Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222292
Misteri del chiostro napoletano 6 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 143

Ma io temo davvero che del suo Limen Grammaticum, appreso nell'Eterna Città, abbia egli ritenuto in mente ben poco: il modo, cioè, di coniugare il presente e futuro d'un solo verbo: del verbo amare. Tale pur è l'opinione di due buoni terzi della romana società. Riario era allora in concetto di bell'uomo: intorno ai gusti non c'è da disputare. Egli è peraltro indubitato che ciascuna delle sue visite elettrizzava le giovani benedettine. Appena uscito del parlatorio, si radunavano esse in diversi crocchi, dove ciascheduna ingegnavasi di sorpassare le altre nel panegirico delle doti materiali e spirituali di Sua Eminenza. Chi diceva: - Come è bello! che nobile portamento! che sguardo fascinatore! che mano fatta al tornio! - Chi diceva: - Quanto è dotto ed istruito! da quella bocca scorre il miele! - Io diceva tra me: - Egli non ha imparato che a star ben ritto su due piedi! - In somma per più giorni e più notti altro in convento non facevasi, che pascersi dell'olezzo delle sue parole; quelle poi alle quali gli odorosi mazzetti erano stati diretti, rosse, palpitanti e distratte divenivano per la gran commozione. Io non m'era fatta giammai vedere nè gli avea parlato. Provava per la sua persona una di quelle ripuguanze insuperabili che si sentono a prima vista e non si sanno giustificare. Non so perchè, ma sin dal primo incontro egli mi sembrò un Dandino, travestito da principe ecclesiastico. Volendo una volta far mostra di galanteria, mandò in dono alla comunità un gran canestro di fravole: le monache diedero una piastra al cameriere, e non rifinirono di magnificare la garbatezza del così detto nuovo superiore. Credo che questo fattarello trapelasse fuori del chiostro, e pervenisse a notizia di qualche bello spirito propenso alle burle, che avrà dovuto esclamare: In qual parte del mondo non s'infiltra la commedia? Di lì a pochi giorni ci arrivò un secondo regalo. Un facchino, condotto da un cameriere, recò un pesce di enorme grossezza, tutto coperto di foglie d'arancio. Nel presentare quella mole, che nominò storione, sciorinò costui a nome di Sua Eminenza un'interminabile litania di complimenti, mentre il pesce faceva grondar sudore dalla fronte del portatore. Un'altra piastra fu offerta per mancia al cameriere, oltre due carlini dati al facchino. Le monache, tutte ansanti, affollate nella porteria, ne giubbilavano, e quelle di loro che si appropriavano il complimento facevano a gara a proporre in favor del cameriere in livrea più lauta la mancia. Giunse in quel mentre il ragioniere. "Sapete, Don Giuseppe, che il cardinale ci manda un altro dono più magnifico del primo? preparatevi a scrivergli una seconda lettera di ringraziamento in nome della comunità." "Davvero!" sclamò con un salto d'allegrezza il ragioniere. "E cosa vi manda?" "Un pesce!.... ma che pesce! ce ne sarà per le converse!" "E ne avanzerà!" Le converse leste leste tirarono l'ingente storione presso la porta. Il ragioniere si pose gli occhiali, lo guardò dal capo alla coda, lo fece voltare e rivoltare, e, dopo d'avere ruminato tutto ciò che sapeva d'ittiologia, disse atterrito: "Sapete, mo, signora badessa, e voi altre reverende, che questo mi sembra un pesce da museo di storia naturale?" "Un pesce da museo!" ripeterono in coro più di cento voci. "Il regalo è dunque molto più splendido che non avevamo creduto da prima!" "Chè! chè! l'è una burla bell'e buona! È un pesce che non si mangia!" "Ma, se l'ha portato il cameriere dell'altra volta!" soggiunsero le monache. "Ho l'onore di dirvi che questo è un mostro!" "Don Giuseppe mio, farneticate!" "Ebbene, fatelo vedere a qualche marinaio!" Mentre le suore tutte stavano ancora sclamando: Gesù! Gesù! sopravvenne il pescatore dalla vicina piazza del Purgatorio, il quale, gettato uno sguardo sul regalo, gridò: "È un vitello marino: buttatelo via!" "Una foca:" riprese Don Giuseppe; "ve l'ho ben detto io che è un mostro da museo!" Figuratevi il dispetto delle monache, massimamente di quelle che si erano appropriate il complimento! - Fatto sta, che la burla giunse all'orecchio del cardinale, il quale comprese che la galanteria costava più cara in Napoli che in Roma. Fu anzi detto che nel giorno medesimo avesse ricevuta una bella lettera di ringraziamento da parte della comunità di San Gregorio. Comunque siasi, d'allora innanzi si astenne di dare altre prove d'affetto a quelle suore. Venuto un'altra volta in San Gregorio si trattenne egli lungamente colla superiora e colla solita monaca, sua pedissequa. Le altre aspettavano impazienti di essere, secondo il solito, chiamate alla sua presenza. Furono invece dati al campanello i tócchi miei. Scesi alla porteria e trovai l'abbadessa che usciva appena del parlatorio. "Il cardinale vuole parlarti," mi disse. Balzommi il cuore: la mente mi ricorse subito alla domanda di assenza, da già due mesi inviata alla Santa Sede. Il cardinale era solo, e stavasi adagiato sul seggiolone. Al primo colpo d'occhio mi parve attillato con molta ricercatezza, ed un leggero profumo d'acqua di Colonia spandevasi dalla sua persona nell'ambiente del parlatorio. M'inginocchiai dinanzi al porporato, siccome l'uso o meglio l'abuso vuole. Egli alzò la mano, mi benedisse, mi fissò a lungo in silenzio, indi: "Voi avete avanzata una domanda alla Santa Sede per uscire del chiostro?" mi domandò con voce sdolcinata e melliflua. "Eminenza sì," risposi, tremante non meno di timore che di speranza. "E per qual motivo?" "Per cagione di salute." Si atteggiò ad ironico sorriso, tornò a fissarmi ben bene, poi soggiunse: "Ma voi non mi avete l'aria di ammalata." "Eppure se sono ammalata Dio lo sa!" "Di che soffrite?" "Di mal di nervi." "E chi non soffre di questo male!" "Di convulsioni," ripigliai. "Eh, tutte le donne ne patiscono. Isterismi, isterismi, e nient'altro! Voi altre monache vi andate più soggette ancora delle femmine secolari." Dopo una breve pausa gli dissi essere stata la mia domanda accompagnata dal certificato del medico curante. "Ho poca fede nei medici: chi più, chi meno, sono tutti impostori." "Ma il mio era giurato." "Tutti miscredenti, tutti spergiuri, capissi j'à." Mi tacqui allora, e dopo un'altra pausa ripigliò: "Voi sapete che tutte le petizioni mandate a Roma dalla mia diocesi sono dalla Santa Sede rimandate a me. La vostra domanda dunque trovasi nelle mie mani, acciocchè io ne verifichi l'esposto e dia conseguentemente il mio voto. Ora, per non permettere che vi pasciate di vane speranze, debbo dichiararvi che il mio voto è contrario; lasciate ogni speranza di uscire!" Credetti d'essere percossa dal fulmine. Onde maravigliato egli dal mio sommo turbamento, m'invitò a sedere, poi, raddolcendo la voce, inasprita nelle ultime frasi: "Ho parlato testè colla superiora," disse, "ed ella mi assicura motivo della vostra petizione non essere veramente la salute, ma sibbene l'affare del chierico." Io conosceva appieno la parte che il cardinale aveva presa in quell'argomento. A siffatta rimembranza, destata da lui stesso, il sangue mi rifluì nella faccia, e gli volsi un'occhiata di sdegno. "Vostra Eminenza," dissi, sforzandomi a contenere l'alterazione nervosa che m'agitava, "Vostra Eminenza dovrebbe sdegnare di scendere a sì bassi ed ignominiosi intrighi...." "Non vi sgomentate," riprese egli interrompendomi; "a quell'inezia non annetto alcuna importanza, essendo convinto che nulla di positivo sia passato fra voi e lui. Scenderebbe mai a livello d'un semplice chierico una nobile.... voglio dire una monaca, qual voi siete? Nondimeno l'idea di lasciare il chiostro è assurda: bisogna deporla." Fredda e impavida, gli dissi non credere che Iddio e il Santo Padre, e Sua Eminenza avessero di comune accordo decretata la mia morte col prolungamento della chiusura. Ma egli, troncatami la parola, passò a intrattenermi per qualche tempo in estranei e futili ragionamenti; quindi, alzatosi di repente: "Tornerò spesso a visitarti," mi disse, dandomi quella volta del tu; "fàtti dunque vedere di buon grado, nè ti nascondere, come hai fatto finora, e dammi inoltre il contento di sentire, che hai discacciata dal cuore la tentazione di restituirti all'inferno del secolo, capissi j'à!" Ritornai nella mia cella, ove m'abbandonai alla disperazione, che pur veniva esasperata dal sogghigno delle monache. Io le sfuggiva tutte. Adempiti che aveva i doveri del coro, e gli altri d'infermiera, per la più breve via mi riduceva nella mia stanza, dove o leggeva, o meditava, o piangendo lavorava: e là, più per bisogno di distrazione, che per vaghezza di pubblicità, incominciai a scrivacchiare queste Memorie. Maria Giuseppa, la buona mia conversa, l'unica compagna della mia solitudine, non si moveva dal mio fianco, che per urgente servizio, e, meno esperta di me sulla pretesca simulazione, andava immaginando, per confortarmi, le più folli e chimeriche speranze; alle quali spesso, traendo un sospiro, io rispondeva con quella dantesca apostrofe dell'Astigiano: «. . . . . Stirpe malnata e cruda, Che degli altrui perigli, all'ombra ride!» Mia madre, del pari, fu inconsolabile, avendo da me saputo che ad altre monache, meno sofferenti, meno accasciate, era stato concesso quello che or veniva vietato a me. Il canonico tentava invano di rattemprarmi il cruccio; non fu possibile. Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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«Ah, all'enormità delle mie pene non presterà fede, se non chi ne abbia provata una parte! Esistere e credere di sognare: quel perpetuo affannarsi a sormontare il cavallone che v'incalza, e sta per ingoiarvi, senza speranza alcuna di riguadagnar la riva: quell'essere sepolto vivo e risvegliarsi inchiodato nel buio della bara, ah, mamma, credetemi, sono tormenti atroci! » Cara mamma, questa vita che voi mi deste, altro non è più per me che un supplizio. Che vale l'esistenza, se è cieca di libertà e di coscienza, se è condannata all'atrofia, mentre le altre creature di Dio respirano il nativo elemento, libere, prospere e sane quanto gli uccelli dell'aria? Siate perciò la prima a perdonarmi, e vogliate difendere la mia memoria, quando l'unica traccia, che lascerò al mondo di me, sarà la vostra commiserazione!» Terminata la lettera, che, tutta bagnata di lagrime, deposi aperta sul tavolino, aprii il baule, e tratto dal segreto lo stile, mi ferii il fianco.... - Oh, tu che leggi, non mi condannare! compiangimi; rianda colla mente tutti i miei patimenti, mettiti nel mio miserissimo stato, e piangi con me, che pure scrivendo di questo orribile momento, mi sento profondamente commossa. Ah sì, io avevo tanto patito e patito, che il lume della ragione era spento! Perdonami, lettore, come spero m'abbia perdonato Iddio! Il polso debole e tremante diede poca forza al colpo: una stecca di balena fece scivolare il ferro, che strisciando sulla pelle, la sfiorò. Avrei forse rinnovato il colpo, ma l'orrore e il ribrezzo che mi fece il freddo della lama, mi risvegliò da quel delirio. Non fa parte della legge divina anche l'istinto della propria conservazione? La voce interna che al disperato grida: Consèrvati! - non è forse quella d'un angelo custode, che il cielo invia? Lo stile mi cadde di mano: io mi posi tutta tremante a sedere. Non era scritto che dovessi morire, in un accesso di demenza, omicida di me medesima. Vissi, piansi, patii ancora; e ne sia lode alla divina Provvidenza, io sopravvissi a quell'èra d'ignominia e di servaggio! Nuovi tormenti m'aspettavano. Non paghi i preti d'avermi costretta ad incapperucciarmi nuovamente, vollero pur menarmi per confessore un religioso di loro fiducia, il padre Quaranta, Agostiniano. Trattandosi d'un'anima dannata, la cui conversione non avrebbe forse mancato d'essere ascritta a miracolo, scelsero quel religioso, come colui che, salito in grido d'ineluttabile facondia e in odore di santità, di leggieri avrebbe vinta qualunque resistenza. Risolvei di non portarmi al confessionale. Quaranta mi fu condotto in camera tutti i giorni, a mio dispetto, e ad ore indeterminate. Era egli un vecchierello smemorato, navigante a gonfie vele alla volta dell'imbecillità, il quale, troppo occupato del fervorino che recitava tutto d'un fiato e a modo di scatola musicale, dimenticava da un momento all'altro le mie obiezioni. Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i beneci effetti dell'ultima crisi nella mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta. "Poichè tanto lo decantate, tenetevelo per voi," risposi al prete superiore; "se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta." La priora m'aveva tenuto parole d'un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir Messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano. Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d'illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l'incombenza, purchè non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana. Gli feci sapere ch'io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne. Ma la scelta di quell'egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina. Ne conseguiva che diametralmente opposta a' sentimenti del subalterno essendo la condotta de' superiori, indarno avrebbero questi tentato di penetrare per mezzo del confessore nell'anima della penitente. Senonchè, vergognosi essi stessi d'una disapprovazione che nulla poteva giustificare, furono più tardi costretti a rivocarla; e per tal modo, ne' sinceri conforti profusimi da quel buon vecchio, ebbi la prova consolante che il Cielo non mi aveva del tutto ritirata la sua clemenza. Ma lo ripeto, un malanno porta l'altro. Il generale Salluzzi, che in tante e tante occasioni mi aveva dato prove di paterno affetto, fu, dopo gli ultimi avvenimenti, sì severamente redarguito per la protezione che accordava ad una monaca cospirante contro il principe e ribelle ai voleri della Chiesa, ch'ei non osò più chiamarsi amico mio. Oltre questa perdita, che m'arrecò non piccola mortificazione, il re mi sospese ancora un assegno di annui ducati 60, ultimo mezzo del mio sostentamento. Di lì in poi, nonostante i sussidi della famiglia, furono molte le mie ristrettezze. Obbligata a farmi tutto da me stessa, benchè non assuefatta, per un'estate intera mi ristrinsi al solo pane, e per companatico a qualche frutta, serbando la carne alle domeniche. In quanto alla mia sequestrazione, essa fu completa nei primi sei mesi. Ad eccezione del medico che in sul principio mi visitò, non mi venne fatto vedere per quel tratto di tempo altra figura umana, fuorchè quella sgradevole di preti, di monaci e di monache; cosa che mi costrinse a carcerarmi nella propria stanza, e mi ridusse al compiuto isolamento. Un solo filo di comunicazione mi conservava ancora in relazione col mondo di fuori: era l'involto della biancheria, prezioso messaggiero e confidente, che mi tratteneva in sicuro carteggio con la madre. Coll'aiuto di pochi e scelti libri quale noia non si rompe, quale tristezza non si dissipa, qual muto orrore non è rianimato? Defraudata di quest'innocuo sollievo, mi fu giuocoforza ricorrere alla lettura che fornirmi poteva Mondragone. Nè mi pento d'averla accettata, anzi conserverò particolare memoria della Vita delle sante Martiri che vi trovai: libro interessante che ho letto riletto più volte con edificazione e diletto grande. La casta poesia, il puro e santo zelo di quell'èra cristiana mi serviva di calmante nella lotta interna che m'agitava. Ammirabile secolo di riscatto, in cui la donna, da ardente fede, da speranza, da carità sublimata, non solamente contese all'uomo il privilegio dell'eroismo, ma col sagrifizio della giovinezza, della beltà, degli averi, e della stessa esistenza, colla pratica d'ogni virtù seppe ancora eclissare e modestia di gerarchi, e dottrine di scuola, ed elucubrazioni di teologi. Chi può negare che uno fra i più maravigliosi prodigi della rivelazione sia questa novella devozione della donna alla riforma della società, al rinnovamento del genere umano? E questa fede, quest'abnegazione, che trae la femmina dal gineceo, per menarla gloriosa sul rogo, non è ella già degna di ammirazione, più che non lo sia l'eroismo, in grazia del quale sono i nomi d'Epaminonda e di Scipione celebrati nelle pagine di Plutarco? Questi e non altri esemplari vorrei che con mano diurna e notturna svolgessero le nostre giovinette! Che non oserebbe, a che non riuscirebbe anche la donna de' nostri giorni se quella fede pigliando per modello, deponesse, quasi offerta di primizie, il fiore degli affetti sull'altare della patria? Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l'animo, m'isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili! Ecco come mi rialzerete dall'inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell'incivilimento! Nelle ore d'ozio (e quante non ne dovetti passare in più di tre anni d'assoluto sequestramento!) materia di grata distrazione mi somministrarono gl'insetti, soli viventi compagni del mio deserto. Quante ore non passai assorta all'isocrono rosicchiare del tarlo nel fracido tavolato delle porte e del soffitto! Quante volte non tesi lungamente l'orecchio a' gorgheggi d'un canarino, la cui prigione, per quanto facessi, non m'era dato di discernere, ma la pazienza e la giubilante superiorità del quale io invidiava dal fondo del cuore! In tempo d'estate e d'autunno una porzione del mio scarso pane era religiosamente riservata alle formiche. Adescate dalla mia ospitalità, esse affluivano in differenti repubbliche e sotto capi differenti nella mia stanza, ne prendevano imperturbato possesso, si aprivano ingressi ed uscite a piacimento, montavano in lunga schiera su per le pareti, o in diverse tribù affollandosi a me d'intorno, facevano a gara l'una coll'altra per la briciola che porgeva loro. Altra volta mi divertiva, a guisa di Silvio Pellico, a contemplare la lotta della mosca caduta nelle granfie del ragno, e a quella vista ricordava la massima di Anacarsi: «che la giustizia d el principe è tale di ragno: i piccoli insetti vi restano avviluppati e catturati, i grossi la squarciano e se ne vanno.» - In tempo d'inverno poi, quello che più d'ogni altro m'aiutò a passare le lunghe ed insonni nottate fu l'esercizio mnemotecnico. A forza di moltiplicare a mente de'numeri determinati, corroborai talmente la memoria che pervenni a trovare il prodotto di due fattori di cinque cifre ciascuno. Ma riprendiamo il filo del racconto. Era già molto tempo che procedeva regolarmente il carteggio clandestino, quando m'accade di trovare nel nodo della pezzuola un dispaccio del seguente tenore: «Cerca d'ottenere un abboccamento dal nunzio apostolico: è persona dabbene. Lo potrai fare per lettera, che manderai a me.» L'abboccamento fu domandato, e prestamente ottenuto. Il nunzio venne a Mondragone non sì tosto ebbe ricevuta la mia lettera. All'annunzio della visita d'un funzionario tanto eminente della Santa Sede tutto il ritiro andò in trambusto. La priora, propensa ad arrogarsi l'onore della visita, corse precipitosa al parlatorio. Ma quale fu il suo stupore sentendo che il ministro del Sommo Pontefice domandava della sua prigioniera! Nell'incertezza se dovesse farmi scendere al parlatorio, o piuttosto rispettare la proibizione, la povera donna rimase di sasso, nè seppe che rispondere al funzionario. Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscíi ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tuono altiero alla priora: "Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego." Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce: "E se fosse pazza un'altra volta?" Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece le più alte maraviglie al racconto della mia Odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l'aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l'immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore. Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache. Approssimatami al crocchio: "Non vi date pena dell'avvenuto," dissi sorridendo alla prepositessa: "mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io." Non riusciva nuova alla priora quest'aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l'abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l'impertinente.» La priora fece nota al prete superiore l'avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme. Lo ricevei seduta ridendo, guardandolo a traverso, e dondolando una gamba sull'altra: "Chi vi ha dato l'ardire di scendere al parlatorio, nonostante gli ordini dell'arcivescovo?" "Ardire fa rima con dormire," risposi. "Sapete, mannaggia! che avendo fatto i voti, dovete prestare cieca ubbidienza a' superiori che Dio vi ha dato?" "Presso quale Evangelista si trova scritto che il Nostro Signore m'abbia dato per superiore il reverendo cavaliere Don Pietro Calandrelli?" "Io sono vostro superiore in nome della santa Chiesa cattolica." "Che cosa intendete per Chiesa cattolica?" "Intendo, signora mia, la padrona dei re, la rappresentante di Dio sulla terra: dico la Santa Sede, e l'intero cattolicismo che le ubbidisce." "Non credo nella Santa Sede, con vostro buon permesso." "Dunque voi non siete cattolica?" "Se quello che voi chiamate cattolicismo in mano al papa, ai cardinali, ad altri vescovi e preti non dovesse essere altro che un mezzo d'industria, una macchina d'ignoranza e di servaggio, per fermo, io non sarei cattolica!" "Che cosa dunque sareste?" "Cristiana; e ci guadagnerei un tanto." "Uh, che orrore, che orrore!" gridò: "Sareste voi protestante?" "Scismatica?" soggiunse la priora. "Nè l'uno, nè l'altro," ripresi io; "sarò cristiana di quel rito che favorirà la civiltà, il benessere, la libertà de' popoli. Ecco la fede mia, che pur sarà la fede dell'avvenire." "Voi siete una religiosa empia e sacrilega! - Signora priora, vi raccomando di badare bene, che il contagio di tali opinioni sataniche non infetti le giovanette innocenti del ritiro." "Non temete," soggiunsi io: "qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me." Ben lontano però eravamo ancora da tale meta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poichè Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano: "Maronna delle Grazie, salva l'anima sua! Dio mio, convertila!" Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si potè sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l'inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di decenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell'ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni. Ma io che m'aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio. Nella piega d'un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall'impazienza, schiuse il corpo del delitto. "Finalmente," disse alla priora, "il topo è nella trappola!" E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a leggere ad alta voce.... Alla quarta linea divenne pallido; a mezza lettera gli morì la voce fra i denti: e seguitò a leggere solamente cogli occhi; In quel foglio io aveva scritto di lui ogni ben di Dio: gli davo dell'impudente, dell'ubriacone, del seduttore, del tanghero; eravi, fra le altre cose, ricordato un fatto vero: cioè, che venendo ogni dopo pranzo avvinazzato, egli chiamava ora l'una ora l'altra delle monacelle nella propria stanza, e vi rimaneva lungo tempo da solo a solo col pretesto di farsi aiutare a recitare l'uffizio. La lista del bucato terminava col seguente epigramma:

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Conviene credere, che ogni persona abbia nella sua vita una qualche data nefasta, un qualche critico avvenimento e di sinistra ricordanza, che dà principio ad una serie non interrotta di susseguenti disastri. L'ora nefasta della vita mia era dall'oroscopo segnata nel mezzo di quella spaventosa notte, in cui lo squilibrio degli elementi minacciò di distruggere Reggio ed altre città delle Calabrie. Altre tristezze io non aveva provato fino allora, se non quelle inevitabili che l'amor vergine cagiona; e sa ciascuno i soavissimi compensi, di che sono rattemprate quelle mestizie. D'allora in poi ogni gioia si tace, il cielo s'imbruna d'ogni intorno, il riso non è più vivo per me: di qua comincia la mia dolorosa storia.Inde lachrymae! Per la paura de' terremoti, non potemmo tornare in casa, che la mattina del sesto giorno; non già perchè cessato del tutto fosse il pericolo, ma perchè mio padre, ormai settuagenario, e pregiudicato inoltre nella salute dal lungo disagio, accusava un malessere generale. Io amava, adorava questo padre con tenerezza non comune: l'amava più della madre, e non senza ragione. V'ha de' genitori, i quali non contenti di usare un'ingiusta predilezione a favore d'uno o di più figli, hanno pure l'imprudenza amara di farne in famiglia incauta mostra. Mia madre (aggravo con dolore la sua memoria) non andava esente di tale debolezza, giacchè, per non so quale istinto, prona alle domestiche preferenze, non si prendeva almeno la cura caritatevole di velarle agli occhi de' meno amati. Ora nel numero delle sue predilette non era io, nè scorreva giorno alcuno ch'io non me ne convincessi per novelle ed evidenti prove. Mio padre, in compenso, suppliva alla scarsezza dell'affetto materno, raddoppiandomi il suo. La sera del 21 settembre io sedeva al pianoforte, intenta a ricreare il genitore, e stava cantando un'aria della Norma, a lui diletta, quando lo udii sospirare. Credetti che qualche spiacevole pensiero l'avesse turbato di passaggio, e proseguii il canto. Un secondo sospiro, seguíto da una sommessa prece, mi giunse all'orecchio. Mi alzai tosto, ed avvicinatami a lui chiesi di ciò che tanto l'affliggesse. "Non sono afflitto," disse, "ma mi sento male, e mi rincresce di non potervi condurre al teatro stasera." "Che mai dite? di questo vi duole? Ecco levati i nastri dalla mia chioma!" E in così dire, deposi la pettinatura sopra la sedia. Chiamai Giuseppina, chiamai la madre. Il vecchio disse alla moglie sentirsi gravemente ammalato dal mezzodì in poi, e che credeva le sue sofferenze sintomi di vicina morte. Lo menammo nella sua stanza col cuore spezzato da tali detti, e si mandò a chiamare il medico. L'indomani un consiglio di professori dichiarava, che il malato era affetto da una infiammazione de' visceri. Al quarto dì perdevano i medici ogni speranza di poterlo risanare, ed al settimo ci annunziarono come, vani essendo riesciti i loro sforzi, dovevamo somministrargli gli ultimi conforti della religione. Non comprenderanno appieno la violenza de' miei singulti, la mia disperazione, se non quelle fra le orfane, che rimasero orbate d'un genitore, al cui affetto avevano esclusivamente affidata la somma de' beni presenti e futuri! L'estrema unzione d'un tale padre spande per le funeree fiaccole sull'avvenire dell'orfano riverberi tanto foschi, che verun sole avrà più la virtù di dissiparli. Terminata la lugubre funzione, volemmo essere ricondotte nella sua stanza. Lo ritrovammo poggiato sul fianco dritto, colle spalle alla porta per cui s'entrava. Il mio volto era contraffatto dal pianto: gli astanti mi fecero segno di non avvicinarmi a lui. Sedetti allora accanto alla porta, a stento frenando le lagrime. Cupo silenzio regnava, non da altro interrotto che dall'anelito affannoso di mio padre. Le sue palpebre socchiuse si riaprirono ad un tratto, e gridò: "Enrichetta!" M'avvicinai al letto, ma il letargo l'ammutolì. Dopo un tratto cercò di rialzarsi e chiamò nuovamente, e più forte: "Enrichetta!" "Son qui:" gli dissi..... "son qui. Che desiderate, padre dolcissimo?" Mi fissò con un occhio impietrito, ma tenerissimo, di cui eterna mi resterà la rimembranza; poi domandò: "Perchè mi lasci?" "Sono vicina a te," risposi con voce soffocata dal singhiozzo. Ed egli: "Sai che ho ricevuto i sacramenti?" "Lo so." "Mi sento in pace coll'anima," ripigliò. "Solo una cosa mi fa morire scontento, ed è il tuo avvenire..... Che ne sarà di te, povera figlia?" Profetiche parole, che nelle mie ulteriori vicende ebbi presenti sempre, e ad ogni passo! L'indomani egli era prossimo all'agonia. In un intervallo di lucidità chiamò mia madre a sè, e le disse in accenti male articolati: "Teresa, conduci altrove queste povere figlie! La loro vista mi opprime il cuore. Esse perdono il padre prima d'aver avuto uno sposo che possa proteggerle e soccorrerle. In questi estremi momenti debbo pensare alla divina misericordia, e lasciare ad essa la cura del resto." Mia madre ci fece cenno di approssimarci: c'inginocchiammo tutte. Egli stese le mani tremanti, e ci benedisse. Ci sogguardò una per una, poi richiuse gli occhi. Sulla sera il confessore entrò mesto nella nostra stanza, e il suo silenzio ci disse che non avevamo più padre!

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Havvi donna che non abbia amato? Tale donna, avesse pure infusa nello spirito suo tutta quanta la scienza di Platone e d'Aristotile, non conoscerebbe il mondo che per metà! La mattina seguente il mio spirito era rasserenato. Sulla tomba della mia passione posi di propria mano la funerea lapide, e vi scolpii oblio! Imitino il mio esempio le giovanette, cui la sana educazione non fa vedere nell'amante altro che lo sposo futuro! L'immagine di Carlo non mi ritornò più nella mente, se non sotto le sembianze d'un personaggio drammatico, le cui vicende m'avessero commossa non ha guari in teatro. Giunsi alla convalescenza. Una sera, a notte avanzata, udii il rumore di molte carrozze, che fermavansi a non grande distanza dalla mia casa. "Antonia!" gridai: "Antonia!" - Accorse la fantesca. "Cos'è questo fracasso in istrada? È forse lo sposo?" "Si signora. È la sposa, che viene accompagnata in casa del signor Carlo da' suoi parenti....." Ebbi una scossa elettrica. "E le nozze quando saranno celebrate?" "Stasera stessa." Poggiai di nuovo la testa sull'origliere, e mi tacqui. - Era già rassegnata. Parecchi mesi dopo il fatto sopranarrato, la città trovavasi in movimento. Reggio attendeva Ferdinando II al suo ritorno da Palermo. Mio padre fu avvertito allo spuntar del giorno che il vapore era alle viste. Vestitosi in fretta, recossi al luogo del ricevimento. La sera, una sontuosa festa da ballo fu data nel palazzo Ramirez. M'acconcia con semplicità ed eleganza. Io e Giuseppina vestimmo un abito di velo cerise col sott'abito dello stesso colore: il seno, decentemente scoverto, era guernito d'una collana d'oro, e la chioma formava una pioggia di ricci, distribuiti sull'una e l'altra parte del volto all'uso inglese. Eravamo da circa mezz'ora nella sala del ballo, quando giunse il re. Mio padre, facente parte della comitiva, ci presentò a Sua Maestà. Prima di scegliersi una compagna per la danza, volle Ferdinando starsene spettatore per qualche tempo. "Quelle due ragazze en cerise sono le vostre figlie, maresciallo?" domandò a mio padre il marito della virtuosa Cristina. "Maestà sì." "Me ne rallegro con voi: ballano a maraviglia." Finito il valtzer, fu pregato di scegliersi una compagna. Lo vidi dirigersi alla mia volta, per invitarmi egli stesso, mentre al ministro Delcaretto indicava col gesto mia sorella Giuseppina, destinata a fargli il vis-à-vis. Se Ferdinando II avesse saputo condurre il suo governo e trattare il popolo a lui soggetto coll'amabilità cavalleresca che mostrò nelle figurazioni della quadriglia, chi sa per quanto tempo ancora avrebbe l'Italia aspettato il compimento de' suoi voti! Dopo il ballo se ne partì. La politica era allora per me, come per altri moltissimi, una parola vuota di senso: poche volte sentiva parlarne, perchè la classe degli ascoltatori incuteva paura a tutti..... Chi m'avrebbe detto quella sera che avrei detestato e Ferdinando, e Francesco suo figlio, e tutti coloro che portano il nome Borbonico! Null'altro di singolare ricordo sino al 1838, tranne due fatti accaduti in mia famiglia: siami lecito di rammentarli. Eravi nel palazzo, da noi abitato, un piccolo coretto, con una grata, che dava nella chiesa di sant'Agostino: lì ascoltavamo la messa e facevamo le serali preci. Un giorno, mentre Giuseppina vi passava, parte del pavimento sprofondò. La poverina cadde tramortita; e sull'istante si credette lieve cosa quanto era successo, ma l'infelice ne rimase zoppa, anzi per effetto di quella caduta scese al sepolcro pochi anni dopo. Un'altra mattina, mi recai nella stanza di mio padre per dargli il buongiorno; gli presi riverente la mano per baciarla: egli, sollevatomi il capo, mi domando sgomentato se mi sentiva male. "Non ho nulla," risposi. "Come nulla? Tu non stai bene!" "Dio mio, è curiosa davvero! Mi sento benissimo!" "Mirati nello specchio!" M'accostai al cristallo, e vidi il mio volto coperto di macchie d'un rosso accesissimo. Ei mi fece sedere accanto a sè, ed avvertì mia madre che facesse chiamare tosto il medico. Ma qual fu la nostra sorpresa nel vedere Giuseppina, che pur usciva della sua stanza, col volto più macchiato del mio! Si comprese allora essere stato l'effetto d'una pillola di bella donna, che ci avevano somministrata in drastica dose, perchè avevamo entrambe la tosse convulsa; e ci credettero avvelenate. Il medico non giungeva; frattanto il nostro stato diveniva da momento in momento più critico. Il rosso del volto spandevasi per tutto il corpo: una gagliarda palpitazione ci sopraggiunse, e la vista ne restò oscurata. Non arrivò il professore che dopo un'ora di angustia, e con succo di limone e molta neve arrestò i progressi del veleno. Era il mese d'ottobre. Dopo la tempesta sofferta per l'inganno di Carlo, il mio cuore godeva d'una calma perfetta. Io vedeva colla massima indifferenza quell'uomo accanto alla sua sposa, la quale, o per effetto del caso, o per meditata malignità, usava al marito le più spasimanti carezze, ogni qual volta i miei sguardi cadevano involontariamente su di loro. Mia madre aveva dato alla luce altre due femmine. La cura ch'io mi prendeva delle bambine mi serviva di distrazione gradevolissima. Una sera, mio padre ricevette la visita d'un nuovo impiegato civile, il quale menava seco un figlio che sembrava aver compito il quarto lustro appena. Io mi trovava nel salotto col resto della famiglia. Il giovine, che avea nome Domenico, fermò lo sguardo su di me, senza staccarlo per tutto il tempo che durò la visita. Benchè non potesse dirsi bello di persona, pure i suoi occhi, mirabilmente conformati, sfavillavano un fascino ammaliatore. Era egli conscio di questo potere, egli che mi appuntava con siffatta tenacità? Questo solamente so, che sotto l'azione di quel fascino un disagio, un malessere, un turbamento singolare s'impadronivano di me con energia crescente. Cercava cambiar posizione, discorrere, divagarmi, ma indarno: quello sguardo inesorabile mi perseguitava in ogni luogo, m'attirava ineluttabilmente a sè, mi magnetizzava. Il giorno appresso lo rividi al passeggio: lo rividi la sera al teatro. D'allora in poi non uscíi di casa senza incontrarlo; l'occhio mio lo discerneva nella folla con penetrazione maravigliosa, ed alla sua vista il seno mi balzava con violenza. Egli, da parte sua, sollecito di seguirmi ovunque andassi, non si lasciava sfuggire veruna opportunità per farmi consapevole del sentimento che io gli aveva ispirato. - Credi dunque che gli uomini tutti siano della tempra medesima di Carlo? - mi andava dicendo un'intima voce in tuono carezzevole; no: non sono tutti d'una pasta. Se vera è la massima, che rara è la lealtà in amore e pochi son coloro che la trovano, pure l'esistenza della virtù è comprovata dalla tua propria sincerità, e ti basta fare una seconda prova per rinvenirla. Uno sguardo, che sa rimescolare fin dal più profondo le viscere, può egli non essere messaggiero d’amore, di compassione, di umanità? - Non potei resistere alla corrente di sì persuasivi suggerimenti. Riscaldato dall'immaginazione, il mio cuore infiammossi di bel nuovo, mentre la ragione, soggiogata dal sentimento, si taceva, spoglia d'ogni riparo lasciando l'anima all'invasione del fascino.

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Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

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