Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179074
Costantino Rodella 3 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
  • paraletteratura-galateo
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- Aspetti che abbia anch’ ella sulle spalle i giovedì che porto io, e allora vedrà se camminerà sempre dritto; e se avrà gusto di canzonare! - Via, Sandrino, prese a dire Enrichetto, smetti: un bel giuoco dura poco, lo sai? - Non dico mica niente di male, io! Dico che Toniotto doveva essere un bel giovane!... un po’ quella gamba a ipsilon, ma… - La non mi cimenti, riprese Toniotto, o ce ne dirò di quelle che non s’è mi sentite a dire, sa ella? Quando n’avrà passate tante, quante n’ho io, allora vedremo se farà ancora il galletto! - Oh oh, temporale in aria stamane, di ripicco Sandrino, via non faccia quel viso scuro, che gli si chiuderà anche l’altra finestra, e allora…. - Oh insomma l’ ha a sapere, signorino bello, ch’io della sua età era svelto e spigliato al pari e meglio di lei. Se fosse stato a Goito o a Santa Lucia, come sono stato io, e avesse sentito l’odor della polvere del cannone, e inteso il fischio delle palle alle orecchie, non parlerebbe così!L’ha a spere, signor impertinentello, che se questa gamba va un po’ a sghimbescio, è che una palla la volle visitare; lei sarebbe morto di spavento, ma io sono stato lì, fermo al fuoco, io: e se questo braccio non vuol più muoversi, è perchè sentì la carezza d’una piattonata di un Ulano; lei si sarebbe strutto solo a vederlo; ma io l’ho disarmato e fatto prigioniero: e se questa finestra è chiusa, è perché l’aguzza punta d’una baionetta cosacca si provò ad entrarvi ….. Oh, sa adesso quel che le vo’dire? Che io qualche cosa di buono l’ho fatta, io, mentre lei non fa che mangiare il pane a ufo. Sa dunque quello che c’è di nuovo? Che io mi sono guadagnata questa brava medaglia d’oro, che mi fa portar alta la fronte, benché abbia un occhio chiuso; e lei potrebbe baciare la mano, se in tutta la vita ne potesse ottenere una di rame: ma le medaglie, per dircene una, non son fatte pei dispregiatori, come lei. Dunque la faccia finita, che io non son uso di lasciarmene dire…. - Bravo! e ben ti sta, gridò Enrichetto, va quind’ innanzi a stuzzicare il vespaio: hai trovato il pane pe’ tuoi denti sta volta. - Oh non voleva mica offenderlo, io! disse Sandrino tutto vergognoso. - Sei sempre così, riprese Enrichetto, gl’ infelici che han difetti nella persona, sa Iddio se ne vorrebbero esser privi! e pur troppo se li sentono sempre lì tutte le ore, tutti i minuti; senza che sia mestieri che altri gliene rinfacci! Anzi ho sempre inteso dire che l’uomo a modo dovrebbe ingegnarsi di non lasciarglieli sentire, di menomarne la durezza. Da quel dì in poi Sandrino tenne sempre in certo rispetto il bravo Toniotto. Per via Enrichetto voleva sempre che si andasse difilati alla scuola, senza fermarsi a far monellerie sui canti, o a levar gli ah e gli oh di meraviglia dinanzi alle vetrine delle botteghe. Se per caso incontrava qualche superiore, si scopriva rispettosamente il capo; se era qualche amico di casa, gli correva incontro a far festa; ma in fretta senza perdere tempo. Se scontravano compagni avviati alla stessa volta, si salutavano, e insieme facevano la strada; ma senza chiasso: nè lasciava, che s’attaccasse briga con alcuni d’altra scuola. Sulla porta, che metteva nell’istituto delle sorelle, stava sempre un vecchio cieco a domandar l’elemosina a’passanti; ed Enrichetto se l’era pigliato, a così dire, sotto la sua protezione. Ogni mattina serbava della sua colazione un pezzo di pane per lui; i soldi, che riceveva in dono per la sua buona condotta a lui erano riserbati; e il vecchio lo riconosceva, come si dice, all’odore, e lo raccomandava a Dio. Un mattino il povero cieco s’era scantonato, e, chi sa come, non poteva più orientarsi; i monelli, vedendolo lì in mezzo alla via impacciato, facevano le più grasse risa del mondo e lo beffavano in mille guise. In quella sopraggiunse Enrichetto; non si vide mai così sdegnato; sgridò a più non posso quella ragazzaglia, e pigliato il misero per la mano,commiserandolo, lo guidò al solito luogo. Toniotto sentì una lagrima negli occhi a questo fatto, e messo una mano sulla spalla al giovinetto proruppe: non una, ma dieci medaglie d’oro merita lei. Il nostro giovane sentiva profondamente la massima cristiana, che i poverelli sono l’immagine di Cristo; e chi lor fa del bene, apre un libro di credito con chi per uno rende cento.

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In quanto al tenor di vita poi, quegli che più si dà al gioco, a' divertimenti, agli stravizzi, pare che Abbia il diritto di superiorità. Ogni cosa è lecita ad un universitalista; disordinare caffè e teatri, far il chiasso dappertutto con pochi riguardi e agli uomini e alle cose, par suo distintivo. Quanti giovani si sono perduti in questo mare magno delle università! Fanciulli studiosissimi, costumati, verecondi, ne' ginnasi e ne' licei, allegra speranza di onorati genitori, dopo un anno o due di università, eccoteli come a dire stregati, perduti nel giuoco e in vizi di ogni fatta, guasti d'animo e di corpo, ritornare nelle caste mura domestiche inetti e valetudinari! Bisogna anche dire che il mondo a loro riguardo passa su troppe cose, essi sono i beniamini, i guastatelli della società; gli stessi uomini seri e austeri dicono: son giovani, si correggeranno. Onde si concede loro, per così dire, l' impunità del vizio e anche della sgarbatezza. Ma di questo qualunque 'siasi diritto non voile punto valersi il nostro Enrichetto; egli pensava che quanto maggiore è la cultura e più alti sono gli studi, più gentili e più corretti debbono essere i costumi. Studiando le statistiche, egli aveva trovato che non tutti i ragazzi compiono gli studi elementari, pochi poi percorrono le scuole tecniche o ginnasiali, pochissimi entrano ne'licei o negli istituti tecnici, e affatto singolari poi si possono dire quelli che hanno il vantaggio di praticare le università; ondecchè gli universitalisti devono essere l'aristocrazia dell' ingegno e della fortuna, l'essenza più pura della gioventù, epperciò devono maggioreggiare non solo per studi, ma ancora per contegno e per gentilezza di tratto, e come essi sono il fiore della società, ne devono anch'essere la grazia. Egli aveva notato, che que' giovani che tenevano il loro posto, non timidi, non presuntuosi, nè smargiassi'; senza pretenderla a dotti cogli uomini, e senza bamboleggiare scipitamente co' ragazzi, che non trinciano giudizi a vanvera sulle opere e sugli uomini, che badano a farsi onore negli studi, a cui si sono dati, che rispettano quelli che son più innanzi cogli anni, e che venerano gli uomini di merito, erano quelli che riescivano più accetti all'universale; si fece perciò uno studio di essere più che mai cauto e riserbato; non però chiuso e senza espansione, anzi allegro e brioso coi compagni, rispettoso co' più vecchi, amorevole co' bambini e piacevole con tutti; onde non solo riuscì caro a' suoi condiscepoli, ma in qualunque luogo si fosse trovato, lasciava un bel desiderio di sè. I sei anni che Enrichetto passò nell'università, chè tanti ne richiede la Medicina e la Chirurgia, furono anni di studi seri, profondi e coscienziosi. Avido della scienza per far paga la sua mente, e desideroso di tradurla in pratica a pro dell'umanità, egli non solo seguiva scrupolosamente e faceva compendi delle lezioni de' professori; ma ancora aiutavasi degli autori, e cercava in essi gli ultimi perchè. Nè i suoi studi erano circoscritti solo alla medicina, uso questo della maggioranza degli studenti, i quali applicatisi ad una disciplina, si ritengono esonerati dal conoscere alcunchè del resto dello scibile; onde non raro accade, che un buon avvocato, o medico, o ingegnere, appena esce della cerchia della sua professione, pare non sappia più formare alcun costrutto che valga; o se parla dice i più madornali sfarfalloni del mondo; ma Enrichetto, avvezzo come abbiam visto a far sparagno del tempo, ( e ne' corsi universitari del tempo ce n' è a fusone) s'ingegnava di entrare anco ne' segreti delle scienze affini alla medicina; e la fisica, e la storia naturale, e la chimica, e fino la meccanica, occuparono delle belle ore al paziente investigatore del sapere. Egli cercando di scendere ne' penetrali delle dottrine, trovava un nesso maraviglioso tra le diverse scienze, e si doleva della poca durata della vita dell'uomo, e della limitazione dell'ingegno umano, che nel breve giro d'un' età non può giungere alla superba sintesi dello scibile. Negli anni universitari fece anche acquisto delle lingue tedesca e inglese, avendo già imparata la francese durante i tre anni liceali; le quali lingue straniere gli vennero poi di molto in acconcio nella pratica della sua professione. Ma quello che non trascurò mai, furono gli studi letterari, i quali diceva, convenire a tutte le discipline e a tutti gli uomini in qualsiasi stato sociale; la parola ornata ed elegante si fa strada dappertutto. In questa guisa adoperando s'addottorò in medicina e chirurgia con plauso di tutti gli amici e con trasporti di gioia de' genitori.

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Galateo morale

197237
Giacinto Gallenga 32 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
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Hassi pure a trattare civilmente coi distributori e non considerarli, come fan taluni, al pari di servitori, non tollerando dai medesimi veruna osservazione che essi facciano per dovere del loro impiego, come curatori di quel patrimonio gentile dello Stato e dei municipi che sono i libri delle biblioteche, e per mantenere l'ordine nelle sale; ovvero stancandoli con interminabili richieste di opere di cui non si abbia realmente bisogno. Se per cortese disposizione dei rettori delle biblioteche vi sarà permesso di asportare qualche libro, affrettatevi a restituirlo nel più breve termine possibile affinché il vostro comodo e vantaggio particolare non tornino a danno di altri, e non siano occasione di censure e di insinuazioni a carico di coloro che credettero potervi usare questa speciale larghezza. Occupate il minore spazio possibile al tavolo coi vostri libri, coi vostri quaderni. Il vostro contegno sia quale lo richiede la dignità del luogo, il rispetto alle persone che lo frequentano. Procurate, in questi pubblici luoghi riservati allo studio ed alla meditazione, di non disturbare il silenzio entrando od uscendo rumorosamente, parlando o leggendo ad alta voce, ridendo, sbadigliando, russando (!) e facendo altro strepito colla bocca, colle mani, coi piedi. Agli impiegati poi delle biblioteche, dei gabinetti di lettura raccomando di usare in massima gentilezza coi frequentatori; di non darsi più importanza di quella che abbiano realmente col rispondere altezzosi alle altrui discrete domande, o non curandosi di soddisfarle, urtando insomma le convenienze colla loro inurbana condotta, mettendosi in certo qual modo in contraddizione colle viste del Governo, delle amministrazioni, dei privati che intesero col loro interessamento, colle loro generose offerte in favore delle biblioteche, di provvedere all'educazione, all'ammaestramento, alla civiltà dei singoli cittadini. In una parola impiegati e lettori sieno nelle loro relazioni puliti e cortesi: ci guadagneranno tutti, ci guadagnerà il credito del paese che deve essere in cima de'nostri pensieri.

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Egli è ben vero che una parte di questi campioni da coltello non sono operai fuorché di nome, e che sarebbe difficile il vederli operare prima del cadere del giorno: transeat per costoro: il coltello, lo stilo sono ferri del mestiere come le leve e i grimaldelli, e non rimane che di raccomandarli alla benemerenza dei carabinieri: ma quello che non si giunge a comprendere si è che la gente onesta, come è per l'ordinario quella che si affatica daddovero nelle officine o nelle campagne, non abbia rossore di appaiarsi, di confondersi con quei bricconi, sposandone le triste abitudini e mettendosi nel rischio di diventare, da un momento all'altro, compagni involontari di quella mala genìa.

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«Col tuo danaro alla mano, egli dice, hai il diritto di comandare, e il negoziante dandoti in cambia la roba sua, non ti reca niente affatto un favore di cui tu abbia a mostrargliti grato». E infatti, in quanto a lui, ei m'entra, altezzoso, arrogante nei fondachi, senza toccarsi pur l'ala del cappello o fare l'atto del menomo saluto, che ne troverebbe scapitato il suo decoro: tiene per l'ordinario il sigaro acceso, e tra l'una boccata e l'altra ordina, con piglio da sopracciò, gli venga mostrata quella e questa mercanzia: affetta disprezzo per tutto; a ogni dire del negoziante arriccia il naso e storce le labbra a un ghigno che vuol sembrare malizioso o che vale come dirgli: a me non sei uomo da accocarmela! E intanto respinge ogni cosa. Finalmente, se si decide per l'acquisto di un abito, d'una chincaglia, getta il danaro sul banco a un modo che pare voglia significare che glielo rubano; e non accade mai che lasci scorgere un po' di soddisfazione della compera fatta. Un elogio all'onestà, alle buone maniere del venditore, alla solidità della mercanzia, un mi rallegro sull'avviamento del negozio sarebbero nel concetto del mio amico un'enormezza. Egli vuole insomma ad ogni costo mantenuta fra sé e il bottegaio quella distanza che esiste fra l'attività industriale di quest'ultimo e la beata fiaccona a cui esso, per merito di nascita, ha divotamente consacrata la propria esistenza. E questa distanza esiste davvero più che ei non creda; soltanto il mio amico non la estima nel suo vero senso, non sapendo egli, colpa la educazione ricevuta e la modicità dell'ingegno, da qual punto si deve partite per misurare la virtù, la nobiltà delle persone; per cui non è a farglisi carico, se a chi vale davvero più di lui egli non si crede in debito di usare civiltà e cortesia.

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Ciò è da mettersi da paro con quelle certe liquidazioni per causa di famiglia, per motivi di salute o di partenza (parlo della pluralità dei casi, rispettando le circostanze, talora dolorose che necessitano consimili espedienti), per avarìe prodotte da incendi, da ladri, da terremoti e che so io: tranelli a cui si lascia corre tuttavia, qualche gonzo che non è a giorno di quelle malizie e di quelle scroccherie, ma che destano il riso in ognuno che abbia il cervello a segno e non ha sempre vissuto nei deserti e nei boschi. Racconta Franklin nella sua Vita che «in mezzo ai suoi affari di negozio aveva finito per convincersi che la verità, la probità nelle relazioni sociali erano importantissime pel benessere comune, e che in mezzo alle sue importanti occupazioni non si era reso mai colpevole né di un'impostura né d'una ciarlataneria». Il negoziante non deve nemmeno per ischerzo intercalare a'suoi discorsi alcuni di quei proverbi immorali di cui alcuni pur troppo fanno loro pro in commercio, come: con l'arte e con l'inganno si vive mezzo anno, ecc. — al pigliar non esser lento, al pagare non esser corrente — buone parole e tristi fatti e ingannerai savi e matti e via dicendo, giacché potrebbe far nascere il sospetto, per dirla con un altro proverbio che a colui la lingua batta dove gli duole il dente, e potrebbe anco avvenire che per tema di essere realmente ingannati gli onesti uomini stessero alla lontana dal suo negozio. La frode in commercio come in ogni altra professione è peggiore del furto, giacché da questo colla vigilanza e col coraggio ti puoi fino ad un certo punto difendere; ma difficile per non dire impossibile è il potersi preservare dalle astuzie e dalla mala fede di chi ti viene innanzi con la falsa soprascritta di galantuomo, ma che poi, come osserva il Giusti:

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Uffici militari e civili assorbono ogni ben di Dio e ci fan camminare curvi, che la è una compassione, assimilando ai loro estesi e complicati organismi quel sangue che si estrae a fatica dalla terra e senza che per questo si abbia la consolazione di poter dire che nel nostro paese così forte, così rispettato, così civile, via! gli affari cessino una volta di andare alla carlona. È naturale adunque codesta avversione di quella parte di popolazione, che non è ai pubblici stipendi, contro quelle numerose falangi brevettate a cui le tocca pagare (non monta adesso il dire se caro o a buon mercato) un lavoro di cui non si vedono ancora a tutt'oggi gli effetti, fuorché nell'impoverimento del paese, nello sfacelo dei pubblici e privati interessi. Giacché il popolo, col suo grosso buon senso, ragiona a questo modo: Ogniqualvolta, dice esso, viene riconosciuto che un meccanismo, o per viziosa disposizione della parti, o per qualche guasto in una o più di esse non funziona più utilmente, la prima cosa a farsi è di arrestare il movimento, smontare la macchina e dietro maturo esame riformarla, ricomporla, riparando ciò che è rugginoso o sconnesso, scartando ciò che è inerte o superfluo, sostituendo ai materiali deteriorati altri che non siano corruttibili dalla tignuola, modificare se fa d'uopo tutto quanto il sistema prima di rimetterlo in azione, e non isciupando d'avvantaggio o per fiaccona o per ignoranza o per malizia, l'olio e il grasso attorno ai congegni.

Pagina 171

Non vi pare, o signori, che dall'istante in cui venisse ammesso un simile diritto, si verrebbe a togliere lo stimolo alla diligenza, alla moralità dell'operaio il quale non si curerà gran fatto, a parte le onorevoli eccezioni, di assicurarselo questo lavoro con la buona condotta, coll'assiduità, coll'applicazione, quando queste non potranno più essere da lui considerate come le condizioni necessarie appunto a trovare una buona e permanente occupazione, ma prevarrà a queste un articolo di legge che obblighi il Governo a pagargli una mercede giornaliera per un lavoro inutile, senza che egli abbia posta veruna cura per meritarsi la fiducia, la simpatìa delle autorità, dei cittadini colla sua abilità, colla sua attività e rettitudine? E questo medesimo diritto al lavoro sarebbe quello che toglierebbe all'operaio il movente principale per costituirsi un risparmio pei giorni di sciopero involontario: quindi pochi sarebbero quelli che per puro sentimento di dovere e di dignità si curerebbero di economizzare, giacché alle economie, al risparmio supplirebbe con inesauribile larghezza lo Stato, le cui finanze, come ognun sa, non cessano di diventare un giorno più dell'altro, floride e brillanti. Meglio per un paese non avere operai che averli viziosi: e finché non si troverà il segreto di costringere gli uomini ad esser laboriosi ed onesti, non si potrà mai pretendere da un Governo civile che esso dia lavoro a chi se ne renda immeritevole con la sua inerzia e con i suoi vizi.

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Pagina 184

Io voglio credere che tanti sacrifizi non sieno andati perduti e che lo sciopero abbia fatto aumentare i salari in una certa proporzione. Ma se l'ora del lavoro è pagata alcuni centesimi di più, parrà due volte più lungo, e più penosa all'uomo che non intasca più che una parte del suo salario e che lavora per isdebitarsi». «E se lo sciopero ha uccisa l'industria, che vi faceva vivere? Se il consumatore turbato nelle sue consuetudini o stizzito delle vostre pretese si pone in isciopero anch'egli ed abbandona i vostri prodotti? Se il pubblico che vi faceva vivere, invia d'or innanzi le sue commissioni ai fabbricanti stranieri? Non v'ha più alcuna legge che costringa i consumatori a provvedersi in paese. Non è molto, lo sciopero dei cappellai a Parigi diede origine ad una enorme importazione di cappelli inglesi e lo sciopero dei carrozzai fruttò commissioni rilevanti a quelli di Brusselle». (ABOUT, L'abbicì di chi lavora).

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Supponete un galantuomo il quale abbia passata la sua vita nelle officine o nei campi. Supponete che uno di costoro dai modi semplici, dal fare alla buona, dal vestire casalingo, avvezzo a trattare e ad esser trattato bene, debba per qualche circostanza domandare un'udienza da un pubblico funzionario. Se dal suo primo porre il piede nell'anticamera egli si vede accogliere con ischerno, se alle sue franche interrogazioni egli si ode rispondere con alterigia, con mistero, egli non potrà a meno di trarne l'induzione, il più delle volte fallace, che egli verrebbe ricevuto ancor peggio nel gabinetto dell'eccellenza, o dal suo segretario: e così gliene nasce lì subito in cuore un dispetto, e gli vien meno il coraggio di presentarsi all'ufficiale del Governo o di qualsivoglia altra amministrazione, e si deciderà fors'anco a rinunziare a un abboccamento da cui può dipendere l'esito d'un progetto, d'un'impresa in cui può trovarsi impegnato l'interesse non dei privati soltanto, ma di un paese o dello Stato istesso ; e lascierà così, ritirandosi, libera la strada ai ciarlatani, ai faccendieri, gente che non ha altro in mira fuorché l'utile proprio e non si adonta, menomamente, pur di arrivare al suo scopo, degli sfregi portati al suo decoro, né si spaventa degli ostacoli seminati sul suo passaggio; poiché il senso della dignità personale è in lui da gran pezzo smussato dalla lunga abitudine del domandare, del supplicare e del raccomandarsi. Che se il galantuomo che io vi dissi testé riesce pure a superarsi e viene, dopo un monte di umiliazioni, ad essere introdotto alla presenza del funzionario, e gli si farà innanzi con un fare così disagiato, con una soprascritta così bietolona, che il ministro, il segretario, il capo d'ufficio lo terranno forse in concetto di melenso o di pazzo e taglieran corto al suo dire impacciato per liberarsi al più presto dalla seccatura della sua presenza.

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Non abbia sdegni

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Non deve offrirsi a curare un infermo prima di esserne invitato; in nessun caso poi e a nessun prezzo deve cercare di soppiantare un collega; nei casi in cui sia chiamato a succedergli, s'informi, prima di recarsi dall'ammalato dei motivi per cui s'è allontanato il suo antecessore; e, fuori che nei casi urgentissimi, tutt'al più dopo una prima visita, esprima, quando abbia creduto di accettare la continuazione della cura, il proprio dispiacere al collega di essere stato scelto a sostituirlo; e mai e poi mai egli si renda complice dell'altrui indiscrezione e scortesia.

Pagina 276

Ciò che se ne va in fiato si perde in riflessione, e per poco che il medico abbia una clientela discreta, non gli rimane tempo da sprecare in ragionamenti di politica e di letteratura. «Che se il dottore è tuo amico e crede necessario, per sollevarti il morale, di conversar teco talvolta su cose estranee alla tua salute, tu non devi però mai rubargli il tempo col parlargli del vento, della pioggia, dei teatri, ecc.». Il medico non lo si deve annoiare con domande importune, con interminabili questioni: egli, all'occorrenza, non mancherà di rendervi avvertito di ogni serio mutamento nella malattia, come di ogni pericolo che sovrasta al malato. Ciò che dovete far sempre, se volete bene davvero all'infermo, si è di assecondare gli sforzi del medico, di eseguirne scrupolosamente le prescrizioni e non usare mai la sciocchezza di cambiare il tenore delle sue ordinazioni per dar retta ai saccenti, agli empirici e alle comari. «Chi crede di corbellare il medico, corbella, se stesso». Volete delle cure miracolose? volete infischiarvi delle leggi della natura? degli sforzi limitati della scienza? Ricorrete al magistero delle chiaroveggenti, ai miracoli del magnetismo, all'onnipotenza delle revalente, alla magia degli elisiri. Il medico, lui, non ha a suoi ordini fuorché le misurate risorse dell'arte, un meschino repertorio di cognizioni e d'esperienza acquistato dallo studio e dalla pratica; egli non è capace di guarire una sola malattia incurabile. Che più? l'onniveggenza, privilegio della divinità e delle sonnambule, non è per anco acquisita al dominio della medicina, la quale, come tutte le altre scienze d'induzione, può andar soggetta ad equivoci, ad errori!

Pagina 286

Conosco per esempio degli avvocati, perle di galantuomini, i quali hanno la debolezza di uscire in impazienze, di arrabbiarsi col cliente allorché gli danno un consulto, ove quegli abbia la disgrazia di essere un po' tardo d'ingegno e non intenda a prima vista le ragioni, le domande che gli vengono mosse, e vada ciaramellando or di questo or di quello confusamente per difetto d'ordine nelle idee che gli gravano il comprendonio. Oh che ne possono i meschini, di non avere un cervello d'aquila, che ne possono eglino, se il linguaggio avvocatesco, quel linguaggio così pieno di reticenze, di citazioni, di barbarismi ha la prerogativa di allegare i denti e di far perdere la scrima a più d'un cristiano? È si sa bene che il cliente è tenuto per l'utile proprio a dir le cose come stanno all'avvocato, né più né meno che al confessore; giacché tocca poi a questo, come diceva l'avvocato di Renzo, ad imbrogliar le carte e le ragioni; ma non tutti pur troppo, come ho detto, posseggono il dono del dir conciso e a modo; tocca adunque al legale esperto di vincerne le oscitanze, il raddrizzar le idee, il sceverare il carico delle buone osservazioni dalla zavorra delle vuote parole con cui il buon uomo cerca di esporgli il factum della causa che gli affida a sostenere. Non deve il legale confondere con impazienze, con frizzi, con sarcasmi vieppiù la testa a quei poveracci che ne han già di troppo il più delle volte di dover litigare, proprio trascinati pei capelli dalle male arti dei birboni, perché abbiano ancora a studiare di schermirsi dagli scherzi e dalle brutalità dell'avvocato o del causidico che si sono scelti a patrocinatori.

Pagina 296

E lo accusano leggermente di negligenza, quando non ancora di disonestà, ove si avveggano che l'uomo di legge abbia il pensiero rivolto ad altra cosa o si permetta di non trovare eccellentissime le loro ragioni, o non tratti, scrivendo e disputando, il loro avversario da mortale nemico. Ricordino costoro che un avvocato, perché loro avvocato, non ha il diritto di rinunciare ad ogni precetto di urbanità e di gentilezza verso altre persone; e leggano a tale proposito la moralissima produzione del Goldoni: L'Avvocato Veneziano. Ognuno poi il quale s'impegni, o trattovi da necessità o da capriccio, in una questione davanti a'tribunali, abbia ognora presente che a un litigante occorrono mai sempre, per quarto egli abbia ragione, tre scarselle; l'una ripiena di ciarle, la seconda ripiena di pazienza, la terza — la più grande - ripiena di santi danari.

Pagina 305

Dalla più elevata alla più umile, dalla più ricca alla più povera non v'ha nessuna classe, nessuna condizione sociale a cui la natura abbia negato il più prezioso de' suoi doni, un gran cuore». (Sm.). A ognuno di noi è avvenuto infatti nel corso della vita di trovar gentilezza in persone che non ebbero altra educazione fuorché quella della religione e della famiglia. Anche ne'più bassi strati della società, tu t'incontri in persone nelle quali ingenita, per così dire, è la cortesia. Silvio Pellico nelle Prigioni ha delle pagine commoventi sul vecchio carceriere Schiller che trattava, i prigionieri «con amore di padre: quando egli era convalescente, veniva talvolta a passeggiare sotto le nostre finestre. Noi tossivamo per salutarlo ed egli guardava in su con sorriso melanconico, e diceva alle sentinelle in guisa che udissimo: Là sono i miei figli!». Chi ama è cortese. Che cos'è l'amore, infatti, se non se un desiderio, uno studio di procurare a colui che tu ami ogni possibile onesta gioia, di rendergli tutti quei servigi che sono in poter tuo, di riuscirgli grato in ogni cosa, di evitare ogni parola, ogni atto che possa tornargli dannoso o sgradito? E questi riguardi che servono per appunto a dimostrar l'interesse, la deferenza, la simpatia, la tenerezza non sono altro che pratiche di gentilezza e di cortesia che partono dal tuo cuore verso la persona che è oggetto della tua affezione.

Pagina 31

L'arte è un lungo e laborioso tirocinio, per quanto la natura abbia largheggiato nel dono delle facoltà artistiche. SMILES.

Pagina 310

«A chi studia bene i caratteri umani, scrive il Leopardi, verrà scoperto che gli originali nel senso in cui l'intendono costoro, non solamente non sono così rari, ma sono invece tanto comuni, che sto per dire che la cosa più rara in società è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale, cioè che non abbia il difetto di qualche abitudine strana, bizzarra, ed assurda». «L'originale, così lo Sterne, è una specie di mostro che talor s'ammira, ma che giammai si stima». Nulla v'ha di più bello al mondo di ciò che più s'avvicina alla natura. Tutto ciò, in conseguenza, che sorte dai confini della naturalezza entra nel regno del ridicolo e del mostruoso. I veri artisti, i letterati di genio non hanno generalmente di queste melanconie. Essi parlano, mangiano, vestono, camminano, salutano e si divertono come qualunque altro mortale, e non danno spettacolo di quelle stravaganze, di quelle eccentricità a cui, ricorrono gli ingegni mediocri per dare nell'occhio, per supplire in qualche modo colle loro stranezze all'oscurità del loro nome. Ma intendiamoci! dall'essere letterato al fare il letterato ci corre; e chi vuol conoscerne appuntino la differenza compri il volume testé pubblicato del brioso Torelli, e lo apra al capitolo dei letterati nella Storia della buffoneria.

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Pagina 322

Per esempio molti grideranno la croce addosso ad uno che a vent'anni abbia fatto drammi, tragedie, commedie, liriche ed altri mille diavoli e diranno: - ecco il presuntuoso, ecco l'arfasatto, ecco la rondine che passa il mare prima del giorno di San Benedetto! — E perché? perché non piacersi piuttosto di quella, rigurgitanza? perché non aiutare quella inesperienza, perché accompagnare coi fischi un uccello che piglia il volo quando gli altri hanno appena messe le penne o se ne stanno tuttavia assiderati?». Leggano codestoro qualche linea di quel libro del D'Azeglio che intitolò I miei ricordi. L'autore a un dato punto ci narra come egli stesse un giorno leggendo il manoscritto del suo Ettore Fieramosca a Cesare Balbo. «Lo pregai, egli scrive, di ascoltare i primi capitoli ed egli acconsentì con premura. Venuto da me una sera e messoci accanto al fuoco, principiai la lettura un po'tremante, perché ero nello studio del dubbio e dello scoramento; ma egli mi rimise presto il fiato in corpo e dopo una ventina di pagine che aveva ascoltato impassibile, mi si volse dicendo: - Ma questo è molto ben scritto! — Mai musica di Bellini o di Rossini, mi suonò all'orecchio più dolce di quelle parole». E fu questo stesso Balbo, al dir del Ricotti, che sapendo di un giovane il quale indugiava a compiere un'opera storica perché distratto da altre cure materiali, lo pregava e sollecitava a ricevere in imprestito una somma di più migliaia di lire perché se ne servisse all'uopo.

Pagina 329

Il difficile sta appunto nel definire ciò che il Gioberti intendesse di esprimere con le parole: pochi e molti; quand'è che un popolo, un paese si può dire che abbia troppi giornali? quand'e che ne ha troppo pochi? In Italia abbiamo molti o pochi giornali? e fra questi predominano i buoni o i cattivi? La questione è di difficile scioglimento, troppe essendo le passioni, troppi gli interessi che si collegano all'esistenza di un giornale, di qualunque colore esso sia; e, prima di dare il nostro voto converrà studiare il giornalismo negli esempi che abbiamo sotto gli occhi.

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Che valore volete voi che abbia contro gli eccessi del potere, contro gli abusi delle amministrazioni, contro gli scandali dei partiti, contro i pregiudizi della plebe un giornalismo che non si vergogna di mettere in celia un galantuomo perché fu vittima delle altrui frodi o un povero diavolo perche è zoppo o guercio? un giornalismo che si crede spiritoso allorché lancia i suoi epigrammi sull'onor delle mogli e dei mariti, sul candor delle vergini, sull'innocenza dei giovanetti? che credito pensate voi possa avere, allorché sferza i vizi, le prepotenze dei grandi quel giornalismo che adula ed accarezza i vizi, le prepotenze della piazza! che prende argomento de' suoi dileggi le religiose credenze? che razza di conforto e d'insegnamento è questo che si offre a coloro ai quali si cerca di togliere la fede in un avvenire migliore perché ridere di ciò che forma la consolazione del derelitto, del misero? saprebbero essi, allorché saranno riusciti a soppiantare da quelle anime la rassegnazione, la fiducia, qual cosa sostituirvi che ne possa fare le veci? perché seminare il dubbio nei campi di quei che sperano? Udite le parole di un umorista, lo Sterne. «Nel novero di coloro che sberteggiano la religione credete voi che ve ne abbia uno su mille al quale le convinzioni, la logica, la ragione, le sobrie ricerche dell'antichità abbiano fornite queste celie irreligiose? No, la loro vita è quella che potrà, spiegarvi la loro passione. La religione che prescrive tante privazioni è un'importuna compagna per coloro che non vogliono contenersi; e si osserva generalmente che questi miserabili sofismi ragunati dagli uomini contro la religione, per quanto importanti possano sembrare attraverso alle passioni e ai pregiudizi che danno loro una apparenza di corpo, finiscono nondimeno, allorché la forza dei loro appetiti è smorzata, ch'è calmato il fuoco dei loro desideri, per arrendersi alla ragione ed al buon senso; questi due amici degli uomini non tardano a ricondurre queste pecore smarrite al loro ovile».

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Finché ci toccherà di leggere delle notizie come queste: «i prigionieri francesi agglomerati nelle fortezze del Baltico, dove la temperatura è rigidissima, sono per la maggior parte vestiti ancora di tela come nei caldi giorni in cui vennero presi; il nutrimento che vien loro fornito è pessimo, ecc.» ovvero «l'ultima lista delle perdite annovera fra i morti un corazziere prussiano, il quale fu trovato coi polsi segati e colle orecchie recise, ecc.» mi pare che non si abbia grande ragione di gloriarsi della mitezza soldatesca dei nostri giorni. Quanto al rispetto in cui si hanno dai combattenti i monumenti delle arti e delle scienze, esso poco dissimile da quello dei barbari dei secoli scorsi. Nel solo bombardamento di Strasburgo, per citare un esempio, venne totalmente abbruciato il museo civico con tutti i quadri che esso conteneva del Correggio, del Tintoretto, del Perugino, del Reni, del Rebeira, del Wan Ostade, del Lorrain e di moltri altri insigni artisti; distrutte le statue di marmo e di bronzo; distrutta la civica biblioteca in cui si accoglievano tesori inestimabili di archeologia, di istoriografia, di paleografia; rovinata la cattedrale co' suoi magnifici dipinti, col suo organo di impareggiabile fattura. Tutto questo venne compiuto da guerrieri civili; come furono guerrieri civili quelli che prendevano in ostaggio i sindaci, gli abbienti, le persone più stimate dei paesi invasi per costringerne gli abitanti a pagare quegli enormi ricatti che in istile di guerra si dicono requisizioni. Un mezzo milione d'uomini uccisi, feriti, mutilati, infermi di orribili malattie; due milioni di persone per cinque mesi in lotta colla fame, costrette a cibarsi dei più schifosi alimenti; innumerevoli famiglie in preda all'inquietudine, al terrore, alla desolazione, alla miseria, immense estensioni di campagne devastate, le abitazioni distrutte, i loro abitanti spogliati e costretti per derisione a trascinare i carri dei vincitori, a migliaia a migliaia le vedove e gli orfani..... ecco un quadro a parer mio sufficiente a dimostrare quanto abbia ragione di vantarsi la civiltà moderna del guerreggiare. Quale differenza, esclamerò colle belle parole del Macé, «fra queste guerre e il lavoro, questa guerra dell'uomo contro la natura, guerra clemente e feconda, nella quale le vittorie non si contano, come le altre, dal numero dei morti; e che spande invece la vita in abbondanza sul suo passaggio!».

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Il pretendere che ognuno abbia ad inchinarsi al prestigio della sciabola è lo stesso che un volerci far retrocedere all'antico regime austriaco o moscovita, che non fanno più buona prova nemmeno nei loro paesi. Le critiche all'organizzazione, al sistema, al governo non danno diritto a un militare, comunque alto locato, quando sian tenute nei limiti del giusto e dell'onesto, di ritenerlo come altrettante offese personali di cui l'autore sia tenuto a rendergli ragione. Come mai? non se ne vuol più sapere a' giorni nostri dell'intolleranza religiosa; e si vorrebbe da alcuni ripristinare l'intolleranza militare che è la peggiore, come quella che è unicamente fondata sulle ragioni - che non son ragioni - della forza materiale e dell'interesse esclusivo di coloro che ne prendono le difese? Sì, ogni cittadino, senza mancar di rispetto al ceto militaresco, ha il diritto di deplorare che la massima parte degli averi della nazione si profondano nel matenere eserciti sproporzionati alle sue finanze e a' suoi bisogni. Sì, poiché il progresso delle industrie e dei commerci, il benessere dei popoli è in ragione inversa delle caserme e delle mitragliatrici. Sì, poiché la pessima delle condizioni sociali è quella per cui le placide ed utili occupazioni della vita civile vengono intorbidate e impedite dallo studio dell'arte dello ammazzare il prossimo, arte infeconda, arte funesta per cui i popoli si destinano o a conquistare o ad essere conquistati. «Verrà, giorno, scriveva il povero Tarchetti, in cui l'omicidio non sarà più giustificato dalla forma, in cui l'uomo che uccide nella macchia e quello che uccide sul campo saranno posti allo stesso livello dinanzi alle leggi umane,come lo sono per fermo dinanzi alle leggi divine».

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E non saprei se egli abbia avuto maggior conforto e se maggiore possa dirsi la gloria delle decorazioni guadagnate in battaglia, o la medaglia fattagli coniare da' suoi subordinati in riconoscenza dell'affezione e delle cure del loro amato colonnello. Su questa medaglia, il più prezioso ricordo della sua carriera militare, leggonsi le seguenti parole: AL LORO COLONNELLO - ANZI AL LORO PADRE A. P. I SOTT'UFFICIALI DEL REGGIMENTO. Il colonnello P. vive tuttora. Dire cosa che nessun militare potrà smentire. La disciplina è più osservata in quei corpi dove i colonnelli, i maggiori, i capitani, i tenenti hanno maggior cura di farsi amare che di farsi temere. E quante mancanze, quanti delitti non verrebbero evitati negli eserciti, quando alle insubordinazioni, alle diserzioni, alle rivolte, ai suicidi, alle vendette non venissero trascinati, il più delle volte, i militari dalle basse e feroci persecuzioni di qualche imprudente e disumano superiore! Dice con ragione Sallustio nella vita di Mario che il governar con soverchia rigidezza i soldati non è da capitano ma da padrone; ed o una povera ambizione quella che han certuni di voler comandare non a soggetti, ma a schiavi; come sarebbe una solenne ingiustizia quella di farsi bello dei pericoli da loro incontrati e di cogliere il premio dello loro fatiche; ovvero di intimar loro delle inutili privazioni non dandone loro pel primo l'esempio, vivendosi in morbidezze che contrasterebbero soverchiamente colle durezze a cui eglino son condannati. I soldati che hanno ricevuta una miglior educazione e sono dotati di maggior ingegno devono giovarsene per intromettersi nelle discussioni che possono insorgere fra i loro compagni procurando di calmarle, di sedarle prima che ne avvengano scandali e duelli. E questo è còmpito precipuo dei vecchi, i quali deggiono adoperarsi or tener lontani i giovani soldati dall'ubbriachezza, dai giuochi e da altre abitudini degradanti e dannose. Guardino anzitutto i soldati di non prendersi beffe dei loro compagni che peccassero per avventura dal lato dell'intelligenza; sarebbe azione vile e pericolosa. Quanto alle rivalità di arma e di reggimento pare impossibile che le possano tuttavia sussistere sotto il presente regime, in cui i privilegi sono ridotti a minime proporzioni e l'uniforme tende realmente ad uniformarsi, venendo poco per volta a scomparire quelle lussureggianti divise, mercé cui i militari potevano rivaleggiare, per la stranezza delle monture, per la moltiplicità dei coloni, con quei guerrieri che ci vengono rappresentati sulla scena dalle comparse dei melodrammi e delle commedie. I soldati devono oggimai andar superbi di una cosa sola; di esser figli tutti quanti di una sola patria, di militare sotto una sola bandiera, quella d'Italia. Lo spirito di corpo, che suppone una nobile emulazione in coloro che la sentono, non deve degenerare in astii ed invidie, nè far parere da meno colui che veste una divisa differente. Nei soldati finalmente deve prevalere la nettezza che è inseparabile dal rispetto che essi debbono aver cura d'ispirare, come è inseparabile dalle discipline che hanno l'obbligo di mantenere.

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Qual è poeta o scrittore gentile che non abbia dedicato un verso, un pensiero a compatire, a sollevare quella disgraziata classe di persone che si dibatte fra le strette del bisogno? Nel comporre questo libriccino io sono partito, come già dissi, dal concetto della moralità, che io credo la sola ispiratrice della vera civiltà e gentilezza. Io non potrei quindi prescindere dal trattare quel genere di civiltà che ha maggior merito dal lato dell'anzidetta virtù; la civiltà verso i poveri, verso gli infelici. Le persone gentili sono naturalmente caritatevoli; l'indifferenza per le altrui miserie, la noncuranza delle altrui sofferenze sono indizio d'animo basso e selvaggio, e quel sesso che fu detto gentile il fu appunto in grazia cred'io, più che delle sue leggiadre forme, del suo delicato sentire, del suo cuore facile a commuoversi allo spettacolo dei patimenti e dei dolori. Dovunque vedete asciugata una lacrima, alleviata una sventura, là siete certi di trovare la donna; è una missione assegnatale dalla Provvidenza dal primo giorno in cui l'uomo cominciò a soffrire. Anche l'uomo è largo sovente di materiale e morale conforto agli altrui bisogni, alle tristezze dei fratelli; ma esso non possiede, fuorché raramente, quel segreto soavissimo che ha la sua compagna di saper tornare con una parola, con uno sguardo il sorriso sulle labbra, la speranza nel cuor di chi soffre di alleviare, come dice il Tommaseo «con la grazia del benefizio il peso della gratitudine». Questo segreto è la gentilezza ingenita con cui la donna sa accompagnare i suoi discorsi, le sue azioni; gentilezza resa di poi più perfetta dalle tranquille e soavi abitudini della famiglia, della pratica mansueta e paziente delle domestiche virtù, dal continuo sagrifizio di se stessa alla felicità dei padri, degli sposi, dei figli, dei fratelli. Dante non seppe meglio chiudere il suo immortale poema, che consecrandone l'ultimo canto a celebrar le lodi della Gran Donna. Egli non canta né la bellezza, né la potenza della Vergine Santa, ma la sua benignità, la sua dolcezza. Ne' suoi versi è elevato a cielo ciò che rende amabile e cara e nel cielo e sulla terra la donna, la carità e la dolcezza. La tua benignità, non pur soccorre A chi dimanda, ma molte fiate Liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s'aduna Quantunque in creatura è di bontate.

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No, non convien credere che il povero, il vero povero, non abbia anch'egli la sua porzione di nobiltà, di sensibilià, di amor proprio. Che diremo poi del povero che tale divenne per improvvisi rovesci? Quale sfortuna maggiore di quella che colpisce il fortunato? Oh quanti lamentevoli esempi non si hanno di infelicissime famiglie, trabalzate per un cumulo di disgrazie dalle più brillanti posizioni nello squallore della povertà! E a tali famiglie come volete non riesca crudele, amarissimo il soccorso, il consiglio porto con modi altieri e sprezzanti, senza una parola amica che valga a dimostrar loro non la nostra pietà soltanto, ma anche la nostra stima? Com'è vero quanto scrive un pietoso autore: «i più tirano a lavarsi le mani del patir dei fratelli, buttando là un consigliaccio o una predicaccia o una compassionaccia sguaiata; per cui ho il mesto convincimento che chi soffre davvero non sarà mai né inteso né consolato da loro». E davvero si riesce a procacciarsi con questa specie di carità, burbanzosa o villana, l'antipatia, l'odio benanco del beneficato. «Èdifficile, così lo Smiles, amare un uomo che si diverte a ferire la vostra delicatezza e dirvi cose spiacevoli. E vi sono poi altri che si rendono antipatici con la loro grande aria di protettori, e non perdono la più piccola opportunità di far sentire la loro bontà e la loro grandezza». Sì la povertà, non finta, non vile, non volontaria, non invereconda ma timida e pudica rimane accasciata sotto i modi aspri ed insolenti con lei adoperati a portarle sollievo; e il pane che va talvolta a saziare la sua fame diventa un lievito di avversione, di disprezzo, quando non di odio verso colui che glielo getta in faccia sdegnosamente.

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Ove ignoriate l'indirizzo della persona che volete visitare nella casa, chiedetene al portinaio o a qualche altra persona che abbia domicilio stabile all'aria aperta accanto alle porte o sotto gli atrii, ecc.; ma non importunate i bottegai senza un assoluto bisogno e tanto meno gl'inquilini della casa, suonando i campanelli ad ogni uscio per essere poi costretti a scusarvene col dire: Mi sono sbagliato! Risparmiate a chi paga l'affitto queste seccature che non sono comprese nei contratti di locazione. Pur troppo, poiché siamo a parlare di locazione, certi padroni di casa abusano della tolleranza dei loro inquilini allogando i portinai sulle soffitte o al quinto piano: ve ne sono di quelli che non si trovano mai nella loro nicchia; in certi casi poi, invece che con un modesto portinaio, avete a fare con un cerbero malvagio ed arrogante che non si degna di rispondere, o con un povero cretino che non v'intende o non può spiegarsi. Ad evitare in parte questi disturbi sarebbe indispensabile che ogni inquilino avesse il proprio nome scritto sopra una lastra, sopra un biglietto all'uscio di sua abitazione.

Pagina 428

Di'il vero; non ti è avvenuto mai di sentirti trasportare in alcuno di questi, dal suonare o dal cantare di qualche modesta giovinetta, per cui tu abbia detto a te stesso dolcemente commosso «questa, se non è musica perfetta, è musica che va all'anima?». E non avrai preferita questa a quell'altra?

Pagina 461

Invano cerchereste ove abbia il cuore un uomo che non conobbe, giovinetto, le cure, le carezze del padre, il sorriso,la tenerezza d'una madre: quel cuore è atrofizzato; esso non potrà mai rispondere al palpito d'un altro cuore, il gelo in cui lo si compresse negli anni in cui era chiamato ad effondersi, ha inaridita la fonte de'più santi, de'più soavi affetti: l'educazione destinata a sviluppare il germe de' più dolci sentimenti, lo ha soffocato in un ambiente d'indifferenza e di tristezza da cui esso non potrà giammai riaversi.

Pagina 48

Tu non hai a dolerti di essere in odio ai malvagi: né a questi porterà onore di essere da te sprezzati e sfuggiti, quando tu abbia fama di galantuomo. Vi sono delle inimicizie che onorano: e l'esser nemico de'virtuosi vuol dire essere amico del vizio. Omero volendo significare la malvagità di Tersite, si espresse dicendo che era nemico d'Achille e nemicissimo di Ulisse.

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