Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192742
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 31 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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E quantunque l'uomo sia peccatore, nondimeno sempre Dio gli mostra la via della salute e prestagli tempo di tornare a penitenza: onde niuno, o giusto o peccatore che sia, si deve mai turbare di cosa che avvenga, se non quando per la colpa abbia macchiata l'anima ed offeso Dio col peccato.

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Così il Senato, come la Camera dei Deputati, determina, per mezzo d'un suo Regolamento interno, il modo secondo il quale abbia da esercitare le proprie attribuzioni. Art. 62. La lingua italiana è la lingua officiale delle Camere. È però facoltativo di servirsi della francese ai membri che appartengono ai paesi in cui questa è in uso, od in risposta ai medesimi. Art. 63. Le votazioni si faranno per alzata e seduta, per divisione, e per isquittinio segreto. Quest'ultimo mezzo sarà sempre impiegato per la votazione del complesso di una legge, e per ciò che concerne il personale. Art. 64. Nessuno può essere ad un tempo Senatore e Deputato.

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Gli stretti si fanno dapprima ogni cinque rovescini, poi ogni quattro, ogni tre, ogni due, stringendo così gradatamente la calza fino a che abbia ottenuto la larghezza che corrisponde allo stinco ; quindi si continua il lavoro senz'alcun'altra variazione fino al calcagno. Allora si divide il numero delle maglie in due parti per formarne due staffe : l' una ha la costura nel mezzo e corrisponde al calcagno, l'altra al dosso del piede. Chiamasi staffa quella parte della calza che si fa lavorando con due soli ferri , uno a maglia diritta e l'altro a maglia rovescia. La prima è quella di dietro e copre tutto il calcagno. Se la calza si fa col pedule, raggiunta la lunghezza della staffa di dietro, s'incomincia il calcagno. Si dividono cioè le maglie della staffa in tre parti. Un terzo costituisce la parte di mezzo, l'altro terzo si ripartisce egualmente alle due parti. Si lavora la sola parte di mezzo e la si unisce alle maglie laterali per mezzo degli stretti e degl'incavalchi. Finita la diminuzione, si raccattano le maglie alle due parti della staffa, e si lavora nuovamente tutt'intorno alla calza diminuendo nel modo già sopra indicato, un giro sì e un giro no, le maglie raccolte. Poi si seguita il lavoro fino a che il pedule abbia la lunghezza voluta. Allora s'incominciano gli stretti del cappelletto coi quali si chiude la calza (vedi fig.1). Quando invece del pedule si unisce lo scappino, si termina la staffa di dietro con una intrecciatura delle maglie, la quale consiste nel buttare una maglia sull'altra come nell'incavalco. Alle due parti della staffa si raccattano le maglie e si uniscono a quelle degli altri due ferri per formare la staffa davanti. Le maglie raccolte si diminuiscono una per volta, ogni due giri, facendo gli stretti e gl'incavalchi alle due parti della staffa. Quando questa ha la lunghezza necessaria si fa l'ultima intrecciatura (vedi fig. 2). Per fare lo scappino si montano le maglie su di un solo ferro e si fa la staffa fino a quando si possa raccogliere alle due parti di essa un numero di maglie che tra tutte corrispondano ad un terzo della sua larghezza. Poi si fa il calcagno nel modo indicato nella calza. Raccolte le maglie laterali si continua la staffa fino al cappelletto. La staffa è lunga quanto i due terzi del piede e alle due parti di essa si fanno i costurini. Per formare il cappelletto si raddoppia su altri due ferri il numero delle maglie che sono contenute nella staffa, poi si lavora in giro ed a maglia diritta fino a che lo scappino abbia raggiunta la necessaria lunghezza. Quindi lo si chiude cogli stretti quadrati o tondi. Perché il lavoro riesca tutto unito, fa d'uopo che la maglia non sia nè troppo fitta, nè troppo rada, che il costurino e gli stretti siano fatti a tempo, che non si scorgano cordole, nè strade o staffe, nè maglie prese in filo, nè cresciuti. La cordola è il tratto di filo che rimane dietro quella maglia che nel fare il giro della calza si é lasciata inavvertitamente scappare. Allorchè cade una maglia bisogna riprenderla subito e se scordolata raccordolarla. Le staffe o strade sono certe diradature che si trovano al finire del ferro. Perchè non avvengano si mutano le maglie facendo sul ferro già finito due o tre maglie del ferro susseguente. Le maglie in filo sono quelle il cui filo non è stato preso per intero. Il cresciuto avviene quando si fanno due maglie in una sola. Avviatura - La più semplice delle avviature è quella Fig.3 che si fa con due ferri. S'incomincia col fare un cappio al filo, questo serve per la prima maglia. In questa si introducono i due ferri e se ne fa un'altra che colla prima si lascia sul ferro sinistro. Si avranno così due maglie ; introducendo il ferro destro nell'ultima maglia del sinistro e ripetendo la medesima operazione si avrà la moltiplicazione delle maglie (fig. 3). Un'avviatura più forte e quindi più utile è quella su di un ferro solo a filo doppio. Si calcola la lunghezza del filo doppio (press'a poco un centimetro per ogni maglia) e lo si fa passare nella mano sinistra, mentre la parte di filo sempio si tiene nella destra. Poi col filo doppio e sul pollice della sinistra si fa una specie di anello. Colla mano destra s'introduce il ferro tra questo e l'indice e lo si fa passare dentro l'anello, prendendo su di esso la sola parte di filo che sta verso l'indice. Fig. 4 (V. fig. 4) Si getta sopra il filo sempio e si fa la maglia ritirando il ferro dall'anello. Ad ogni maglia si rifà l'anello. Quando la calza è rotta dallo stinco in giù si rimpedula, facendo a nuovo quel pezzo. Quando non ha di rotto che la staffa di dietro, allora si taglia via la parte trita o ragnata, s'infilzano i ferri nelle maglie vecchie e in quelle dei gheroncini laterali e si rifa a nuovo la sola parte logora, unendo al finir d'ogni ferro le maglie dei gheroncini con l'ultima della staffa per mezzo degli stretti e degl'incavalchi. Le calze si legano sopra o sotto al ginocchio con cintolini oppure con laccetti elastici. Colla maglia di calza si fanno pure corpetti, mutande, ecc. Alternando le maglie diritte e le rovescie si ottengono diverse maglie, le quali prendono la denominazione dalla figura che rappresentano. Abbiamo la maglia a chicco di pepe o a carne di pollo, a cappiole, a mandorla piena, a mandorla vuota, a mezza mandorla, ecc. La maglia a chicco di pepe o a carne di pollo si ottiene col fare una maglia diritta ed una rovescia cambiandola ogni giro. Per quella a cappiole si tiene la stessa regola, ma invece d'una maglia diritta ed una rovescia se ne fanno due. La mandorla piena è formata di maglie scambiate nel modo descritto formanti la figura d'un rombo. La mandorla mezza è la metà di quella. La mandorla vuota è quella che nel mezzo ha tutte maglie diritte e ai lati le rovescie. Intrecciando queste due maglie con stretti, incavalchi e cresciuti si ottengono dei piccoli trafori, che, eseguiti a disegni , servono tanto per far calze, quanto per fare tende, tendine, coperte, copripiedi, camiciuole, ecc. Avvertenza. - Per i lavori a traforo si fanno più specie di stretti e di cresciuti. I più semplici sono già stati sopra descritti. Se avviene di dover diminuire due maglie in una volta, in questo caso se ne prende una senza lavorarla, poi si eseguisce lo stretto colle altre due e si sovrappone la prima a questa, facendo così lo stretto e l'incavalco ad un tempo. Si aumenta o si accresce il numero delle maglie o raccogliendo il filo che v'ha tra una maglia e l'altra o buttando sul ferro una o più volte il filo sì da formare altrettante maglie, che nel primo giro, per ottenere il traforo, si fanno una al diritto e l'altra al rovescio.

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Per ottenere un quadrato di reticella s'incomincia con una maglia, nel secondo giro se ne fanno due in questa, nel terzo tre, cioè due nell'ultima, e si continua sempre a questo modo aumentando una maglia nell'ultima di ogni giro finché si abbia la voluta larghezza. Dopo si Fig. 14 diminuisce colle medesime proporzioni prendendo due maglie in una sola al termine d'ogni giro.

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Non può dirsi come essa abbia sentito questa sventura, grave per ogni figliuolo, gravissima per la Gaetana, ché rari sono i figli che al par di lei amino i loro genitori. E in vero, l'amorosa figliuola tanto s'afflisse , che trovò solo un conforto nell'esercizio quotidiano delle opere pie. Si mise a visitare gli infermi della parrocchia e dello Spedal Maggiore, e formossi un'abitudine di queste benevoli cure. Sembrandole poi di non adoperarsi abbastanza in aiuto degli infelici, ricoverò nella sua abitazione alcune donne ammalate, ch'ella medesima assisteva. Insomma, consumò in elemosine ed in altre opere di carità le proprie ricchezze. Volendo nondimeno continuar a prestar soccorso agli indigenti infermi, vendette i suoi arredi preziosi, e fra essi la tabacchiera che avea avuta in dono dall'imperatrice. In tal modo raccolse una somma, con cui mantenne un numero doppio di ammalati. Allora le stanze non bastavano ad alloggiare i miseri che andava raccogliendo; prese pertanto una casa pigione, e in questo modo allarga il suo spedale. Le spese, i travagli, le vigilie, la cura delle malattie schifose non valsero mai ad intiepidire l'ardor caritatevole del suo nobilissimo animo. Il principe Triulzi, vedendo nell'Agnesi tanta virtù, la nominò direttrice per le donne nel Luogo Pio da lui fondato a Milano. Essa fu contentissima di quell'incarico ; e per esercitar meglio il nuovo ufficio, trasportò nell'Ospizio Triulzi il suo domicilio. Qui stando alzata le notti intiere, assisteva le moribonde, apprestava soccorsi e si deliziava nel porgere consolazioni a quelle sventurate. Quindici anni passò l'Agnesi in così penose e lodevoli incombenze; e sì avea omai ottantun anni. Fu allora assalita da una grave malattia, e si pose a letto per non alzarsi mai più. Quante preghiere caldissime furono inviate al cielo! Quanti pianti si versarono per quella donna, che moriva nel bacio del Signore, che tutti nominavano un fiore di virtù, un prodigio di sapienza!

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S'incomincia ad unire la metà di questo colla metà del solino per mezzo d'un punto d'imbastitura ; poi si Fig. 10 continua a disporre il solino in modo che il davanti della camicia abbia una incavatura il cui asse maggiore sia di cm. 8. L'incurvatura non si taglia fino a che il solino non sia intieramente imbastito. - Quindi lo si cuce al diritto in impuntura e si ribatte in soppunto. Maniche. - La parte inferiore della manica è munita di due piccoli orli lunghi 13 cm. (metà larghezza del polsino). Il polsino è chiuso alle parti laterali mediante una cucitura interna fatta a punto cieco. Poi si fa alla parte Fig. 11 esterna un'impuntura per ornamento. Quindi il lembo inferiore che non ha vivagno si ripiega e lo si piega e lo si adatta sulla manica lasciando alle due parti un tratto di 6 o 7 cm. senza crespe. Questi si cuciscono in impuntura, e le crespe a soppunto. La parte interna del polsino, cioè quella il cui lembo inferiore ha vivagno, si ribatte in soppunto. La manica si chiude con una costura rivoltata. Attaccatura della manica. - Per attaccare la manica si taglia prima l'incavatura alla camicia. Per ottenerla della larghezza voluta si fa alla manica una ripiegatura larga 2 cm., poi la si adatta sulla camicia comprendendo anche lo spallaccio, e si segna su questa una curva inferiore di 2 cm. alla larghezza della manica (fig. 12). Poi s'imbastisce la camicia sulla manica seguendo la linea tracciata dalla ripiegatura fatta prima. La cucitura esterna si fa in impuntura, l'interna a soppunto. Occhielli. - Se ne fa uno per polsino alla parte posteriore della manica; uno al solino e due sull'orlo del Fig. 12 davanti alla distanza media di circa 8 cm. dal solino e fra di loro.

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Per amare la patria con vero ed alto sentimento, dobbiamo incominciare a darle in noi medesime tali figlie, di cui non abbia ad arrossire mai, abbia anzi da gloriarsi. Venir su ignoranti, sciatte, poco riguardose della religione e d'altro sentimento gentile ed amar degnamente la patria, è cosa incompatibile, come esser degne estimatrici d'una persona amata, e non riputare che sia nostro obbligo renderci meritevoli di essa. Chi vilipende gli altari, la decenza, la probità, e grida: Patria!Patria! non gli credere. Egli è un ipocrita del patriottismo, un pessimo cittadino. Il vero patriota s'adopera, secondo il suo stato, di far onore al suo paese. E noi donne possiamo in molti modi giovare alla patria, facendo che i figli crescano migliori dei padri, ed a questi ricordando che solo è degno d'amore chi gode la stima de' suoi concittadini. Un gran poeta, Giacomo Leopardi, espresse assai bene quello che la patria ha diritto d'aspettarsi da noi donne.

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Da principio tanto la cenere che questa fatta ranno si versa poco più'che tepida, e verso il fine, che abbia grillato, cioè sia per bollire. Quando il ranno stilla caldo, il bucato è fatto. Allora la figliuola di famiglia toglie via il ceneraccio, lo sgrava del ceneraccio, cioè della cenere che le ha servito pel bucato, cava le robe, le fa portare al lavatoio, dove le lavandaie le sciaguattano, riscaldandosi, se è d'inverno, di quando in quando le mani alla comare, vaso d'acqua bollente, od al laveggio, vaso ripieno di bragia ; quindi le torcono spremendole e le sciorinano, cioè le spiegano all'aria su funi tese nello stenditoio, che è un luogo da ciò. La figliuola di famiglia sceglie poi certe delle più fine, ed appassatele alquanto al sole od all'aria, dà loro la salda; cioè le inamida con amido, quindi le stira col ferro caldo, le piega e le ripone nella guardaroba spargendole di avanda per odorarle. Colla biancheria si mettono pure in bucato cose di lana bianca, come i giubbetti di flanella, di maglia o simili, non quelle di colore che si stingerebbero ; queste si mettono appena nel ranno o ad essi si fa una cruscata. Le cose poi di tela, di lino ecc. quando son tinte di color buono si possono mettere in bucato, ma si ha l'avvertenza di cacciarle in fondo della conca, perchè in caso che stingessero non macchino la biancheria : e quando il colore di esse è sospetto s'adopra come colla lana colorata.

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Ne trae i peli se sono impelati, se biancheria o panni li abbia impelati; ne trae, ne cava le macchie con certi saponi da ciò o con altri ingredienti, e se non sa cavarsi in ciò li manda al cavamacchie. Essa fa queste operazioni non solamente su vesti da donna, ma anche su quelle da uomo, che sono la cravatta, le camiciuole di flanella, farsetti, le mutande o i sottocalzoni, il vestito colla sua goletta, colle sue falde, il soprabito, la sottana , il ferraiuolo o mantello semplice, col bavero, il pastrano o ferraiuolo con maniche, il gabbano o palandrano, specie di mantello da paesano. Spolvera anche i cappelli colle loro tese. Il mezzo più acconcio per guarantire le vesti dalla polvere è quello di appenderle in un armadio per un cordone della cintura, o in altro qualsiasi modo. Per le vesti di stoffa ricca è meglio riporle in un sacco di mussolina ordinaria cucita. Macchie e frittelle d'olio o sudore o altro unto si toglie col fregare con un pannolino inzuppato di benzina o di ammoniaca. Macchie di ruggine o d' inchiostro. - Poni sulla macchia un po'di sugo di limone e sale : frega ed esponi al sole. - Serve anche il sale di acetosella o acido ossalico (velenoso), disciolto nell'acqua piovana. Colori sbiaditi o spariti. - Gli acidi (limone, frutti, ecc.) fanno scolorire le stoffe tinte con colori vegetali. Si ridà il colore, versandovi un poco di ammoniaca.

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Toccato che abbia il lievito il grado richiesto per la panificazione, deve apparire altrettanto gonfio, tondeggiante. É elastico, e immergendone un frammento nell'acqua galleggia, e la massa manda un odore alquanto acuto. Impastatura. Il lievito così formato viene introdotto in un foro aperto nella massa della farina che riempie la madia, e si comincia a stemperarlo con metà delll'acqua, badando di non lasciarvi granelli, quindi si aggiunge l'altra metà dell'acqua, e vi si incorpora tutta la farina. Allora colle pugna chiuse si faranno fori nella pasta, e di tutto vigore si fa l'impastatura. La pasta viene varie volte distesa sul fondo della madia, battuta, compressa, ripiegata in sè stessa, e quindi di nuovo distesa, in maniera che tutte le parti sieno bene assimilate. Dopo ciò vi si aggiunge il sale stemperato entro una piccola quantità di acqua fredda. Quanto più la pasta manipolata, più il pane riescirà migliore e di bella appariscenza, L'impastatura non deve essere nè lenta, nè precipitata, ma animata e continua. La pasta così preparata, nella stagione d'inverno si lascia riposare per circa mezz'ora sopra una tavola in un luogo di temperatura mite, nell'estate si fa indilatamente la divisione della pasta. A formare pani di peso determinato si pesano i pezzi di pasta, e perché il pane riesca ben cotto i più grossi non devono pesare oltre i 10 chilogrammi. Qualunque forma si voglia dare alla pasta bisogna sempre ridurla dapprima a modo di pallottola; e datale la maniera voluta, si ripone sopra una tavola, o dentro panieri guarniti di tela grossa. Per far levare la pasta in estate la si lascia riposare all'aperto, nell'inverno si colloca il pane presso il forno, e si copre con una coperta di lana. L'abitudine ammaestra a conoscere il grado di fermentazione che deve avere subìto il pane prima di venire infornato. Cottura del pane. Il forno deve essere riscalato durante l'impastamento. Le brave massaie dicono che il forno aspetti la pasta, e non abbia la pasta ad aspettare il forno. L'esperienza insegna quanta legna occorra perchè il forno prenda il grado di calore necessario alla cottura del pane. La legna vuol essere secca, che mandi una fiamma viva e senza fumo, il forno dev'essere spazzato prima che vi si metta dentro il pane, e le brace si devono disporre ammonticellate parte a destra e parte a sinistra dei due lati della bocca del forno. Per infornare si arrovescia ogni pane sopra la pala polverizzata di farina. I pani si dispongono gli uni presso gli altri a schiena, in modo che si tocchino, cosicché nella cottura non si deformino. Se sono di varia grossezza si pongono i più grandi in fondo e i più piccoli innanzi, quindi si serra la bocca, e si riapre circa venti minuti appresso per sorvegliare alla cottura del pane. I pani grossi di pasta molto soda debbono rimanere nel forno un'ora e mezza all'incirca; i più piccoli e di pasta più molle possono essere cotti in tre quarti d'ora. Il pane cavato dal forno deve essere esposto all'aria libera sopra una tavola, fino a che sia raffreddato del tutto. Non bisogna fare ad un tratto gran quantità di pane, perché nel verno il pane soverchiamente stantio diventa duro, poco grato a mangiare e difficile a digerire, nell'estate ammuffisce, e contiene cattivo sapore e malefiche proprietà. Nei tempi di carestia di cereali si tentò più volte di parificare la farina di mais o di saraceno, di riso cotto e di patate mescolata alla farina di frumento e di segala. Ma tutte queste sostanze non si prestano gran fatto alla panificazione, ne apportano un qualche vantaggio, per nulla dire, che vi hanno altre maniere da usare queste derrate per iscemare il consumo del pane in caso di carestia di granaglie. Per avere il pane bianco e delicato si ammucchi sur una tavola una quantità di farina della più bella qualità, per esempio tre chilogrammi, e nel mezzo si faccia un foro per introdurvi sessanta grammi di lievito. Si stempera quindi nell'acqua tiepida, dandole presso a poco la consistenza d'una pasta da focaccie, si manipola bene aggiungendovi sessanta grammi di sale fino diluito in un po' di acqua tiepida. Si copre la pasta tenendola al caldo perchè possa fermentarsi e lievitare. Dopo averla così lasciata una o due ore, secondo la stagione, la si impasta di nuovo, si ricopre, e si lascia riposare altre due ore. Intanto si riscalda il forno. Poscia si divide la pasta in tante parti uguali, quanti sono i pani che si vogliono, dando loro la forma di biscotti, di ciambelle, che si pongono poi nel forno.

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In una sufficente quantità di burro liquefatto, anzichè fresco, meglio d'arrosti, stufati, selvaggiumi e simili, insieme ad ottimo cervellato, s'infonda il riso crudo, dove si farà cuocere discretamente, finchè abbia a sè tirata la maggior parte del condimento. Conviene avere già preparata una sufficiente quantità di ottimo brodo, salato a dovere ; e dimenando sempre il riso con cucchiaio, vi si aggiungerà un poco di brodo per volta in proporzione che si asciugherà. A mezza cottura vi si aggiunga formaggio grattugiato abbondante, ed uva passola, avvertendo di ben dimenarlo, perchè non si attacchi al fondo del vaso ; indi si aggiunga sempre brodo in proporzione del bisogno, e si faccia cuocere perfettamente. Si potranno poi ad arbitrio aggiungervi tartufi triti, poca acciuga, od una cipolletta, e riescirà un riso squisito.

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In ogni caso, quando si abbia fatto una qualsiasi provvisione, bisogna aver cura di riporlo in luogo asciuttissimo. Per tostare il caffè si adopera un cilindro attraversato da un fusto, le cui due estremità si appoggiano sopra un fornello. Il carbone di legna si preferisce ad ogni altra maniera di fuoco, perchè mancia un calore più eguale e più costante. È però meglio non abbrustolire insieme i caffè gialli e verdi, essendochè questi sono sempre meno asciutti dei primi; col tostarli separatamente si ottengono migliori risultati. Non si empia mai il cilindro che per metà, in modo che il fusto che l'attraversa non ne sia coperto, e che il caffè, gonfiandosi, a misura che si scalda, non sia mai pigiato, e possa muoversi e venire facilmente agitato. Il fuoco devesi sempre mantenere eguale, dev'essere moderato, specialmente in principio della operazione. Bisogna girare e rigirare il cilindro, ora da destra, ora da sinistra, fino al momento in cui il caffè manda assai fumo; allora si leva di frequente l'ordigno dal fuoco per iscuoterlo ed agitarlo da ogni lato. Quando l'operazione è presso al suo termine, ed esige per lo meno tre quarti d'ora se trattasi di una media quantità di caffè, il fumo esce più copioso, il grano scoppietta, diventa umido, di color bruno, e spande un gradevole profumo: è quello il momento di ritirare dal fuoco, il cilindro per lasciare che la cottura si compia da sè medesima mediante il vapore concentrato nell'apparecchio, che si agita per alcuni minuti. Si versa allora il caffè in un tondo, per poi immediatamente stenderlo in largo sopra una piana superficie, come, per esempio, una tavola, un asse, e di preferenza sopra una pietra o sul marmo. Più la superficie è fredda, e meglio si concentra l'aroma del grano tostato. Soltanto, dopo che il caffè è completamente freddato si può ventilarlo affine di nettarlo dalle pellicole, nonchè da corpi estranei, che talvolta si sono frammischiati ; lo che si può anche tralasciare, specialmente se si ebbe cura di mondarlo innanzi che sia abbrustolito. Il caffè tostato con ogni cura e al punto voluto non deve mai aver perduto, dopo questa operazione, più del 18 o 20 per cento, vale a dire, più del quinto del suo peso. Non si macini il caffè prima che sia completamente freddato, e non se ne appronti che la quantità necessaria pel consumo; il caffè polverizzato troppo per tempo perde gran parte del suo profumo. Tuttavia, il mezzo migliore per conservare il caffè in polvere è dì deporlo, non entro un vaso di latta, come si fa abitualmente, ma sì in una !bottiglia di vetro ordinario, nettissima, asciutta e ben turata. Quanta maggiore quantità di polvere si adopera, egli occorre in proporzione più acqua, e ciò senza punto nuocere alla qualità della bevanda. Così, prendendo per misura la chicchera, che contiene dai 110 ai 120 grammi d'acqua in peso, si impiegherà per 30 o 32 grammi di caffè in polvere tre misure e mezzo d'acqua, che daranno tre chicchere di caffè ; e per 125 grammi di caffè 14 o 15 misure di acqua, che daranno 13 o 14 chicchere. Si comprende d'altronde che per la medesima dose di caffè in polvere bisogna aumentare o diminuire le proporzioni dell'acqua, secondo si voglia ottenere un liquido più o meno forte. Il processo migliore per far infondere il caffè è quello di servirsi di cocome a filtro, che sono comodissime, spicciative e che dànno un liquido contemporaneamente profumato e limpido. La cocoma piu semplice e meno cara è quella di latta, od anche di porcellana: sul graticcio pel filtro, preventivamente coperto di una rotella di flanella, si pone la quantità necessaria del caffè in polvere presso a poco, come accennammo, un cucchiaio da caffè per ogni bicchiere d'acqua, od un poco meno se si appronta il caffè per cinque o sei persone; si calca moderatamente la polvere col rolletto che si lascia sulla polvere, si colloca la grata superiore, si versa su questa meta dell'acqua bollente che deve essere impiegata; si rinchiude la macchinetta col coperchio, e si aspetta che quest'acqua sia filtrata. Ciò fatto, si leva il coperchio e la grata superiore, per sollevare il folletto, e far cadere in fondo del filtro la polvere di cui è carico: allora si versa il rimanente dell'acqua calda, e dopo aver chiusa accuratamente la macchina, si lascia che la filtrazione compiasi lentamente. Durante questa operazione, si pone la cocoma nell'acqua bollente, e questo bagno-maria mantiene il liquido al grado di calore che deve conservare. Non bisogna servire il caffè che allorquando la filtrazione è completa, e si deve guardarsi, come avviene talora, di far riposare il liquido sulla feccia o deposito; perchè sarebbe un indebolire il caffè e togliergli porzione del suo profumo. Quanto al deposito del caffè, se si voglia utilizzarlo, conviene non farlo bollire, perchè darebbe un liquido acre e nero, ma versarci sopra quando è ancora nel filtro una certa quantità d'acqua calda, e meglio fredda. Si pone in serbo questa seconda infusione per farla riscaldare al bagno-maria e mescolarla con una nuova preparazione di caffè. Tutte le volte che si fa riscaldare il caffè, il quale non sia stato adoperato a momento stesso in cui venne approntato, bisogna ricorrere al solo bagno-maria. Le caffettiere, o vasi, o macchine che sieno, filtranti, specialmente quelle di latta, esigono una minuziosa cura di pulizia. Non solo non si deve mai lasciarvi freddare e rimanere più o meno tempo il liquido, ma è indispensabile nettarle dopo ogni singola infusione. A tale effetto si scompongono tutte le parti diverse di cui è formata la macchina o caffettiera, si lavano in molt'acqua, si asciugano accuratamente, e si lasciano compiutamente asciugare all'aria, avendo cura che i fori del graticolato siano sempre mondi.

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Il pane di frumento ci somministra un cibo sovra tutti salutare ; ma si richiede che il grano con cui preparasi il pane sia maturo, secco e mondo; che la farina abbia bene fermentato; infine che il pane sia ben cotto. I confetti possono tenersi quasi come veleni, ma non per questo meno pericolosi. Le olive, le mandorle dolci, le noci, le nocciuole e simili, per l'olio che contengono, sono di difficile digestione; se l'olio che contengono diviene rancido loro comunica un gusto acre, che può essere di grave danno allo stomaco. Le mandorle amare delle pesche contengono particolarmente nella buccia acido prussico, veleno potentissimo ; mangiate in certa quantità dànno nausea, vomiti e dolori colici. L'olio migliore è quello delle olive, quello di noce è di difficile digestione pel principio acre che contiene, gli altri oli, come di linseme, di canapa, di ravizzone, ecc. servono piuttosto per illuminazione, alla medicina ed alle arti, che per condimento di cibo : tutti poi vanno conservati in orci ben verniciati e netti, che sieno di terra cotta, e non di rame o di piombo, perché in essi acquisterebbero principi velenosi: così dite del grasso. L'olio irrancidisce tanto pel tempo che per elevazione di temperatura, ed è in questo caso nocivo alla salute: tenetelo perciò d'estate in luogo fresco. - L'olio d'uliva viene talora dai venditori mescolato con quello di ravizzone, di colzato, di papavero, che congelano più difficilmente nell'inverno, onde nella stessa bottiglia talora si vede una parte dell'olio congelata, e liquida l'altra; quest' osservazione vi serva nella compra a rendervi accorte per non essere ingannate. Il migliore aceto è quello che si ottiene dalla fermentazione acida del vino; gli aceti artefatti, oltre che sono d'inferiore qualità, possono talora essere dannosi. Il buon caffè ha il granello piccolo e fresco, verdognolo, di grato odore e non è minimamente punteggiato. Lo zucchero migliore è il più bianco e brillante, di una delicata dolcezza, non spugnoso, ma secco, leggiero e prontamente solubile nell'acqua. Talora i venditori uniscono allo zucchero qualche quantità di farina; di ciò facilmente vi accorgerete quando, sciogliendone nell'acqua, essa resta torbida. Il fungo è un cibo nutritivo, ma generalmente di difficile digestione. Molti funghi sono velenosi, epperciò non fidatevi di cucinare quelli che non conoscete di quale specie sieno. Segno che i funghi sono venefici è se puzzano di marciume, se nel pulirli si appiccano alle dita, e se nel cuocere indurano. I più comuni funghi mangerecci sono il riccione, la spugnola o il tripetto, le così dette famigliuole bianche, buone, lo steccherino odorato e lo steccherino bianco, l'uvolo e la tignosa bianca, il pinaccio pelosiccio, il prataiuolo, i rugnoli, i porcini, le lingue novelline, i gallinacci, le bubbole mezzane, i verdoni, i farinacci, le vescie o loffe di lupo. Frequentissimo é l'uso delle frutta. Allorchè sono mature e non guaste riescono gustose e salubri ; in ispecial modo l'arancio, la mela, la pera, l'uva, la susina, la ciliegia, la pesca, il fico, le castagne, le mandorle, le nocciuole, le noci, le fragole, i lamponi, il ribes. Bisogna tuttavia mangiarne sempre con parsimonia, e secondo la condizione dello stomaco anche astenersene. Le frutta che si vogliono conservare nello spirito di vino o seccarle, bisogna che sieno giunte allaloro perfetta maturità. Quelle che si vogliono conservare per l'inverno si colgono quando cominciano a cadere le foglie in tempo asciutto, e si ripongono in luogo che non sia freddo, ma d'una mezzana temperatura. Le castagne si conservano fresche mettendole nella sabbia asciutta, o lasciandole nel proprio riccio. L'uva ed altri frutti si conservano bene appendendoli alla soffitta, ma i grappoli dell'uva bisogna appenderli a rovescio. Se volete conservare uva fresca, prendete una botte nuova ben cerchiata, copritene il fondo con crusca di frumento, quindi mettete il primo strato d'uva e poi un altro di crusca, alternate in una parola gli strati di crusca con quelli dell'uva, finchè la botte sia ripiena, e finalmente chiudetela ermeticamente; cosi dopo sette od otto mesi avrete uva fresca che sembrerà colta allora. Se vorrete conservare noci fresche, coglietele col mallo mentre non sono giunte ancora alla loro perfetta maturità e riponetele sotto la sabbia. Assai saporiti sono gli ortaggi: fra i più salubri sono la patata, il cavolo, la zucca, la rapa, l'asparago, lo spinace, la bietola, la lattuga, l'indivia, la cicoria, la barbabietola. Le patate in luogo freddo gelano, in luogo caldo germogliano, in luogo umido marciscono, epperciò vanno conservate in luogo asciutto, che non sia nè caldo nè freddo: abbiate cura, se il monte è un po' grosso, di disporle a strati frammischiandole di rami secchi e di paglia, in modo che esalino. Le patate immature od alterate dal gelo sono molto nocive non solamente all'uomo, ma ancora agli animali. In Edimburgo una famiglia intiera dovette perire per l'uso esclusivo fatto per lo spazio di sei settimane di pomi di terra, cioè patate gelate. Le patate cotte sotto la cenere od in forno, e quindi condite per vivanda, sono molto più saporite che allessate nell'acqua, ove perdono assai di loro qualità. Le rape si conservano per tutto l'inverno, quando sieno raccolte sul finire dell'autunno e lasciate per tre o quattro giorni all'aria libera; si sratificano con sabbia asciutta nelle cantine, in modo che una radice non tocchi l'altra; nello stesso modo si conservano le barbabietole, i ramolacci ed anche i porri. L'aglio e la cipolla si conservano meglio in reste che altrimenti, appese in luoghi temperati, dopo che furono asciugate al sole. Alle sostanze alimentari soglionsi aggiungere i condimenti; migliore fra tutti è il sale marino, che dà grazia ai cibi e prepara lo stomaco alla digestione. Dei condimenti aromatici, come sarebbero il pepe, la cannella, i garofani, la noce muschiata, conviene far assai parco uso per non offendere il ventricolo. Giova eziandio avvertire che gli alimenti, in ispecial modo acidi e grassi, non devono conservarsi in vasi di rame o di piombo ; comodissime ed innocue sono le stoviglie bene inverniciate.

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I bozzoli si lasciano sul bosco da sette a otto giorni; sbozzolato che si abbia, si fa la scelta dei più belli e duri e pesanti per trarne il seme.

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Il canestro per la coltivazione delle piante bulbose negli appartamenti è assai semplice ; se ne forma la base con un paniere di zinco o di latta, si provvedono quindi alcuni pezzi di tubo poroso, se ne scava la parte interna fino a che essa abbia conveniente dimensione. Si collocano in essa i bulbi cinti di musco e si innaffiano. E per dare all'apparato un aspetto agreste si può aggiungervi una qualche pianta parietaria. Con tali cure il vostro canestro vi offrirà tale vaghezza di fiori, quale vi appresterebbe il giardiniere più perito.

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Nella scelta dei ninnoli che sono un passatempo desiato e, direi necessario ai bambini per la vivace e irrequieta natura, si abbia molto riguardo alla forma loro e alla materia onde son composti. Però sono da lasciare que' giocattoli che presentano estremità acuminate, od angolari, superficie scabra ; o che sono fatti con materie facili a sciogliersi, peggio poi se abbiano qualche azione venefica o medicinale, siccome avviene di parecchie sostanze adoperate per colorire alcuna specie di confetti. Non è raro il caso che si veda qualche bambino avido di calcinacci, della terra, del carbone, e quando lo può, ne colga a pizzichi e l'inghiottisca. Questo mal vezzo trae per lo più origine da qualche malore ond'è travagliato il bambino. Perciò non basterà che la mamma o la sorella sorvegli attenta, perchè il meschino non torni alla funesta voglia ; ma dovrà ricorrere al medico, il quale amoroso e paziente indagherà la causa di questo sconcio e vi porrà riparo. Se non che ponendo pure in opera le più sollecite cure, è impossibile il sempre antivenire le malattie: delle quali son molte e spesso segrete le cause. Onde importa assai che le madri e le nutrici non cessino di osservare anco i minuti sintomi, pei quali si manifesta qualche infermità nei bambini. Così la diminuzione dell'appetito, l'insonnia, o l'inusata sonnolenza, il singhiozzo, il vomito, la tosse, lo sternuto, la troppa frequenza delle evacuazioni, ecc., debbono porre in avvertenza più sollecita per la salute del bambino. Un errore molto diffuso fra la plebe si è il credere che la vivezza del colorito, le paffute guancie, l'occhio ceruleo, la pelle bianca, la capigliatura bionda siano nei bambini altrettant segni di robustezza e di sanità. Il fatto prova quasi constantemente il contrario, perocché quella delicata avvenenza troppo spesso svanisce per cagione di varie infermità che si palesano. Un malore che di frequente molesta i bambini, è il lattime o crosta lattea : che incomincia a manifestarsi per via di alcune pustolette, sulle guancie specialmente. Queste, più o meno rilevate, estese e ripiene d'un umore chiaro e viscido, si rompono in breve e ricopronsi d'una crosta, la quale poco a poco dilatandosi può ben presto invadere larga parte del tenero corpicciuolo, e può produrre enfiagioni alle glandole del collo e protendersi tormentosamente agli occhi. In tal caso la mamma prudente anzichè sollecitare la guarigione del bimbo infermo per mezzo di unguenti o di bagni o d'altri rimedi locali, ricorre col consiglio del medico a medicamenti depuratorii, p. es. al siroppo di salsapariglia, al decotto di dulcamara, e cose simili che sono facili a procacciarsi. L'afta o afte, cioè un'ulceretta biancastra superficiale, la quale viene in bocca, accompagnata da un calore abbruciante, tormenta non di rado i bambini. E la sbagliano quelle madri che credono di guarire sempre questa malattia, facendo uso di liquidi astringenti e purgativi della bocca, perocchè molte volte l'afte è un segno tardo di malattie interne. Onde la mamma assennata appena s'avvede di qualche difficoltà nel poppare, di salivazione smodata nel bimbo suo e quindi qualche segno d'afta, si studia di tenergli pulita e spesso rinfrescata la bocca, e intanto ricorre ai consigli del medico. Malattie ancor più pericolose per i bambini sono la rosolia, la scarlattina e il vaiuolo. Dalle quali tanto più si vuole stare in guardia, poiché è difficilissimo che da un bimbo non si propaghino a quegli altri che non ancora precedentemente affetti, si trovino a contatto più o meno diretto. Però quando alcuno di cotali morbi si manifestasse in una casa, converrebbe anzi tutto allontanare i fanciulli sani. Riguardo a' rimedi poi è di usarne pochi e semplici; importa assai che per mezzo di bevande adatte si mantenga il piccolo infermo in un moderato e continuo sudore. A tal uopo ferve egregiamente l'infuso o la scottatura di tiglio o di papavero o di violetta, addolcita con un po' di siroppo di gomma , o d'ipecaquana, finchè non s'è inteso il medico. Avverti che la rosolìa è preceduta da starnuti , da lagrimazione con leggiera febbre ; e si manifesta poi in moltissime papille rosse per tutto il corpo. La scarlattina invece è preceduta da mal di gola, da tosse asciutta con febbre , e si spiega quindi in una tinta scarlatta onde si ricopre tutta la pelle. Più spaventosa assai è la malattia del vaiuolo, che ne' tempi addietro ha troncata la vita a tanti bambini e a tanti adulti, e che ai fortunati superstiti lasciò tristo ricordo con indelebili e deformi cicatrici, con parziale o totale cecità. Queste terribili conseguenze vennero in massima parte menomate, mercè la vaccinazione. E però, poichè l'arte medica giunse a scoprire un sicuro rimedio a sì grave malattia, è obbligo di ogni madre valersene a prò de' suoi figli, assoggettandoli una o più volte all'innesto del vaccino, contro la cui innegabile utilità cadono i pregiudizi, le diffidenze e le scipite accuse del volgo. Un periodo pericoloso della vita dei bambini si è quello della prima dentizione: durante il quale corre la salute loro mille rischi. Nè a superare questi riesce sempre di per sé la madre amorosa e prudente. Perocchè succedono nei bimbi infermi tali fenomeni da porre talvolta in impiccio la mente esperta del medico. Pertanto se lo spuntare dei primi denti, oltre il calore straordinario della bocca e la diarrea, cui si rimedia coll'apprestare al bimbo un po'di siroppo di tamarindo e di gomma, sarà segnalato da altri indizi di infermità, prudenza vuole che se ne affidi la cura al medico. Molte sono le madri, che si mostran troppo corrive a giudicare come effetti di vermi le frequenti infermità dei bambini. Nulladimeno succede non di rado che i meschinelli ne siano tribolati : e si può trarne indizio dalle pupille dilatate e smorte che si osservano in essi; dal fetore del fiato loro, dalle doglie di ventre onde si lagnano. Rimedio abbastanza pronto si è il seme santo, dato in dose proporzionata, e poi una piccola porzione d'olio di ricino. Più efficace e potente riesce il calomelano, che vuol essere ordinato dal medico e con molta discrezione. In non pochi casi basta una decozione di corallina o di qualche altra pianta come la genziana, la ruta. Sempre poi che un bimbo vagisca e strida per dolori di ventre, si può ricorrere ad impiastri emollienti e calmanti , oppure a qualche clistere di decotto di malva, aggiuntavi a bollire una testa di papavero. Di altre e altre malattie che assalgono e attristano la vita nostra fino da' suoi primordi , si potrebbe parlare, ma sarebbe fuor di proposito. Quindi basterà il raccomandare altamente alle madri e alle nutrici che pongano la più solerte cura a prevenire colla giusta igiene le malattie dei bambini; e che si studino colla vigilanza più attAnta a ripararvi tosto , facendo senza alcun riserbo ricorso all'arte medica. Utile consiglio alle madri di famiglia si è pure il provvedersi annualmente di certe erbe, di qualche fiore che la provvida natura appresta in ogni parte a servigio dell'uomo. Questi fiori é queste erbe medicinali si fanno seccare all'ombra e si ripongono poi in vasi ben chiusi. La viola mammola che orna e profuma nella primavera le rive erbose dei prati ; e dei campi, è fiore da farne raccolta e da serbare. Allorché alcuno di casa ha bisogno di sudare, torna giovevole assai una tazza d'infuso, che si prepara con un pizzico di fiori di violette, su cui si versa l'acqua bollente, che si addolcisce con un po' di miele o di zucchero. Alla stagione che comincia a biondeggiare le messe, si fa raccolta nei campi dei rossi e copiosi papaveri selvatici, detti rosolacci che nascono frammisti alle biade. Nell'agosto si raccolgono i fiori del giallo e quesi panocchiuto verbasco o tassobarbasso, che per lo più cresce nei dirupi e nelle rive. E di quelli e di questi si preparano bevande adatte a promuovere il sudore ne'malati. I fiori del sambuco seccati e tenuti in serbo possono eziandio tornare vantaggiosi per prepardre impiastri, e colla decozione di essi a far bagni in alcuni casi. Anco la tenera corteccia e le foglie fresche di questa pianta possono venire a taglio in casi di risipola. Pianticella pure utilissima si è la malva, che nasce spontanea e abbondante in tutte le parti. I fiori, le foglie, gli steli, le radici stesse di malva servono a farne decotti attissimi per bagni e per clisteri. La cicuta che sorge in luoghi ombrosi, freschi, umidi e che ha foglie molto somiglianti a quelle del prezzemolo può, sebbene velenosa, venire in acconcio per farne cataplasmi, cuocendo nel decotto di essa un po' di farina di lin-seme, o di cruschello, secondo le prescrizioni del medico. L'orzo co'suoi grani, la gramigna, la fragola, la canna colla loro radice valgono ad apprestare altrettanti decotti, vantaggiosi in parecchie malattie infiammatorie. Nel modo stesso che la camomilla porge coi suoi fiori il mezzo per preparare e infusi, e suffumigi, e bagnuoli, e cataplasmi in altre non rare occorrenze. Nei prati all'aprirsi della primavera e nelle parti più umide si vede levarsi un'erba a fogliuzze frastagliate, che si adorna precocemente di fiori rotondi , giallo-lucenti e inodori. Or bene le foglie di quest'erba, detta ranuncolo, possono , pestandole, e applicandole alcun tempo sulla pelle, fare le veci di vescicatorio in caso d'urgenza. In ogni casa, anco di contadini, dovrebbe poi sempre tenersi in pronto una piccola porzione di filacce , di pezzette di lino, una benda, di cui pur troppo s'ha d'uopo, quando meno si pensa.

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La camera ove dormite abbia puro l'ambiente, e sia discosta da ogni strepito. Bon troppo molli sieni le coltrici; leggiere piuttosto le coperte, affinchè non facciasi affannoso il respiro. Una coscienza pura vi renda tranquillo il sonno, nè vengano a turbarvi gli incresciosi fantasmi delle passioni. Quando vi mettete a giacere o vi coricate nel letto per dormire, tenete la testa un po' alzata, ed il corpo orizzontalmente , imperciocchè stando voi carponi o mezzo sedute si fa più difficile la circolazione del sangue, e l'ultima maniera può anche produrvi delle escrescenze e il gobbo. È pessima usanza il leggere nel letto e l'addormentarsi col libro in mano, perché in questo caso si mette lo spirito in attività quando ha bisogno come il corpo d'un placido riposo. Voi non dovete giacere nel letto meno di sei ore, né più di otto, questa è la misura ordinaria ; il dormire di più ammassa di troppo i superflui e nocivi umori, rende inoperosi gli organi rilassati e v'abbrevia la vita, non altrimenti che di far di notte giorno, cioè il vegliare la notte e riposare verso il mattino o fra il giorno. Volete adunque godere d'una buona sanità e conservarvi sino ad una prospera vecchiaia? Andate a letto per tempo alla sera e per tempissimo alzatevi al mattino ; « di buon'ora a letto » diceva un ottuagenario, e « di buon mattino fuori del letto,; rende l'uomo sano, saggio e ricco », e n'aveva ragione, imperciocchè l'aria del mattino è più pura e più vitale, e perciò nel mattino meglio s'esercitano le facoltà intellettuali, e s'ha più lena ed attività nel compimento dei nostri doveri. Alzati sempre di buon mattino. Oh che magnifco spettacolo ci offre lo spuntare del sole! L'aurora da prima mette in fuga le stelle minori; poscia poco a poco diffonde largamente le sue rose ; la bella luce va successivamente crescendo, e comparisce infine raggiante il disco del sole. Allora i canori augelli addolciscono il puro aere coi loro gorgheggi, i teneri fiori s'allargano, e tutta quanta la natura saluta il giorno che nasce. Aggiungi tu pure la tua voce, o fanciulla, e al grande Iddio, che creò tante belle cose colla sua onnipotenza e colla sua immensa bontà le conserva a tuo vantaggio e diletto, rivolgi e solleva il tuo riverente ossequio.

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Se ti imbatti in uno colpito del mal caduco, primamente sbottonagli gli abiti che, lo stringessero troppo, e specialmente al collo, e impedisci che colle violente contrazioni delle membra abbia ad offendersi, percuotendo contro qualche corpo duro. Quindi gli applicherai sulla fronte qualche pezzuola bagnata, e gli farai fiutare aceto o qualche altra sostanza spiritosa.

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Però rammenta che non raccoglie se non chi abbia già seminato. Né ti sgomentino troppo le furie de' nembi che, adunati nell'aria dalle vampe del sollione, si rovesciano poi a disertare la terra. Chi comanda ai venti e alle procelle sarà con te. Puà la grandine talvolta disperdere in un baleno le lunghe speranze dell'agricoltore; ma l'impeto delle passioni, ove insorgesse a turbarti la calma del cuore, non riuscirà, me'l credi, a distruggere il sentimento della virtù, che, fidente nell'aiuto divino, tu nutricasti a lungo nell'animo. Se non chè, ad acchetare i giovanili bollori, sorverrà tra non molto anche per te l'autunno della vita. Ecco serena ed ubertosa s'avanza la stagione delle vendemmie. Il colle ed il piano echeggiano di liete grida: qui si ricolmano i tini d'uve rubiconde o dorate, là i panieri gemono sotto il peso delle frutta. E a torme a torme i vispi garzonetti dan mano all'opera, che non sarà per essi senza mercede. E l'aria vivida e pura, la giocondità dei campi, qual riposo, che cara vita, che innocenti delizie! E molto maggiori di queste saranno le dolcezze che gusterete, o giovinette, quando il natural corso degli anni vi meni ad assaporare le caste gioie della famiglia. Repressa la foga de' fervidi desideri, sorvenuta la placidezza del senno che discerna ed assegni alle cose il giusto valore, oh qual sommo contento non vi si appresta! E quando l'amor del dovere e della virtù, a cui vi venite adesso educando, renda palesi gli effetti di quella bontà che cresce e vigoreggia cogli anni, sarete benedette col nome di angeli apportatori di letizia e di pace. E non temiate, no, allora che il pigro gelo e le nevi del verno v'offendano di soverchio. Al roseo incarnato delle guance succederanno le rughe, come al verdeggiare de' prati sottentra l'albore delle gelide brine : il vivo lampo degli occhi avverrà che non baleni subito ed eloquente, a quel modo che il pigro sole di dicembre non ha potenza cli ravvivare le torpide zolle: agili, snelle, graziose non seconderanno le membra ogni moto della volontà, di quella guisa stessa che l'albero vedovato delle sue foglie, mostra ristecchite e quasi assiderate le ramose braccia ; ma la mitezza dei pensieri, ma il calore degli affetti sacri, ma la coscienza del bene operato starà nel fondo dei vostri cuori. E siccome la forza potente della natura nell' inverno non é morta già, ma stanca si ritragge nei ciechi nascondimenti della terra a riprender lena e riprodursi fra brevi mesi; così, s la vostra spoglia fredda, inanimata scenderà nel sepolcro, la parte migliore di voi, chiamata a più sublimi destini, volerà radiante, immortale alla patria vera, alla vita che mai non muore.

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E il tortuoso avvolgersi della vipera, che s'appiatta tra i fiori e l' erba del tuo poderetto, non ti dice forse quanto sia brutta cosa il nascondersi, l'infingere, il celare sotto leggiadre apparenze un sentimento che non si abbia nel cuore ? E quantunque minuti, pur qualche cosa ti richiamano alla mente anche gl'insetti. La formica ti porge lezione di quelle domestiche sollecitudini, a cui deve accudire dagli anni primi una fanciulla, ove aspiri a diventar buona massaia; e dall'ape, che, soggetta, obbediente, fabbrica con tanto ingegno le sue cellette e attende instancabile alla dolce fatica, conoscerai come ti torni la sommissione e l'ordine, senza cui gli studi ed i lavori non profittano punto. E nel laghetto del tuo giardino guizzano a mille i pesci : ma più assai, più assai ne accoglie il mare. E perché non han voce, si chiamano col nome di muto gregge. Or tu fa senno di questa appellazione, massime quando il parlare sia soverchio o dannoso ! Oh! la natura è un gran libro. Aprine le chiuse pagine e studia.

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Ciò è visibilissimo nello spirito di vino e nel mercurio, quando si avvicina a loro qualche cosa che sia calda, cioè che abbia in sè molto calorico. Se invece il calorico esce dai corpi, o diminuisce, i corpi si raffreddano, si restringono,occupano tanto minore spazio quanto più sono freddi. Questa differenza di calore o di freddo si chiama temperatura, e dicesi : questo corpo ha una temperatura alta o elevata quando è molto calcio ; ovvero dicesi: ha una temperatura bassa, quando è freddo o quasi freddo. Se si mettono a contatto due corpi di temperatura differente, essi tendono a mettersi al medesimo grado di calore, cioè il più caldo va cedendo il suo calore al freddo. Considerando questi fatti, si è costruito il termometro. Il termometio è un tubetto di vetro terminato da un'estremità in una palla vuota, in cui si toglie l'aria, poi si chiude o spirito di vino o mercurio : e il tubetto di vetro è applicato ad una lastra di metallo o ad una tavoletta sulla quale sono segnate alcune linee nere egualmente distanti le une dalle altre; e ciascuno degli spazi compreso fra linea e linea si chiama grado. Lo spirito di vino o il mercurio, di mano in mano che ricevono in sè il calorico, si dilatano ; e al contrario, di mano in mano che lo vanno perdendo si restringono. Quando il mercurio o lo spirito di vino si dilata , ci sale nel tubo; quando si restringe, esso discende. Ponendo il termometro alla temperatura del ghiaccio che comincia a dileguare , il mercurio o lo spirito di vino si restringe o si abbassa : e lì nel punto ove allora quelle sostanze si fermano si segni zero. Poi s'immerga il termometro nell'acqua bollente; quelle sostanze saliranno, e dove si fermano si segni 80. Ora si divida lo spazio compreso fra 0 e 80 in parti eguali, ed ognuna di queste parti è un grado. Col termometro si misurano dunque esattamente i vari gradi del calore sparso nell'aria e nei fluidi in cui l'istrumento può essere immerso.

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Qui si lascia finchè la superficie dell'argento abbia contratto combinazione coll'iodio; la qual cosa accade in breve, e si manifesta coll'assumere che fa la superficie metallica una tinta giallo-dorata o rossastra: Si mette quindi la lamina, così preparata e bene preservata dall'azione della luce, entro la camera oscura, disponendola in maniera che l'immagine cada su quella faccia della lamina metallica che ricevette la preparazione. Si lascia così qualche minuto. In breve la luce agisce su dessa modificando lo strato superficiale della lamina laddove batte la luce, e tanto più profondamente quanto più essa è intensa. Tolta la lamina dalla camera oscura, non si osserva sopra di essa traccia alcuna d'immagine , e per farla comparire fa d'uopo esporre la lamina all'azione del mercurio riscaldato a 50 o 60 gradi del termometro di Réaumur. Il vapore mercuriale venendo in contatto della lamina, si deposita in minutissimi globicini dove il composto d'argento fu alterato dalla luce in proporzione della più o meno completa decomposizione; non si depone invece dove il composto non fu alterato. Da ciò risulta l'immagine, la quale, alorchè sia convenientemente sviluppata in tutte le sue parti, si deve immergere entro una soluzione d'iposolfato di soda ch'è un sale formato dalle combinazioni dell'acido iposolforoso colla soda, cioè di un acido meno ossigenato dell'acido solforoso; e ciò affine cli togliere l'eccesso di ioduro o cli altro composto d'argento che, lasciato sulla lamina, si decomporrebbe successivamente per opera della luce, con danno dell'immagine. Si lava finalmente la lamina con acqua distillata , cioè acqua evaporata , e ridotta di nuovo in istato liquido per mezzo dell'alambico, e si fa asciugare. Per ottenere un'immagine fotografica sopra la carta si possono seguire vari metodi. Uno tra i più semplici è il seguente. Si bagna una sola faccia di buona carta da lettere con una soluzione nell'acqua di nitrato d'argento o pietra infernale, poi la si fa asciugare e la si immerge in un'altra soluzione di ioduro di potassio : per questo modo la carta è imbeverata di ioduro d'argento. Si lava con acqua e si fa disseccare. Questa carta, ove sia ben difesa dall'azione della luce, può essere conservata per alcuni mesi. Quando la si vuole adoprare per avere l'immagine fotografica, la si bagna, nella parte in cui ricevette la prima preparazione, con una soluzione di nitrato d'argento contenente alquanto aceto ben forte; indi si pone fra due lastre di vetro e la si colloca nella camere oscura all'azione della luce. Dopo alcuni minuti secondi si tolgono dalla camera oscura le lastre e la carta, e si versa sopra di essa una soluzione acquosa di acido gallico, e allora si manifesta un'immagine colle ombre al contrario. Per fissare , ossia per rendere permanente l' immagine sulla carta , conviene lavarla con acqua distillata e tenerla per alcuni minuti immersa entro una soluzione d'iposolfito di soda. Si lava poi nuovamente con acqua e si fa asciugare. L'immagine che così si ottiene dicesi prova negativa, perché le porzioni annerite di essa rappresentano le parti più illuminate od i chiari dell'oggetto ritratto , e le porzioni biancl.e rappresentano le parti meno illuminate od in ombre dell'oggetto stesso. Tale immagine serve quale tipo per ottenere, senza successivo uso della camera oscura, un gran numero di prove positive, cioè d'immagini aventi i chiaro-scuri disposti secondo il vero. Per ottenerle si dispone una carta sopra una soluzione di sale comune, e tolta di qua dopo pochi minuti, si asciuga con carta senza colla, e tuttavia umida si pone sopra una soluzione di nitrato d'argento. Producesi così sulla carta uno strato di cloruro d'argento. Quando la carta sia secca, la si stende sopra un piano , volgendone la faccia preparata all'insù, la si copre colla prova negativa, in maniera che l'immagine sia volta verso la carta preparata per la prova positiva. Copresi tutto con lastra di vetro, ed esponesi ai raggi solari. Allora avviene che il cloruro d'argento, in quella parte che sottostà ai neri dell'immagine negativa, conserva la sua bianchezza, perchè ivi la luce non trapela; mentre si fa nero in quella porzione che è sottoposta alle parti bianche della prova negativa, potendo quì la luce passare liberamente. Si ottiene adunare un'immagine coi chiaro-scuri contrari a quelli dell'imnagine negativa , e per conseguenza coi chiari o colle ombre simili ai chiari ed alle ombre dell'oggetto ritratto. Ottenuta così la prova positiva, bisogna fissarla sulla carta , altrimenti potrebbe scomparire. Ciò si ottiene immergendo l'immagine in una soluzione d'iposolfito di soda, indi lavandola ripetutamente con acqua distillata e facendola asciugare. Tutte le operazioni indicate, che si devono eseguire prima del fissamento delle immagini, devono essere fatte all'oscuro o a debole luce di lampada. Per le prove in vetro , siccome questo corpo non è al pari della carta atto ad imbeversi di liquido, così è necessario stendere su di esso una sostanza che vi produca uno strato diafano e capace di ricevere il composto argentico necessario ad avere l'impressione. Le sostanze più adoperate per tale effetto sono l'albume dell'uovo, la colla di pesce o gelatina, ed il cotone fulminante sciolto nell'etere o collodion, che è un liquido molto volatile, infiammabilissimo, che si ottiene dalla intima mescolanza dell'alcool con vari acidi.

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., del pavimento di una sala , d'una chiesa, della superficie di un muro l'unità principale é il metro quadrato, ossia un quadrato che abbia tutti i suoi lati di un metro. I moltipli del metro quadrato sono : Il Decametro quadrato (Dm. q.) = 100 m. q. L'Ettometro quadrato (Em. q.) = 10 000 m. q. Il Chilometro quadrato (Cm. q.) = 1000000 m. q. Il Miriametro quadrato (Mm. q.) = 100000000 m. q. I sottomoltipli del metro quadrato sono: Il Decimetro quadr. (dm. q.)= al centesimo del m. q. Il Centimetro quadr. (cm. q.)=al diecìmilles. del m. q. Se si trattra di misurare la superficie di un campo , di un prato, di un bosco, si prende per unità di misura il Decametro quadrato che in tal caso chiamasi Ara , ed ha per solo moltiplo l'Ettometro quadrato che si chiama Ettara, e per sottomoltiplo il Centiara che vale un metro quadrato. Quindi : Ettara (Ea.) = 100 ari. Ara (a.)= 100 m. q. Centiara (ca.) = 1 m. q. Per le misure di volume : p. es., a misurare la grossezza e l'altezza di un muro , un mucchio di fieno , di paglia, di sabbia, di legna, si usa per unità principale il Metro cubo, ossia un cubo che ha per lato un metro ed ha forma di un dado lungo, largo e profondo un metro. Del metro cubo non si ha in uso che il decimetro cubo (dm. c.) uguale al millesimo del m. c., ed il centimetro cubo (cm. c.) uguale al milionesimo del metro cubo. Per le misure di capacità che si adoperano a misurare il grano, il riso, la farina, il gran turco, il vino, il latte, la birra, l'olio, ecc., ecc., si ha per unità principale il litro, che equivale ad un decimetro cubo. I moltipli del litro sono : Il Decalitro (Dl.)= 10 litri. L'Ettolitro (El.) = 100 litri. I sotto-moltlipli del litro sono: Il Decilitro(dl) =alla decima parte del litro. Il Centilitro(cl.)= alla centesima parte del litro. Per valutare il peso di un oggetto o di una derrata vi sono misure che han par base il gramma. I moltipli del gramma sono: Il Decagramma (Dg.)= 10 grammi. L'Ettogramma (Eg.)= 100 gr. Il Chilogramma (Cg.)= 1000 gr. Il Miriagramma (Mg.)=10000 gr. Quintale (q.le)= 100 000 gr. Tonnellata (t.)= 1 000 000 gr. I sotto - moltipli del gramma sono: Decigramma (dg.)= decima parte del gramma. Centigramma (cg.)= centesima parte del gr. Milligramma (mg.)= millesima parte del gr. Per le monete l'unità di misura è la lira nuova, detta, anche franco, che è d'argento e pesa 5 grammi, i quali però contengono una decima parte di rame. La lira non ha moltipli, nè sotto-moltipli. Le monete d'argento sopra la lira sono: la pezza da 2 lire, da 5 lire; inferiori alla lira sono le piccole pezze da 20 centesimi, da 50 centesimi. Le monete d'oro sono: la piccola pezza da 5 lire, la pezza da 10 lire, quella da 20 lire, quella da 100 lire. Le monete di rame sono le pezze da 10 cent.,da 5 cent., da 2 cent., da 1 centesimo.

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Pentito quell'avarone di aver promesso quel premio, disse alla vecchierella: « Buona donna, nella mia borsa, oltre i quattrocento ducati, erano trentaquattro scudi ; tu te li sei usurpati, e perciò io non vo' darti nulla. » La buona donna, offesa da quella calunnia, con le lagrime in su gli occhi disse: « Io per non offendere la mia coscienza ho qua recato i quattrocento ducati, che impunemente tener mi poteva, e volete ch'io abbia furati cotesti scudi che voi dite? Io non farei per cosa al mondo siffatta ribalderia. » Allora il duca con parlar risoluto disse al mercante : Quella che tu dici non è la borsa che ha trovato questa vecchierella, perché non ci sono gli scudi da te accennati : sarà piuttosto una borsa simile, perduta forse dal mio tesoriere, nella quale erano solamente quattrocento ducati: sicchè vatti con Dio, ché questo affare a te punto non appartiene ». Partito colui, donò il Gonzaga alla povera vecchia quella borsa, con cui provveder potesse alle sue necessità.

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Né vale la ragione che egli ci abbia offeso.Il danno recatoci si può onestamente ripetere, ma l'ingiuria bisogna condonarla. Non vien perdonato a chi non perdona. La carità é paziente, benigna, non si muove ad ira: a tutto si accomoda : tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Essa è il frutto più bello dell'umana vita, condizione dei meriti più eletti e delle gioie più pure : é la chiave de' cuori ed il vincolo più dolce e più forte, onde gli uomini stieno uniti in società. Secondate pertanto, o figliuole, il sentimento della pietà, che Iddio ha messo così potente nel cuore della donna, ed inteneritevi a qualunque sventura del prossimo. Beati i piedi che corrono a chi soffre, e le mani che s'adoprano a lenire i mali di chi piange !

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La vita é il maggior dono che Iddio ci abbia fatto, e la condizione a godere di ogni bene. Essere disposte a farne sacrificio, quando l'adempimento di uno stretto dovere od il bene pubblico lo richieda, é bella fortezza: ma farne strazio, non sapendo sopportare il peso dei dolori, da cui talora è afflitta, cimentarla in inutili pericoli, o soltanto non riguardarla ragionevolmente é colpevole stoltezza, della quale Iddio, la patria ed i figli ci chiederanno giustamente ragione. Giovevoli siam tutti a qualche cosa: chi il tesoro de' suoi giorni non ispende a vantaggio proprio ed altrui, ma lo consuma in vituperosi godimenti, e poi butta la vita come un fardello inutile e pesante, è un codardo, indegno affatto del nome di uomo, e meritevole dei più gravi castighi. Abbiate, figlie, grande stima della vita, e finché ve ne resta un momento, adoperatela ai nobili destini per cui Iddio ce l'ha data. Gran che ! nascendo verme della terra, può l'uomo, dice il poeta,

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Lilia frattanto cresceva in bellezza, in sapienza ed in virtù; e comechè fosse in età di soli tredici anni, così singolari erano le doti che l'adornavano che i più principali di Roma la chiedevano in maritaggio pei loro figli : ne parlavasi di Lilia senza che si chiudesse il discorso con queste parole : « Felice colui che, ottenutala in isposa, sarà capace di comprendere un tanto suo bene. » Fundano finalmente deliberò di maritarla; ed avendole palesato qual era l'egregio giovane a cui aveala destinata, Lilia gli rispose coll'usata sua ingenuità: « Mio caro padre, fuori di te io non avrei voluto altro marito; ma io farò tutto che potrà esserti di piacere; giacché vuoi maritarmi io pure il voglio; ma a condizione ch'io non abbia a separarmi da te ». - « Son questi pure i miei voti, ripigliò Fundano, abbracciando la figlia sua. Se tutti riconoscono nel tuo volto i lineamenti del padre, io riconosco nel tuo cuore quello della mia sposa, la cui memoria stassi nel mio profondamente scolpita, e vi starà fino all'ultimo respiro. Sì, mia Lilia, noi ci rimarremo sempre uniti; sei divenuta necessaria alla mia vita, così che venir meno la sentirei se da te divider mi dovessi ». Ciò dicendo diede mano a un manoscritto fregiato di miniature ed ornato di nastri, ed aprendolo : « Quest'è l'esemplare, soggiunse, de' tuoi costumi, questa è la vita della mia sposa: io la scrissi perché tu la legga a' tuoi figli quando io più non sarò ». Lilia presa fu subito da grandissimo desiderio d'udirne la lettura; e il padre ben volentieri ne la compiacque. Fundano avea descritto ogni cosa minutamente, fino agli ozi innocenti ed ai giuochi dell'infanzia di Manilia: e tutto con tanta leggiadria ed effetto, che ciascun tratto faceva desiderare di leggere il seguente. Secondochè Fundano avanzavasi nella lettura, ognora più cresceva in Lilia la commozione; e quando in leggendo fu giunto all'ultima malattia, con la voce e coi gesti, non meno che con lo stile, scolpiva così al vivo le più piccole avventure, la desolazione di ciascuno della famiglia, il proprio stato, quello di Manilia, e persino gli ultimi momenti di vita della sua sposa, che Lilia, divenuta per dir così, spettatrice di bel nuovo della morte di sua madre, cadde svenuta. Rinvenne poco di poi; ma le durava tuttavia un angoscioso stringimento di cuore, a cui sopravvenne la febbre, che la costrinse di mettersi a letto. Lilia, non ostante, per non crescere afflizione al padre suo, mostravasi serena e sicura, ed occultava con molta fermezza la violenza della malattia; la quale, checché ne fosse la cagione, in capo a due giorni a tal giunse, che fu giudicata dai medici senza rimedio. Ella sentendosi mancare ognor più la vita, e leggendo il suo destino nella mestizia di tutti quelli che l'attorniavano, chiese grazia a Fundano di farle fare il ritratto. Il padre, senza poterle dare risposta, mandò subito pel più valente pittore che fosse in Roma. Quand'esso fu giunto, Lilia s'acconciò nell'attitudine che meglio le si addiceva, e immobile vi si tenne fino a ch'egli ebbe colti e disegnati i tratti principali; in cui ella quindi ravvisando sè medesima, voltasi con aria di compiacenza al padre suo : «Che la morte non potrà almeno rapirti questo simulacro della tua amica, così tu non mi perderai di vista internamente ;» e sì dicendo gittògli al collo le sue braccia languenti. Quindi poco stante : «Ti chieggo, o mio caro padre, di permettere alla mia sorella di venirmi ad abbracciare; vorrei pur vedere la mia nutrice, le mie compagne ed amiche ». Quando furon venute, strinse loro la mano, e regalatele ciascuna di qualche cosa che a lei apparteneva : « Conservate, aggiunse loro, questi piccoli doni, siccome miei ricordi: e tu, mia sorella, addoppia cotanto le tue cure e la tua amorevolezza verso il nostro buon padre, ch'egli in te sola riunito ritrovi e l'amor mio e quello della sua sposa ». Non ho cuore di descrivere, come ben l'immagino, quale sarà stato il compianto ed il lamento di tutti gli astanti. Lilia sola pareva di tutti la meno desolata. Mostrar volle per ultimo la sua riconoscenza verso la nutrice, e pregò suo padre a provvederla di danaro e d'una porzion di terreno, sicchè non avesse poi a cadere nell'indigenza, e procacciar potesse a' suoi figli una buona educazione. Già la figlia di Fundano toccava il termine di sua carriera: più non potendo articolar voce, prese per la mano il padre suo e avvicinatolo al proprio seno, diegli una rivolta d'occhi tenerissima, e chiudendo placidamente i lumi, cessò di vivere.

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Pecca poi più o meno gravemente secondo il caso, ed è pessima quella fanciulla che per invidia od altra bassa passione svela i vizi e le imperfezioni morali che abbia scoperto in qualche persona, o semplicemente mette il sospetto che li abbia, perchè le toglie così quanto deve avere di più caro sulla terra, l'onoratezza, e la espone al disprezzo . Indegna è poi di vivere quella che calunnia, cioè chei mputa ad altre vizi che non hanno, che le accusa di riprovevoli azioni he non hanno commesso, e le espone così alla perdita della fama o ad immeritate pene: questo è il tal peccato che fa inorridire. Le fanciulle che ridono smoderatamente e clamorosamente diformano i lineamenti del volto, e se ciò fanno per ogni minimo che, sono riputate stolte; sono sfacciate se ridono in faccia alle persone. Sono maligne e senza cuore quelle che ridono dei difetti di coloro di cui dovrebbero piuttosto aver compassione. Peccano le fanciulle che ridono delle cattive azioni, perché così le approvano ; quando ridono per compiacenza al vedere cose che non devono vedere, o ad ascoltare cose che non devono ascoltare, o ridono degli avvisi, dei consigli, delle ammonizioni dei proprii superiori. Il riso smoderato, se non è peccato, è però sempre incivile e sconvenevole a costumata fanciulla. Lo scherzo è sempre incivile, quando è accompagnato da modi o da parole sconvenevoli, ed è contro la morale quando è offensivo od ingiurioso ; non vi è lecito adunque di cuculiare alcuna , e tanto più se fosse di quelle che non amano aversi il dondolo, cioè la baia. In generale, nel parlare, nel ridere, nello scherzare, per riguardo al vostro prossimo, tenete questa regola, cioè pensate se sareste contente che ciò che volete dire o fare a spalle altrui, altri dicesse o facesse alle vostre: se la vostra coscienza vi risponde di no, voi dovete assolutamente astenervene.

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La buona ragazza non zoppeggia per canzonare altro; che abbia questo difetto, perchè è ingiurioso e contrario all'amore del prossimo.

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La Regina Madre è tutrice del Re finchè egli abbia compiuta l'età di sette anni: da questo punto la tutela passa al Reggente. Art. I8. I diritti spettanti alla potestà civile in materia beneficiaria, o concernenti all' esecuzione delle Provvisioni d'ogni natura provenienti dall'estero, saranno esercitati dal Re. Art.I9. La dotazione della Corona è conservata durante il Regno attuale quale risulterà dalla media degli ultimi dieci anni. Il Re continuerà ad avere l'uso dei Reali palazzi, ville, e giardini e dipendenze, non che di tutti indistintamente i beni mobili spettanti alla Corona, di cui sarà fatto inventario a diligenza di un Ministro responsabile. Per l'avvenire la dotazione predetta verrà stabilita per la dotazione di ogni Regno dalla prima legislatura, dopo l'avvenimento del Re al Trono. Art. 20. Oltre i beni, che il Re attualmente possiede in proprio, formeranno il privato suo patrimonio ancora quelli, che potesse in seguito acquistare a titolo oneroso o gratuito, durante il suo Regno. Il Re può disporre del suo patrimonio privato sia per atti fra vivi, sia per testamento, senza essere tenuto alle regole delle leggi civili, che limitano la quantità disponibile. Nel rimanente il patrimonio del Re è soggetto alle leggi che reggono le altre proprietà. Art. 2I. Sarà provveduto per legge ad un assegnamento annuo pel Principe ereditario giunto alla maggiorità, od anche prima in occasione di matrimonio ; all'appannaggio dei Principi della Famiglia e del Sangue Reale nelle condizioni predette ; alle doti delle Principesse; ed al dovario delle Regine. Art. 22. Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento eli osservare lealmente il presente Statuto. Art. 23. Il Reggente, prima d'entrare in funzioni, presta il giuramento di essere fedele al Re, e di osservare lealmente lo Statuto e le Leggi dello Stato.

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