vita fosse coronata da una delle più profonde e dolci soddisfazioni ch'egli avesse potuto mai desiderare, gli voleva lasciar nell'anima un ricordo che gli desse impulso a lavorare ancora infaticabilmente fino agli ultimi suoi anni; prevedeva che in quella cara terra egli non sarebbe ritornato mai più, e voleva che gliene rimanesse una immagine più bella, più cara ancora di quella che n'aveva riportata quarant'anni innanzi, al tempo della sua prima giovinezza. O cari fanciulli del popolo, operai, studenti, buoni amici sconosciuti d'ogni età e d'ogni ceto, ospiti affettuosi e giocondi, come egli ha ben capito e sentito la gentilezza del vostro intento, e che profonda gratitudine ve ne serberà in cuore fin che gli anni e l'infermità non gli abbiano spento l'ultimo barlume di memoria delle giornate luminose e felici che ha trascorse sotto la bellezza incantevole del vostro cielo e in mezzo alle vestigia gloriose della vostra storia!

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Le buone maniere

202869
Caterina Pigorini-Beri 12 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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In virtù del primo comandamento, che è quello di non movere a schifo neppure a parole i delicati amici delle belle maniere, trascureremo di accennare a quegli atti che non sono nominabili, nella fede altresì che la gentilezza del costume moderno abbia reso superfluo una enumerazione particolareggiata di tutte quelle azioni inurbane, le quali appartengono, a così dire, all'archeologia della buona creanza. Non fare adunque atto alcuno che possa in qualche modo turbare la vista e movere schifo o ribrezzo. Non gesticolare troppo vivacemente in casa o fuori, non urtare col gomito, non provocare il riso con atti buffoneschi o villani o disadatti; non sternutire rumorosamente, non andare senza necessità in pubblico colla coriza o intasato o con una ferita sul viso o senza guanti o colle scarpe polverose. Non profumare troppo la persona a rischio di incomodare le persone vicine, che potrebbero per infermità o per sensibilità nervosa soffrirne danno. Avere il colletto (non si parla del collo) e i solini mondi, i capelli ravviati, la persona corretta in ogni sua forma e figura. Non sbadigliare rumorosamente, non addormentarsi al teatro o in conversazione, non dimenarsi sulla sedia, non cambiare troppo sovente il posto, non stare impalati, non far stridere gli stivali nè la sedia, non dondolarsi, non passare davanti al vicino senza necessità e senza chiederne licenza. Non parlare solo, non canticchiare, non strofinare un oggetto aspro sui vetri, non battere il tamburo colle dita, non stringersi le mani per farle scricchiolare, non strofinare i guanti l'uno sull'altro; cosa per alcuni insopportabile. Non parlare all'orecchio, non ridere palesemente di alcuno, non discutere accalorato, non contraddire, non schernire, non mormorare, non giurare nel nome di Dio o de' tuoi morti, o di tuo padre e di tua madre. Non mettere la tua sedia sull'abito della tua vicina, acciò non si strappi; non parlarle sul viso, non biasimare il suo vestito, la sua casa, la roba sua, i suoi amici, i suoi congiunti. Non dir mai la bugia ma non dir sempre la verità: taci un vero disgustoso; non adulare le debolezze altrui, ma non permetterti di biasimarle alla presenza del paziente. Non promettere che quello che puoi mantenere, non dare nè offrire servizi non richiesti, peggio, consigli o esortazioni. Non volere far prevalere la tua opinione ad ogni costo, imponendola, o non lasciando parlare gli altri, o profittando di una posizione vantaggiosa. Nell'uscire cammina composto, senz'agitare le braccia come chi semina, o con passo pesante o in punta di piedi per parere più alto o più grazioso. Cedi il passo a chi sembri da più di te, anche se non conosci la persona; saluta con rispetto, con riserbo, con sollecitudine, secondo la condizione in cui si trova la persona salutata. Non chiamare per nome la persona che saluti, perchè potrebbe voler passare sconosciuta; non unirti ad essa senza invito; se il superiore finge di non vederti e tu non vederlo; se è benevolo e ti chiama, e tu rispondi all'invito; se dopo un istante ti lascia senza dirti altro, e tu non osservare. Il tempo è moneta. Non farlo perdere ad alcuno e non perderlo tu stesso. Non schernire le tradizioni paesane, perchè ebbero la loro ragione di nascere e di crescere, di vivere e di regnare, Non urtare le consuetudini, perchè sono le eredità morali dei popoli. Paese che vai usanza che trovi. - Uniformati al costume dei più e non dir mai male del luogo che sei costretto ad abitare, e tanto più se vi sei andato di tua propria volontà. Non contraddire troppo recisamente, non cercare di rettificare un racconto fatto da altri; non scommettere. Una donna non può nè proporre nè accettare una scommessa se non per la forma: una scatola di dolci o un mazzo di fiori. Non entrare in famigliarità cogli sconosciuti, non attaccar discorso in luoghi pubblici, in ferrovia, al teatro se non per uno scambio di urbanità. Non renderti molesto al tuo vicino o al tuo compagno di viaggio con cani o altri animali o con un lavoro rumoroso, specialmente nelle ore notturne. In vagone, i posti più comodi e più ricercati sono gli angoli: qualcuno soffre a mettersi dalla parte della locomotiva. Sarà gentile, per coloro che non soffrono, di offrirlo alle signore. Le signore non entrano che per necessità nei vagoni dove si fuma. Se il posto desiderato è già segnato da un qualsiasi oggetto, una persona educata si guarderà bene dal prenderlo, muovendo il segno. Naturalmente è permesso di dormire in vagone, ma ciò dovrà esser fatto con discrezione e compostamente. Non portare con te nè fiori, nè oggetti incomodi o troppo voluminosi. Colloca il tuo bagaglio al disopra del tuo posto, senza ingombrare il posto del vicino. Non aprire o chiudere il finestrino a capriccio, ma secondo il bisogno e il consenso anche tacito de' tuoi compagni di viaggio. In carrozza il posto d'onore è sempre a destra, e vi si collocano le signore. Se però c'è persona di età o malatticcia, si offre ad essa il posto migliore, badando di non urtare la suscettività specialmente dei vecchi, che in generale non vogliono esser tali. La bicicletta non è troppo indicata per le donne. Essa ha avuto il suo quarto d'ora di sport e ormai è passata alla storia. Però sarà utile di addestrarsi per tutti quei casi in cui può essere utile o forse anche necessario. Se vai in automobile non diventare crudele, come facean nei dorati cocchi le eroine del grande poeta civile, che ritte negli alti cocchi alteramente - A la turba volgare che si prostra non badan punto. L'ebbrezza della corsa non vi tolga la pietà pei passeggeri. Non correre per casa troppo presto al mattino per non svegliare il tuo vicino; non inaffiare i fiori sulla finestra per non bagnare coloro che abitano nel piano sottoposto. Non guardare il tuo orologio se ti pare che i tuoi ospiti facciano tardi; cio è contrario all'ospitalità e dimostra un'impazienza di carattere che raffredda i cuori e i sentimenti benevoli. Non abusare dell'ospitalità che ti è accordata, massime la sera. Ciò potrebbe nuocere alla salute di qualcuno, creare una freddezza e far nascere il desiderio di vederti partire. Se sei un uomo, incontrando una donna per una scala salutala anche senza conoscerla e tirati da un lato del pianerottolo; se sei una donna, ricambia il saluto senza guardare il cortese uomo che ti lascia passare, ma che potrebbe non voler essere conosciuto in quel luogo. Se vai troppo piano, non ingombrare il passo per non impedire ai più solleciti di passare; se hai fretta, non spingere chi è avanti a te e non urtarlo passando. A scuola non sederti davanti al tuo professore o alla tua istitutrice, prima che essi stessi non si siano seduti e te lo abbiano accennato col capo o colla mano: se sei al refettorio alzati all'entrare del direttore e della direttrice o dei superiori, senza indugio. Non dire sì, no, e peggio col cenno del capo, ma sì signore, no signora, veramente mi pare così e così, o piuttosto, mi hanno affermato che le cose dovrebbero essere così e così. Non umiliare i condiscepoli più poveri, non invidiare i maggiori, non essere superbo del tuo ingegno nè umiliato se qualche volta non arrivi subito a comprendere. Se sei convittore o collegiale, o hai mensa comune per qualunque ufficio, non guardare alla porzione del tuo compagno coll'occhio del bue; non mettergli neppure per ischerzo la forchetta nel piatto, non mostrare di accorgerti se mangia male, ma mangia bene tu stesso, e tutti insieme non battete la solfa coi cucchiai, il che produce un rumore assordante e sconveniente. Non presentare un còmpito sgorbiato, un quaderno mantrugiato o spiegazzato, o con macchie d'inchiostro o col puzzo di merenda. Non spedire una lettera macchiata o male scritta o mal chiusa o non intestata convenientemente. Non domandare a alcuno clove egli va. Non dire parole volgari, nè frasi sconvenienti, nè parlare nel tuo dialetto nativo in presenza di chi non l'intende, o in una lingua straniera con chi, anche potendo, non l'ha studiata e si sentirebbe umiliato. Non dire mai: il tale è un ebreo, ma invece: è un israelita. Poichè l'ebreo appartiene ad una sètta, ma l'israelita ad un popolo, che fu per giunta un popolo eletto. Non dir mai ad alcuno: siete pallido, avete cattiva cera, sembrate un po' indisposto; perchè qualche ipocondriaco potrebbe risentirne danno e qualche altro potrebbe voler nascondere o dissimularsi un male penoso e inutile a sapersi, da chi non può recargli alcun sollievo. Non mostrare troppo zelo per la conversione dei peccatori o per il trionfo d'una causa anche buona, o verso una persona amata o i superiori o nell'adempimento del tuo dovere. Un politico molto spiritoso che potè vincere tutte le difficoltà della vita disse una volta: Quanti uomini si fanno dei nemici per essersi mostrati più realisti del re. Il troppo zelo nuoce! Non cercare la confidenza di alcuno, specie se è infelice e non puoi giovargli: non farti troppo grande coi poveri o coi sollecitatori, perchè potrebbero metterti al repentaglio di dover accordare appoggi e denaro a gente immeritevole, o di dover fartene, rifiutando, dei nemici. Non mostrarti troppo contento della tua sorte specialmente con chi soffre; un proverbio francese dice: bisogna farsi povero conversando coi ladri. Non parlare di te stesso nè in bene nè in male, e non occupare gli altri in alcun modo della tua persona; PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 8 perchè se dici bene hai l'aria di essere vanaglorioso e desti l'invidia oltre il ridicolo; se dici male, trovi tutto il mondo disposto a non contraddirti. Non immischiarti degli affari altrui. Questa non solo è una passione intollerabile in società, ma si va a rischio di avere il male, il malanno e l'uscio addosso. Un proverbio marchigiano dice: Chi s'impaccia delli affari altrui - dei tre malanni gliene toccan dui. Non sceglierti un amico fra i troppo ingenui. È stato detto che un nemico spiritoso è meno da temersi di un amico sciocco. Non riportare discorsi intesi anche passando, specialmente se non son lodativi della persona a cui son diretti. I napoletani dicono: Chi ciarla riporta, schiaffo vuol dare. Se è necessario avvertire un amico del biasimo a lui portato o di porlo in guardia contro un pericolo o contro un altro uomo, fallo cautelatamente, così che non possa diventar rosso in presenza tua, e non ti serbi mal animo di avergli fatto sapere che tu hai sentito a notare alcun suo difetto. Non mettere cattive abitudini nei giorni solenni di strenne, di doni, di lettere, di mancie, se non sei sicuro di poter perseverare; perchè una volta che tu mancassi, la tua dimenticanza sarebbe presa in sinistra parte. I piemontesi dicono: È meglio uccidere un uomo che mettere una cattiva abitudine. Se accetti un invito a pranzo non andare troppo presto, ma neppure troppo.tardi, badando che potresti riuscire prima inopportuno, e dopo molesto, per aver fatto ritardare altrui, come abbiamo ripetutamente detto. Se le persone di servizio del tuo ospite commettono qualche disattenzione non raccoglierla e fingi di non accorgerti o cerca scusarle se hanno mancato. Se tu dovessi trovare qualche cosa nel tuo piatto che non fa parte delle salse, vinci il ribrezzo e cerca nascondere e dissimulare l'accaduto. Se hai invitato, sii cortese; non badare se qualche malavveduto ti rompe un oggetto anche di valore, se il servo ti fa cadere una posata, se ti si macchia il tappeto o la tovaglia. Non sederti troppo vicino o troppo lontano dalla tavola e non spiegare la tua salvietta pel primo e molto meno non stendertela sulle ginocchia come i contadini o sul petto. Non allungare troppo i piedi a rischio di pestare quelli del tuo vicino. Se ti manca un coltello, una posata, del pane, accenna piano al domestico che te lo serva, senza chiamarlo forte come all'albergo. Non mordere nel tuo pane e non tagliarlo col coltello, ma spezzalo a piccoli pezzi quanto basti per portarlo alla tua bocca con due dita. Non soffiare nella tua minestra e non stendere col coltello salse, frotte o burro sul pane; salvo che prendendo il the, il che può essere tollerato. Non tagliare la vivanda che a misura di accostarla alle tue labbra, e ricordati che il pesce non vuol esser tagliato col coltello. Non ripulire la forchetta o il coltello sul pane nè gettarlo poi sotto la tavola; nè gettare le ossa quando le hai spolpate. Bisogna evitare di versare il sale o di notare se siete per caso tredici a tavola, perchè vi potrebbero essere delle persone superstiziose che se ne spaventerebbero. Non parlare colla bocca piena a rischio di farti andare la roba in traverso e di dover schifire o turbare i convitati. Non fare rumore nè colle labbra nè colle mascelle, e sopratutto bada di usare tutta quell'attenzione per cui le tue labbra e i contorni della bocca rimangano estremamente puliti. Non accostare mai il coltello alla bocca e non intingere il pane nelle salse colle dita. Non sbucciare le mele o le pere in spirale ma in quarti e man mano che le mangi, tenendole colle forchettine. Non mangiare troppo in fretta per non affrettare gli altri, nè troppo adagio per non farli attendere. Se hai il singhiozzo allontanati un momento e non tornare se non è passato. Il solo atto di moverti ti darà un'agitazione salutare che forse imporrà il freno a' tuoi nervi. Ripulisci la bocca prima di bere, giacchè non vi ha cosa più ripugnante che vedere un bicchiere coll'orlo ingrassato. Se mangi degli sparagi, della selvaggina, ecc., ti sarà permesso di prenderla colle dita. Chi presiede alla gentilezza, alla grazia, alla sceltezza dei modi in Italia e ne dà quello che si chiamerebbe in musica la intonazione, ha l'abitudine di fare così; e tutt'al più per la selvaggina potrai valerti del lembo della salvietta. Mangiando frutti piccini col nocciolo o uva o ribes, i rifiuti non si rovescieranno sulle mani per porli nel piatto; ma nel piccolo cucchiaio da dessert se c'è; e se non c'è, sul piatto inchinandovi sopra leggermente. Nel bere bisogna fare lentamente; non far rumore colla gola bevendo; e bisogna asciugarsi la bocca dopo che si è bevuto. Per prendere il caffè è di regola lasciarlo freddare sino a che si possa bere senza versarlo nel piattino, perchè non isgoccioli sulla tovaglia, sugli abiti o sul tappeto, dato che si prenda in piedi e mormorando, come dicevano i nostri nonni. Alla padrona di casa è riservato il maggior còmpito in tutto quello che riguarda il buon andamento d'un convito, d'un salotto, d'un ricevimento, sia pure il più cordiale e il più alla buona. La donna ha il dovere di regolare tutto quello che si attiene alla casa, al focolare domestico; l'uomo ne è il doveroso sostenitore, quello che deve fornire i mezzi del benessere; ma la donna deve darne l'intelligenza e il modo di goderne. Infine, diremo anche noi con parole non nostre per avere maggiore autorità: «una donna anche nervosa in casa propria sarà sempre gentile e amabile. «Questa specie di ospitalità, meglio esercitata in Francia che in alcun altro paese, è una delle cose che maggiormente contribuisce alla piacevolezza della società. Non si deve in casa propria nè andare in collera, nè formalizzarsi, nè mostrarsi bisbetici, nè avere sprezzo o durezza: ecco delle massime che sono generalmente osservate dalle persone educate». In tutti questi comandamenti di cui più d'uno può parere una superfluità e una formalità quasi ridicola, si cela una incontestabile saggezza, di cui le persone non superficiali, ma sinceramente amanti della dignità personale non possono nè debbono fare a meno. Essi se non foss'altro aiutano l'uomo a stare costantemente sopra sè medesimo; ciò evita molte cattive conseguenze anche nella parte morale dell'educazione, esercitando le facoltà relative alla prudenza e all'attenzione, e produce l'effetto infalliblle di dare all'uomo delle buone abitudini, che si convertono poi, come abbiamo ripetutamente detto, in suggestioni corrette e virtuose, indispensabili al rispetto di sè medesimo e degli altri.

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Signorina non è più adatto ad una persona che abbia passato i trent'anni. Se avrà dello spirito, essa saprà indicare che è fuori dal circolo di certe pretese le quali la renderebbero ridicola.

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È assai probabile che costoro abbiano avuto il pensiero necessario a questa loro ripugnanza incomoda, ma non difficile a comprendersi, portando con sè l'occorrente per servire il loro rispettabile io; ma ciononostante preparerete tutti quei piccoli oggetti che possono servirgli, senza che abbia la noia di domandarveli. Ci sono alcuni così timidi che non lo farebbero mai anche se loro lo chiedeste istantemente; ciò obbliga l'ospite a quella gran virtù che è il prevedere e il prevenire, nel che si riassume gran parte del tatto sociale. Se uno quando arriva da un viaggio ha bisogno di un ristoro e l'ora della colazione o del pranzo è ancora lontana, l'ospite cortese gli farà portare l'occorrente in camera o lo guiderà nella sala da pranzo, profittando di quel momento per fargli sapere l'ora dell'asciolvere e per chiedergli cosa di solito egli preferisce al mattino, e quali sono le sue abitudini. Se egli protesta di non averne, voi seguite le vostre, cercando di non imporgliele e di indovinare ciò che gli può far piacere di più. È costume di mostrare all'ospite la vostra casa e il vostro giardino se lo avete; ciò è un dovere preciso perchè egli si senta in casa propria e sappia che in casa vostra non c'è nulla da nascondere. Tuttavia non farete come quel vanesio che non risparmiava a' suoi visitatori nè un filo d'erba odorosa, nè il ricettacolo degli animali inferiori. Questa mancanza di tatto è comune anche ai Capi di Istituti, delle Gallerie, dei Musei, dei Gabinetti, i quali non trascurano neppur la carta da filtro, e le cordicelle per legare gli scartafacci o i registri. Queste ingenuità sono assolutamente da evitarsi. Chi non è specialista in materia, chi non ha ragioni particolari o per ufficio o per interesse proprio di osservare minutamente, ne prova un senso di stanchezza e di noia da cagionare pensieri tutt'altro che lusinghieri alla vostra persona e alle cose vostre. Se si rassegna ad ascoltarvi e a seguirvi, è soltanto per effetto della sua buona educazione o della sua pietà che gli ha insegnato a sopportare pazientemente le persone moleste. Tutti noi abbiamo provato questa impressione penosa in qualcuna di queste visite, in qualcuna di queste ospitalità; la buona educazione ci ha imposto questo sagrifizio, ma la nostra coscienza si è ribellata e ha protestato contro questa importunità che ha prodotto in noi il proponimento di non cascare mai più sotto una coazione di gentilezza, la quale è tanto più penosa perchè ci costringe ad essere ingrati senza nostra colpa per un moto spontaneo dell'animo. Così quando ospiti insigni vanno in provincia, il ricevimento ufficiale talvolta diventa a dirittura una fatica e, per alcuni temperamenti, dannoso alla salute. Importa di non eccedere nelle dimostrazioni di cordialità e conservare quella discrezione che è la prova di quello spirito, il quale rende amabili le persone avvezze a vivere in società. Il vostro ospite non lo trascurerete, ma lo lascerete libero di moversi e di respirare liberamente; se è una signora le servirete di compagnia fin dove è lecito senza parere curiosi o intromettenti; se è un uomo secondo la condizione vostra e le abitudini del luogo, lo farete padrone della vostra casa accennandogli le ore dei pasti e delle conversazioni che darete in suo onore. Prevederete quel che potrebbe occorrergli durante le ore notturne, perchè se ha abitudini non siano turbate, specialmente se fosse di età alquanto avanzata. Cosicchè non mancherà mai un lumicino da veglia, qualche ristoro: quelle piccole cose che evitano i languori agli stomachi deboli o li impediscono nei delicati. Quando egli partirà, avrete tutto preveduto; le provvigioni pel viaggio, le valigie alla porta, cercando di allontanare finchè potete la noia molestissima delle mancie ai vostri domestici, il che rivelerà in voi un intimo senso di delicatezza e di previdenza. Non tutti gli ospiti sono in condizione di spendere molto per non figurar male, secondo un cattivo pregiudizio sociale; non tutti gli ospitati hanno i mezzi in relazione della vostra casa o del vostro genere di vita; a tutti indistintamente la mancia è un pensiero umiliante, quasi importi istintivamente l'idea di offendere il proprio simile. Infine egli è certo che l'uso è comune in società; ma non è meno certo che bisognerebbe liberarsene fino ad una certa misura, come si sono evitate le mancie tradizionali in taluni uffici e in talune istituzioni del capo d'anno e del ferragosto. La mancia al domestico, la quale fa pensare che l'albergo è una istituzione salutare perchè là almeno non si fanno complimenti, toglie una parte della cordialità e dell'espansione all'ospitalità. L'ospite veramente cortese e scelto sa di per sè compensare le proprie persone di servizio del lavoro straordinario occorso in certi giorni, e nel mentre impedisce la rapace avidità de' suoi domestici, ne educa i sentimenti, evitando la loro mormorazione e facendo sì che essi servano gli ospiti tutti ugualmente dal più ricco al più povero, senza secondi fini e senza mancanza di riguardi.

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Fino a qui anche la vita del contado non fu che una schiavitù retribuita; e quando il contadino volle mutar vita e tentare i mari e le terre vergini per rialzarsi, rimase mancipio degli agenti di emigrazione, scambiando una schiavitù con un'altra; legge fatale della natura, a cui la grande formola - la lotta per la vita - trasportata dal campo positivo al campo morale, pare abbia aggiunto di crudeltà e di sventura. Se è però vero tutto questo, l'uomo civile e che si sente buono non dimenticherà che il suo servo è assurto all'eguaglianza de' diritti civili e sociali, e che anch'egli ha l'animo disposto ad accogliere e ad assimilarsi il germe fecondo della redenzione morale. Tal padrone, tal servo; e se ci voltiamo indietro noi vediamo che un padrone buono e compassionevole ebbe, nella maggioranza dei casi, servi fedeli e teneri; e se ci guardiamo attorno vediamo commossi che in taluni luoghi si dà a questi schiavi volontarii e inconsci il premio della virtù. I Quaranta Immortali in Francia non sdegnano di scendere a ricercare le umili e ignorate virtù di questi eroi della fedeltà servile, da cui si irraggia una luce più splendida che da un atto eroico, compiuto una volta sola sotto gli occhi di tutti, cogli eccitamenti dell'amor proprio soddisfatto e della stampa la quale addita alla fama i nomi da incidere sul marmo per accordare il premio Montyon. Ognuno ricorda con tenerezza i vecchi domestici che videro nascere le famiglie e divisero con esse la prospera e l'avversa fortuna. Ci sono dei domestici diventati celebri per la celebrità de' loro signori; dei tipi di abnegazione e di coraggio e di virtù, a cui l'animo tributa uno spontaneo omaggio, omaggio singolare che sta tra la tenerezza e la pietà. Povera gente nata a soffrire, che divide col cane la fedeltà e i rabbuffi e che qualche volta, priva di libertà per difendersi, priva di fortezza per scolparsi, reagisce coll'istinto umano pervertito da una cattiva educazione e da una coatta repressione di ogni dignità. I servi di Michelangelo, di Alfieri, di Gino Capponi sono passati alla storia perchè servirono degli eccelsi uomini, ma ce ne sarebbe un numero infinito di quelli che son nati e vissuti e morti nell'ombra, essendo stati le guardie tutelari della parsimonia, dell'onestà, del decoro dei loro signori. Egli è perciò che non parleremo mai ai servi con durezza o con dispregio; non faremo mancar loro il necessario; e lo condiremo con quell'affabilità che senza togliere il rispetto verso di noi aumenta l'affezione. Nelle case in cui i domestici sono numerosi è necessaria una doppia cucina: essa deve essere salubre e abbondante: la gozzoviglia è un vizio, ma l'astinenza forzata suggerisce i più invidi e più tristi consigli; e dove la casa è modesta e la servitù mangia il cibo comune, sarà nel porgerglielo osservata la più scrupolosa attenzione perchè non sembri il vostro rifiuto; il che accadrebbe se lo metteste nel piatto vostro o nella vostra scodella. Chi vuole rispetto cominci a rispettare gli altri. Anche nei discorsi che fate alla loro presenza è indispensabile di non umiliarli col dire per esempio - sono cose da servo - pare una serva o una servaccia - è bugiardo come un servitore - e via dicendo. Bisogna trattarli così bene da poter rendere realtà possibili le parole di Figaro al conte d' Almaviva: Quanti padroni non potrebbero esser servi a quelle condizioni? È una sana regola di umiltà pratica, quella di conservare e di sviluppare in essi il sentimento della moralità. Bisogna che essi pratichino il bene, siate pure costretti ad imporlo. La loro condotta fuori di casa non può passare inosservata al padrone, il quale ha ancora in questo caso cura di anime; e specialmente le donne saranno invigilate con ogni assiduità. Non bisogna tentare i domestici con troppo grande libertà nella quistione del denaro o delle derrate o provvigioni, ma non bisogna neppure mostrare una diffidenza offensiva alla loro probità, che potrebbe suggerir loro dei pensieri aggressivi e inquietanti. Nei tempi andati, felici tempi in cui gli uomini stavano contenti al quia, i domestici non sapevano leggere; ciò importava che se erano curiosi dovevano limitarsi ad ascoltare dietro le porte; uso del resto comune in tutte le comunità, non escluse le religiose; ora invece i vostri segreti li sanno dalle lettere che dimenticate per casa e dalle carte postali, volgare usanza che dovrebbe essere soltanto ammessa per fare un'ordinazione di caffè e zucchero, o per avvertire dell'invio d'un vagone di vino o di generi alimentari. La riserva più doverosa è quella di non lasciare troppo campo a queste indagini sui vostri affari. Pensate che è più facile trovare un curioso che un ladro, e che la curiosità è un peccato così veniale da non movere gli scrupoli di alcuno. Se siete vittima di un furto, la giustizia vi provvede e scoperto il ladro è punito; ma chi possiede il vostro segreto può diventare un pericolo permanente per la vostra fama o per la vostra onorabilità, ed esser cagione di infiniti dispiaceri. Meglio tenere chiuso lo scrittoio che lo scrigno, meglio ancora tenerli chiusi tutti e due per non indurre alcuno in tentazione. E sopratutto esser tale di tratto e di bontà che il vostro servo non invidii la vostra ricchezza e non insidii la vostra fama. La quale cosa non è poi così difficile come potrebbe parere alla prima, purchè domandiamo al nostro cuore i sentimenti affettuosi e al nostro intelletto quella moderazione che limita le nostre passioni, smorza l'ira e consiglia l'indulgenza per coloro che hanno fallito involontariamente; essendo una verità inconfutabile questa, la quale informa perfino tutta la legislazione nazionale - che uno tanto è colpevole in quanto comprende. Il comando sia fermo, non duro; preciso perchè non si presti a interpretazioni diverse; ed il servizio fedele ed esatto sia compensato con una di quelle parole gentili che, anche pronunciate meccanicamente, rivelano la buona educazione in chi le pronuncia. Nelle grandi e nelle piccole cose, anzi specialmente nelle piccolissime, che sembrano le più trascurabili, non si deve dare la più lontana apparenza di avere con una persona di servizio una complicità, sia pure innocente. Il far spiare un'altra persona dal vostro domestico dalla finestra, o mandarlo in sua casa con un pretesto è un cattivo esempio che ricade sempre su chi lo dà: qual si fa tal si riceve, come in tutte le cose della vita; una complicità importa sempre una delazione. Gli uomini forti sono quelli che non hanno segreti; i fortissimi sono quelli che avendoli, non li comunicano ad alcuno e non li lasciano trapelare anche nella convivenza più intima. È stato detto che niuno è eroe pel proprio cameriere. Chi scrive queste parole crede precisamente il contrario e potrebbe addurne numerosi esempi, specialmente nelle signore. L'importante è di dare al proprio io l'educazione salutare del riserbo e il sottrarsi a tutte le credute piccole necessità della vita, che non sono punto necessità, e rendono schiave solamente le creature deboli e viziate. Nella convivenza delle famiglie parecchie volte ci sono dei malintesi: chi mangia insieme brontola insieme, dice un altro proverbio. Ce n'è tra marito e moglie, tra fratello e sorella, tra padre e figlio, tra suocera e nuora specialmente, che sono tempesta e gragnuola. Ora nessuna cosa educherà più l'animo che l'evitare il primo scontro alla presenza dei domestici: ciò farà l'effetto di quell'acqua che il predicatore consigliava alla moglie litigiosa di tenere tra la lingua e il palato venti minuti quando si sentiva a venir caldo. La presenza d'una terza persona deve sempre porre un freno ad uno scambio di parole, e così una parola taciuta può essere una lite evitata. PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 10 Ciò parrà una schiavitù insopportabile: per una serva, per una cameriera, per un cocchiere dover smettere; eppure è una legge precisa, formale, per le persone bennate, il non avere testimoni da dover blandire, perchè i vicini non sappiano quel che è accaduto in un cattivo quarto d'ora. Non si può essere sempre di buon umore. Soltanto i pazzi sono uguali nella pazzia e anch'essi poi qualche volta la variano: può darsi che come noi, anche le nostre persone di servizio abbiano qualche assalto nervoso; bisogna compatirli e sopratutto non tentarli nell' ira. L'ira conduce al sangue, specie le classi incolte; chi ha più giudizio l'adoperi; e tornata la calma si riprenda con dolcezza o se la cosa è inaccomodabile si licenzi senza chiasso. Se la colpa è lieve, il certificato sia tale che non possa precludere ad alcuno una vita tranquilla e onorata; se è tale da non potersi dissimulare, notate nel suo libretto il tempo che è stato in casa vostra senza commenti, il che deve tacitamente mettere gli altri sull'avviso; e nello scegliere una persona di servizio il pensiero deve esser quello di non levarla da alcuna casa, sia pure sconosciuta, perchè si contraggono obblighi e una certa responsabilità morale a cui la prova potrebbe non resistere, e non essere coronata dallo sperato successo. In caso di disdetta per motivi gravi, meglio è di pagare il tempo indetto dalla consuetudine locale e lavarsene le mani al più presto; in caso di malattia evitare sin che si può l'ospedale, e lasciare a questi infelici il conforto di credersi, se non in casa loro, fra persone pietose che sanno comprenderne e alleggerirne le pene. Questa pietà non potrà sempre destare la gratitudine nei loro cuori, ma potrà contentare il vostro nella soddisfazione d'un tratto di umanità, che solleva l'uomo agli alti ideali d'un dovere compiuto. Guariti che siano non menar vanto verso di loro della vostra carità; non rinfacciare questo o altro beneficio ad essi fatto; ciò farebbe perdere a voi il pregio, ad essi il dovere di esservene grati: e in ogni caso tener sempre presente al pensiero la massima di quel filosofo stoico, il quale fu uno schiavo illustre e sapiente: esser miglior cosa che gli altri siano ingrati che tu uno sciocco.

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Una dolcezza che sembri sommessione da una parte; una franchezza sciolta dall'altra, che non abbia l'apparenza del dispotismo, ma che prometta quasi una difesa forte e sagace. La sorella è un freno salutare all'irrompere dell'ira, alla libertà soverchia della parola, alla mormorazione volgare; un fratello è una salvaguardia, un consigliere, un protettore e qualche volta un maestro. L'istitutrice, quando c'è, rappresenta un'autorità che sta tra i genitori e gli ascendenti e i maestri esterni; essa non deve arrogarsi alcun diritto, ma non deve essere in dubbio sui doveri che gli altri hanno verso di lei. I genitori nel prenderla sotto il proprio tetto e nell' affidarle la cura de' proprii figliuoli avranno usato tutte quelle cautele che ne garantiscano il valore ed i costumi; avranno studiato da dove esce per sapere dove presso a poco potrà andare; e per questo non le interdiranno l'esercizio di diritti tanto più difficili ad esercitarsi, in quanto i domestici hanno sul conto degli istitutori e dei maestri un concetto molto curioso, che vale la pena di essere studiato per poterlo raddrizzare e correggere. Essi tengono tutti coloro che lavorano per la famiglia dei loro signori per pagamento, e specialmente gl'istitutori, i maestri e perfino i professori più celebrati delle università, qualche cosa di poco diverso da loro. Una lezione privata che si può rimunerare, per essi non è che un servizio come il ripulire una camera o lustrare gli stivali. Ciò non par vero, ma è così; e dimostrerebbero una grande deficenza di studi filosofici e morali, coloro che se ne offendessero o non volessero persuadersi che il mondo è stato sempre così e sempre andrà così. L'uomo ha conservato in sè per eredità, per fatalità e per istinto un pochino di quell'angelo ribelle che si volle alzare per superbia, e non se ne guarì neppure quando fu travolto nell'abisso d'ogni malore, come dice il poeta. I genitori mostreranno il più gran rispetto del maestro ponendolo al di sopra di sè medesimi; non ne commenteranno gli insegnamenti, non gli daranno torto, neppure se l'ha, in presenza degli allievi o d'altri; inculcheranno nei figliuoli l'assoluto e profondo rispetto e indurranno i fanciulli e i domestici a domandare scusa se hanno errato, senza debolezza, anche se per caso l'errore dell'istitutore o del maestro fosse provato. È indispensabile la gerarchia nella vita, come nel convento era necessaria la regola. Non mancherà modo poi alla persona che governa, di ricondurre il precettore con prudenza sulla via della giustizia. Dal canto loro le istitutrici specialmente, perchè ormai gl'istitutori sono andati in disuso dal giorno che gli abati hanno cessato di essere possibili, cureranno di ornarsi di tutte quelle amabilità che rendono attraente una donna, la quale senza essere nata a servire non ha posizione propria pel comando. L'istitutrice e la damigella di compagnia non hanno al certo una condizione molto invidiabile, ma l'hanno però sempre degna di ogni rispetto, se da una parte sanno spogliarsi dalle smancerie dell'affettazione, e dall'altra dagli atti arcigni, dalle parole dure e dagli acerbi rimproveri. La pedanteria deve essere esclusa come la disinvoltura troppo lieta o specialmente beffarda. Esse debbono sapere che la loro condizione le costringe ad essere simpatiche; e per esserlo debbono curare perfino il loro abbigliamento in modo che corrisponda a quel comandamento categorico dei francesi: avere il fisico dell'impiego - le physique de l'emploi. Poste in una condizione che tocca al capo e ai piedi della gerarchia, esse debbono saper essere gl'intermediarii pietosi del perdono e della carità nelle famiglie, come quei cuscini, a così dire, che impediscono gli urti, arrotondano gli angoli, attutiscono i rumori e gli strofinii; e lasciare nelle famiglie il ricordo d'una custodia mite e gentile quasi di fate benefiche, il cui nome richiama negli anni tardi un sorriso di compiacimento e una lagrima sugli occhi di coloro che ne provarono i benefici influssi. È a questo patto che le famiglie si cementano e che gli uomini diventano benevoli l'uno verso l'altro in un comune desiderio di rendersi tollerabili.

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Tuttavia in tutto ciò non è solamente il mondo che abbia torto; bisogna dire che qualche volta hanno torto anche le maestre e perfino quelle che, con neologismo deplorevole, si chiamano le professoresse. S'intende che non vogliamo ora parlare del costume. Per le maestre che non hanno costume o l'hanno scorretto questo libro non è fatto, perchè nessuno ha avuto qui l'idea di stendere un tratto di morale; del resto noi siamo obbligati tutti a credere che maestre scostumate non ce ne siano, o almeno che ora non ce ne siano più. Ma questo appunto non essercene più, ha lasciato nella tradizione l'idea che ce ne siano state; il che ha contribuito non poco a farle considerare da un punto di vista non degno del loro nobile compito; e la tradizione è assai potente nei popoli, come sappiamo. Ora, per esempio, il figlio d'un ladro non ha alcuna colpa di essere il figlio d'un ladro; ma questa colpa del padre, questo discredito si riversa sul suo figliuolo, il quale, sia pure per ingiustizia, ha il dovere di essere galantuomo non più in proporzione aritmetica, ma in proporzione geometrica. Così avviene delle maestre, le quali hanno il loro peccato originale, poichè prima che esse nascessero, forse qualcuno ha peccato per esse: e a questo peccato involontario può servire di battesimo e di rigenerazione un'austerità stretta, quasi monastica, specialmente nelle piccole città, dove il pregiudizio e il pettegolezzo sono una malattia, purtroppo! cronica e inguaribile. Il modo di comportarsi di una maestra in società deve essere d'una riservatezza rigorosissima. Ad essa non sono permessi balli pubblici, abbigliamenti capricciosi, passeggiate e partite di piacere che possano dar luogo a osservazioni e commenti; e non le sarà permesso di intrattenersi con persone di diverso sesso, o di ostentare libertà soverchia di maniere o di discorsi. Dovendo conoscere il bene ed il male, essa saprà correr via sopra un argomento sdrucciolo, inculcare l'ordine e darne l'esempio con una compostezza misurata e severa. Essa sarà al corrente del movimento intellettuale, sociale e politico del suo paese, perchè non le abbiano a riuscire incomprensibili le leggi che deve rendere carne e sangue della crescente generazione. Ma questa conoscenza delle cose, questa coltura, questo amore dello studio, non deve degenerare in pedanteria, la quale spesso involontariamente tradisce l'abito peculiare dell'insegnamento. Le letterate non sono molto amate dal pubblico, perchè teme sempre di trovare in esse il tono cattedratico. Il sapere deve zampillare come sapienza spontanea, e le cognizioni essere assimilate così, che ne venga un ornamento del discorso e non un peso per l'interlocutore. Anche la dottrina delle donne deve avere il calore dell'affetto. Se per tutte le altre donne la moderazione e la dolcezza sono un ornamento dell'amabilità, in lei debbono esse il principale fattore del carattere. La mondezza dell'abito e la sua semplicità austera saranno il suo primo figurino di moda; e la conoscenza delle cose della vita non deve far altro che insegnarle a schivarne i pericoli e a porsi come un faro luminoso davanti alle piccole coscienze, che vanno svegliandosi negli alunni ad essa affidati. E poichè, come dice il Pascal, la virtù d'un uomo non deve misurarsi da' suoi sforzi, ma da ciò che fa ordinariamente, è naturale che l'esempio della virtù non può venire che da colui il quale l'esercita nelle piccole evenienze della vita. L'uomo si corica la sera, si alza la mattina, si veste, fa affari, mangia e digerisce quando non ha lo stomaco guasto: questa è l'intelligenza animale, come ha detto un filosofo, la materia in moto. Nessuno potrebbe immaginare neppure approssimativamente il numero di idee o di pensieri di quella folla nera, compatta, che esce ogni mattina dalle nostre case, inonda le piazze, ciarla, stride, piange, si rallegra e si dilegua silenziosamente nelle prime ore della notte buia, per ricominciare il domani colla stessa disordinata consuetudine il lavoro faticoso della vita materiale. Quel milione di teste che interrogate in un momento non appassionato sanno esprimere così bene i sentimenti più nobili, il gusto più fine, lo slancio più eroico, tal da poter sembrare la voce di Dio prese separatamente; per un contrasto bizzarro, specie di animali inconscienti con volto umano, pare non sappiano ragionare dirittamente, nè sentire profondamente le cose che esprimono, quando sono tutte insieme. Egli è che l'uomo singolo vive incatenato nelle consuetudini: e spetta a coloro che insegnano l'indirizzare l'intelletto umano ad averne di buone, di nobili, di oneste. Questa educazione delle consuetudini appartiene di diritto alle maestre, che essendo donne, sole sanno sorridere all'infanzia, sole possono cogliere per simpatia i primi moti di un'anima che si sveglia alle loro prime carezze. Egli è perciò che noi abbiamo intitolato e dedicato questo capitolo alla maestra e non al maestro; l'uomo non ne capirà mai nulla, salvo che per eccezione e poichè abbiamo fuse le scuole maschili colle femminili, non si vede più la ragione perchè una donna non possa condurre i fanciulli di ambo i sessi fino alle classi superiori, restando così esclusi gli uomini, i quali maneggiando colle loro grosse mani quei teneri cuori minacciano d'infrangerli. Se altro non fosse, ciò educherebbe gli uomini al rispetto e alla reverenza verso coloro che sono dolci, che sono soavi, che sono deboli. Più tardi li daremo in mano ai retori, agli scienziati e ai filosofi; essi non arriveranno mai troppo tardi: l'abito degli affetti sarà già formato. È stato detto che per ben intendere la scienza dell'anima bisogna studiarne l'alfabeto accanto ad una culla. Ma quell'inno alle culle gli uomini non sapranno mai cantarlo; e tutta l'educazione d'un popolo è in mano di chi insegna all' infanzia, perchè solo chi ha veduto il principio delle cose grandi, può giudicarne l'andamento. Gli insegnamenti della scienza e della filosofia sono dottrine e non moti dell'animo; esse possono calmare le ebbrezze dell'intelligenza, non saziare la sete dei nostri cuori e indovinarne la fine. E questa sete d'affetto è la rivelazione di quell'ideale che solo l'educazione può raggiungere. Questo grande compito dell'educatrice dovrebbe crearle un'atmosfera più atta a far maturare la messe della virtù e della sapienza popolare e metter lei sopra un trono. Invece non è così, si direbbe anzi che sia tutto il contrario; e ciò si spiega colle premesse; ma tocca in gran parte ad esse di distruggere la continuità di quel giudizio ingiusto; e non sarà loro difficile se sapranno, prima di entrare nel gran meccanismo dell'educazione nazionale, di che fardello si gravino le spalle e quanto sia faticoso ufficio e di che lagrime grondi e di che sangue. Se l'educatrice ha una posizione difficile in società e nella scuola, ne ha una non meno grave nei collegi e nei convitti, in genere nella vita di reclusione. La vita delle recluse, specie di quelle che sono già adulte e quindi restìe al vivere in comune, è degna di uno studio di importanza capitale. I rapporti tra le maestre e le scolare e tra esse e il mondo sono tanto complessi, da non poter essere accennati che sommariamente. La prima necessità è di rendere i collegi e i convitti così lieti e sereni da impedire la noia, da evitare il pettegolezzo, da rendere tranquillo e calmo l'ambiente. Se l'istitutrice deve evitare con ogni fatica le predilezioni anche involontarie, deve altresì invigilare a che le allieve con contraggano intimità troppo sentimentali, e quelle disposizioni alla sensibilità eccessiva che deprimono il carattere e tolgono il concetto del vero nei cuori della gioventù. Anche il così detto parlatorio deve essere accomodato di guisa che le anime giovanili possano espandersi lietamente, impedendo le esagerazioni, ma coltivando la naturale confidenza dei figliuoli verso i genitori. Infine i collegi debbono essere case di educazione, con regole fisse, ma con spontanea naturalezza nei modi e negli affetti. E i convitti, come lo dice il nome, luoghi in cui si convive transitoriamente, vale a dire grosse famiglie in cui l'urbanità, la tolleranza reciproca, i servigi scambievoli hanno una impronta regolamentare indispensabile pel migliore andamento dell'azienda e per un raccoglimento necessario alla conquista d'un titolo accademico; ma che ospitano appunto delle persone già sul limitare della vita; non possono avere quelle discipline fisse e rigorose e strette, che si addicono ai collegi propriamente detti. Le convittrici e i convittori degli istituti normali e superiori debbono essere le custodi di loro stesse: nel loro tratto cortese e educato saranno escluse le parole vivaci, i nomignoli impertinenti, le consorterie o le ostilità aperte o i maneggi sotterranei. Lo studio in comune, il pasto in comune, le passeggiate in comune possono essere altrettante discipline morali e sociali; e l'aiuto, l'emulazione, perfino la lotta urbana nelle difficoltà scolastiche, altrettanti ammaestramenti civili per l'esercizio pratico della vita. L'istruzione in sè e per sè, non vale nulla; la trasformazione sociale si è effettuata, le idee si sono moltiplicate; le nazioni sono divenute intelligenti; ma si sono staccate man mano dai loro sentimenti e gli entusiasmi salutari le hanno abbandonate. E così questa grande rivoluzione intellettuale ha stipato i cervelli senza fecondarli e minaccia di abbandonare i popoli alla follia della loro intelligenza. Ora è all'educatrice che è riservato il Sursum corda! E questo otterrà per sè e per gli altri non colle pedanterie scolastiche, coll'orpello d'una laurea, colla vanità d'una patente, colle pretese di un titolo rimbombante, colle arti o colle scienze o col sapere la storia greca, romana, la teoria darwiniana o fare dei versi; ma coll'essersi assimilati gli studi che nel campo morale e intellettuale le vietino le mode bizzarre negli abiti e le maniere virili o scomposte, o sconvenienti. Questa salutare assimilazione le indicherà quella perfetta educazione civile, la quale irradiandosi da lei porterà ne' suoi discepoli l'urbanità, e spronerà allo studio, al rispetto delle consuetudini paesane e delle altrui opinioni e condurrà le giovani menti a venerare in essa non soltanto il sapere ma la virtù; onde poi accoglieranno nei cuori quel possente anelito, per cui la civiltà si diffonde, si stabilisce e rende meno aspro e meno difficile il vivere in comune. PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 11

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Ma ogni nato deve morire, e benchè il De Maistre abbia trovato il modo d'ingannare la paura dicendo: gli altri son morti, ma noi non sappiamo se moriremo; è pur tuttavia vero che anche senza saperlo si muore lo stesso. I costumi intimi e le convenienze esteriori sono moltissime e diverse in ogni regione per questa infausta cerimonia. L'Italia meridionale potrebbe dare da sè motivo ad un volume, per non urtare le tradizioni che anche nelle classi elevate sono invincibili. Quando la morte, triste dea, entra in una casa, gli amici e le amiche fanno intorno a quel letto illuminato, in quella camera trasformata in cappella ardente, il pietoso servizio d'onore. Alla salma si fa subire l'ultimo abbigliamento terreno pietosamente, con uno scrupolo pieno di tenerezza melanconica. Tutti i popoli della terra hanno avuto il culto della morte, e le vestigie che ne scopriamo manifestano le prime idee della civiltà, nella cura con cui furono inumati i nostri progenitori. È la tomba che rivela la immensa e insormontabile differenza che separa l'uomo dagli altri animali. Essa è, per così dire, la sanzione del nostro lignaggio. La salma è custodita dalla pietà dei parenti e degli amici fino all'ora in cui va a riposare per sempre. Alle prime ore della perdita se ne fa la denunzia allo Stato Civile che manda un medico a constatare il decesso e a verificare il male che ha prodotto la morte; poi si prendono accordi colla Chiesa pel trasporto e generalmente con qualche imprenditore di pompe funebri, perchè tutto sia eseguito nel modo e nel tempo stabilito dalla legge. Se si desiderasse far trasportare il corpo in qualche altro comune lontano, bisognerebbe chiedere l'autorizzazione alla potestà politica. Non è nostro intendimento entrare nel capitolo spese, che variano all'infinito secondo le condizioni e le convenienze dei morti e dei vivi. Per ciò che è di prammatica del corteo funebre, o per le corone che gli amici, i parenti, gli ammiratori mandano alla bara, tutto è sottoposto a circostanze speciali e personali. Noi ricordiamo i nostri grandi morti, per cui sono abbisognati dei carri a trasportare i fiori, che anche l'antichità dava alle tombe. Essa aveva loro consacrato i papaveri e le primule, e coronava di rose selvatiche le vergini rapite dalla falce inesorabile. Davanti ad un feretro dovendo cessare ogni ragione di rancore, di personalità o di guerra, le precedenze sono determinate dalle prammatiche e debbono essere scrupolosamente osservate dalla famiglia e da coloro che hanno la direzione del funerale, e che ne assumono la responsabilità di fronte al mondo. Oltre la tomba le ire nemiche non vivono, e i superstiti, gli amici, i funzionanti da direttori e da esecutori delle pompe funebri, debbono avere la coscienza, l'intuito, il sentimento della parte che farebbero rappresentare al morto che si vuol onorare, qualora dimenticassero o trascurassero, quando ci sono inviti generali, di ottemperare ad un dovere sociale che è il più semplice e il più categorico, facendo qualche esclusione che diventerebbe sconveniente e odiosa. Dal canto suo la persona invitata non può per alcuna ragione esimersi dal rendere questo ultimo tributo al suo simile che l'ha preceduto nella gran partenza, qualunque siano stati i motivi di dissidio durante la vita. E non potendo intervenire personalmente, non mancherà di farsi rappresentare con segni visibili, per non essere sospettato di cuore angusto o di mente piccola e gretta. I domestici, o chi li sostituisce, in lutto con un nodo di crespo al braccio attorniano la bara alla porta di casa. Gli invitati sono ricevuti dagli uomini senza parole, poichè la maestà della morte, anche di persona estranea e quasi sconosciuta, impone un silenzio pieno di tristezza e di raccoglimento. In generale l'abito è nero chiuso, e il cappello a staio. Se la persona morta è una donna, le donne la seguono vestite a lutto strettissimo. Non saranno mai loro consegnati ceri fuori della chiesa, essendo essi riservati ai soli domestici. Il cero acceso per la strada, tanto più se ci sono grandi distanze, oltre essere una fatica per le signore, può loro produrre dei veri danni materiali. Le persone di casa per un uso ravvivato dai nostri vicini Francesi seguono il feretro; le donne in carrozza, gli uomini a piedi subito dopo la bara. Ma un vero sentimento di dolore dovrebbe interdire questo accompagnamento pubblico, il quale è uno spettacolo dato in pasto al popolo, in cui non ci guadagna punto il protagonista. Se il morto è un funzionario ha sulla coperta mortuaria i distintivi del grado; se è un soldato, le medaglie, il berretto, la spada; se è una giovinetta, il giglio o il fiore d'arancio, significante le nozze immortali. Il Medio Evo metteva il melogranato, di cui la Gran Contessa ha in mano un ramo, nei ritratti conservati dalle oscurità nebulose di quel tempo. Nelle città in cui il cimitero è lontano, data la benedizione della salma nella chiesa parrocchiale, l'ultimo addio è pronunciato alla barriera per cui si accede alla estrema dimora; ma in tutto questo ogni regione, ogni città, ogni villaggio ha la sua forma di funerale. Nelle Marche i contadini buttano un pugno di riso dalla finestra quasi a dire che il pianto è entrato in casa; evoluzione delle fave buttate alle larve Lemurie dagli antichi; si assoldano i piagnoni e si fa il banchetto funerario mettendo la posata pel morto; nelle Calabrie si spengono i fuochi e per un mese i vicini nutriscono la famiglia addolorata con veri banchetti funebri; in talune città al morto si fa precedere una folla che si dà il cambio a portare un'urna di velluto rosso, vuota, a rabeschi d'oro, quasi a dire che solo nel luogo dove si sotterra, l'uomo sarà chiuso nella bara. Tra i protestanti la cerimonia è più breve e meno complicata. Le funzioni religiose si fanno generalmente in famiglia in casa del morto; ma i discorsi, l'accompagnamento, le corone, il seppellimento è presso a poco come fra i cattolici. Fra gli israeliti si va direttamente, in generale, dalla casa del morto al cimitero. È caratteristico che durante la cerimonia, anche entrando nella camera del defunto, essi tengono costantemente il cappello in testa. Ciò fa una penosa impressione ai popoli cristiani che hanno un sì gran rispetto della morte, e che, qualunque siano le loro credenze religiose, alla vista d'un cadavere sentono quasi un bisogno di piegare a terra un ginocchio. Ma occorre di notare che anche nelle loro funzioni religiose della Sinagoga, che si chiama la scuola secondo la legge antica, in cui i salmi e i Proverbi di Salomone e l'Ecclesiaste e il Deuteronomio erano precetti, deprecazioni, confessioni e non preghiere, agli uomini è interdetto di scoprirsi, come è proibito alle donne di mescolarsi cogli uomini ed è invece riservata ad esse una tribuna chiusa in alto. I lutti sono pure varii secondo le condizioni, i luoghi, le consuetudini regionali, da cui non si può decampare almeno per ora; essi sono, per esempio, perpetui, si può dire, nell'Italia Meridionale, specie nelle donne; gli uomini portano la camicia nera di lana, di seta, di cotone, il che li fa parere i beccamorti della commedia; se non tutta nera la camicia hanno però bordati di nero i solini, i colletti le pezzuole; e l'abito è di rigore per un anno, togliendo catene d'oro e anelli, in una maniera straordinariamente formalistica e piena di costanza e di fede. Sulle porte del morto inchiodano padiglioni neri, che il vento, la pioggia ed il sole soltanto hanno il còmpito di scomporre, scolorire e staccare. Nelle città di primo e di secondo ordine, e infine dove è penetrata l'universalità delle convenzioni sociali, il lutto è pressochè uguale dappertutto. Le regole del lutto debbono essere rigorosamente osservate non solo perchè mostrano il rispetto dovuto al viaggiatore partito prima di noi, per una meta anche a noi destinata, ma perchè il contravvenire offenderebbe la coscienza pubblica che ha stabilito la sua prammatica inesorabile nelle moltitudini, colla forza dell'opinione, la quale, senza avere dei codici, ha pur tuttavia delle pene e delle ricompense d'un valore incalcolabile nell' arte del ben vivere. L'opinione è così forte che un figlio non potrebbe, senza incorrere nel disprezzo delle anime bennate, negar il lutto ai propri genitori. Il lutto è una dimostrazione postuma d'un affetto doveroso; è il simulacro, la forma d'un dolore che si deve supporre nel superstite per il trapassato: ed è così universalmente riconosciuto che per dispensarsene e per abbreviarlo, ai tempi della duchessa di Berry, figlia del Reggente in Francia, quando per verità il lutto era soverchiamente lungo come anche oggidì in Calabria, fu necessario ricorrere ad una legge dello Stato, e malgrado ciò la vecchia nobiltà non la accettò che assai tardi. Non diciamo che ora il mondo va ad un'altra maniera e non bada al sottile: ciò farebbe prova che siamo deficenti di quello spirito di osservazione, che è la grande scoperta del secolo. Non mai come oggi poterono esistere e prosperare invece certe forme esteriori, tanto da rendere possibili delle fabbriche e dei negozi speciali, a mo' d'esempio, di così detti oggetti di lutto, dai gioielli alle scarpette, dalle stoffe, diremo anche noi questa brutta parola, alle confezioni. È dunque indispensabile all'armonia generale della società costituita che tutto sia, come a dire, intonato alle convenzioni doverose che essa ha imposto. Ancora non è spento il ricordo del lutto che una innumerevole quantità di cittadini adottarono per la morte del Gran Re in Italia: fu anzi da quel giorno che si adottò l'uso del crespo al braccio per gli uomini, che fino a quella data infaustamente memorabile era quasi sconosciuto in Italia. Il lutto dagli uomini si fa generalmente nel cappello, coprendone una parte del cocuzzolo con crespo nero. Questo può anche dispensarlo da un abito perfettamente nero, il che del resto è sempre da consigliarsi. Il lutto dura un anno pei genitori; due pel marito o per la moglie; si mette il lutto pel fratello, per la sorella, pei cognati, per gli zii, naturalmente pei nonni, e perfino pei cugini se sono personaggi elevati; lutti di convenzione che soddisfano la vanità dei vivi più che il dovere verso i morti. Non parliamo dei genitori pei figli: tale lutto è all' infuori d'ogni legge, perchè lo scomparire il sangue del nostro sangue è come veder tagliate via parte delle nostre membra. Notiamo di passaggio che il lutto vedovile, che è il più lungo per legge, in realtà, riesce troppo spesso più che non sia conveniente il più breve, per ragioni che non staremo qui a discutere. Alfonso Karr, che era un uomo di spirito e anche un uomo di cuore, diceva che una donna non può essere sposa e vedova con decoro che una volta sola; e la Chiesa sapiente ha tolto la benedizione alle seconde nozze delle donne; ma il vero è che il mondo va in un'altra maniera, perchè la pratica è una cosa e la poesia è un'altra. Solamente, siccome il lutto vedovile ha un'uniforme per le signore eleganti, quelle che non si sentono la vocazione di immolarsi sul rogo del marito, o di tagliarsi i capelli come facevano le antiche e come si fa ancora attualmente fra certe popolazioni, debbono vedere di non adottarlo e di non dare al loro lutto una soverchia pubblicità, perchè ciò le taglia fuori della legge sociale convenuta, mentre pare ne vogliano essere le colonne. Il lutto austero d'una vedova dura dunque due anni. Abito di lana o di crespo, opaco e senza ornamenti; cappello col velo lunghissimo calato sul davanti e che investe tutta la persona: scialle nero a punta; guanti di lana e stivali senza lucido; aboliti tutti gli ornamenti siano pure di tartaruga; chiusa la porta a tutti nei giorni ufficiali; riservata la conversazione ai pochi intimi che hanno l'aria di piangere con esse. Il pianto ci va, dicono i contadini della Marca; è la legge: se dunque anche per caso non ci fosse, bisogna supporlo, e per conto mio sono anzi disposta a crederlo inevitabile, almeno tanto quanto è indispensabile. Non si passerà dall'estremo lutto agli abiti sfarzosi che con una gradazione di neri e lucidi, di grigi e di violetti, fra cui i crisantemi che sono il fiore della vedova. Il fiore della vedova è una parola ben curiosa; ma perchè il fior d'arancio è il fiore della fidanzata e il giglio il fiore della vergine? E perchè la Chiesa nella Quaresima e nell'Avvento prende il violetto che è il colore del duolo? Gli è che negli uomini il simbolismo è una necessità della fantasia, che è il matto di casa, come diceva Malebranche; quella che dà vita e colore alle cose più insignificanti e che ci attacca alla vita esteriore e di comunanza cogli altri. Togliete il simbolismo nell'umanità e toglierete l'idealità che l'ha ispirata: e senza idealità non vi ha più nulla: essa è la luce benefica che piovendo

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La signora ordina la tavola bianca, vale a dire, che il dessert della vigilia e del Natale non abbia altri dolci che quelli indicati dalla PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 13 solennità; se fa un dono, non può essere che una specialità della circostanza. In Francia si fa ilrèveillon, cioè si va alla messa della mezzanotte e si ritorna a mangiare il tacchino tartufato al tocco, inaffiandolo con dello Champagne; in Italia invece si fa (se si fa) la cena di stretto magro, ingannando il tempo con giuochi di carte, di bigliardo, di tombole liete con premii di dolci, coll'albero di Natale, e recandosi poi in massa ad una delle tre messe di rito, in cui l'organo suona una specie di pastorella montanina. Festa del réveillon si celebra in Italia invece al Capo d'anno. La festa di San Silvestro è piena di gaiezza ed è generalmente una serata di giuochi, o musicale, poichè ora non si sa conversare più; è una cena fredda, mezza in piedi e mezza seduti, con pasticci freddi e dolci e punch e vin-caldo, sino a che al primo tocco di mezzanotte la signora finge di far saltare un tappo di Champagne possibilmente autentico, e battezza nel nome della storia e del tempo il nuovo anno. Il quale è salutato da visite ufficiali e affettuose, da lettere, da fiori, da dolci, da biglietti di visita, da auguri in tutte le forme e maniere degl'inferiori verso i superiori, i quali rispondono negli otto giorni col ricambio delle stesse carte, delle stesse felicitazioni, degli stessi auguri. L'albero di Natale è un uso d'importazione e che fatto pei ragazzi va cessando nelle famiglie man mano ch'essi diventano uomini. Ad una pianta di sempreverdi, alloro o ulivo, retta da un enorme vaso di Sèvres o del Giappone (così per dire), sono appesi i doni destinati alla singole persone che vi partecipano; il nome indica il destinatario; e sarà prima cura in chi lo ordina e dirige di non movere quella specie di emulazione che è gemella fratricida dell'invidia. Il genere della solennità essendo tutto intimo, esclude persone all'infuori dei proprii amici e parenti, per non suscitare permali negli amici di seconda mano, che in altre circostanze sono invitati alle feste di famiglia. Se si fa l'albero di Natale pei poveri, modo soave e pudico di praticare la carità, bisogna che non porti oggetti di lusso o tali che possano movere pensieri superiori alla condizione dei poverelli. I premi saranno indumenti per riparare dal freddo, e non guasterà se vi sarà aggiunto un dolce speciale della solennità per riconoscere il giorno. La Befana è invece la festa dei soli bambini, festa dunque tutta cristiana, che non ha tradizioni all'infuori di quella che nei libri sacri è assegnata alle tre grandi feste della vita: la presentazione dei doni fatta dai Magi; il cambiamento dell'acqua in vino alle nozze di Cana; il battesimo nelle acque del Giordano. Le epifanie mitologiche anteriori, greche o romane, cioè le comparizioni del nume, erano accompagnate sempre dal terrore, cosa molto diversa dall'Epifania nostra. I Re Magi, cioè i padroni della magìa, guidati dalla stella, vennero dall'estremo oriente a porgere i loro doni al figlio di Davide, erede del trono di Giudea. Una poesia storica, politica e sacra; il riconoscimento d'un re nato in una capanna di pastori; e i prodotti orientali, l'oro potente e i profumi del fasto, brillarono per un istante nell' umile presepe di quel re perseguitato a morte; e giunsero nella notte che precede la festa. L'apparizione del nume non ha più alcun terrore pei fanciulli, che ne hanno fatto invece una fata benefica e amorosa, la quale li gratifica con balocchi e zuccherini, dappertutto un po' ma specialmente a Roma e negli Stati ex-pontifici, per cui la Befana è una delle feste più caratteristiche dell'anno. La Befana scende dal camino la notte che precede la festa, ed è perciò che i fanciulli appendono alla gran cappa di cucina calzette di seta e canestri, che poi i genitori, i vecchi, i padrini, gli amici riempiono di meraviglie. Benedetto Varchi descrisse la Befana, la descrisse cogli occhi rossi, le labbra grosse e il viso furibondo. E il Moroni afferma che questo personaggio immaginato così, produce nei fanciulli due effetti portentosi: quello della deità fatidica che premia e che castiga; difatti pei bambini cattivi la calzetta si trova ripiena di cenere e di carbone. La Befana è quasi obbligatoria pei piccini ed è molto più lieta e naturale e indicata che i famosi balli dei bambini, uso anch'esso straniero che rende quelle dolci creature scimmie ammaestrate, vestite da uomini per divertire il pubblico. Le ova di Pasqua sono una gentile costumanza anch' essa di recente divenuta comune. Le ova di Pasqua sono dovute alle signore, specialmente alle giovinette, senza reciprocità, e ai bambini, piene di dolci, di canditi, di confetture particolari. L'ovo di Pasqua può essere un oggetto d'arte del maggior pregio, racchiudere dei dolci, come degli oggetti di toeletta o di lavoro; essere enorme come quello di struzzo, o tanto piccino da farsene un ciondolo prezioso. L'ovo di Pasqua può essere un ovo vero, vuotato diligentemente e dipinto da mano maestra, mondo come l'issopo e candido come la neve, riposto poi in un astuccio prezioso per arte e ricchezza; può contenere un gioiello o una coroncina di perle; un ditale d'oro o una spugna di profumi orientali. L'ovo di Pasqua è una maniera gentile di sdebitarsi presso una famiglia, di cui si gode spesso l'ospitalità, un pensiero di affetto per dei piccini amabili, un pretesto per fare una cortesia senza il diritto di ricambio. Le ova che racchiudono il germe della vita, gli agnelli immacolati che si affollano in que' giorni sulla terra, sono i cibi indispensabili nella solennità della Pasqua; la quale è una continuazione dell'Epifania, in quanto l'Epifania è la prima Pasqua; ed è in quel giorno appunto che il sacerdote annunzia dall'altare quando accadrà la Pasqua di Risurrezione, destinando così tutte le feste mobili che sono regolate dagli astri maggiori del nostro sistema. La Pasqua ha le ova, le promesse della vita animale; ed è perciò ancora che si dà la strenna alle donne e ai fanciulli. Questa strenna è di rose per la Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua; la promessa dei frutti dolci che aspettano la fatidica notte di San Giovanni: altre due strenne meno copiose, meno ricche, ma anch'esse obbligatorie, per tener stretti i legami della convivenza, per renderla gaia e affettuosa e per serbare vivo il fuoco sacro delle costumanze avite, che hanno sì gran parte nel carattere dei popoli. Una strenna singolare si dà anche al primo di aprile; strenna umoristica e che è di difficile riuscita perchè le persone volgari e maligne se ne profittano alcune volte in modo pericoloso. Il pesce d'aprile ha anch'esso la sua origine nel sistema planetario, ed è alla luna, che è sempre un po'..... lunatica, che noi dobbiamo molti pesci troppo di acqua dolce, per mostrare uno spirito fine e educato. Il pesce d'aprile si può mandare al solo patto di essere in una grande intimità; ed esso deve avere quel certo non so che di arguzia sottile e gentile che, anzichè offendere, rende graziosa la compagnia ed è cagione di quel riso che fa buon sangue. Le industrie nazionali e straniere però si sono impadronite anche delle burle di aprile; e noi vediamo nelle vetrine dei pasticcieri e dei chincaglieri e perfino nelle bacheche degli orefici, degli oggetti tentatori, atti a modificare le antiche grossolane burle con strenne utili, ghiotte e preziose. A questo patto dunque soltanto, di fare una burla di valore o di utilità, il pesce di aprile può far parte delle giocondità della vita e degli usi di urbanità sociale ; e non potrà vantarsi di essere cortese uomo o donna gentile chi sorprenderà in altra guisa il proprio simile, con burle sconvenienti o con ambasciate fallaci. Ciò toglierebbe ogni finezza di tratto, come quando usava, per fare una burla spiritosa, di ritirare la sedia a qualcuno per farlo sedere per terra. Altre feste vi sono nell'anno, indipendenti dal sole, dalla luna e dal culto; esse sono le feste civili, gli anniversarii di glorie per la patria, i giubilei dei nostri grandi per potenza, per ingegno, per bontà d'animo e per sublimità di opere; commemorazioni, feste dell'arte e del pensiero. Una fra le altre è quella dello Statuto, la festa della libertà in Italia, nella quale i nostri soldati stendono al vento le bandiere gloriose, il magistrato a nome del Re rappresentante della nazione dà i premi del valor civile, delle virtù e del sapere, e come in noi omai vecchi riconferma nella fede civile della patria, nei giovani è promessa di gloriosi destini. Cade nella prima domenica di giugno, il mese lieto delle messi, quando cominciano a biondeggiare le spighe, il sole entra nel massimo del suo splendore e la natura bella e giuliva pare sorridere all'Italia redenta dai voleri concordi del suo Re e del suo popolo. Non è una domenica come tutte le altre; è la festa della patria, nella quale le donzelle mettono fuori i loro abitini più gai; gli uomini si ricordano dei loro ciondoli cavallereschi, e le luminarie festose rischiarano i bivacchi senza fatiche dei soldati e i balli chiassosi dei popoli ridestati a libertà. Questa festa, quando la primavera muore nell'estate, come nell'arcobaleno in cui i colori si confondono l'uno nell'altro, è la più buona e la più tranquilla; in essa si estraggono le doti alle fanciulle povere che daranno una nuova famiglia allo Stato; in essa il Re guardandosi indietro rifà la storia dei suoi padri che riunirono la terra divisa, su cui i suoi figli regneranno nel patto vicendevole di una fede giurata; in essa si celebra il gran giorno in cui caddero infranti i ceppi che ci stringevano i polsi ed i cuori, e furono tolte le barriere per cui i fratelli non scorgevano i fratelli al di là di confini ingiusti e tirannici; e in essa è dovere sentano le donne più ancora degli uomini quell'alito caldo di affetto per cui si istituiscono i premi alla virtù, strenna doverosa agli uomini di buona volontà, e che le donne debbono saper ideare e rendere abituale, perchè la terra dell'arte, della storia civile, del diritto, della costanza, diventi la terra dell'esempio nel sereno e fecondo esercizio del dovere e della vera fratellanza umana.

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La tenda, la biancheria da tavola e da the ricamata, le sedie fatte a punto in croce o a punto lungo, coll' antico metodo che è ancora il più bel lavoro, come il tappeto reale sul desco di palazzo Pitti, per esempio, sono tutte cose che una donna di buon gusto può sempre fare e con poca spesa, solo che ne abbia il genio, il gusto e la volontà. Per questo l'arte del lavoro manuale, tanto trascurato nelle scuole femminili, dovrebbe essere invece per una istitutrice e per una maestra una sorgente di eleganza e una occupazione gradita, come quella che lascia libera l'ala della fantasia immaginosa, impedisce la noia e può trasformare la più umile casa in un nido tiepido, gradevole alla vista, utile alla borsa, e ordinato e composto nella occupazione lieta dei sensi e dell'intelletto. Il progresso delle arti industriali, la facilità delle comunicazioni coi paesi lontani, lo spesseggiare dei giornali di lavori femminili con spiegazioni sì minute che anche un cieco le comprende, possono dare delle vere e proprie idee luminose ad una donna di spirito e che abbia il sentimento del lavoro e dell'economia. Un oggetto giapponese o chinese, stuoia o quadro di carta, lampada o paralume, étagère o cestino per la carta straccia, purchè sia autentico, anche di pochissimo prezzo, è sempre preferibile alle imitazioni delle faenze, delle sculture e delle arti belle. Poichè la fotografia è venuta ad arricchire il patrimonio delle cose gradevoli, e le incorniciature di metallo o di peluche, i ricami sulle tavolozze o intorno ai dischi lunari o solari sono così universalmente accettati; poichè i mobili anche lasciati greggi o appena tirati a pulimento fanno parte della eleganza; poichè i fiori hanno una sì gran parte nell'industria pubblica e anche nella cura casalinga, la casa d'una persona di spirito e che sappia vivere, potrà essere più attraente che una abborracciatura d'un tappezziere, il quale nel suo schema di operaio senza arte e senza buon gusto non saprà mai dare ad una camera l'impronta del vostro carattere personale. Vi sono mobili i quali non possono aver luogo che in un salotto; altri che in camera da pranzo, altri ancora che in una stanza da letto. Ciò pare così elementare da non doversi neppur toccare; eppure, come messer Brighella padre di siora Olivetta virtuosa di ballo metteva el bazil d'arzento e il comodino intarsiato di madreperla nella sala, per ricevere il conte Ottavio, accade talvolta di vedere un largo specchio col piede in sala e un sofà-letto in una camera da pranzo. Ciò desta un mucchio di curiose idee nelle persone di fine osservazione. Non si fa che quello che si può fare e quel che si fa bisogna farlo convenientemente: rien ou bien, come dicono i Francesi. L'educazione dell'occhio è indispensabile nei giovani. Le cose belle entrano per gli occhi e discendono nel cuore a fecondarvi il germe della gentilezza, e, quasi si direbbe, a porvi quella linea che in termini di artista indica quel che indicavano in Toscana nel nostro cinquecento le parole - avere tutte le parti - e in termini di blasone - avere tutti i quarti. Per questo Vittorino da Feltre non voleva che immagini liete e cose belle davanti agli occhi de' suoi discenti; per questo Aristide Gabelli voleva scritte intorno alle pareti della scuola delle massime di morale indistruttibile ed eterna, quasi che nel naufragio del suo spirito travagliato, eppur sì lieto e bonario, apparissero come faro quei precetti ricevuti nell'infanzia dal suo buon padre, per raddolcire i patimenti, dissipare i dubbi e insinuare quel grande imperativo categorico del filosofo tedesco: fare il bene per il bene, e quell'altro: fa il tuo dovere, accada che può. Da ogni cosa, ancorchè sembri insignificante, ma specialmente da tutto ciò che l'attornia nella intimità della vita, l'uomo può ricavare lezioni di sana morale e filosofia. Molti uomini che furono grandi ebbero le prime suggestioni della grandezza da un quadro, da un trofeo appeso alla parete, perfino da un giocattolo di fanciullo posato sul camino o da una lampada oscillante dalla vôlta. Nessuna cosa è perduta di quello che ne circonda, per l'impronta morale che stabilisce nel cervello e nel cuore. Una casa disordinata, una instabilità nel collocare i mobili, un continuo mutare di luogo agli oggetti non potrà mai educare nei giovani il sentimento dell' ordine e della disciplina, e renderà per tutta la vita privi di quel che si chiama colpo d'occhio e di quel buon gusto, che rende così bella e così linda la casa olandese, così comoda la casa inglese, così elegante la casa francese, che per molti titoli è tanto conforme alla nostra.

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Non importa che quella imprecazione sia uno degli inni più stupendi che creatura umana abbia profferito: la pazienza è una gran virtù, ma se anche Giobbe la perdette, vuol dire che è difficile di conservarla e che vece d'un inno, voi provocherete una negativa se cercate un favore, e vi troverete la porta chiusa in faccia; perchè non è sempre vero che l'importuno vinca l'avaro e ci sono degli esseri sensibili e nervosi, degli organismi impazienti e pletorici, degli amici della pace ad ogni costo, delle persone infine occupate, che non volendo sciupare quella sola grande e vera ricchezza che è il tempo, preferiscono di disgustarsi anche con un personaggio, piuttosto che levarsi dai loro comodi, dalle loro abitudini, dalle loro occupazioni e dai loro piaceri, quantunque possano a noi parere di cattivo gusto o insignificanti. Ad ogni modo, a mala pena sia visibile un piccolo imbarazzo o una piccola contrarietà nella persona visitata, il visitatore non cercherà di sedersi, anche invitato a farlo, ma renderà la visita più breve e la conversazione più rapida che sia possibile. I discorsi lunghi, il ricominciare daccapo, il non voler perdere alcun particolare, il ritornare indietro, il raccontare i fatti propri a chi non ha ragione alcuna di interessarsene, o peggio ancora gli acciacchi, i malanni, le disgrazie, sono un cattivo segreto per farsi ascoltare e amare. Chi non sa rendersi amabile non sarà mai ricevuto con piacere, e se un padrone di casa arcigno riesce odioso, un visitatore malcontento è ancora più che odioso, è molesto, ed ha di più quest'aggravante: di essere andate in casa altrui a portarvi un inutile fardello di noie, mentre nessuno lo ha invitato a farlo. Il buon umore è irradiante e riscalda qualunque ambiente. Ci sono persone che entrando pare vi portino un raggio di sole, altre che sembrano vestite di neve anche in agosto. Vi sono dei visitati così piacevoli che non lascereste mai; vi sono altri che tagliano la parola in gola e che vi producono un groppo al cuore che pare un'angoscia, e che ai giovani fa l'effetto d'un singhiozzo rientrato. Quanto più è amabile e cordiale colui che riceve, tanto più deve essere attento contro alla tentazione di fermarsi lungamente colui che è ricevuto. La brevità è uno degli elementi del desiderio reciproco; e il desiderio è sempre superiore al possesso, e impedisce la stanchezza e la sazietà. Se l'uomo all'aspetto di quello che gli sembra la felicità si fermasse alla soglia del palazzo incantato, ne ritornerebbe più forte e meno infelice. Se dunque è dovere di colui che apre la sua casa ai visitatori di essere gentile e di rendere sacro l'uno all'altro e a sè stesso coloro che vanno o a visitarlo o a chiedere una grazia o a fare anche delle chiacchere inutili, un altro dovere non meno imprescindibile è quello del visitatore di essere discreto pel tempo e per lo spazio che occupa in casa d'altri, e di comprendere che, per quanto ci stia volentieri, non ci si può fermare oltre la convenienza e la discrezione. Il mettere le radici nella casa altrui per cogliere i frutti di una amabile conversazione o d'una ospitalità cortese, dimostra un egoismo e una vanità i quali smorzano quei sentimenti di simpatia che la vostra persona può aver aldestato primo apparire. La conversazione mantenuta in un salotto dalla persona visitata non deve essere soggettiva, per dire così, ma generale e lasciare a tutti l'opportunità di esprimere un sentimento, un affetto, una opinione. Fra molte persone riunite ad uno stesso desco, in una stessa camera, vi possono essere dei malumori, delle divergenze, dei disgusti, delle freddezze. La più elementare civiltà imporrà all'ospite e all'ospitato di tacere sui punti che potrebbero determinare il risveglio di pericolose suscettività o di contestazioni imbarazzanti. Nelle pubbliche riunioni per obblighi di ufficio, di cariche, di comitati, di associazioni, come pure in ricevimenti, a cui ciascuno pel posto che occupa può essere costretto ad intervenire, la prima regola deve essere di lasciare alla porta ogni motivo di risentimento anche giusto, e di presentarsi ilare e franco, libero poi di ripigliarsi nell'uscire le ragioni del disdegno se giusto, o di riprendere quel tanto che debba preservare la nostra convenienza dall'apparenza d'una dedizione, la quale potrebbe comprometterci verso la pubblica opinione. Molte volte quell'incontro, quel discorso, quel contatto con un nostro nemico o avversario può produrre una salutare rappacificazione, la quale è sempre da preferirsi ad una situazione tesa, che immiserisce e amareggia gli animi. La padrona di casa riceve le persone che le fanno il piacere e l'onore delle loro visite con garbo, e tutte egualmente, salvo i gradi e l'età. - Fissato un giorno, non può esimersi dal rimanere in casa, meno circostanze tanto eccezionali da non poter neppure essere accennate. Essa fa dire alla porta una ragione naturale e plausibile e a tutti identica, e si guarda bene in quel giorno di uscire di casa, di mostrarsi in un passeggio, di fare delle gite o delle corse nei negozii. C'è chi vorrebbe che essa si sedesse a destra nel sofà, tenendosi il primo posto. Ciò è almeno discutibile, come è almeno discutibile se debba condurre le signore che partono in anticamera, lasciando delle persone, in gran parte fra loro sconosciute, le quali rimangono interdette per quel piccolo minuto, che pare un secolo. Chi non ha domestici che stiano in anticamera e che aprano la porta, farà meglio di non mettersi nell'impegno di ricevere in un giorno fisso. Ciò obbliga sè e gli altri a molti pensieri e la vita ha impegni troppo più grandi e importanti per darsene di così noiosi e inutili. La signora presenta in generale gli uni agli altri frettolosamente ma a voce chiara per non far fraintendere i nomi: i meno elevati sono i presentati pei primi, così pure gli uomini e le giovanette. Una persona che si sa inferiore di grado non dirà quindi mai: mi hanno presentato il signore e la signora tale, ma invece: sono stato presentato. In talune società elevatissime le presentazioni non si fanno più; in talune altre miste, se è notoriamente saputo che un signore o una signora non vogliono presentazioni, la padrona di casa scivola accortamente sul capitolo e abilmente ne allontana la possibilità. L'affabilità del superiore di grado è tuttavia un bel pregio, e non si vede perchè la superbia umana si sia ad essa sostituita, producendo un vuoto intorno a talune persone, che non è più dei tempi e delle circostanze. Vuol dire che anche la superbia dei grandi può avere la sua scusa nell'importunità di piccoli, che troppo spesso vogliono farsi troppo innanzi. In moltissime case ora, oltre al non presentar più l'uno all'altro, non si annuncia più: anche questa è un'usanza straniera e rivela il profondo disfacimento della conversazione casalinga, e la trasformazione del salotto in una specie di luogo pubblico. L'ospitalità scompare e resta una società dozzinale, metà filo e metà cotone. Questo è pur tuttavia un uso in vigore, che si accenna qui non come modello ma come documento, e perchè le persone ingenue, timide e sensibili vi si vadano preparando, in attesa che ritorni nelle tenebre e nel nulla. Al momento che una signora esce, tutti si alzano in piedi; si riseggono appena la padrona di casa si risiede; la persona che esce non si trattiene; si alza in fretta e in fretta esce con un inchino a mezza persona, per non forzare alcuno ad un incomodo o costringerlo ad una cerimonia a cui forse non è avvezzo. Per gli uomini nessuno si alza nè per l'arrivo nè per la partenza, salvo che non fosse un grand'uomo, un vecchio venerando, un dignitario ecclesiastico o della politica o del potere costituito. Le signore usano nei salotti la mezza luce e dei fiori. È da osservare scrupolosamente che quella mezza luce non sia soverchiamente appannata e che le giardiniere non abbiano troppo profumo o sembrino foreste di felci, o peggio che portino sui rami verdi dei fiori finti. Questo è un falso lusso di borghese indomenicato che fa ridere le persone di buon gusto e che si intendono di vera eleganza e di vera distinzione e sopratutto che amano i fiori veri, i quali sono la poesia della natura. Ormai è invaso il costume di offrire il che in ogni visita, il che può essere un ristoro per molti da non disprezzarsi; c'è anche chi fa girare altre ghiottonerie secondo le mode e i tempi. Ma per dare il the occorre che l'acqua sia sempre calda e allora si ricorre al chaumoir alla russa, e per lasciarlo aromatico al couvre théière: cose tutte venute di fuori e che ricordano gli usi goldoniani, quando si dava la cioccolata, e di cui alcuni tratti nelle commedie ci fanno ancora ridere di cuore e si riproducono rimodernati nei salotti eleganti. Chi non ricorda quando la marchesa Beatrice fa dare la cioccolata a Ghita, la moglie del primo laterale destro della nobile e antica comunità? Chi non ha riso a sentir Ghita che vuol fare un brindisi colla cioccolata? E quando sente che è calda si volge alla vicina stupita e dice: cioccolata che scotta?! Ehi, chi è di là? e la consegna al servitore scandalizzato di sentirsi chiamare da una persona che fa visita alla sua padrona, la nobile Marchesa di Montefosco? - Ciò raggiunge il grottesco e noi orgogliosamente crediamo che nessuno ora farebbe così. Eppure accade tutti i giorni qualche cosa di simile: chi non sa dove mettere il cucchiaio; chi non sa intingere un biscotto; chi lascia cadere le goccie sul tappeto o sull'abito, chi s'imbratta o rovescia; e perfino chi accostato il the alla bocca non lo trova abbastanza caldo e dopo averlo preso lo rifiuta. L'atto è incivile, ma una padrona di casa, che non ha persone adatte e abili a servire, non deve mettersi in questo cimento, crearsi delle ragioni di malessere e prestarsi ad un ridicolo tanto sicuro quanto inevitabile. Una conversazione di gente che naturalmente sa chi è, ma che o non è presentata o vuol stare su le sue, prova l'abilità della padrona di casa. È da dubitare che ce ne siano molte, perchè il genio della conversazione è raro corne il genio delle arti e della poesia. Ma pur ce n'è qualcuna, e nell'aridità della vita mondana tutta esteriorità e convenzioni una bella e discreta parlatrice è più ammirata che un oratore eloquente. Questa forza non è tutta sprecata: essa eleva il salotto ad una palestra di ginnastica intellettuale, in cui si raffinano i sensi e si acuiscono le facoltà della prudenza, della grazia e dello spirito. Quando una persona sta per partire mentre ne arriva un'altra, se non si è ancora congedata, bisogna attenda un pochino per non lasciar credere che lasci la sala per lei: se è in piedi si sbriga ancora più presto non trattenendo nè l'arrivata se anche la conosce, nè la signora che deve riceverla. Se non la conosce è presto spiegato; se ha rapporti cordiali o solo anche di conoscenza, nota di volo che era già sull'uscire. Ad ogni modo tutto questo deve accadere con prontezza ma senza confusione o incomodando i vicini, ciò che rivela quello che si chiama la mancanza di mondo. All'arrivo in una città di un gran personaggio, che per ragioni di carica o di posizione sociale si è obbligati di visitare senza conoscerlo che di nome o di vista, anche fosse in una famiglia non amica o all'albergo, sarà dovere di ognuno di portare una carta di visita piegata da un lato o di mandarla da un domestico, per mostrare la premura doverosa verso un superiore, un ospite, un nome insigne. Toccherà a chi riceve la carta di mostrare il proprio gradimento o il desiderio di conoscere la persona che ha mostrato di comprendere il proprio dovere e non gli mancherà modo di farlo sapere. Può darsi ch'egli non risponda; e in questo caso il visitatore non ripeterà l'atto ossequioso, che potrebbe diventare molesto o riuscire inopportuno, per chi è costretto di riceverne molti e non può corrispondere a tutti. Ciò del resto non deve esser preso come un'offesa fatta alla vostra persona che gli è perfettamente sconosciuta, e non deve sconsigliare alcuno di rinnovare l'atto ossequioso quante volte se ne presenti il caso e l'opportunità. Infine tutta questa spiegazione dei doveri sociali messa in compendio vuol dire: che la gentilezza delle maniere può diventare potenza fecondatrice di civiltà, e riuscire utile agli uomini dissipando malintesi ed equivoci, appurando fatti male interpretati, sciogliendo i ghiacci dei cuori e le nebbie dell'intelletto, migliorando gli animi nel raddolcire i sentimenti umani e alzando altari dove parevano aprirsi gli abissi degli odii infecondi e delle discordie fratricide.

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Le lettere, l'abbiamo già fatto comprendere per la concatenazione che hanno tra di loro tutte le buone regole, debbono essere linde, pulite, piegate non pel lungo ma pel traverso, scritte con calligrafia leggibile e chiara, senza pentimenti e cancellature, con carta che non trasparisca e non abbia rabeschi o cose da offendere la vista. Non saranno profumate di muschio o di un qualunque aroma troppo acuto, che per alcuni è insopportabile. Saranno preferibilmente contenute in un solo foglio di carta, non tanto per non abusare del tempo di chi deve leggere, quanto per non incomodare il ricevente a cercarne la continuazione e a doverne custodire in mano i foglietti numerati. Avranno la stessa quantità di righe in tutte le pagine, osservando che lo scrivere solo la metà dalla pagina, come si faceva un tempo per un falso rispetto, può obbligare a stringere di più la scrittura verso la fine, il che è prova che non s'è avuto il riguardo di pensare tutto quello che si doveva dire, PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 5 indizio di poco riguardo verso la persona a cui si rivolge. Manco a dirlo, non sarà lecito scrivere di sotto in su o per traverso o a graticcio se non nei casi di grande confidenza colla persona a cui ci rivolgiamo. Se per la molteplicità o l'abbondanza della materia si è costretti ad aggiungere un foglietto, sarà necessario assicurarsi che non passi il peso postale, stabilito dalla legge. Una lettera insufficientemente affrancata e un giornale multato, perchè al vostro amico viene l'idea non sublime di mandarvi un saluto in margine, espone il destinatario ad un grave incomodo, e lo scrivente alla peggiore mortificazione possibile: quella di vedersi respinta la lettera o la stampa multata. Sono i piccoli fatti quelli che provano la buona educazione: essi sono la pietra di paragone dell'urbanità; non bisogna dimenticarselo. Se la lettera è diretta a persona a cui la convenienza non vieta di mandare un francobollo per la risposta, è indispensabile che esso abbia attaccato un pezzettino di margine col quale lo assicurerete al principio della lettera perchè possa staccarlo senza strapparlo. Quali siano le occasioni per accludere un francobollo è indicato dalle convenienze e dal buon senso, per esempio: Quando si domanda o si sollecita uno schiarimento da qualche persona sconosciuta, ponendola nella necessità di rispondere direttamente: Quando si domanda ad una persona di spedire dei documenti o delle lettere che hanno bisogno d'un intermediario o d'un avviso: Quando si sa che la spesa potrebbe incomodare una persona da meno di voi e notoriamente povera: nel qual caso bisogna farlo con estrema delicatezza: Quando anche senza che la persona si trovi in bisogno, si sa che è vessata da numerose lettere di gente che ha bisogno del suo appoggio. La data della lettera va posta in generale sul principio del foglio, anche se uno si dirige a persona alto locata, per impedire di farle cercare in fondo il luogo di provenienza, a meno che non si tratti d'un membro della Famiglia Reale o d'un Ministro, ecc., ai quali, è noto, non mancano segretari e lettori. Alla data si aggiunge l'indirizzo per caso sia necessaria una risposta o per offrire tacitamente la propria servitù. Le intestazioni ai grandi personaggi vanno poste altissime, e il principio della lettera più giù della metà di pagina, e la sottoscrizione a' piedi del foglio. Queste lettere non sono mai scritte in piccoli fogli nè cartoncini, ma nella così detta carta di rispetto, che è una mezza via tra l'antica carta detta ducale e la quartina. Anche la busta deve essere in relazione, cioè piuttosto larga; e più alta è la persona a cui uno si rivolge, più l'indirizzo deve essere scritto in alto e l'indicazione del luogo basso a destra. Se la lettera è diretta a un Personaggio Augusto il foglio deve essere posto in doppia busta, di cui una senza indirizzo. La lettera, bisogna ricordarselo, è un discorso che si fa ad una persona lontana o che non vi può ricevere o che non potete vedere: questa è la regola che deve guidare colui che la scrive. La lettera dunque deve avere la maniera del vostro pensiero, l'elasticità del vostro discorso, quella spontaneità e quella libertà che, senza escludere il rispetto, il riserbo e il riguardo, interdicono le frasi rimbombanti, le retoriche, le ampollosità, le frasi ricercate e le prolissità noiose e indigeste. Non mai come nelle lettere il motto, lo stile è l'uomo, appare in tutta la sua verace applicazione pratica. Questa specie di componimento è più conforme al talento e alle attitudini femminili: gl'insegnanti di ogni grado dovranno diligentemente e con ogni cura farne oggetto di applicazioni pratiche per tutti i casi della vita. La letteratura epistolare, la più necessaria d'altronde agli usi quotidiani, alle necessità di tutti i momenti, alle manifestazioni di amicizia, di affetti, di sentimenti, ai bisogni, ai lamenti, alle esortazioni, ai consigli e agli ordini, non ha alcuna regala fissa. Gli esempi di epistolarii, quando non siano di qualche grand'uomo, il che del resto non può costituire modello nè per la forma nè per la sostanza, sono per lo meno superflui. Gli epistolarii degli uomini famosi o grandi possono servire come studii psicologici, storici, letterari, bibliografici, non mai di modelli per scrivere quello che abbiamo nel cuore. Gli epistolarii del Leopardi, del Foscolo, del Giordani, ecc., sono state delle indiscrezioni in cui nessuno, e neppure chi li scrisse, ebbe a guadagnarci letterariamente e moralmente; quello del Giusti, uno dei migliori di quanti ne son stati pubblicati sin qui in Italia, è un libro di lettura amena e istruttiva, sul quale si possono fare degli studi di lingua, ma che non ha nessun carattere di quella preziosa intimità, per cui solo una donna nel mondo potè essere insigne - Madama di Sévigné; alla quale le lettere piene di pitture, di notizie, di sentimenti improvvisi, di affetti spontanei e di impressioni semplici, esposte con arguzia di forma e venustà di stile e di lingua, aprirono le porte del tempio degli Immortali in Francia. Le lettere di Madama di Sévigné hanno esercitato in Francia un'influenza salutare pel loro carattere di intimità. Le lettere dei Francesi sono difatti tutte d'una grazia e d'uno spirito che i nostri letterati anche i più grandi non hanno mai raggiunto: ma quale persona vorrebbe soltanto immaginare che i suoi segreti intimi potrebbero essere dati in pasto al pubblico? I Francesi hanno nel sangue il gusto della conversazione, la quale oggi in Italia noi non sappiamo più fare: e la lettera non è infine che un monologo discreto e pieno di pensieri. Essi sentono in sè stessi quel che ha detto egregiamente uno dei nostri più insigni scrittori e docenti, il Chiarini, che in una lettera c'è sempre non solo la personalità di chi la scrive, ma anche un po' quella di chi la riceve: ed è ciò che ha reso immortale la gentile dama francese del secolo XVII, la quale dirigendosi alla signora di Grignan, una figlia elegante d'una madre illuminata, casta, serena, arguta e coltissima, sapeva metterci quel tanto di mondano che poteva temperare la rigidezza del costume, quel tanto di arguto che potesse rallegrare una materia qualche volta mesta e melanconica, quel tanto di grazia e di bontà che poteva far passare un consiglio profondo o un biasimo severo. L'ideale dello stile epistolare non è stato raggiunto in Italia; forse gli s'avvicina quel poco che fu pubblicato di Massimo d'Azeglio, che sarebbe il modello Sévigné delle lettere intime, se la politica non entrasse per una buona parte (buona per dir cattiva) nelle alchimie di quei giorni in cui egli le scriveva. Del resto si vedono lettere bene scritte, molte, ma scritte bene, poche: in generale sconfinano, non sono spontanee e risentono sempre d'un frasario cavato fuori dagli archivi polverosi, in cui si rivela la mancanza assoluta della buona conversazione in Italia. Per scrivere una bella lettera in cui appaia netto, spiccato e corrente il pensiero e a cui le donne sarebbero specialmente chiamate, bisogna saper pensare e parlare come parlavano e pensavano Madama di Sévigné e Madama di Grignan, Massillon e Marco Minghetti, Larochefoucault e Cesare Correnti, Pascal e Massimo d'Azeglio.

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Egli è perciò che chiunque abbia fior di senno cercherà di essere quello che vorrà parere, e saprà sceverare i riguardi che la gente gli attesta come uomo, da quelli che gli prodiga come dignitario. Ciò nel giorno della discesa o della caduta lo farà sembrare più alto, e la voce pubblica confermandogli il battesimo di nobile e intemerato carattere, gli riconoscerà la più grande potenza umana; quella di saper vincere sè stesso e di saper essere superiore agli scherni della moltitudine, sempre cieca e sempre mutabile. La storia del nostro risorgimento è piena di nomi di questi esseri forti e semplici a cui non parve ingiustizia il cadere, fortuna il risorgere, amarezza il ritornare all'austera oscurità della campagna; sapendo che il mondo è cosi e non può essere altrimenti, e che anzi la società non si regge se non per una grande statica sconosciuta, che riposa in massima parte sulle passioni degli uomini. Per la stessa ragione un uomo d'onore come non si affaccenderà troppo per avvicinare i potenti e scaldarsi al gran sole della fortuna, nel giorno della caduta non si ritirerà da essi, come accade nella maggior parte dei casi, specialmente nelle vicende politiche. Se dimostra uno spirito angusto colui che discendendo dagli onori fittizii della fortuna se ne mostra accasciato, colui che gli volge le spalle nel giorno del tramonto lo dimostra vile e codardo. L'astro non deve essere superbo, nè credere che gli omaggi siano resi a lui; ma colui che fa da pianeta, se vuol compiere la sua evoluzione, lo farà se non altro con quella moderazione, la quale è il pudore dell'uomo che si rispetta almeno nelle apparenze. Vi sono necessità sociali che spingono un uomo d'onore verso le alte cariche e la fortuna; che gli consigliano il riserbo nei giorni della caduta, perchè alla sua persona possono essere congiunti anche interessi di altri cittadini; ma l'abbandono improvviso dell'uomo a cui fino a ieri fu prestato omaggio tenero e riverente, induce chi si vede lasciato in disparte ad un'amarezza che inasprisce i cuori e li rende diffidenti verso i proprii simili, e quindi riluttanti a far il bene e a perdonare il male. Si racconta che uno degli uomini più eroici e più popolari in Italia, diventato ministro, anzi presidente del consiglio dei ministri, diede un gran banchetto a numerosi ammiratori e amici. Nella stessa settimana il ministero cadde e parecchi degl'invitati che avevano brindato all'eccelso uomo e che ne avevano avuto favori e fortune, non gli fecero neppure la visita della digestione. Se quel gran ministro se ne sarà rammaricato, ciò avrà provato ch'egli era un sognatore e sarà stato, malgrado la sua virtù e il carattere, un uomo privo di esperienza e di filosofia: ma coloro che lo abbandonarono non mostrarono quelle qualità di cavaliere perfetto e accorto, che sa conoscere i doveri anche superficiali dell'educazione esteriore, la quale è un'arte preziosa e utile nella vita: preziosa perchè rivela l'abitudine della cortesia: utile perchè l'hodie mihi cras tibi è una regola fissa e immutabile; e l'esempio della benevolenza verso i caduti, può in un giorno di sconfitta essere proficuo per noi stessi e per altrui. L'uomo bene educato e gentile non avendo mai l'idea di offendere volontariamente alcuno, non crede che altri voglia offendere lui: la sua prudenza, è vero, non gli permette di abbandonarsi a credere di tutta schietta farina il pane che la società somministra al grande banchetto della fratellanza universale: tuttavia non è nemmeno portato a diffidare troppo del suo simile, o a prendere subito in mala parte qualche atto che, talvolta, può essere l'effetto di un caso, d'una distrazione o d'una circostanza imprevedibile e indipendente da ogni volontà altrui. Se si crede offeso non piatisce in pubblico e non fa pettegolezzi volgari, specialmente se l'offesa patita gli viene da una signora. Egli non sciupa in risentimenti puerili la sua forza, e sa prendere la sua via anche se ha sbagliato egli stesso, il che può accadere. Il riconoscere un errore e il confessarlo è prova di un grande valor personale; l'atto di scusa di chi ha errato è ancora superiore allo stesso perdono accordato da chi è stato offeso. È più facile essere clemente che umile. La clemenza e l'umiltà sono due virtù ma dipendono da una stessa passione - l'orgoglio; fra esse v'ha questa differenza: che la clemenza esalta il nostro amor proprio e l'umiltà lo abbassa. Ora la scelta è troppo facile fra queste due; ciascuno ama la parte del vincitore più che quella del vinto, siano pure due forti uomini come Carlo V e Francesco I. Colui che sa innalzarsi può giungere a sedere cogli Dei; ma solo ne è degno chi sa comprimerne in sè stesso il desiderio o l'aspirazione. L'uomo bene educato sarà sempre pronto a difendere una donna sola insultata per la strada, a soccorrere un poverello a cui cadesse il bastone o la stampella o il vento portasse via il cappello, anche quando fosse coperto di luridi cenci; e a condurre a casa un bambino smarrito. Esso non reputa cosa vile la pietà che i più Infelici di noi destano nei cuori, innalza fino a sè gli umili, dissimula i risentimenti personali all'altrui presenza e seduto a mensa col suo nemico in casa d'altri, non lo punge nè lo irrita con allusioni pericolose. Egli sta al corrente delle notizie anche indifferenti, quel tanto che basta per potere mettere i suoi amici e conoscenti al contatto di sè medesimo e degli altri; e raccoglie la voce pubblica per sapersi regolare con prudenza e con moderazione, non dimenticando che la voce del popolo, se non è sempre la voce di Dio, è nella maggior parte dei casi la vera pietra di paragone per conoscere i caratteri e i cuori degli uomini. Combatte le calunnie scagliate dagli invidiosi e le insinuazioni dei malevoli a viso aperto, quando può. E quando può, deve; quando non può e non sa, sta in quella forma di forte silenzio per cui a non spuntare gli strali, attutisce il rumore e diminuisce l'urto dei colpi. Non ignorando che una sapiente leggenda tolse dalla costola sinistra del suo cuore, dove si crede abbiano sede gli affetti, la donna, egli la tiene in quel rispetto che rivela un animo gentile ed amoroso, senza sdolcinature, ma evitando quello che ha l'aria di un imperativo, il quale nella crescente civiltà è diventato un vecchio e incomodo elemento di tirannide morale, rifiutato dal progresso e dalla ragione. E posto al contatto di donne loquaci e litigiose o importune si solleva al di sopra delle piccole questioni inevitabili nella vita, con quella fortezza, senza di cui un uomo non potrà mai credere di essere bene educato.

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Passa l'amore. Novelle

241507
Luigi Capuana 5 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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- C'è mancato poco che la gran ruota del suo mulino non lo abbia sbalzato per aria e sfragellato! - La mano di Dio!... E ancoral... Ancora!... - Me l'ha raccontato uno del vostro paese. E, in pochi minuti, ogni cosa si è sfasciata, è andata in frantumi per troppa violenza di moto. Son crollati due solai.... - Crollerà l'intero palazzo! Vedrete! - Non fate il profeta del malaugurio! Infine sono figli vostri. E quella povera baronessa! È malata, quasi moribonda.... Andate colà, perdonate tutti, siate generoso! Vi occorre danaro? Due oncie? Sono le ultime. Fra qualche mese avrete le casse piene di scudi non saprete che farne.... E in gennaio non dimenticate di mandarmi le ulive nere salate, quelle di Cento-Salme. - Non c'è ulivi a Cento-Salme. So io dove trovarle. - E perdonate. Perdonare è dei grandi - concluse don Emanuele. No, non poteva perdonare! Ora che la lite era vinta, ora che la ricchezza tornava a far rifiorire il nome dei Zingàli, tutte le sofferenze, tutte le umiliazioni patite gli risalivano alla gola, gli attossiccavano la bocca, quasi gli fossero rimaste indigeste da più di due anni. E quel tanfo di cui più non si accorgeva, e quel sudiciume della biancheria e del vestito a cui più non badava, e dei quali aveva spesso tratta materia di orgoglio pel suo carattere, ora, soltanto ora, quel tanfo gli mozzava il fiato; ora, soltanto ora, quel sudiciume che portava addosso gli dava nausea! E la mattina dopo montò sul carretto di un compaesano, come un miserabile portato per carità, e si sfamò assieme col carrettiere in un'osteriaccia di campagna. Il sole lo cuoceva, le scosse del carretto gli indolenzivano le ossa. Ma, steso quasi bocconi su le dure tavole di abete di cui il carretto era carico, egli pensava al giorno che sarebbe rientrato nel suo palazzo da vero padrone, da vero barone di Fontane Asciutte e Cantorìa; lui che n'era uscito con quattro piastre in tasca e un mazzo di scritture sotto braccio! Lui che volevano far interdire perchè rovinava la famiglia! Lui che era stato abbandonato dalla moglie, dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato! - Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si umilieranno, commetteranno tutte le viltà. - C'è Cento-Salme in vista. Ci sono diecimila onze per colui del mulino.... e dieci per l'avvocatino don Felicianino.... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più marito, non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.... no, anzi, barone di Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo.... Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone polveroso. Il carrettiere cantava. Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo rossiccio, i campanili, le cupole, del paesetto da cui mancava da tre anni e un'inattesa forte commozione lo invase. Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in quel punto sentì il bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo. - Che dicono di me? - Dicono che voscenza ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più al mulino.... - Forse.... - È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono un carrettiere, il carrettiere; dico bene, voscenza? - Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato. - Come vuole voscenza. E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal ciglione: - Zitto! - gli disse. - Sono stanco; la salita è ripida.

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Che vale che il mio letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi rivolto di qua e di là.... Sì, sì!... Guai se dormissi come te, russando la grossa! Chi penserebbe alla mietitura, alla trebbia? Chi alla vendemmia? Rifiato forse? Tu ridi, bestione, quasi io dica delle sciocchezze.... Ed io ti dico che cambierei volontieri il tuo stato col mio! - Cambiamolo, Eccellenza! - Mi malediresti l'anima cento volte al giorno! - Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto nell'altro mondo. Per chi lavora? - Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta questa ricchezza?... Perchè, tu lo sai bene, ce n'è grazia di Dio, ce n'è! Il magazzino del grano è pieno come un ovo; la cantina non ha una botte vuota; la dispensa ha quaranta coppi ricolmi fino all'orlo.... E poi, e poi!... Se ti dicessi quel che mi deve il barone Pitulla? Con belle ipoteche.... Eh! Eh!... Ma che vale? Lui se la spassa a Napoli, a Roma, a Torino, a Parigi con le donne.... Ed io sono stato a Roma, una volta sola, col pellegrinaggio, per vedere il Papa!... E se non tornavo sùbito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?... Niente, niente! La mia croce è questa. Sia fatta la volontà di Dio! E don Pietro d'Accurso, detto il Gobbo, era invecchiato, mangiando bene, bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo col suo eterno lamento su le labbra, predicando sempre che non c'è peggiore miseria di quella di esser ricchi; non facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello che aveva otto figli e non sapeva come sfamarli col suo misero soldo di guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando puntualmente tutti fino all'ultimo centesimo, mai però un centesimo di più, come neppure uno di meno. Egoista, sì, ma sincero nei suoi lamenti e nel suo aforismo prediletto: Non c'è peggiore miseria della ricchezza! E questo si vide benissimo nell'ultima sua malattia. Quando si accorse che l'ora sua era arrivata, mandò a chiamare il fratello: - Senti, Nanni; ti càpita una gran disgrazia: stai per diventare ricco, ricco assai. Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I quattrini sono là, in quel cassetto. I poveretti vanno all'altro mondo senza torce, nè preti, nè concerto; io sono ricco e debbo pensare a queste miserie anche in punto di morte!... Senti, Nanni: una bella cassa di noce scura, foderata di raso.... Ti costerà parecchio.... Ma che vuoi farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti della cassa del comune.... Te la saresti cavata, senza darti nessun pensiero, senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace di averti procurato questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti ricco.... Fa' la volontà di Dio, come l'ho fatta io!... Io vò a rendere i conti lassù!... Chi sa come andrà? Speriamo bene. Pensa a quel che ti ho detto di provvedere: cassa, funerale, concerto.... E.... spìcciati, spicciati.... Màndami qui il confessore!

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Questo convento è mio, - riprese, - nessuno ha il diritto di entrarvi, quantunque esso non abbia uscio alla porta.... Perché dovrei mettercelo? La gente ha paura di venire tra queste rovine. Io.... Oh, per me è un'altra cosa! Sono uomo di abitudini, e non ho mai voluto mutare il posto della mia passeggiata pomeridiana di ogni giorno.... Devono averglielo detto. Mi credono un po' matto. Eh! eh! Faccio il comodo mio, faccio quel che mi pare e piace, senza curarmi di quel che pensano e dicono gli altri. Lei, probabilmente, è venuto qui per accertarsi coi propri occhi.... Vede? Passeggio. Il luogo ha una grande e speciale attrattiva; non saprei però spiegargliela.... Abitudine. Ho dovuto comprarlo. Volevano farne una specie di caserma pel caso di arrivo di soldati in certe circostanze. Non avrei più potuto farvi la mia passeggiata.... Per ciò questo mucchio di macerie mi costa seimila lire; male spese, dirà lei. Ma una sera io l'ho trovato invaso dalla truppa arrivata la notte avanti. La sentinella non voleva farmi entrare. Dovetti parlamentare col tenente che aveva il comando, dare spiegazioni, pregare, insistere. Il corridoio era ingombro di paglia, di soldati sdraiati per terra, di soldati che ripulivano armi; il fumo dei fornelli del rancio toglieva il respiro. E passeggiai quella sera e le due sere seguenti, sotto gli occhi dei soldati che mi guardavano stupiti e motteggiavano, e ridevano. Ma la settimana dopo il convento era mio. - Se avessi saputo.... - dissi. - Non importa. Soltanto mi permetta di continuare. E m'invitò con la mano ad imitarlo. Aveva non so quanti altri giri da compire; li compì seguitando a parlare. Mi accorsi che li contava, aprendo e chiudendo i diti di una mano. - Ah, lei è felice! - lo interruppi. - Può cavarsi qualunque capriccio. - Felice? La mia vita è un continuo tormento, caro signore. L'idea che qualche incidente possa disturbare anche per un istante la regolarità, l'ordine che mi sono imposti, non mi dà pace un momento. Sto sempre come in attesa.... Ecco, sono le sette meno tre minuti; se dovessi rimanere qui fino alle sette e un minuto.... lei non può immaginar quel che soffrirei; così se arrivassi a casa mia dopo le otto. È ridicolo, è assurdo; ma che farci?... Ho trecento sessantacinque vestiti da casa, numerati, per ogni giorno dell'anno. Ho provato due o tre volte a indossarne uno diverso da quello destinato per quel giorno; ero come tra le fiamme; ho dovuto svestirmi. Io invidio, creda, gli sporcaccioni; ma se scopro un granellino di polvere sopra un mobile.... Rida pure; invece dovrebbe compiangermi. Darei tutte le mie ricchezze per fare l'opposto di quel che fo.... - Chi la costringe? - Io, io stesso! Qualche cosa che è nel mio sangue, ne' miei nervi, nel mio cervello.... Il mio destino! Sono solo; ho un figlio che fortunatamente.... o disgraziatamente - si corresse - non mi somiglia affatto. Chi lo sa? Forse è bene che io sia come sono; sarei, forse, più infelice di quanto sono adesso. Mio figlio.... S'interruppe, guardò l'orologio e si avviò: - Buona sera, signore! Rimane? - No; se mi permette l'accompagno. - Grazie; io vado di fretta. Buona sera! Doveva essere davvero un grande infelice colui, se due giorni dopo, quando gli riportarono morto, ucciso da uno de' suoi campieri in campagna, l'unico fìglio, invece di indossare un abito di lutto, dovette indossare un abito di filo bianco, candidissimo, perchè il calendario dei suoi vestiti gl'imponeva così!

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Ma io litigo senza dolori di capo, e lui deve metter fuori più pezzi di dodici tarì, che non abbia capelli in testa. Intendeva di dire che lei aveva ottenuto il gratuito patrocinio e che non le importava niente di andare fino in Cassazione. Quel gratuito patrocinio era stato un affaraccio. Il sindaco la menava per le lunghe; non voleva farle la fede di povertà. Povero Sindaco! Don Basilio lo spauriva con la minaccia di abbandonarlo nelle prossime elezioni municipali; donna Mita lo minacciava di ricorrere al Sotto-prefetto, al Prefetto, al Ministro, a Vittorio Emanuele in persona. E temporeggiava: domani, domani l'altro. Ora mancava il segretario, ora la Giunta non s'era potuta riunire. E i giorni, le settimana, i mesi passavano, tra le imprecazioni di donna Mita che andava a sbraitare al Municipio, e i brontolii di don Basilio che andava a fargli ressa di tener duro, a casa, ad ora tarda, per non essere veduto. Ma un giorno, donna Mita s'era buttata su la prima carretta che andava a Caltagirone per ricorrere dal Sotto-prefetto. Per via le era capitata addosso una pioggia torrenziale che l'aveva inzuppata fino alle ossa. Il Sotto-prefetto, spaventato dalla vista di quella figura di strega che spandeva acqua dalle vesti e allagava il tappeto della stanza, e che strillava e imprecava contro il Sindaco, rispose che avrebbe scritto a quel funzionario una lettera un po' aspra. Donna Mita avrebbe voluto portarla lei, e già aveva cavato fuori il fazzoletto da involtarla per mettersela in seno, e già si sganciava il corpetto sotto gli occhi del regio funzionario che la guardava stupito. Ed era ripartita con la pioggia, senza curarsi di prendere un malanno. Infatti fu ad un pelo di andarsene all'altro mondo; ma, mezza morta, a chi veniva a farle visita, ripeteva: - Dite a don Basilio che devo prima seppellire lui e vederlo all'inferno. E cercava con lo sguardo le figliuole. Non vedeva Rita. - Dov'è Rita? - È malata anche lei. Le risposero così finchè stette a letto. Ma quando si levò e volle vedere la figlia, non fu possibile nasconderle che Rita era in casa del massaio, e che mancava solo il consenso della madre perché quei due si mettessero in grazia di Dio. Donna Mita allibì. Il suo consenso? Mai e poi mai! Già potevano farne a meno. Se quella disgraziata aveva disonorato la famiglia, lei, moglie di don Paolo Cuti, figlia del dottore Rinaldi, lei non si sarebbe prestata, mai, a legittimare quel disonore! E s'ingolfò nelle liti, nel codice, nelle procedure, ora che le cause erano già messe a ruolo, come dicono i curiali, e bisognava scaldare i ferri e non lasciar dormire gli avvocati, e spalancare tanto d' occhi per sorvegliare le mosse di quel ladro di don Basilio, che il Signore castigava, quasi per darle ragione: Debbo seppellire prima lui! Ma no, non voleva rallegrarsi perchè lo sapeva in pericolo di vita. No, lei non desiderava la morte di nessuno. - Se il Signore lo leva da questo mondo, sia fatta la sua volontà! Lo perdoni ed anche se lo porti in Paradiso; io non voglio entrarvi per niente. Le pareva che se si fosse rallegrata della disgrazia del suo avversario, Domineddio avrebbe dovuto punirla. Non desiderare agli altri il male che non vuol fatto a te stesso. Non si è cristiani battezzati per niente. Se il Signore però voleva levarlo via da questo mondo, poteva lei forse dirgli: Signore, lasciatelo stare qui? Doveva lei dar consigli a chi sa benissimo quel che fa e che è il padrone della vita e della morte? Questi buoni sentimenti intanto non le impedirono di sentirsi un po' seccata e di mordersi leggermente le labbra il giorno che si vide davanti, in Tribunale e poi in Corte di appello, don Basilio grasso e roseo, quasi non fosse stato malato, che portava sottobraccio un fascio di carte, accompagnato da tre avvocati, tanto doveva essere convinto anche lui che uno solo non sarebbe bastato a dare apparenza di ragione alle sue storte pretese! - E la sentenza? - ella domandò all'avvocato, dopo la discussione. - Fra otto, dieci giorni. Potete andarvene. Vi spedirò un telegramma. Il telegramma invece arrivò quella stessa sera dal paese: "Quarinta sta molto male, con una polmonite! Venite subito„. - Ah queste benedette figlie - esclamò donna Mita, torcendosi le mani, quasi la povera Quarinta si fosse ammalata a posta per farle un dispetto in quel punto. Fu un gran colpo! Le parve che la casa si fosse vuotata, che con Quarinta le fosse venuta meno l'aria, la luce, tutto! E non poteva guardare nè sentire Rosa che la esortava a rassegnarsi alla volontà di Dio! In quei primi giorni di dolore si sentiva diventata turca, com'ella diceva: Non c' erano più, per lei nè Madonna, nè santi. Aveva pregato, aveva fatto dire tre messe, aveva promesso una collana d'oro alla Madonna degli Ammalati, un paio di orecchini a Santa Agrippina!... Niente! La Madonna era rimasta sorda; Sant'Agrippina più sorda ancora! Rosa si turava gli orecchi udendola parlare a quel modo e scappava per chiudersi nella sua cameretta. Ma c'era da occuparsi degli affari: notificare a quello scellerato di don Basillo la sentenza, spogliarlo, come si meritava, di tutto il mal tolto; donna Mita così si rabboniva, riprendeva la sua attività. E parlando con Rosa si dichiarava più rassegnata alla volontà di Dio; doveva pero rassegnarvisi anche lei. Rosa non la intendeva a quel modo, e glielo fece capire col silenzio. Povera donna Mita! Che le importava ora di aver vinto le liti e d'essersi messa in possesso del palazzo Cuti, delle terre, dei giardini di aranci? Per chi avea lavorato, stentato? Per la Scellerata, disonore della famiglia, e pel villano di suo marito, poichè quella stupida di Rosa si ostinava a rimanere monaca di casa e non pensava più al mondo? - Non voleva saperne delle persone di questa terra! Si era sposata con Gesù! - Dove? Quando? Chi era stato il sindaco che l'aveva sposati, chi era stato il parroco che li aveva benedetti? Se il Signore si era preso Quarinta - la migliore, la più buona delle figlie! voleva dire che destinava tutto per lei, Rosa: palazzo, terre, giardini! Era dunque d'accordo con la scellerata, e col villano, per riempire la pancia a loro con tutte le sostanze dei Cuti? Era dunque d'accordo? Rosa, che aveva preso il nome di suor Veronica, non rispondeva niente; e usciva di casa per la messa o pel vespro, e andava a raccomandarla al Signore, o a raccontare tutto al confessore e a pregarlo di parlare lui con la madre perchè la lasciasse tranquilla. Donna Mita lo interruppe prima che finisse di spiegarle il motivo della sua visita: - Di che vi mescolate, signor canonico? Vorreste forse papparvi voi le duemila onze? Già, finchè campo, l'usufrutto è mio; e non sono disposta a morir presto. E poi bisogna levar via la mia dote e quel che mi spefta per successione, articolo 753.... E disporrò della roba mia come mi pare e piace; la darò ai poveri, al diavolo anche, ma non alla Scellerata! Urlava, gesticolava come un'ossessa, sciatta e mal vestita, quasi se non avesse vinto le liti. Il povero canonico era andato via balbettando scuse. Scena peggiore accadde la mattina che il notaio Crisanti, notaio di famiglia, venne a farle l'imbasciata che Rita e suo marito volevano venire a baciarle la mano e chiederle perdono del mal fatto: - Ormai, cara donna Mita! - Oramai un corno! — Anche perchè voi avete bisogno di un braccio pratico delle cose di campagna! No, non aveva bisogno di nessuno! Dopo aver fatto dieci anni la litigante, ora si metteva a fare la massaia meglio dell'assassino che le aveva rubato la figlia! Non gli dava altro nome a massaio Cudduzzu. Infatti, ella andava in campagna a sorvegliare i contadini, nel tempo delle messi, con un cappellaccio di paglia, tra i seminati, dietro i mietitori; durante la trebbia, per l'aia notte e giorno come un campaio, perchè quei ladri dei contadini non le rubassero il grano; in novembre, sotto gli ullvi, tra le donne che raccoglievano le ulive bacchiate, risparmiando una coglitrice, facendo per due; o nel frantoio, quando cavavano l'olio. Oggi qua, domani là, a cavallo della mula morella, piombando addosso ai contadini quando meno se l'aspettavano, facendo miglia e miglia sotto la sferza del sole, per valli e pianure, come una tregghia che va scavizzolando tirata dai buoi; e per ciò i contadini le avevano appiccicato il nomignolo di donna Stràula, che significava la stessa cosa e le stava a cappello. Ma una sera, tornando dal giardino di aranci, dove aveva intascato cinquecento lire dagli aranciai messinesi venuti a incassare la produzione, aveva trovato in casa Rita e Cudduzzu che le si buttarono ai piedi. Si sentì vinta, tutt'a un tratto. Era la volontà di Dio! Brontolò, però, ripetè cento volte che la padrona assoluta era lei, e citò solennemente l'articolo 753 del codice civlle. Una settimana dopo, massaio Cudduzzu cavalcava allato di lei, per accompagnarla in campagna come un garzone, rispondendo sempre dimessamente; Eccellenza, sì; Eccellenza, no! Era il meno che potesse fare; dopo di essersi imparentato per violenza, per tranello, con la nobilissima famiglia Cuti. Donna Mita lo trattava d'alto in basso, per fargli intendere che non era diventato con questo un galantuomo, e che c'era una bella distanza fra lei e lui, quantunque suo genero. Gli teneva broncio specialmente perchè, dopo tre anni, non era riuscito ad avere un flgliuolo. Non sarebbe stato un Cuti - ahimè, pur troppo no - ma un po' del sangue dei Cuti, insomma lo avrebbe avuto nelle vene, giacchè il Signore aveva voluto così! - Che fate dunque, se non fate un figliuolo? - gli diceva spesso. E massaio Cudduzzu una volta le rispose: - Ah, voscenza, se sapesse con che buona volontà!... Donna Mita gli aveva rotto la frase fra le labbra: - Non dite porcherie, villano che siete! E siccome un giorno, lagnandosi con suor Veronica di quel figliuolo di Cudduzzu che non veniva al mondo, e tornando ad assalirla perchè si decidesse finalmente a prender marito lei, che era ancora in tempo, suor Veronica le aveva detto: - Gesù Cristo vuole così; sia fatta la sua santa volontà! - Donna Mita perdette la pazienza: - Gesù Cristo! Gesù Cristo! Qualche volta nemmeno lui sa quel che fa!... M'è scappata! FINE

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A meno che lei non abbia interesse di riaverla in casa.... È una bella ragazza, la conosco. - Per la mia età, brigadiere, non c'è più nè belle nè brutte ragazze. E non ci sono state mai neppure prima. - Se vuole, per farle piacere, chiamerò Tinu Mèndola, cercherò.... tenterò.... - Bravo! Bravo! Io la ringrazio, brigadiere. E uscendo dalla caserma, don Pietro pensava: - Non si può fare una buon'azione, sinceramente, senza che la gente non ci vegga sotto un secondo fine!

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