Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'idioma gentile

209140
De Amicis, Edmondo 14 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Per amor di patria, dunque, per sentimento di dignità nazionale e d'onestà cittadina, per nostro interesse e individuale e per vantaggio di tutti, noi dobbiamo studiare la nostra lingua, quanto ci è possibile, in qualunque classe sociale ci abbia posto la fortuna, qualunque sia il nostro ufficio nella società e la natura dei nostri studi professionali, in qualunque parte siam nati o destinati a vivere; dobbiamo studiarla perchè sono una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita. Ebbene, io scrivo con lo scopo unico di farli prendere amore a questo studio, provandoti che non è punto uno studio arido e noioso, come lo credono i più; ma che si può fare con lo stesso diletto col quale si studia la pittura e la musica da chi non vi cerca altro che il diletto. Tu hai già compreso: non scrivo un trattato; non scenderò a disquisizioni grammaticali minute, né salirò a quistioni alte di filologia, ché non sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratterò la materia semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare convenga meglio all'età tua. E scrivo non soltanto per te; ma anche per quella molta gente d'ogni età e condizione, che potrebbe studiar la lingua con piacere e con vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del latino, né d'altra preparazione letteraria, e che ci si metterebbe volentieri, se non la trattenesse il pregiudizio comune che v'occorra uno sforzo enorme della volontà e una pazienza infinita come per lo studio d'una scienza astrusa. Per questo, strada facendo, mi staccherò da te qualche volta, per rivolgermi ad altri; ma tu mi potrai venire accanto anche allora, perché non mi scorderò mai che m' ascolti. Faremo insieme un viaggio d'istruzione, e farò il possibile perché riesca pure un viaggio di piacere. Può darsi che in qualche punto tu t'annoi; ma spesso ti soffermerai a pensare, e di tanto in tanto sorriderai, e ti farai buon sangue. Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non imparerai gran cosa da me lungo il viaggio; ma moltissimo poi da te stesso, e con l'aiuto altrui, se io riuscirò, come spero, a trasfondere e nell'animo tuo un poco del vivo amore e dell'allegra fede con cui mi metto al lavoro.

Sebbene io abbia letto il Vocabolario tante volte che certe pagine, certe colonne mi son rimaste nella memoria come armadi aperti, in cui vedo ogni parola al suo posto, quasi nell'ordine alfabetico col quale v'è collocata, mi dà sempre un nuovo diletto ogni lettura; qualche cosa da imparare trovo sempre, sempre nuovi passaggi e contrasti inaspettati e strani fra vocaboli che si toccano, nuovi richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi segreti e virtù e maraviglie del verbo umano. E v' entro con un senso sempre più vivo di reverenza pensando di quale enorme lavoro di generazioni è il prodotto quell'enorme materiale di lingua, che lunga e varia e venturosa vita ogni parola ha vissuta, e per che mirabili vicende passeranno ancora la maggior parte nei secoli, e che tesoro immenso di pensiero fu accumulato e si spargerà ancora per il mondo per mezzo di quelle parole. Il Vocabolario! Ma è il grande Museo, il tempio nazionale, la montagna sacra, sul cui vertice risplende il genio della razza. E si tratta di freddo e vuoto pedante chi lo studia! Ma io istituirei delle cattedre per leggerlo e per commentarlo; ma.... Suona l'ora. Faccio punto. È l'ora della mia lettura quotidiana. Salute.

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Era un pittore ligure, digiuno di lettere, ma pieno d'ingegno, che parlava il, più bizzarro italiano ch' io abbia mai inteso dagli scali di Levante alle Colonie del rio de La Plata: tutte parole storpiate, mutate di desinenza e di genere, o usate in tutt'altro significato da quello loro proprio. Il suo magazzino linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o calanti. ch'egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo derivava principalmente dal fatto strano (ma nella gente incolta non raro), che ogni parola insolita ch'egli leggesse o sentisse si confondeva nella sua mente con un' altra parola usuale di suono affine, o acquistava stabilmente nel suo concetto il primo significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli, gli pareva dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e spirito arguto, aveva bisogno, per esprimersi, d' un gran numero di parole, e se ne appropriava di continuo , così gli fiorivano sulla bocca gli spropositi con una fecondità meravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e donna in gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva tutt' uno d' immerso e sommerso, evento e avvento, immane e immune, stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel modo che può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vànvera, com'egli infatti udiva e leggeva. Usava sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s'era fatto rader la barba: - Come sei tutto cincischiato questa mattina! - e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo Sfregia lo avesse lavorato d'intaglio. Ricordo sfruconare, che per lui era verbo omnibus. - Questa mattina mi sono sfruconato a colazione mezzo pollo. Mi sfruconai l' abito contro il muro. - Lo colsero sul fatto e lo sfruconarono ben bene. Ho pagato dieci lire questo straccio di cappello: m'hanno sfruconato. - Ad altre parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando il cielo era sereno: - Che bell'ambiente questa sera! - Che cos'hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. - Per gli amici era uno spasso. N'aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le più belle, che non riuscimmo mai a fargli smettere, c'era voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta. - Tirava un' aureola deliziosa! - Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci disse che aveva trovato il paese tutto infestato. - Da qual malanno? - domandammo. - Ma che malanno! - Voleva dire: il paese in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le diceva, senza un sospetto al mondo dei suoi reati filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come una bandiera vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano minimamente: Alle osservazioni critiche scrollava le spalle. - Oh che pedanti! - diceva. - Digrignare, digrugnare, ammaccare, ammiccare, ruzzolare e razzolare, su per giù è lo stesso. So bene che parlo un po' così, all'insaputa. Ma mi capite sì o no? E tanto basta. - Di certi suoi qui pro quo si capiva l'origine: era l'analogia fonetica fra due parole: da sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire: gemere sommesso. Ma come diamine poteva dire "una scaramuccia di bicchieri sopra una tavola - per dire una quantità di bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E anche per quei nomi delle citazioni storiche proverbiali, che si sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del fatto, faceva lo stesso lavoro. - La spada d'Empedocle. - L'anello di Gigi. - L'orecchio di Dionisia. - Una che è una non l'infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che conoscevano il suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui parlava qualche volta dell'arte sua, quella profluvie di svarioni era una singolarità piacevole, non derivante che da unUmperfezione del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma chi non lo conosceva, la prima volta che l'udiva parlare a quel modo, sospettava che n'avesse un ramo, e lo guardava con diffidenza, Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa d'una colta signora, alla quale lo presentammo. - Signora - le diss'egli, appena presentato - io son fatto alla buona, non so spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la sincerità alla raffineria. La signora lo guardò, stupita; poi rispose: - È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità alla finzione cortese. - Quanto a questo - ribattè l'artista - le assicuro che l'infingardaggine non è fra i miei difetti. Ciò detto, si staccò dal crocchio, per parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto che faceva a noi la signora, come per dirci: - Ma quest'artista non ha il cervello a segno - credendo ch'ella accennasse d'aver male al capo, le disse cortesemente: - È effetto del tempo, signora. Anche a me questo tempo linfatico rende la testa pesante. Fu quello uno dei suoi più "brillanti successi. - E appunto quello strano epiteto affibbiato da lui al tempo, confondendo l' idea della linfa, umore del corpo umano, che somiglia all'acqua, con l'idea dell'acqua piovana, è un esempio che spiega come si formassero nella sua mente certi strafalcioni. E son più frequenti che non si creda i parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni cosa, come farebbe un toro imbizzarrito in un magazzino di chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n' intesi altri. Quanti ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente sorgenti inesauribili di buon umore! Che impareggiabili trovate! Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le sue detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva raccomandato che gli telegrafacesse immediatamente l'esito di non so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che sarebbe diventato il perno motrice della politica europea! E quelle guerre intestinali della Francia! Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica e del dizionario, d'aver fatto ridere qualcuno alle tue spalle: tu comprenderai che non l' ho fatto per mal animo. Non posso aver mal animo con te, poichè per te serbo la più viva gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi, imparai a scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io pure; tu m'infondesti nell'animo, meglio d'ogni professore di lettere, il terrore salutare del farfallone; e un'altra saggia cosa m'insegnasti: a non giudicar mai lì per lì dal modo di parlare, per malandato che questo sia, le facoltà intellettuali d'un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente; e non per burla, ma per affetto mi servo ancora delle tue parole per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida lo strame della mia vita.

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. - Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta a Torino, abbia la bontà d' avvertirmene. Mi metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla. - Grazie, - rispose stringendomi la mano. - Buon viaggio, e a rivederla. E mi lasciò. Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: - Senta. Combinazione, per caso o casualità, mi perdoni, è orribile. E se n'andò senza dir altro. Furon 'quelle le ultime, parole ch' io intesi dalla sua bocca purissima. Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto; negli avanzi della sua bandiera.

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Non ti dar la zappa sui piedi, dunque; mettiti all'opera; per qualunque via tu abbia da fare il tuo cammino nel mondo, benedirai le fatiche che avrai dedicate questo studio nei tuoi primi anni.

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E le parrà che non abbia a studiar la lingua la donna, che per ragione di natura e per gli uffici a cui è destinata, di madre, di consigliera, d'educatrice, di consolatrice della famiglia, avrà tanti sentimenti amorosi e pensieri gentili da esprimere, tante cose da dire, delle più difficili a dire e a sentire, e che può e sa dire essa sola, e che da lei sola si vogliono udire? E come farà, se non avrà studiato la sua lingua, a compiere con la voce e con la penna questi uffici, per i quali occorre conoscer della lingua tutte le grazie e le sfumature, possedere tutte quelle parole e locuzioni proprie, morbide, agili, sottili, che entrano quasi inavvertite nella coscienza e nel cuore, persuadono e commovono, accarezzano e consolano? Non è uno studio per la donna? Ma direi che è il primo studio che ella ha da fare, poichè la madre è la prima maestra dei suoi figliuoli, e perchè in ogni società colta sono, e non, possono esser che le donne quelle che insegnano ed impongono nella conversazione la dignità del linguaggio, la finezza dello scherzo, l'urbanità della contraddizione. E come si può far questo non conoscendo la lingua? Ah, ella scuote il capo, con un sorrisetto: ho capito. È bella, ed ha vanità femminea, non ambizione letteraria, e pensa che un viso come il suo, basterà, senza il sussidio del vocabolario e della grammatica, ad attirarle da per tutto l'ammirazione e l'ossequio. Ma s'inganna, signorina. Se sapesse che peggior effetto fa una parola brutta sur una bocca bella, e com'è più ridicola la sgrammaticatura detta con un sorriso vanitoso! E se sentisse con che barbara compiacenza le belle amiche commentano e portano in giro il piccolo sproposito dell'amica bella! Andiamo, mi confessi che ha torto, e mi conforti anche lei, almeno per un tratto di strada, della sua cara compagnia.

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Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia reputazione di strapazzar la gramma tica, e ti dirà quante lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla legittimità d'una voce o d'una locuzione, sulla quale è corsa una scommessa. Fàtti dire da maestri e da professori quante lettere ricevano da padri e da madri, che rivendicano la correttezza d'una parola o d'una frase segnata come errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando esempi e accalorandosi come linguisti offesi nell'orgoglio. E quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di minute risentiti d'un appunto linguistico e superiori feriti nel sentimento della propria autorità letteraria! E in quante assemblee un discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo per una frase sgrammaticata che fa ridere! E quanti sono, gli uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto appiccicato per tutta la vita, come un' insegna derisoria, uno sproposito di lingua, sfuggito loro Una volta più per sbadataggine che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole, e per l'effetto che producono negli altri gli errori, e per il risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e se sia da darsi retta a chi sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo. E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in italiano, prova a dir lì per lì ch'egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su, smentendo subito sè stesso, e ti rimbecca: - Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua! E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.

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- e pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta, con la quale tu non abbia famigliarità, e di cui ti prema la stima e la simpatia. Studia in special modo di dir bene tutte quelle piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele in mente, poichè sono, per così dire, i luoghi comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e quando ti sarai avvezzato a dirle facilmente e correttamente, riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua aspettazione, che nel dir male quelle piccole cose, benchè non sian molte e sian semplici, consiste principalmente il parlar male di quasi tutti. Bada anche a questo. Una delle nostre miserie, parlando, è l' incertezza che ci arresta nel designare certi oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati comunemente due o tre vocaboli di senso affine, ma di cui è proprio uno solo; poichè, nell'atto che c' indugiamo a scegliere, perdiamo il concetto della frase o del .-: periodo, che poi ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.

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Dicono che Napoleone primo abbia detto per tutta la vita section per session, rentes voyagères per rentes viagères, point fulminant per point culminant, e altri spropositi, per essersi avvezzato da ragazzo a pronunziare in quel modo quelle parole, che in casa sua si pronunziavano male. In certe famiglie, come tutti usano certi intercalari e hanno un certo modo di gestire, così dicono tutti gli stessi spropositi. Io ho osservato che i figliuoli dei padri mal parlanti quasi tutti parlano male, anche se sono più colti dei padri. Conosco un tale che disse per vent' anni scavezzare per scavizzolare, traccheggiare per inseguire e vita libertina per vita libera: un giorno lo chiarii dei tre errori, ed egli mi confessò che erano un' eredità di famiglia, che in casa sua, dove s' era sostituita la lingua al dialetto, egli aveva sempre inteso usar quelle parole in quel senso: alle correzioni che gli erano state fatte da ragazzo, fuor di casa, non aveva badato; poi nessuno non aveva più osato di correggerlo, per timore che se ne vergognasse, e così era andato innanzi fino ai cinquanta, perdendo prima il pelo che il vizio. Dunque, segui il mio consiglio: o ripigliate il dialetto in casa, o mettetevi d'accordo, tu e tuo marito, per frenare la licenza linguistica dei vostri rampolli, costituite fra voi una commissione di vigilanza e di censura, che non lasci passare nessuno sproposito, che ristabilisca nella vostra famiglia, filologicamente anarchica, l'impero della legge. I ragazzi, sulle prime, s' impazientiranno, tenteranno di ribellarsi; ma finiranno con riconoscere la ragione, e parleranno forse con minor facondia, che non sarà una gran disgrazia, ma cori maggior correttezza, che sarà una gran fortuna; e ve ne saranno grati più tardi. Intanto, ti prego di dar loro qualche avvertimento, in forma canzonatoria, che è la più efficace. Di' a Eleonora che se mi racconterà qualche altra disgrazia arrivata a qualche sua amica di scuola, vorrò sapere una buona volta di dove le disgrazie partono e con che treno arrivano, per potermi regolare. Di' a Enrico che me ne impipo per me ne rido e buggerìo per baccano non sono parole pulite, e che il dire che un gazzo di sette anni è più vecchio d'uno di cinque, è ridicolo: A Luigina, che mi disse tre volte: - Ho fatto una malattia - di' che mi son dimenticato di domandarle se non aveva di meglio da fare quando le è venuta quella brutta idea. Avverti Mario che il dir che un ufficiale ha tre medaglie sullo stomaco, invece di sul petto, è come dire che le medaglie gli sono indigeste; Dirai anche nell'orecchio a tuo marito che il verbo consumare, in italiano, è transitivo, e che quindi la candela consuma è un piemontesismo, ch'egli non deve tramandare ai suoi discendenti. E anche a te un'osservazione nell'orecchio: brutto come tutto è brutto di molto. Spero d'averti persuasa. E scusa la franchezza del critico poichè vien dall'affetto del cugino. Il tuo ***

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E sebbene Dante abbia detto " lascia dir le genti - è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi pensare che tu parli di tutti i popoli della terra; e che suoi per " loro - abbia esempi classici, non toglie che sia più corretto il far concordare l'aggettivo col sostantivo; e m'ammetterai che a dire ignorante per " maleducato - si corre pericolo di calunniare dei sapientoni; e una " minestra diaccia - se vuoi esser giusto, non s' è mai portata in tavola da che mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un bacio alla torre di Giotto. E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.

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Mi domanda un tale se non c'è in italiano una parola che significhi " stringer molto la persona con cintura o con busto o con altro, in modo che essa paia meglio disposta, ma che non abbia più liberi i movimenti. - - Certo che c'è. Striminzire. Una ragazza striminzita nel busto. Dice anche il Giusti, per analogia, di persone striminzite in una carrozza troppo piccola. - Striminzire! Che parola strana! - Strana perchè? Per il suono? Non è mica più strana d' impazientire e d' indolenzire, che tutti dicono. - Ma questa non l'ho mai intesa. - È d'uso comune in Toscana, è in tutti i dizionari, la usano molti italiani d'ogni provincia. - Eppure, che so io? Parlando, non l'userei. - Per che ragione? - Non so.... Non oserei. - Ma per la stessa ragione si dovrebbe interdire l'uso d'una quantità d'altre parole proprie, necessarie, italianissime. Per esempio, userebbe le parole rimpulizzire, spericolarsi, spiaccicare, stintignare, baluginare, che in certi casi significano una cosa che non si può dire per l'appunto con un altro modo? - Spiaccicare! Baluginare! Stintignare! (dopo aver pensato un po', sorridendo). - No, glielo dico sinceramente, non oserei. Saranno parole italianissime, e anche usatissime in altre parti d'Italia; ma fra noi paiono strane. - E picchia sullo strane! Ma strana le parrà ogni parola che non abbia mai intesa. Quelle parole non paiono punto strane e affettate, paiono naturalissime a tutti coloro che le usano dove sono generalmente usate. La cagione dell'effetto che producono in lei non sta in esse medesime; ma nel fatto che lei non è usato a sentirle. Lei stesso adopera ora come naturali parole e frasi che, anni fa, la prima volta che le intese, le saranno parse cercate col lumicino. Il tipo dell' affettato e dell'inaffettato, in materia di lingua, ha detto un grande maestro, non è altro che l'assuefazione. - Avrà ragione. E non di meno.... che vuol che le dica? Se, parlando in famiglia o fra amici, mi venissero sulla punta della lingua le parole stintignare, striminzire, baluginare, me le terrei in bocca, perché son certo che tutti quanti, udendole da me, rimarrebbero come stupiti, e direbbero fra sè, e fors'anche forte: - Cospetto! Tu peschi nel vocabolario; tu diventi un linguista. Che lusso! - Ma se tutti ragionassero così, la lingua italiana, fra noi, rimarrebbe sempre allo stesso punto; nessuno arricchirebbe mai il suo vocabolario d'una sola parola; dai dieci anni in su si rimpasterebbero sempre lo stesso miserabile frasario elementare. Se tutti avessero sempre ceduto a codesto sentimento, nell'Italia settentrionale, in Piemonte, per esempio, si parlerebbe ancora l'italiano come si parlava quarant'anni fa. - O non si parla ora come si parlava allora? - Ah no, per fortuna. Sono usati ora anche fra noi, parlando italiano, sono anzi diventati comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che quand'ero ragazzo erano affatto sconosciuti. - Quarant'anni fa non le sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un sonno, appisolarsi, fare uno spuntino; fare ainniodo, uomo di garbo, gente per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in tasca, faticare parecchio, e via discorrendo. Ora io sento questi modi ogni momento da giovani, da signore, da gente che non pensa neppur per ombra a parlare scelto, e non c'è caso che chi li ascolta si stupisca e sorrida con l'aria di dire: - Che lusso! - Eppure, quando furono intesi qui le prime volte, tutti quei modi debbono esser parsi strani come paiono a lei quelli che ho citati.. - Le ripeto che avrà ragione; ma.... (tra sè, scrollando il capo) Striminzire! Stintignare! Baluginare! Cosi è. E l'ha detto un grande scrittore, che di queste cose s'intendeva : - La locuzione della lingua in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria, può far ridere, esclamare, urlare, dov'essa non è conosciuta in fatto; e però sono impicci da cui uno non può uscir solo: l'unico mezzo d'uscirne è d'uscirne tutti insieme. - Il che vuol dire che tutti quanti dobbiamo adoperarci a mettere in commercio, parlando, quella parte di lingua che manca al nostro uso regionale, e che ci è necessaria, anche a costo di far ridere, esclamare e urlare. Incomincia dunque tu a far la tua parte. Ricordo certe famiglie d'impiegati piemontesi e lombardi, stabilite in Firenze capitale, nelle quali i bambini, che in casa parlavano italiano, portavano ogni giorno dalla scuola una parola o una frase nuova, di cui il padre e la madre ridevano: ne ridevano la prima volta, poi ci s'avvezzavano, e poi dicevano quelle parole e quelle frasi essi medesimi, da prima come per celia, dopo senz'avvedersene; e così il bambino arricchiva il dizionario e insegnava a parlare alla famiglia. E così devi far tu nel giro delle persone fra cui vivi, usando francamente le parole insolite, come se ti venissero spontanee, vincendo la "vergogna fuor di luogo - che è la cagione principale della nostra perpetua miseria in materia di lingua. Miseria che conserviamo di conseguenza anche nello scrivere, perchè tutto quel materiale di lingua, che conosciamo ma non usiamo parlando, non ci verrà mai pronto all'occorrenza quando scriviamo, lo dovremo sempre andar a cercare, e non lo cercheremo per pigrizia, o lo useremo male, e sarà sempre per noi come quelle stoviglie di casa che non si tiran fuori dall'armadio che per i pranzi solenni, dove gl'invitati s' accorgono alla prima che non siamo assuefatti ad usarle.

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Che giova che la lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le graziose strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all'u un suono barbaro che trapassa l'orecchio come lo stridore d'un chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l'armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d'aver orecchio musicale! C'è da riderne, e da averne vergogna. * - Come ho da fare? - domanderai. - Ho da toscaneggiare? - Così chiamano, per canzonatura, il pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovare contenti, come se non si potesse pronunziar l'italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c'è bisogno di toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di. questi libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl'italiani delle regioni subalpine. Avvèzzati prima d'ogni cosa a pronunziare l'a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c'è chi dice:

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Fa' il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m'immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l' immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno riconosciuta italiana, porger l'orecchio per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.

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In fine, quello che feci e continuo a fare è un dizionario mio, del quale ho una grande padronanza, nel quale ritrovo con grande facilità ogni parola o frase di cui non abbia o tema di non avere esatta memoria; un dizionario in cui godo a tuffar le mani come in un mucchio di monete o di gemme che io mi sia guadagnate o che abbia trovate io stesso a una a una; un tesoro di lingua accumulato con gran cura, che io amo, che mi compiaccio d'arricchire e d'abbellire, come una casa piena di cose belle e utili, perfezionandone a mano a mano l'ordine e l'assetto, con sentimento di proprietario e d'artista. Ecco come studiai e studio la lingua. Mi ci volle molta pazienza in principio; poi feci il lavoro con piacere; ora lo continuo con amore. E non credo he ci sia metodo migliore: per le teste costrutto come la mia, ben inteso.

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