Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Plutarco femminile

218330
Pietro Fanfano 15 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ma ciò vuole intendersi dell' abuso; chè anzi, quando tale esercizio d'ingegno si faccia per una specie di sollazzo dopo studj più gravi; o si faccia fare, ogni tanto anche a' giovani per aguzzar loro esso ingegno con qualche diletto (il che sarebbe in parte miscere utile dulci, per cui l' uomo fert omne punctum), allora io, non pure nol biasimerei, ma lo loderei volentieri, posto che fosse fatto con parsimonia, nè dovesse rubare il tempo agli esereizj di utilità maggiore: nè so al tutto condannare quegli istitutori, che nel corso del loro insegnamento ci facevano entrare anche questo E ch' io non abbia a esser gran cosa lontano dal vero me ne fa quasi certo il vedere, che gente di sommo valore, non solamente nei tempi moderni, ma anche negli antichi, non reputarono vergognoso alla loro burla il dilettarsi alcuna volta, e lo scrivere di così fatte materie: e ciò mi dà speranza del pari, che non abbia a riuscire sgradito ai lettori, nè abbia ad esserne tacciato di perdigiorno io stesso, se qui, più brevemente che posso, e a modo di onesto passatempo, do un piccol cenno di bizzarrìe sì fatte, e de' loro scrittori principali, acciocchè si abbia, da chi già non l'avesse, notizia di ciò; ed anche di alcuni libretti di non piccola curiosità, bibliograficamente parlando. Gli scrittori di antica erudizione greca ci dicono, i più sommi uomini di quella gente, essersi dilettati ed avere composti enimmi, grifi scirpi, o come e'se gli chiamassero altrimenti. Sappiamo da Cicerone e da Atanco che per antico essi enimmi si proponevano anco di cose gravi e filosofiche: il che ce lo conferma Aulo Gellio in più luoghi. Poi furono più che altro usati nei conviti, dandosi così un premio a chi prima indovinava, per esempio qualcosa di ghiotto lì di sulla tavola, come una, pena agli ignoranti, per esempio una bevanda un po' ostica da tirarsi già ad un fiato. Uomini di altissima fama, come ho detto, ci si dilettarono, e ne proposero essi stessi da sciogliere; e pare che la pigliassero sul serio davvero, se non dice le bugie Plutarco quando racconta che Omero morì dalla stizza di non aver potuto indovinar quell'enimma propostogli da certi pescatori: Que' che pigliammo andarono in malora, que' che non pigliammo gli abbiamo noi. Si ricordano poi Ataneo, da Suida, e da altri parecchj, enimmi di Demetrio Falareo, di Platone, di Apollonio Tianeo, di Pitagora, d' Ansonio, di Diomede, senz' altri infiniti; ed è noto sino ai fanciulli l' enimma di Virgilio: Dic quibus in terris. Ci� mostra che simili esercizj d' ingegno non erano riputati nè vili nè dannosi, se non hanno sdegnato almeno ci sollazzarvisi uomini di tal qualità. Gli enimini più antichi sono sparsi per le opere degli eruditi; ma una formale raccolta ne fece quell'antico poeta latino, passato alla posterità sotto il nome, vero o finto che sia, di Simpòsio. Quegli enimmi sono in esametri assai eleganti, dati fuori la prima volta in Roma nel 1581, con le stampe di Zanetti, da Giuseppe Castello, dedicatola a Tommaso Avalo marchese di Pescara. Ciascuno enimma è di tre versi; ed inoltre alla eleganza vera del dettato, ve ne ha parecchi ingegnosi quanto mai si può dire. Se il lettore erudito vuol avere un saggio, ed anche eserciravi l' ingegno, eccone qui uno, preso come vien viene, che è il quarantesimo: Grande mihi caput est, intus sunt membra minuta: Pes unus solus, sed pes longissimus unus; Et me somnus amat, proprio nec dormio sommo, Ma lasciamo stare gli antichissimi Greci e Latini: lasciamo stare anche l' accenno di questi ghiribizzi, che pur si trova negli antichissimi nostri, come appresso Dante nel madrigale: o tu che sprezzi la nona figura, e presso al Barberino in quel suo giuoco di parole l' erbette son tre lettere, cioè l' R (er) B (be) T (te); per venire al secolo XVI, dove essi presero del campo e moltiplicarono, così in Italia come in Francia. Fino da' primi anni del secolo suddetto, in un libro di calligrafia stampato a Roma, si vede un bell' esempio di Rebus, un intero sonetto composto di figure da tradursi poi in parole. Questo, ch' io sappia, è il primo esempio, salvo la scrittura geroglifica, di giuoco sì fatto; ma non vi è per altro qualificato col nome di Rebus, il qual nome fu trovato in Francia non pochi anni dappoi, forse e senza forse dalla voce latina rebus, ablativo plurale di res, perchè le idee significami rebus non verbis, con cose e non con parole. Ed in Francia più che altrove ebbero corso allora tali bizzarrìe con altre simili, delle quali ci ha un proprio trattato, col titolo Bigarrures du seigneur des Auards, curioso e raro libro, di cui è pregio dell' opera il dar qui breve descrizione. È un grazioso e rarissimo volume, stampato a Parigi nel 1585, in-16, sul cui frontispizio leggesi la seguente cobbola: Tel fora la niche à ce livre, Voyant ce mot de Bigarrures, Que le lisant par adventure Dira qu' il est digne de vivre. L' autore chiama in esso a rassegna tutti i modi di enimmi, grifi, rebus, equivoci, anagrammi, logogrifi, acrostici, ed infinite altre allitterazioni usate fino d' allora; ne fa di ciascuno una breve storia, di ciascuno ne dà parecchi esempj, formando così un libro di circa 500 pagine, che certo è dei più adattati a far passare piacevolmente le ore d' ozio anche alle persone erudite. Primi sono i Rebus detti di Piccardia: poi i rebus per lettere, come sarebbe: g.a.c.o.b.i.a.l. J' ai assez obei a elle; e quelli per figura con note musicali, come appunto si vedono adesso in tanti periodici di Francia e d' Italia. Tra gli anagrammi, ve ne ha degli ingegnosissimi; e così tra' giuochi di numeri, e tra gli epitaffi giocosi, co' quali si chiude il libro. Ho accennato qua sul principio che esercizj di ingegno a questa maniera si accettarono per il passato anche nei corsi di pubblico insegnamento; e di fatto è singolare un' opera composta dal Padre Antonio Forti gesuita, e stampano, a Dillingen nel 1691 col titolo di Miles rhetoricus et poeticus, che è un vero e proprio trattato dell'arte rettorica, della quale opera è parte formale questa della materia onde qui si ragiona, e vi se ne danno precetti ed esempj. Comincia dagli anagrammi cui egli definisce un parto più della fortuna e dalla fatica che dell' ingegno: ne discorre lo stile, i vizj e le virtù; ne reca parecchi esempj, molti dei quali sono veramente curiosi, come Laudator-adulator, Stefano protomartire-santo morto fra pietre; chè santo Stefano fu veramente lapidato. Agli anagrammi seguitano gli eco, gli epitaffi, gli enimmi, ecc., il tutto co' suoi precetti, vizj e virtù, e di tutti biasimatone lo abuso. Gli enimmi per altro furono quelli che ebbero maggior corso e più largo; ed è dilettevolissima un' opera stampata a Francofort sino dal 1599 col titolo di Aenigmatographia, dove, per cura di Niccolò Reusnero, si fa una compiuta storia dell'enimma appresso gli antichi, e si raccolgono quelli de' principali autori del suo tempo, che di quel tempo sono i principali eruditi e letterati. Il volume, che si avvicina alle 500 pagine, si chiude con una parte riservata ai logogrifi, che occupano un cento di pagine, tra' quali ce ne ha de' veramente ingegnosi e graziosi, degni al certo che io ne dia qui un saggio a' letterati intelligenti: Si caput est currit; ventrem coniunge, volabit; Adde pedes comedes; et sine ventre bibes. (Muscatum - Mus - Musca - Muscatum - Mustum) Odasi anche quest'altro, il quale potrebbe chiamarsi logogrifo anagramma: Mitto tibi navem prora puppique carentem; Mitto tibi metulas; erige, si debitas; che vuol dire ti mando nell'ave, perchè navem, toltogli la prima e l'ultima lettera, resta ave, parola di salutazione; e perchè la voce metulas raddrizzata, cioè letta a rovescio, fa salutatem. Presso gl'Italiani per altro furono in voga nei passati secoli i soli enimmi poetici, il più illustre scrittore dei quali fu Antonio Malatesti fiorentino, amico di Milton, la cui Sfinge, che sono tanti sonetti e stanze enimmatiche, ebbe lodi meritate da molti valentuomini, dal Redi specialmente; ed ebbe varie edizioni, fra le quali una di Milano compiutissima, fatta pochi anni addietro, con una assai lunga prefazione dettata da me, con tutto che alla stampa del volume io non attendessi, come si dà ad intendere nel frontespizio. La Sfinge del Malatesti è cosa troppo nota, da dovermi qui brigare di darne notizia ai lettori, che già ne sapranno quanto me: dirò solamente che appena fatta quella edizione di Milano, capitommi un codicetto del secolo XVII, contenente sonetti enimmatici del Malatesti, parecchi dei quali, anzi il più, sono inediti; e non pochi di quelli, già stampati sotto forma di Stanze, si veggono quivi ridotti a Sonetti; nè dispiacerà, mi penso, di averne qui un esempio. La stanza 8ª della parte III, sezione 2ª, così dice nella stampa:

Poi la direttrice, pregando la graziosa fanciulla che aspettasse un momento ad alzarsi "C'è nessuna che abbia nulla da dire? "Io, scapp� fuori una vispa fanciulletta, la più grande delle minori, che si chiamava Egle, ed era tenuta da tutte per un sennìno. "O sentiamo! esclam� la direttrice, facendo bocca da ridere. "Mi pare che non si sia incominciato troppo bene celebrando questa Amalasunta, la quale in fin de' conti era della razza di que' barbari, che vennero a disertare l'Italia. "Apparentemente la dice bene, riprese la direttrice; ma, se ella, e tutte le altre signorine vorranno ricordarsi a che vergognosa condizione si era ridotto l'impero romano e l'Italia; se penseranno che Amalasunta pose tutto l'ingegno e lo studio a ingentilire i barbari suoi Ostrogoti, e a ricondurre in vita la morta civiltà mi penso che tutte si troveranno d' accordo ad approvare che le nostre conversazioni abbiano avuto principio da questa buona e sventurata regina, la quale pu� bene noverarsi tra coloro che diedero la vita per la civiltà italiana." Tutte le ragazze assentirono; allora la direttrice volta al maestro: Mi pare, disse, che lei, signor maestro, avesse fatto cenno come chi vuol dire qualche cosa; e che la vispa Eglina col suo pronto Io, le abbia levato la parola di bocca. E vero? È vero, rispose il maestro. Volevo anch'io rallegrarmi colla signora Elisina, accertandola che anche un letterato già fatto non si vergognerebbe di avere scritto quella vita di Amalasunta: ma volevo anche aggiungere che in essa vita mi hanno un pochino dato nel naso, non dirò tre errori, ma tre inesattezze, le quali non avrei voluto sentir dette da lei, che è tanto diligente e tanto studiosa della proprietà." La signora Elisina, a cui la lode non era dispiaciuta (mala cosa! siam tutti fatti ad un modo), non le dispiacque per altro nemmeno la benigna censura del maestro; anzi con volto lietissimo gli domand� quali fossero i tre errori, a cui il maestro rispose: "Ella ha detto che il dominio degli Ostrogoti cominciò nel IV secolo, cioè nel 493; ma questo è il quinto secolo, non il quarto. Senza dubbio l'ha tratta in errore quella voce quattrocento: se per altro penserà che un secolo e di 100 anni e conter� gli anni ad uno ad uno, vedrà che quando arriva a cento il primo secolo è già compiuto; e quando la comincia a dire cento uno, cento due, e così di seguito, siamo gia nel secondo secolo, benchè la dica cento per prima voce: detto di uno è detto degli altri secoli. Mi ha inteso bene? Sì, signore: la cosa è semplicissima, e bastava pensarci un pochino a non farsi canzonare. "La creda che in questo cascano anche di coloro che la pretendono a maestri. Altra cosa che mi ha fatto mal suono è quell' azzardoso, detto di Teodòto. Le voci azzardare, azzardo, azzardoso, non c' è dubbio che sieno state scritte da qualche valente autore; ma questo non fa che non sieno tutte francesi, e non bisognevoli alla nostra lingua, che ne ha parecchie delle buone a significare l' idea medesima: nel caso di Teodòto poteva dirsi, per esempio, audace, avventato, arrischiato o simili. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è quel Teodòto che aveva antipatia alla civiltà qui mi pare eh' ella abbia peccato d' improprietà l' antipatia è passione che nasce spontanea e per prima impressione, e sempre può sostituirsi con la voce aversione scritta con una sola v, perchè viene da averso verbo latino, il quale significa aver orrore o ripugnanza, come appunto fa chi ha antipatia, ecc. Ma Teodòto contrariava la civiltà per suoi fini e per animo perverso, dunque la sua era aversione, era contrarietà, era odiosità, se s' ha a dir così,e non antipatia. E dopo essere stato cheto un pochino, continuò "La vede che queste sono macchie ben leggiere; ma ho voluto notargliele, perchè si avezzi, e lei e queste signorine, a fuggire anche l'ombra dell' errore." La Elisina ringraziò aramente il maestro della lezioncina datale; e la direttrice fece alzare la seconda di età, e a lei assegnò la lezione per la seguente domenica; e poi si partirono tutte liete e festose.

Essendo per altro tuttora presto, il maestro propose che prima di andar via, una delle signorine leggesse parte di una bellissima e gravissima lettera di Bernardo alla sua Porzia, dove appunto parla della educazione de' figliuoli: e trovato libro e pagina, lo diè alla signora Zaira, accennandole il luogo, la quale lesse quanto segue: "Dico adunque che, eziandio che il Datore d' ogni grazia ce li abbia dati (se la paterna affezione non m' inganna per quanto in questa tenera età si può conoscere) belli di corpo e d' animo, nulladimeno per ridurgli a quella perfezione che si desidera, hanno bisogno di coltura Parla de' suoi figliuoli.; perchè, siccome non è terra sì aspra, sì dura e sì infeconda, la quale, còlta, non divenga subito molle, fertile e buona; nè alcun buono albero, che, non essendo, col trasportarlo o con l' innestarlo, coltivato, non ritorni sterile e selvaggio; così non è ingegno di natura rustico e rozzo, che con una lunga e buona instituzione e disciplina non si faccia gentile e docile; nè sì buono e felice, che senza buona e diligente creanza non si corrompa e a degeneri dal primo suo buono instituto. E perchè l' uso agevolmente si conserve in natura, a dobbiamo con ogni studio affaticarci, mentre che l' albero è tenero e pieghevole, di volgere e piegare il tronco de' loro pensieri, e i rami delle loro operazioni, alla parte più virtuosa e più bella: chè, siccome nella tenera scorza d' un giovine arboscello le piccole lettere stampate ed iscolpite crescono col tronco già fatto grande, e con lui vivono eternamente, così questi documenti ed esempi di virtù s'imprimono, e pigliano tanto vigore e spirito nell'animo del fanciullo, che non n'escono giammai: altrimenti, lasciandolo indurare e crescere in mal uso, non a si potr�, per alcuna diligenza nè studio che vi si ponga, volgere a miglior parte, non più che si possa la ruota del carro, già torta, raddrizzare. Però, poichè Cornelia nostra è ormai uscita a dall'infanzia, e si fa di giorno in giorno di corpo più grande, e di spirito più acuto e più vivace, nel quale, come in terreno fertile e atto, si può già incominciare a spargere alcun seme degno di noi: e perchè non è semenza più nobile, a nè donde nascano in abbondanza più preziosi frutti, nè più utili, o necessarj per iscacciare la fame e la sete delle mondane delizie, che quella del nome e dell'amore di Dio; è di mestieri che procuriate con tutte le forze vostre, e con ogni diligenza d'imprimere nella pargoletta anima il nome, l'amore e i pensieri di lui affine che impari ad amare e ad onorare colui, dal quale riceve, non solo la vita, ma tutti i beni e le grazie che possono fare l'uomo felice in questo mondo e beato nell'altro. Studiate medesimamente d'innestare nella tenera mente sua il timore di esso Dio: il timor, dico, non vile, non servile, il quale a non piace alla maestà sua; ma quel nobile e gentile, il quale stia ad ogni ora sì unito e sì a congiunto con l'amore, che non si possano in alcun modo dividere nè separare: perciò da questi due fratelli, così congiunti e così uniti, ne nasce la religione; la quale, a guisa d'ombra, che, ancorchè lasci l'erbe inutili e selvaggie germogliare, non le lascia però maturare nè far frutto, così non lascia alcun vizio vergognoso nè capitale fermar le radici negli animi loro, ne venir a tempo che possa produrre alcun frutto di scellerità Or perchè sappiate ciò che importi questa parola costumi, vi dico che, costume non è altro che, in tutte le cose che si dicono, servire una certa modestia e onestà; e in quelle che si fanno un certo ordine e un certo modo atto e conveniente, a ne' quali riluca e risplende quella dignità e quel decoro, che, non solamente gli occhi e gli animi de'prudenti, ma degli imprudenti ancora diletti e muova a maraviglia. "I costumi si dividono poi dalla ragione e dal tempo: perciocchè alcuni s'insegnano e s'imprimono ne' puerili animi dalla ragione e dalla diligenza d'altri: alcuni dalle loro considerazioni e dal proprio loro giudicio col tempo s' imparano. Piglierete adunque pensiero d' insegnar loro quella parte che a voi più si richiede. Due sono i modi dell' insegnare: l' uno con le ragioni e con gli ammaestramenti; l'altro con gli esempj: e perciò il senso dell'occhio è più veloce che quello dell' orecchio, e ha maggior forza della natura, "bisogna, signora Porzia mia, volendo creare Creare vale educale, come creanza, educazione: onde buona o mala creanza, bene o mal creato. i vostri figliuoli e rendergli tali, che coi loro costumi e virtù meritino d'esser andati, che vi mostriate tale a loro, quali desiderate che essi si mostrino ad altri. La tacita disciplina, e quella che più ragiona co' fatti che con le parole, è quella che più giova; chè, se vorrete a' vostri figliuoli que' documenti dare, de' quali voi non vi serviate, sarà il medesimo che se uno volesse insegnare ad un amico un cammino, ed egli s'inviasse per un' altra strada. "è di mestieri, dovendo instituir bene i suoi figliuoli, che il padre e la madre siano di natura moderati e gentili; e con tanta diligenza e studii affettino Affettino, cioè facciano mostra, diano a conoscere. la loro virtù, che a guisa d'un prezioso liquore s' affatichino d' infondersi per gli occhi, e per gli orecchi nell'animo e nell'ingegno del fanciullo, e di trasformarsi tutti in lui," perchè, subito che comincia con puerili pensieri a discorrere e a spaziarsi, se non nelle interne, almeno nell'esteriori e superficiali parti della ragione, rivolge e affissa gli occhi e gli orecchi nel padre e nella madre; e mira e osserva con grandissima attenzione tutto ciò che essi fanno o dicono. "E l' ammirazione della paterna virtù è pungentissimo sprone per far correre lo spirito del figliuolo per quel medesimo cammino che corre il padre." E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

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La Fontaine è il famoso favoleggiatore, uno dei più singolari ingegni che mai abbia avuto la Francia: le sue favole sono un miracolo di naturalezza, di ganza di grazia: e pur a vederlo, ed a conversarci, era troppo diverso da quel che si giudicherebbe per i suoi scritti. un uomo indifferente a tutto ciò che più accende la cupidigia umana: dolce, affabile, senza fiele, libero da ogni rea passione. Chi lo vedeva senza conoscerlo, lo pigliava per l'uomo più sciatto e più nojoso del mondo. Nella conversazione si mostrava quasi rustico: parlava poco, e spesso rimaneva stupidamente silenzioso, come farebbe un vero imbecille. Se voleva raccontare qualche fatterello, lo faceva con malissimo garbo; e quell'autore che ha scritto racconti sì semplici, sì briosi, faceva cascare il pan di mano a sentirgli raccontar qualche cosa. Egli insomma è il più parlante esempio che l'uomo d'ingegno e di dottrina può ben essere un bell'uggioso in conversazione. Si raccontano varj esempi della sua rusticità e del suo poco tatto; io ne racconterò due soli. Fu invitato a desinare da un gran personaggio, il quale pensava che l'autore di favole e racconti così briosi dovesse rallegrare la conversazione. La Fontaine però si trovava imbrogliato come un pulcino nella stoppa; e non trovava materia da dir quattro parole: sicchè tirò a mangiare; e per uscir d'impiccio, si alzò da tavola con la scusa di dover andar all'Accademia. Ma per andar all'Accademia è presto, gli fu detto. Allora egli, più imbrogliato che mai, rispose: Lo so; ma prenderò la strada più lunga. �F"Fra tutti gli scrittori francesi Rabelais era l'idolo di La Fontaine; e quello solo ammirava senza niuna limitazione. Un giorno, essendo in casa di Despreaux con Racine e altri dotti, si cominciò a parlare di sant'Agostino. La Fontaine non partecipava a tali ragionamenti, e se ne stava silenzioso lenzioso e quasi sonnolento. A un tratto però sul più bello della disputa, scappò fuori domandando sul serio all'abate Boileau, se credesse che sant'Agostino avesse più ingegno di Rabelais, che è sì schietto e sì elegante scrittore. Allora l'abate, squadrandolo da capo a' piedi, si contentò di rispondergli: Badate, signor La Fontaine, vi siete messo una calza a rovescio, ed era vero davvero. E così quella sciaterìa della calza, diede giusta materia a pungere La Fontaine della sua strana domanda. "Di Racine dirò solo che è il primo tragico della Francia; e mi contenterò di raccontare questo suo bel tratto. Quando Luigi XIV partì per l'assedio di Mons, comandò a' due suoi storici che lo seguissero. Uno de' due era Racine, il quale cercò di sgabellarsene; e quando il re tornò gliene fece amaro rimprovero; a che il poeta rispose accortamente: - Sire, quando voi mi comandaste di venir con voi, non avevo se non abiti da città; ne ordinai subito di quelli da campagna: ma le piazze che vostra maestà assediava sono state prese prima che il sarto me gli finisse di cucire. "Pradon era un ignorante bell'e buono; ma pure col favore de' grandi si mise a competere con Racine: è vero per altro che non gli toccò mai a ridere per questa sciocca emulazione. Di lui si racconta che avendo composta un'opera drammatica, andò camuffato al teatro, per vedere, senza esser conosciuto, l'effetto che faceva il suo lavoro. Sino dal primo atto il teatro pareva che rovinasse dai fischi; e Pradon, che si aspettava, un trionfo, perdè la bussola, e cominciò a pestare i piedi dalla stizza. Un suo amico, vedendolo così turbato: "Mostrate il viso alla fortuna: date retta; anche voi tirate a fischiar come gli altri. "Pradon, tornato in sè, gli piacque il consiglio: cavò fuori il suo fischio, e lì fischia a più potere. Accanto a lui c'era un moschettiere, che datogli un urtone, gli disse tutto stizzito: - O che fischi tu? il dramma è bello; il suo autore non è un minchione, ed è un ben veduto alla corte. - Pradon rende l'urtone, e dice che vuol fischiar quanto gli pare; l'altro prende il cappello e la parrucca di Pradon, e la fa volare per il teatro: Pradon gli dà uno schiaffo; e il moschettiere sfodera la sciabola, gli fa due sberleffi sul volto, e minaccia di ammazzarlo. Insomma, Pradon fischiato e battuto per l'amor di sè stesso, piglia l'uscio e va a farsi medicare. L'ora è tarda, e non mi c'entra a dirvi nulla di Campistron, se non ch'egli fu poeta di qualche valore, amato assai da Racine, ma le cui opere sono quasi in tutto dimenticate."

Pagina 146

"Io non ho mai capito come mai si debba dir Ella e Lei ad un uomo, essendo quelle particelle femminili; nè perchè, mentre si dice Lei, si abbia poi a nominare la persona col nome mascolino, come dianzi ha fatto la Zita, dicendo: A lei, signor maestro, sarò gratissima." "Il suo non aver capito è ragionevolissimo: ed io le dirò come sta la cosa. Naturalmente la lingua non comporterebbe che si usasse altro che il Tu, parlando da persona a persona: poi, o l' adulazione o la servitù, consigliò ad immaginare nei signori e nella gente di qualità, un ente astratto, come la signoria, la maestà, la santità e parlando ad essi, o scrivendo, non parlò o scrisse alla persona propria; ma alla sua signoria, alla sua maestà, alla sua santità; onde poi si cominciò a dire vostra signoria, vostra maestà o vostra santità, ecc. Ora nel parlare comune, quando si dice Lei ad una persona, non è come se parlassimo ad. essa, ma a quella signoria che ci immaginiamo essere in lei; e per conseguenza quando la signora Zita ha detto a lei, signor maestro, è come se avesse detto alla sua signoria, signor maestro. Ha compreso bene?" "Sì, sì, ora trovo la ragione di questo e simili modi. La ringrazio tanto." E qui finì la conversazione, perchè l' ora era già passata.

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Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

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Non si abbia per male, se le dico di sospettare che ella parli un poco a passione, per animosità che ella abbia con qualche poetessa vivente". Il maestro non parlava a caso, come quegli che sapeva, essere una delle poetesse rammentate della Vittorina amica di sua madre, dalla quale spesso andava, ed a lei faceva delle prediche, per la qual cosa fieramente avevala presa a noja. Essa per altro rispose con qualche dispetto: "Io non ho animosità per nessuno; ad ogni modo pigli quel che c' è di buono nelle parole mie, il rimanente lo lasci stare." Di buono e di vero c' è, rispose il maestro, quel che la dice di non essere comportabili i poeti mediocri, ed essere i poeti eccellenti rarissimi. Il far dei versi non è cosa per niente difficile a chi tanto o quanto ha studiato le lettere, o gustato le opere dei grandi poeti; come se ne ha la prova nel numero stragrande dei verseggiatori che sempre ci sono stati, ci sono e ci saranno in ltalia; tutta gente, della quale non si parler� più nel tempo avvenire, ch anche di alcuni di quelli i quali hanno grave nomea al presente. La storia della letteratura no ammaestra, che non pochi poeti hanno avuto gran fama ai loro tempi e che di loro, o non si ricordono adesso nè anche i nomi, o che sono reputati degni di biasimo anzi che di niuna lodo. L' acquistar fama tra' presenti procedo da molte cose, lo quali col merito non hanno niente che fare; il favore dei grandi, le lodi su pei giornali, comprato a poso d' oro, e spesso scritte dall'autore proprio: il lusingare certe passioni delle moltitudini: l' atteggiarsi a poeta civile, e a' giorni nostri il gridar fuori i barbari, morte a' tiranni, viva l' Italia, stemperando queste nobili idee in un diluvio di versi vieni delle più strane immagini, delle più pazze metafore, e delle più bestiali parolaccie. Sopra tutto poi giova il farsi poeta di una setta, declamando in versi parte pedanteschi e parte spiritati, le più esagerate, pazze ed empie follie, mettendosi in capo un berretto frigio. Allora i caporioni della setta ti portano a' sette cieli: danno voce a' lor fattorini, i quali strombazzano il gran poeta per ogni cantuccio d' Italia: questo schiamazzo sopraffà molti poveri di spirito, i quali credono proprio vere e meritate le lodi; e quel che è più bello che il gran poeta le crede vere anch' egli, e se ne pavoneggia... Ma chi alle grida non si lascia intronare; chi le cose giudica secondo le regole certe della, critica, ride di queste commedie: stima que' poeti matt�gioli per quel che vagliono, e non dubita punto che la loro gran nomea debba morir con essi. Questo per altro non è luogo o tempo da tali discussioni; e torno alle donne. Qui la signora Vittorina è stata troppo severa. Non dirò che tutte le poetesse sìeno veramente degne di quel nome, che per dirlo con Dante, più dura e più onora; nè anche tutte quelle la cui vita è qui stata letta: ma circa alle donne militano in favor loro molte considerazioni. Prima di Vitto bisogna pensare che essendo la donna, e per natura, e per educazione, e per il buon procedere del viver civile, destinata al governo della famiglia, e non agli studj, molto più sono da valutarsi i pregi delle donne in questa materia, che quelli degli uomini. Poi bisogna pensare quanti meno ajuti ha una donna per progredire negli studj: non può andar liberamente a udir lezioni di valentuomini per gli atenei e per le università: nelle pubbliche biblioteche non va: non conversa così liberamente co' letterati di una città, nè va a' ritrovi loro privati. Con tutto questo per altro molte poetesse hanno scritto cose degne di gran fama; e si possono senza scrupolo paragonare co' migliori poeti. Delle donne che scrivono qualche versucciaccio per semplice vanità, per far le leziose nelle conversazioni, e per aver lodi ne' giornali volanti, non accade parlarne: esse hanno la derisione dei savj: il castigo che meritano per altro lo dànno loro le amiche e le compagne, e però le lasceremo noi ben avere senza dirne nè bene nè male." Come il maestro si tacque, venne fuori una delle fanciulle a domandare: "Dica, signor maestro, la Vittorina a detto che la Faìni fu pastorella d' Arcadia: che cosa son le pastorelle d' Arcadia?" "Glielo dirò un altro giorno, rispose il maestro, perchè la signora direttrice fa cenno di dovercene andare."

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Veduto che la direttrice si taceva, la signora Alisa disse: "Questo ragionamento tutto storico mi fa venire in mente un pensiero: come mai, tra tante donne illustri da noi ricordate, nè meno una ce n' è che abbia scritto istorie? "A questa domanda, disse la direttrice, potrà forse più acconciamente di me rispondere il signor maestro." Ed il maestro: " Che io il sappia fare più acconciamente di lei, ne dubito forte; nondimeno, se a lei piace che la risposta si faccia da me, io la farò. Le ragioni perchè non ci sono storie gravi scritte da donne sono su per giù quelle medesime assegnate qui altra volta per rendere ragione della rarità delle donne scienziate, rispetto alle letterate o alle artiste. Lo scrivere istorie non è opera di semplice fantasia nè a ciò basta il solo pronto ingegno; ma ci vogliono molte qualità che una donna non può avere oltre a quella che ha raramente, di una mente disposta agli studj più gravi e speculativi: ci vuole, diceva, lunga pratica di negozi pubblici; lungo ed assiduo studio degli storici di ogni tempo e di ogni nazione; andare a passare il più del tempo per le biblioteche ed archivi, frugando, interpretando vecchi documenti, facendo spoglj sopra codici di materie diverse: ci vuole una lunga contuetudine del trattare materie politiche; conoscenza perfetta del diritto pubblico, delle leggi che governano la diplomazia, e sottili investigazioni di ogni maniera. Tutte cose aliene troppo dalle consuetudini di una donna, ed alcune anche non possibili alle donne. Ecco perchè non ci sono donne che abbiano composte istorie da potersi veramente dir tali il che per altro non significa che non ce ne possa essere nel tempo avvenire; e che una di queste non possa essere anche la signora Elisina, sol che voglia barattare le cure gentili e benigne proprie delle donne, con le gravissime e laboriosissime degli uomini, anzi lasciando quasi di esser donna e facendosi uomo." Qui le altre alunne fecero una bella risata; e la signora Elisina, ridendo insieme con esse, protestò di voler rimaner donna coni' era: e così di un piacevole ragionamento in un altro venne l' ora del doversi partire, e partirono.

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Dubito per altro se lo studio abbia dato buon frutto in questo lavoruccio che sono per leggervi: a me, dico schiettamente, mi par di no. "Il soggetto del mio ragionamento è la vita della Laura Bassi, celebre letterata bolognese, che nacque nel 1711. Il padre si diede ogni più gelosa cura della sua educazione, e della scelta di buoni maestri, vedendo nella sua bambina un ingegno prontissimo, e volontà di imparare: si ingannò giudicando che sarebbe diventata tale da onorar la famiglia e la patria, perchè, imparate fondatamente le lettere latine ed italiane, si diede allo studio della filosofia nella patria Università, dove fece progresso tanto mirabile, che a ventun anno sostenne dinanzi ai cardinali Grimaldi e Lambertini una tesi, avendo sette professori che le argomentavano contro, a' quali rispondeva in lingua latina, ch' ella parlava con invidiabile facilità e purezza. Sposatasi poco appresso con Giuseppe Veratti medico, nè per le cure di famiglia abbandonando gli studi, cresceva sempre in sapienza ed in fama; tanto che il Senato di Bologna le diè la cattedra di filosofia, e fece coniare una medaglia in suo onore col ritratto di lei da una parte, e dall' altra una Minerva (dea della sapienza) col motto: Soli cui fas vidisse Minervam. Niuna donna per avventura fu padrona come essa di tante lingue e di tante scienze, perchè ebbe famigliari la lingua latina, la greca, l'ebraica, e le più nobili fra le moderne, e fu eccellente nella logica, nella metafisica, nella geometria, nell' algebra e nella fisica. Scrisse anche delle poesie, ed un poema epico sulle guerre combattute in Italia dal 1740 al 1748, il quale è rimasto inedito; ed è bene, perchè forse non reggerebbe al martello, e piuttosto che giovare, nuocerebbe alla sua fama. Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.

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La direttrice accennò al maestro che dicesse egli, ed egli disse di fatto: "Peccato assolutamente nol direi; anzi mi pare che in gran parte abbia ragione la signora Giannina a chiamarlo esercizio utile: e credo anzi, che considerato come giuoco, il proporre sonetti enimmatici, o sciarade e logogrifi da indovinare, ed il fare anagrammi, possa farsi anche come esercizio di ricreazione negli istituti di giovinetti o di giovanette. Il peccato comincia quando a tali giuochi si vuol dare importanza di componimenti letterarj; quando ci si perde attorno quel tempo, che dovrebbe spendersi o nello studio, od in altri uffizj, e quando si pensa di acquistar lode vera nell'indovinamento, tenendosi di aver tirato il sole al monte coll' indovinare una sciarada o un enimma. Anticamente si dava, anche nelle scuole di lettere, maggiore importanza a queste bazzecole, specialmente nel seicento da' Gesuiti; ed in un trattato di Rettorica, scritto da un Padre Antonio Forti col titolo di Miles Rhetoricus (il soldato rettorico) questi anagrammi, enimmi emblemi e simili bubbole, sono registrati tra gli altri componimenti letterarj, e datone regole ed esempi: il che è un vero peccato mortale ed una frenesia. Come esercizio dilettevole per altro, tanto è lungi ch' io lo reputi peccato, che, se la signora direttrice il permette, io, a modo di ricreazione, vo' proporre qualche indovinello a queste signorine. Le signorine tutte in coro gridarono: O bene, o bene! e la direttrice ridendo disse al maestro che facesse pure: ed il maestro, andato di là, e tornato con due libri, parimente ridendo: "Eccomi da loro: scrivano questo sonetto, e poi lo indovinino: e cominciò a dettare: SONETTO ENIMMATICO.

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Due raccolte di sciarande e logogrifi ho veduto io a stampa, nè so se altre ce ne abbia, l'una di Prato stampata dal Vespri nel 1835 l'altra stampata a Firenze nel 1857. Questa del 1857 è composta di sciarade e logogrifi tutti dell' autore medesimo; l' altra di Prato è una raccolta di vari autori, che però non si nominano: e ce ne ha parecchie che sono veramente belle, così per la ingegnosa orditura, come per il pregio della poesia: nè ci è da maravigliarsene, sapendo che ed il Perticari e il Giordani, e persino il Monti si sono dilettati a fare sciarade e logogrifi. E dacchè la nominata raccolta pratese, la qual finisce appunto con un logogrifo di Vincenzo Monti, con quello vo' chiudere anch' io il presente scritto.

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"Al Manzoni, replicò il maestro, ciascun italiano che abbia sentimento del buono e del bello, si deve inchinare con atto di riverenza e d'amore; ma non resta, per questo che anch'egli non possa, travedere, in alcuna cosa. Benchè qui, piuttosto che travedere, non ha fatto altro che dare un po' troppo retta a qualche Toscano, che gli ha dato ad intendere, esser quei dati modi nell'uso comune di tutti i ben parlanti di Firenze; ed egli, che in Firenze non è stato tanto da potersene accertare, è scusabile. Ma ella è toscana, e per di più anche fiorentina; e sa che quei solecismi, se qualche volta si odono sulla bocca del popolo, non si odono però nè sempre nè da tutti; sa che nel linguaggio familiare si comportano molte cose, anzi ci stanno bene, che per� disdirebbero in una scrittura di grave argomento; o sa per esperienza propria che, anche nel parlare familiarissimo, il più dii tali solecismi calzano ottimamente in un caso, e in altri casi fanno bruttissimo sentire. Deve per ultimo sapere, e se non lo sa glielo dico io, che la popolarit� nello scrivere, come or si dice, non si acquista ruzzolando tra' cenci de' plebei, secondo che alcuni credono, ma con lungo ed assiduo studio, ajutato dall'ottimo ingegno. Il Manzoni è chi è; e tanti sono i pregj delle opere sue, che questi nèi non le deturpano punto; ma l'imitarlo qui, dove si mostra uomo come gli altri, non facendosi punto prò dei grandi suoi pregi, che tanto lo levano sopra gli altri, questo è da chi ha smarrito il senno, o da chi non l'ha mai avuto. Ella per tanto, che il senno lo ha così eletto, si guardi dall'abuso di queste coserelle, e ne sarà lodata da tutti i buoni e da tutti gl'intelligenti, nè potrà biasimarla nessuno, nemmeno tra coloro che pendono alla licenza in materia di lingua."

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Voce francese abusata in Italia; e quanto sia stolto l' uso che i Francesi stessi ne fanno in diversi significati: e se la lingua italiana abbia voci belle e buone in suo scambio, pag. 256 e seguenti. USO, Fa legge in opera di lingua; ma non si scambi con l' abuso, pag. 28, 49. VANITÀ femminile. Biasimata, pag. 41. Vanità di andar attorno per istampa, in cerca di lodi, pag. 147. VEDOVA, Lo stato delle vedove è pieno di pericoli e di difficoltà. Come debbono governarsi, pag. 138, 189. VERECONDIA. Buona cosa; ma l'eccesso è vizioso, pag. 41. VIRTÚ. Da valutarsi molto più che la bellezza, pag. 37. Qual è la più difficile virtù nella donna? pag. 133. VOCI e MODI ERRATI. Come governarsi per accettarli o fuggirli, pag. 96, 97. VOCI NUOVE. Non bisogna esser troppo scrupolosi ad accettarle quando significano cose nuove, pag. 112.

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Alle parole della direttrice seguitarono parecchi altri discorsi sulla materia medesima, non senza edificazione di quelle ragazze; e chi sa che qualcuna di esse non abbia poi dovuto ricordarsene e sperimentare in sè stessa quanto fossero veri e santi gli ammaestramenti e i ricordi uditi la presente domenica.

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Vero è che in questa faccenda dello stile e del periodare c'entra per una gran parte la natura; perchè giustamente si dice che lo stile è l'uomo, nè potrè mai essere eccellente in questa faccenda chi non abbia per natura la mente bene disposta, e ben chiaro il lume del discorso: il qual dono della natura ha avuto lei, signorina, che potrebbe diventare scrittrice eccellente, dove queste doti naturali continuasse a coltivare con assiduo studio, quanto le consentiranno la sua condizione e la sua qualità. Studj dunque di proposito; e così porrassi anche in grado di fuggire certi modi poco eleganti, o idiotismi come fusse per fosse, che è plebeo; e bastimento per nave, legno e simili. La signora Clelia ringraziò caramente il maestro degli avvertimenti che le aveva dato, e promise di studiare con ogni diligenza; e poi, mescolatasi alle compagne, si misero tutte a' loro consueti ragionamenti, finchè venne l'ora di andarsene.

Pagina 87

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